martedì 29 novembre 2022

Incontro del Santo Padre Benedetto XVI con il clero di Belluno-Feltre-Treviso

 

CON IL CLERO DI BELLUNO-FELTRE E TREVISO
AD AURONZO DI CADORE , 24.07.2007
TESTO DELLA CONVERSAZIONE

 

D. – Santità, sono don Claudio, volevo farle una domanda circa la formazione della coscienza, in particolare riguardo alle giovani generazioni, perché oggi formare una coscienza coerente, una coscienza retta, sembra sempre più difficile. Si scambia il bene e il male con il sentirsi bene e il sentirsi male, l'aspetto più emotivo. Allora volevo avere qualche consiglio da parte sua. Grazie…

R.  Eccellenze, cari fratelli, innanzitutto vorrei esprimervi la mia gioia e la mia gratitudine per questo bell'incontro. Ringrazio i due Vescovi, Sua Eccellenza Andrich e Sua Eccellenza Mazzocato, per quest'invito. A tutti voi che siete venuti così numerosi in tempo di vacanze il mio sentito grazie. Vedere una chiesa piena di sacerdoti è incoraggiante, perché vediamo che i sacerdoti ci sono. La Chiesa vive, anche se i problemi crescono nel nostro tempo e proprio nel nostro Occidente. La Chiesa è sempre viva e con sacerdoti che realmente desiderano annunciare il Regno di Dio, cresce e resiste a queste complicazioni, che vediamo nella nostra situazione culturale di oggi. Adesso, questa prima domanda riflette un poco un problema della situazione culturale in Occidente, perché il concetto di coscienza negli ultimi due secoli si è trasformato profondamente. Oggi prevale l'idea che razionale, che parte della ragione, sarebbe solo quanto è quantificabile. Le altre cose, cioè le materie della religione e della morale, non entrerebbero nella ragione comune, perché non verificabili, o, come si dice, non falsificabili nell'esperimento. In questa situazione, dove morale e religione sono quasi espulse dalla ragione, l'unico criterio ultimo della moralità e anche della religione è il soggetto, la coscienza soggettiva che non conosce altre istanze. Solo il soggetto, alla fine, con il suo sentimento, le sue esperienze, eventuali criteri che ha trovato, decide. Ma così il soggetto diventa una realtà isolata, e cambiano così, come Lei ha detto, di giorno in giorno, i parametri.

Nella tradizione cristiana "coscienza" vuol dire con-scienza: cioè noi, il nostro essere è aperto, può ascoltare la voce dell'essere stesso, la voce di Dio. La voce, quindi, dei grandi valori è iscritta nel nostro essere e la grandezza dell'uomo è proprio che non è chiuso in sé, non è ridotto alle cose materiali, quantificabili, ma ha un'interiore apertura per le cose essenziali, la possibilità di un ascolto.

Nella profondità del nostro essere possiamo ascoltare non solo i bisogni del momento, non solo le cose materiali, ma ascoltare la voce del Creatore stesso e così si conosce cosa è bene e cosa è male. Ma naturalmente questa capacità di ascolto deve essere educata e sviluppata. E proprio questo è l'impegno dell'annuncio che noi facciamo in Chiesa: sviluppare questa altissima capacità donata da Dio all'uomo di ascoltare la voce della verità e così la voce dei valori. Quindi, direi che un primo passo è di rendere coscienti le persone che la nostra stessa natura porta in sé un messaggio morale, un messaggio divino, che deve essere decifrato e che noi possiamo man mano conoscere meglio, ascoltare, se il nostro ascolto interiore viene aperto e sviluppato. Adesso la questione concreta è come fare questa educazione all'ascolto, come rendere l'uomo capace di questo, nonostante tutte queste sordità moderne, come far sì che ritorni questo ascolto, che sia realmente avvenimento, l'Effatà del Battesimo, l'apertura dei sensi interiori. Io, vedendo la situazione nella quale ci troviamo, proporrei una combinazione tra una via laica e una via religiosa, la via della fede. Tutti vediamo oggi che l'uomo potrebbe distruggere il fondamento della sua esistenza, la sua terra, e quindi che non possiamo più semplicemente fare con questa nostra terra, con la realtà affidataci, quanto vogliamo e quanto appare nel momento utile e promettente, ma dobbiamo rispettare le leggi interiori della creazione, di questa terra, imparare queste leggi e obbedire anche a queste leggi, se vogliamo sopravvivere. Quindi, questa obbedienza alla voce della terra, dell'essere, è più importante per la nostra felicità futura che le voci del momento, i desideri del momento. Insomma, questo è un primo criterio da imparare: che l'essere stesso, la nostra terra, parla con noi e noi dobbiamo ascoltare se vogliamo sopravvivere e decifrare questo messaggio della terra. E se dobbiamo essere obbedienti alla voce della terra, questo vale ancora di più per la voce della vita umana. Non solo dobbiamo curare la terra, ma dobbiamo rispettare l'altro, gli altri. Sia l'altro nella sua singolarità come persona, come mio prossimo, sia gli altri come comunità che vive nel mondo e che deve vivere insieme. E vediamo che solo nel rispetto assoluto di questa creatura di Dio, di questa immagine di Dio che è l'uomo, solo nel rispetto del vivere insieme sulla terra, possiamo andare avanti. E qui arriviamo al punto che abbiamo bisogno delle grandi esperienze morali dell'umanità, che sono esperienze nate dall'incontro con l'altro, con la comunità, l'esperienza che la libertà umana è sempre una libertà condivisa e può funzionare soltanto se condividiamo le nostre libertà nel rispetto di valori che sono comuni per tutti noi. Mi sembra che con questi passi si possa far vedere la necessità di obbedire alla voce dell'essere, di obbedire alla dignità dell'altro, di obbedire alla necessità del vivere insieme le nostre libertà come una libertà, e per tutto questo conoscere il valore che vi è nel permettere una degna comunione di vita tra gli uomini. Così arriviamo, come già detto, alle grandi esperienze dell'umanità, nelle quali si esprime la voce dell'essere, e soprattutto alle esperienze di questo grande pellegrinaggio storico del popolo di Dio, cominciato con Abramo, nel quale troviamo non solo le esperienze umane fondamentali, ma possiamo, tramite queste esperienze, sentire la voce del Creatore stesso che ci ama e che ha parlato con noi. Qui, in questo contesto, rispettando le esperienze umane che ci indicano la strada oggi e domani, mi sembra che i Dieci Comandamenti abbiano sempre un valore prioritario, nel quale vediamo i grandi indicatori di strada.

I Dieci Comandamenti riletti, rivissuti nella luce di Cristo, nella luce della vita della Chiesa e delle sue esperienze, indicano alcuni valori fondamentali ed essenziali: il quarto e il sesto comandamento insieme, indicano l'importanza del nostro corpo, di rispettare le leggi del corpo e della sessualità e dell'amore, il valore dell'amore fedele, la famiglia; il quinto comandamento indica il valore della vita ed anche il valore della vita comune; il settimo comandamento indica il valore della condivisione dei beni della terra e la giusta condivisione di questi beni, l'amministrazione della creazione di Dio; l'ottavo comandamento indica il grande valore della verità. Se, quindi, nel quarto, quinto e sesto comandamento abbiamo l'amore per il prossimo, nel settimo abbiamo la verità.

Tutto questo non funziona senza la comunione con Dio, senza il rispetto di Dio e la presenza di Dio nel mondo. Un mondo dove Dio non c'è diventa in ogni caso un mondo dell'arbitrarietà e dell'egoismo. Solo se appare Dio c'è luce, c'è speranza. La nostra vita ha un senso che non dobbiamo produrre noi, ma che ci precede, ci porta. In questo senso, quindi, direi, prendiamo insieme le vie ovvie che oggi anche la coscienza laica può facilmente vedere, e cerchiamo di guidare così alle voci più profonde, alla voce vera della coscienza, che si comunica nella grande tradizione della preghiera, della vita morale della Chiesa. Così, in un cammino di paziente educazione, possiamo, penso, tutti imparare a vivere e a trovare la vera vita.

D. – Sono don Mauro. Santità, nello svolgimento del nostro ministero pastorale siamo sempre più gravati da molte incombenze. Aumentano gli impegni di gestione amministrativa delle parrocchie, di organizzazione pastorale e di accoglienza delle persone in situazioni difficili. Le chiedo su quali priorità orientare oggi il nostro ministero di sacerdoti e di parroci, per evitare da un lato la frammentarietà e dall'altro la dispersione? Grazie.

R. - E' una questione molto realistica, è vero. Conosco anch'io un poco questo problema, con tante pratiche che arrivano ogni giorno, con tante udienze necessarie, con tanto da fare. Tuttavia, bisogna trovare le giuste priorità e non dimenticare l'essenziale: l'annuncio del Regno di Dio. Sentendo questa domanda, mi è venuto in mente il Vangelo di due settimane fa sulla missione dei settanta discepoli. Per questa prima grande missione che Gesù fa realizzare, a questi settanta discepoli il Signore dà tre imperativi, che mi sembrano esprimere anche oggi sostanzialmente le grandi priorità del lavoro di un discepolo di Cristo, di un sacerdote.

I tre imperativi sono: pregate, curate e annunciate. Penso che dobbiamo trovare l'equilibrio tra questi tre imperativi essenziali, tenerli sempre presenti come cuore del nostro lavoro.

Pregate: cioè senza una relazione personale con Dio, tutto il resto non può funzionare, perché non possiamo realmente portare Dio e la realtà divina e la vera vita umana alle persone, se noi stessi non viviamo in una relazione profonda, vera, di amicizia con Dio, in Cristo Gesù. Da qui la celebrazione, ogni giorno, della Santa Eucaristia come incontro fondamentale, dove il Signore parla con me ed io con il Signore, che si dà nelle mie mani. Senza la preghiera delle Ore, nella quale entriamo nella grande preghiera di tutto il Popolo di Dio, cominciando con i Salmi del popolo antico rinnovato nella fede della Chiesa, e senza la preghiera personale non possiamo essere buoni sacerdoti, ma si perde la sostanza del nostro ministero. Quindi, essere un uomo di Dio, nel senso di un uomo in amicizia con Cristo e con i suoi santi è il primo imperativo.

C'è poi il secondo. Gesù ha detto: curate gli ammalati, i dispersi, quelli che hanno bisogno. E' l'amore della Chiesa per chi è emarginato, per chi soffre. Anche le persone ricche possono essere interiormente emarginate e soffrire.

"Curare" si riferisce a tutti i bisogni umani, che sono sempre bisogni che vanno in profondità verso Dio. E' quindi necessario, come si dice, conoscere le pecorelle, avere relazioni umane con le persone affidateci, avere un contatto umano e non perdere l'umanità, perché Dio si è fatto uomo e ha così confermato tutte le dimensioni del nostro essere umano. Ma, come ho accennato, l'umano e il divino vanno sempre insieme. A questo "curare" nelle sue molteplici forme, appartiene, mi sembra, anche il ministero sacramentale. Il ministero della riconciliazione è un atto di cura straordinario, del quale l'uomo ha bisogno per essere sano fino in fondo. Quindi, queste cure sacramentali, cominciando dal Battesimo, che è il rinnovamento fondamentale della nostra esistenza, passando al Sacramento della riconciliazione e all'unzione degli infermi. Naturalmente in tutti gli altri Sacramenti, anche nell'Eucaristia, c'è una grande cura degli animi. Dobbiamo curare i corpi, ma soprattutto ó questo è il nostro mandato – le anime. Dobbiamo pensare alle tante malattie, ai bisogni morali, spirituali che oggi esistono e che dobbiamo affrontare, guidando le persone all'incontro con Cristo nel sacramento, aiutandole a scoprire la preghiera, la meditazione, lo stare in Chiesa silenziosamente con questa presenza di Dio.

E poi annunciare.
Che cosa annunciamo noi? Annunciamo il Regno di Dio. Ma il Regno di Dio non è una lontana utopia di un mondo migliore, che forse si realizzerà tra 50 anni o chissà quando. Il Regno di Dio è Dio stesso, Dio avvicinatosi e divenuto vicinissimo in Cristo. Questo è il Regno di Dio: Dio stesso è vicino e dobbiamo noi avvicinarci a questo Dio che è vicino, perché si è fatto uomo, rimane uomo ed è sempre con noi nella sua Parola, nella Santissima Eucaristia e in tutti i credenti. Quindi, annunciare il Regno di Dio vuol dire parlare di Dio oggi, rendere presente la parola di Dio, il Vangelo che è presenza di Dio e, naturalmente, rendere presente il Dio che si è fatto presente nella sacra Eucaristia. Nell'intreccio di queste tre priorità e naturalmente tenendo conto di tutti gli aspetti umani, dei nostri limiti che dobbiamo riconoscere, possiamo realizzare bene il nostro sacerdozio. E' importante anche questa umiltà, che riconosce i limiti delle nostre forze. Quanto non possiamo fare, deve fare il Signore. Ed anche la capacità di delegare, di collaborare. Tutto questo sempre con gli imperativi fondamentali del pregare, curare e annunciare.

D. - Mi chiamo don Daniele. Santità, il Veneto è terra di forte immigrazione, con la presenza consistente di persone non cristiane. Tale situazione pone le nostre diocesi di fronte ad un nuovo compito di evangelizzazione al loro interno. Permane, però, una certa fatica, perché dobbiamo conciliare le esigenze dell'annuncio del Vangelo, con quelle di un dialogo rispettoso delle altre religioni. Quali indicazioni pastorali potrebbe offrire? Grazie.

R. - Naturalmente voi siete più vicini a questa situazione. E in questo senso forse non posso dare molti consigli pratici, ma posso dire che in tutte le visite ad Limina, sia dei vescovi asiatici, africani, latino-americani, sia da tutta l'Italia, sono sempre a confronto con queste situazioni. Non esiste più un mondo uniforme. Soprattutto nel nostro Occidente sono presenti tutti gli altri continenti, le altre religioni, gli altri modi di vivere la vita umana. Viviamo un incontro permanente, che forse ci assomiglia alla Chiesa antica, dove si viveva la stessa situazione.

I cristiani erano una piccolissima minoranza, un grano di senape che cominciava a crescere, circondato da diversissime religioni e condizioni di vita. Quindi, dobbiamo reimparare quanto hanno vissuto i cristiani delle prime generazioni.

San Pietro nella sua prima Lettera, al terzo capitolo, ha detto: "Dovete essere sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi". Così lui ha formulato per l'uomo normale di quel tempo, per il cristiano normale, la necessità di combinare annuncio e dialogo. Non ha detto formalmente: "Annunciate ad ognuno il Vangelo". Ha detto: "Dovete essere capaci, pronti a dare ragione della speranza che è in voi". Mi sembra che questa sia la sintesi necessaria tra dialogo e annuncio. Il primo punto è che in noi stessi debba essere sempre presente la ragione della nostra speranza. Dobbiamo essere persone che vivono la fede e che pensano la fede, la conoscono interiormente. Così in noi stessi la fede diventa ragione, diventa ragionevole. La meditazione del Vangelo e qui l'annuncio, l'omelia, la catechesi, per rendere capaci le persone di pensare la fede, sono già elementi fondamentali in questo intreccio tra dialogo e annuncio. Noi stessi dobbiamo pensare la fede, vivere la fede e come sacerdoti trovare modi diversi per renderla presente, così che i nostri cattolici cristiani possano trovare la convinzione, la prontezza e la capacità di dare ragione della loro fede. Questo annuncio che trasmette la fede nella coscienza di oggi deve avere molteplici forme. Senza dubbio, omelia e catechesi sono due forme principali, ma poi ci sono tanti modi per incontrarsi – seminari della fede, movimenti laicali, ecc. – dove si parla della fede e si impara la fede. Tutto questo ci rende capaci, innanzitutto, di vivere realmente da prossimi dei non cristiani – in prevalenza qui sono cristiani ortodossi, protestanti e poi anche esponenti di altre religioni, i musulmani ed altri. Il primo aspetto è vivere con loro, riconoscendo con loro il prossimo, il nostro prossimo. Vivere, quindi, in prima linea l'amore del prossimo come espressione della nostra fede. Io penso che questa sia già una testimonianza fortissima e anche una forma di annuncio: vivere realmente con questi altri l'amore del prossimo, riconoscere in questi, in loro, il nostro prossimo, così che loro possano vedere: questo "amore del prossimo" è per me. Se succede questo, più facilmente potremo presentare la fonte di questo nostro comportamento, che cioè l'amore del prossimo è espressione della nostra fede. Così nel dialogo non si può subito passare ai grandi misteri della fede, benché i musulmani abbiano una certa conoscenza di Cristo, che nega la sua divinità, ma riconosce in Lui almeno un grande profeta. Hanno amore per la Madonna. Quindi, ci sono elementi comuni anche nella fede, che sono punti di partenza per il dialogo. Una cosa pratica e realizzabile, necessaria, è soprattutto cercare l'intesa fondamentale sui valori da vivere. Anche qui abbiamo un tesoro comune, perché vengono dalla religione abramitica, reinterpretata, rivissuta in modi che sono da studiare, ai quali dobbiamo infine rispondere. Ma la grande esperienza sostanziale, quella dei Dieci Comandamenti, è presente e questo mi sembra il punto da approfondire. Passare ai grandi misteri mi sembra un livello non facile, che non si realizza nei grandi incontri. Il seme deve forse entrare nel cuore, così che la risposta della fede in dialoghi più specifici possa maturare qua e là. Ma ciò che possiamo e dobbiamo fare è cercare il consenso sui valori fondamentali, espressi nei Dieci comandamenti, riassunti nell'amore del prossimo e nell'amore di Dio, e così interpretabili nei diversi settori della vita. Siamo almeno in un cammino comune verso il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio che è finalmente il Dio dal volto umano, il Dio presente in Gesù Cristo. Ma se quest'ultimo passo è da fare piuttosto in incontri intimi, personali o di piccoli gruppi, il cammino verso questo Dio, dal quale vengono questi valori che rendono possibile la vita comune, questo mi sembra sia fattibile anche in incontri più grandi. Quindi, mi sembra che qui si realizzi una forma di annuncio umile, paziente, che aspetta, ma che anche rende già concreto il nostro vivere secondo la coscienza illuminata da Dio.

D. - Sono don Samuele. Abbiamo accolto il suo invito a pregare, a curare e ad annunciare. Ci siamo permessi già di prenderla sul serio nel prenderci cura della sua persona e in una manifestazione di affetto le abbiamo portato qualche bottiglia di sano vino della nostra terra, che le faremo avere attraverso le mani del nostro vescovo. Vengo alla domanda. Assistiamo sempre più ad un ingente incremento di situazioni di persone divorziate che si risposano, convivono e che chiedono una mano per la loro vita spirituale a noi sacerdoti. Sono persone che spesso portano con loro la sofferta domanda di accedere ai sacramenti. Sono realtà che ci chiedono un confronto ed anche una condivisione delle sofferenze che esse comportano. Le chiedo, Santo Padre, con quali atteggiamenti umani, spirituali, pastorali poter mettere insieme misericordia e verità. Grazie.

R. - Sì, è un problema doloroso e la ricetta semplice, che lo risolva, certamente non c'è. Soffriamo tutti di questo problema, perché tutti abbiamo vicino a noi persone in queste situazioni e sappiamo che per loro è un dolore e una sofferenza, perché vogliono stare in piena comunione con la Chiesa. Questo vincolo del matrimonio precedente è un vincolo che riduce la loro partecipazione alla vita della Chiesa.

Cosa fare? Direi: un primo punto sarebbe naturalmente la prevenzione, per quanto possibile. La preparazione al matrimonio, quindi, diventa sempre più fondamentale e necessaria. Il Diritto Canonico suppone che l'uomo come tale, anche senza grande istruzione, intenda fare un matrimonio secondo la natura umana, come indicato nei primi capitoli della Genesi. E' uomo, ha la natura umana, e quindi sa che cosa sia il matrimonio. Intende fare quanto gli dice la natura umana. Da questa presunzione parte il Diritto Canonico. E' una cosa che si impone: l'uomo è uomo, la natura è quella e gli dice questo.

Ma oggi questo assioma secondo cui l'uomo intende fare quanto è nella sua natura, un matrimonio unico, fedele, si trasforma in un assioma un po' diverso. "Volunt contrahere matrimonium sicut ceteri homines". Non è semplicemente più la natura che parla, ma i "ceteri homines", quanto fanno tutti. E quanto fanno oggi tutti non è più semplicemente il matrimonio naturale, secondo il Creatore, secondo la creazione. Ciò che fanno i "ceteri homines" è sposarsi con l'idea che un giorno il matrimonio possa fallire e si possa così passare ad un altro, ad un terzo e ad un quarto matrimonio.

Questo modello "come fanno tutti" diventa così un modello in contrasto con quanto dice la natura. Diventa così normale sposarsi, divorziare, risposarsi e nessuno pensa che sia una cosa che va contro la natura umana o comunque si trova difficilmente uno che pensi così. Perciò per aiutare ad arrivare realmente al matrimonio, non solo nel senso della Chiesa, ma del Creatore, dobbiamo riparare la capacità di ascoltare la natura. Ritorniamo al primo quesito, alla prima domanda. Riscoprire dietro a ciò che fanno tutti, quanto ci dice la natura stessa, che parla in modo diverso da questa abitudine moderna. Ci invita, infatti, al matrimonio per la vita, in una fedeltà per la vita, anche con le sofferenze del crescere insieme nell'amore. Quindi, questi corsi preparatori al matrimonio dovrebbero essere un riparare la voce della natura, del Creatore, in noi, riscoprire dietro a quanto fanno tutti i "ceteri homines", quanto ci dice intimamente il nostro stesso essere. In questa situazione, quindi, fra quanto fanno tutti e quanto dice il nostro essere, i corsi preparatori devono essere un cammino di riscoperta, per reimparare quanto il nostro essere ci dice, aiutare ad arrivare ad una vera decisione per il matrimonio secondo il Creatore e secondo il Redentore. Quindi, questi corsi preparatori per "imparare se stessi", per imparare la vera volontà matrimoniale, sono di grande importanza. Ma non basta la preparazione, le grandi crisi vengono dopo. Quindi, un permanente accompagnare, almeno nei primi dieci anni, è molto importante. Perciò, in parrocchia, bisogna non solo curare i corsi di preparazione, ma la comunione nel cammino dopo, l'accompagnarsi, l'aiutarsi reciprocamente. Che i sacerdoti, ma non solo, anche le famiglie, che hanno già fatto queste esperienze, che conoscono queste sofferenze, queste tentazioni, siano presenti nei momenti di crisi. E' importante la presenza di una rete di famiglie che si aiutano e diversi movimenti possono recare un grande contributo. La prima parte della mia risposta vede il prevenire, non solo nel senso di preparare, ma di accompagnare, la presenza di una rete di famiglie che aiuti questa situazione moderna, dove tutto parla contro la fedeltà a vita. Bisogna aiutare a trovare, ad imparare anche con sofferenza, questa fedeltà. In caso, tuttavia, di fallimento, che cioè gli sposi non si mostrino capaci di stare alla prima volontà, c'è sempre la questione se fosse realmente una volontà, nel senso del sacramento. E quindi c'è eventualmente il processo per la dichiarazione di nullità. Se era un vero matrimonio e quindi non possono risposarsi, la permanente presenza della Chiesa aiuta queste persone a sopportare un'altra sofferenza. Nel primo caso, abbiamo la sofferenza di superare questa crisi, di imparare una fedeltà sofferta e matura. Nel secondo caso, abbiamo la sofferenza di stare in un vincolo nuovo, che non è quello sacramentale e che non permette quindi la comunione piena nei sacramenti della Chiesa. Qui, sarebbe da insegnare e da imparare a vivere con questa sofferenza. Ritorneremo, a questo punto, nella prima domanda dell'altra diocesi. Dobbiamo generalmente, nella nostra generazione, nella nostra cultura, riscoprire il valore della sofferenza, imparare che la sofferenza può essere una realtà molto positiva, che ci aiuta a maturare, a divenire più noi stessi, più vicini al Signore che ha sofferto per noi e soffre con noi. Anche in questa seconda situazione, quindi, la presenza del sacerdote, delle famiglie, dei movimenti, la comunione personale e comunitaria in queste situazioni, l'aiuto dell'amore del prossimo, un amore molto specifico, è di grandissima importanza. E penso che solo questo amore sentito della Chiesa, che si realizza in un accompagnamento molteplice, possa aiutare queste persone a riconoscersi amate da Cristo, membri della Chiesa anche se in una situazione difficile, e così vivere la fede.

D. - Santità, io mi chiamo don Saverio e quindi la domanda verte certamente sulle missioni. Ricorrono 50 anni quest'anno dell'Enciclica Fidei donum. Accogliendo l'invito del Papa, molti sacerdoti anche della nostra diocesi ed io compreso hanno vissuto, abbiamo vissuto e stanno vivendo l'esperienza della missione ad gentes. Esperienza, questa, senza dubbio straordinaria e che a mio modesto parere potrebbero vivere tanti preti nell'ottica dello scambio tra Chiese sorelle. Data però la riduzione numerica dei sacerdoti nei nostri Paesi, come l'indicazione dell'Enciclica è ancora attuale oggi e con quale spirito accoglierla e viverla sia da parte dei sacerdoti inviati, sia da parte dell'intera diocesi? Grazie.

R. - Grazie. Vorrei anzitutto dire grazie a tutti questi sacerdoti fidei donum e alle diocesi. Adesso ho avuto, come già accennato, tante visite ad Limina sia dei vescovi dell'Asia, che dell'Africa e dell'America Latina e tutti mi chiedono: "Abbiamo tanto bisogno di sacerdoti fidei donum e siamo gratissimi per il lavoro che fanno, rendendo presente, in situazioni spesso difficilissime, la cattolicità della Chiesa, la visibilità del fatto che siamo una grande comunione, universale e c'è un amore del prossimo lontano che diventa prossimo nella situazione del sacerdote fidei donum. Questo grande dono che è stato realmente fatto in questi 50 anni, lo ho sentito e visto quasi in modo palpabile in tutti i miei dialoghi con i sacerdoti, che ci dicono "non pensate che noi africani adesso siamo semplicemente autosufficienti; abbiamo sempre bisogno della visibilità della grande comunione della Chiesa universale". Direi che noi tutti abbiamo bisogno di questa visibilità dell'essere cattolici, di un amore del prossimo che arriva da lontano e trova così il prossimo. Oggi la situazione è cambiata nel senso che anche noi riceviamo in Europa sacerdoti provenienti dall'Africa, dall'America Latina, da altre parti dell'Europa stessa e questo ci permette di vedere la bellezza di questo scambio dei doni, di questo dono dall'uno all'altro, perché tutti abbiamo bisogno di tutti: proprio così cresce il Corpo di Cristo. Per riassumere, vorrei dire che questo dono era ed è un grande dono, percepito come tale nella Chiesa: in tante situazioni che adesso non posso descrivere, in cui vi sono problemi sociali, problemi di sviluppo, problemi di annuncio della fede, problemi di isolamento, di bisogno della presenza di altri, questi sacerdoti sono un dono nel quale le diocesi e le Chiese particolari riconoscono la presenza di Cristo che si dona per noi e riconoscono al contempo che la Comunione eucaristica non è solo comunione soprannaturale, ma diventa comunione concreta in questo donarsi di sacerdoti diocesani, che si fanno presenti in altre diocesi e che la rete delle Chiese particolari diventa così una rete realmente di amore. Grazie a tutti coloro che hanno fatto questo dono. Io posso soltanto incoraggiare i Vescovi ed i sacerdoti a continuare con questo dono. Io so che adesso, con la mancanza di vocazioni, in Europa diventa sempre più difficile fare questo dono; ma abbiamo già l'esperienza che altri continenti, come l'India e l'Africa soprattutto, ci danno anche da parte loro dei sacerdoti. La reciprocità rimane sempre molto importante e proprio l'esperienza che siamo Chiesa inviata al mondo e che tutti conoscono tutti ed amano tutti è molto necessaria ed è anche la forza dell'annuncio. Così diventa visibile che il grano di senape porta frutto e diventa sempre e di nuovo un grande albero in cui gli uccelli del cielo trovano riposo. Grazie e coraggio.

D.  Don Alberto. Santo Padre, i giovani sono il nostro futuro e la nostra speranza: ma alle volte vedono nella vita non un'opportunità, ma una difficoltà; non un dono per sé e per gli altri, ma un qualcosa da consumare subito; non un progetto da costruire, ma un vagare senza meta. La mentalità di oggi impone ai giovani di essere sempre felici e perfetti, con la conseguenza che ogni piccolo fallimento ed ogni minima difficoltà non sono più visti come motivo di crescita, ma come una sconfitta. Tutto questo li porta spesso a gesti irrimediabili come il suicidio, che provocano una lacerazione nel cuore di coloro che li amano e dell'intera società. Cosa può dire a noi educatori che, spesso, ci sentiamo con le mani legate e senza risposte? Grazie

R. ó Lei mi sembra che abbia dato una precisa descrizione di una vita nella quale Dio non appare. In un primo momento sembra che non abbiamo bisogno di Dio, anzi che, senza Dio saremmo più liberi e il mondo sarebbe più ampio. Ma dopo un certo tempo, nelle nostre nuove generazioni, si vede cosa succede, quando Dio scompare. Come Nietzsche ha detto "La grande luce si è spenta, il sole si è spento". La vita allora è una cosa occasionale, diventa una cosa e devo cercare di fare il meglio con questa cosa e usare la vita come fosse una cosa per una felicità immediata, toccabile e realizzabile. Ma il grande problema è che se Dio non c'è e non è il Creatore anche della mia vita, in realtà la vita è un semplice pezzo dell'evoluzione, nient'altro, non ha senso di per sé stessa. Ma io devo invece cercare di mettere senso in questo pezzo di essere. Vedo attualmente in Germania, ma anche negli Stati Uniti, un dibattito abbastanza accanito tra il cosiddetto creazionismo e l'evoluzionismo, presentati come fossero alternative che si escludono: chi crede nel Creatore non potrebbe pensare all'evoluzione e chi invece afferma l'evoluzione dovrebbe escludere Dio.

Questa contrapposizione è un'assurdità, perché da una parte ci sono tante prove scientifiche in favore di un'evoluzione che appare come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della vita e dell'essere come tale. Ma la dottrina dell'evoluzione non risponde a tutti i quesiti e non risponde soprattutto al grande quesito filosofico: da dove viene tutto? e come il tutto prende un cammino che arriva finalmente all'uomo?

Mi sembra molto importante, questo volevo dire anche a Ratisbona nella mia lezione, che la ragione si apra di più, che veda sì questi dati, ma che veda anche che non sono sufficienti per spiegare tutta la realtà. Non è sufficiente, la nostra ragione è più ampia e può vedere anche che la ragione nostra non è in fondo qualcosa di irrazionale, un prodotto della irrazionalità, ma che la ragione precede tutto, la ragione creatrice, e che noi siamo realmente il riflesso della ragione creatrice. Siamo pensati e voluti e, quindi, c'è una idea che mi precede, un senso che mi precede e che devo scoprire, seguire e che dà finalmente significato alla mia vita. Mi sembra questo il primo punto: scoprire che realmente il mio essere è ragionevole, è pensato, ha un senso e la mia grande missione è scoprire questo senso, viverlo e dare così un nuovo elemento alla grande armonia cosmica pensata dal Creatore. Se è così, allora anche gli elementi di difficoltà diventano momenti di maturità, di processo e di progresso del mio stesso essere, che ha senso dal suo concepimento fino all'ultimo momento di vita. Possiamo conoscere questa realtà del senso precedente a tutti noi, possiamo anche riscoprire il senso della sofferenza e del dolore; certamente c'è un dolore che dobbiamo evitare e che dobbiamo allontanare dal mondo: tanti dolori inutili provocati dalle dittature, dai sistemi sbagliati, dall'odio e dalla violenza. Ma c'è anche nel dolore un senso profondo e solo se possiamo dare senso al dolore e alla sofferenza può maturare la nostra vita.

Direi soprattutto che non è possibile l'amore senza il dolore, perché l'amore implica sempre una rinuncia a me, un lasciare me, un accettare l'altro nella sua alterità, implica un dono di me e, quindi, un uscire da me stesso. Tutto questo è dolore, sofferenza, ma proprio in questa sofferenza del perdermi per l'altro, per l'amato e quindi per Dio, divento grande e la mia vita trova l'amore e nell'amore il suo senso.

Anche l'inscindibilità di amore e dolore, di amore e Dio sono elementi che devono entrare nella coscienza moderna per aiutarci a vivere. In questo senso direi che è importante far scoprire ai giovani Dio, far scoprire loro l'amore vero che proprio nella rinuncia diventa grande e così far scoprire loro anche la bontà interiore della sofferenza, che mi rende più libero e più grande. Naturalmente per aiutare i giovani a trovare questi elementi c'è sempre bisogno di compagnia e di commino, sia la parrocchia o l'Azione Cattolica o un Movimento, solo in compagnia con gli altri possiamo anche scoprire nelle nuove generazioni questa grande dimensione del nostro essere.

D.  Sono don Francesco. Santo Padre, mi ha molto colpito una frase che ha scritto nel suo libro "Gesù di Nazaret": "Ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: ëDio. Ha portato Dio'". Fin qui la citazione che trovo di una chiarezza e di una verità disarmanti. La domanda è questa: si parla di nuova evangelizzazione, di nuovo annuncio del Vangelo – questa è stata anche la scelta principale del Sinodo della nostra diocesi di Belluno-Feltre ó ma cosa fare perché questo Dio, unica ricchezza portata da Gesù e che spesso appare a tanti come avvolto nella nebbia, possa risplendere ancora fra le nostre case e possa essere acqua che disseta anche i tanti che sembrano non avere più sete? Grazie.

R. ó Grazie. Domanda fondamentale. La domanda fondamentale del nostro lavoro pastorale è come portare Dio al mondo, ai nostri contemporanei. Evidentemente questo portare Dio è una cosa multidimensionale: già nell'annuncio, nella vita e nella morte di Gesù, vediamo come si sviluppa in tante dimensioni questo Unico. Mi sembra che dobbiamo sempre tenere le due cose: da una parte l'annuncio cristiano, il cristianesimo non è un pacchetto complicatissimo di tanti dogmi, così che nessuno può conoscerli tutti; non è cosa solo per accademici, che possono studiare queste cose, ma è cosa semplice: Dio c'è e Dio è vicino in Gesù Cristo. Così Gesù Cristo stesso ha detto, riassumendo, è arrivato il Regno di Dio. Questo annunciamo. Una cosa, in fondo, semplice. Tutte le dimensioni che poi si mostrano sono dimensioni dell'unica cosa e non tutti devono conoscere tutto, ma certamente devono entrare nell'intimo e nell'essenziale, così si aprono con una sempre crescente gioia anche le diverse dimensioni. Ma adesso come fare in concreto? Mi sembra che, parlando del lavoro pastorale oggi, ne abbiamo già toccato i punti essenziali. Ma per continuare in questo senso, portare Dio implica soprattutto – da una parte – l'amore e – dall'altra – la speranza e la fede. Quindi la dimensione della vita vissuta, la migliore testimonianza per Cristo, il miglior annuncio è sempre la vita di veri cristiani. Se vediamo famiglie nutrite dalla fede come vivono nella gioia, come vivono anche la sofferenza in una profonda e fondamentale gioia, come aiutano gli altri, amando Dio e il prossimo, mi sembra che questo sia oggi l'annuncio più bello. Anche per me l'annuncio più confortante è sempre quello di vedere le famiglie cattoliche o le personalità cattoliche che sono penetrate dalla fede: risplende in loro realmente la presenza di Dio e arriva questa "acqua viva" della quale Lei ha parlato. Quindi l'annuncio fondamentale è proprio quello della vita stessa dei cristiani. Naturalmente c'è poi l'annuncio della Parola. Dobbiamo fare tutto perché la Parola sia ascoltata, sia conosciuta. Oggi ci sono tante scuole della Parola e del colloquio con Dio nella Sacra Scrittura, colloquio che diventa necessariamente anche preghiera, perché uno studio puramente teorico della Sacra Scrittura è un ascolto solo intellettuale e non sarebbe un vero e sufficiente incontro con la Parola di Dio. Se è vero che nella Scrittura e nella Parola di Dio è il Signore Dio Vivente che parla con noi, provoca la risposta e la preghiera, allora le scuole della Scrittura devono essere anche scuole della preghiera, del dialogo con Dio, dell'avvicinarsi intimamente a Dio. Quindi, tutto l'annuncio. Poi naturalmente direi i Sacramenti. Con Dio vengono sempre anche tutti i Santi. E' importante ó questo ci dice la Sacra Scrittura sin dall'inizio ó Dio non viene mai da solo, ma viene accompagnato e circondato dagli Angeli e dai Santi. Nella grande vetrata di San Pietro che raffigura lo Spirito Santo mi piace tanto il fatto che Dio è circondato da una folla di angeli e di esseri viventi, che sono espressione e emanazione ó per così dire ó dell'amore di Dio. Con Dio, con Cristo, con l'uomo che è Dio e con Dio che è uomo, arriva la Madonna. Questo è molto importante. Dio, il Signore, ha una Madre e nella Madre riconosciamo realmente la bontà materna di Dio. La Madonna, la Madre di Dio, è l'ausilio dei cristiani, è la nostra permanente consolazione, è il nostro grande aiuto. Questo lo vedo anche nel dialogo con i vescovi del mondo, dell'Africa ed ultimamente anche dell'America Latina, che l'amore per la Madonna è la grande forza della cattolicità. Nella Madonna riconosciamo tutta la tenerezza di Dio e, quindi, coltivare e vivere questo gioioso amore della Madonna, di Maria, è un dono della cattolicità molto grande. E poi ci sono i Santi, ogni luogo ha il suo Santo. Questo va bene così, perché così vediamo i molteplici colori dell'unica luce di Dio e del suo amore, che si avvicina a noi. Scoprire i Santi nella loro bellezza, nel loro avvicinarsi nella Parola a me, poiché in un determinato Santo, posso trovare tradotta proprio per me la Parola inesauribile di Dio. E poi tutti gli aspetti della vita parrocchiale, anche quelli umani. Non dobbiamo essere sempre nelle nuvole, nelle altissime nuvole del Mistero, dobbiamo essere anche con i piedi per terra e vivere insieme la gioia di essere una grande famiglia: la piccola grande famiglia della parrocchia; la grande famiglia della diocesi, la grande famiglia della Chiesa universale. A Roma posso vedere tutto questo, posso vedere come persone provenienti da tutte le parti della terra e che non si conoscono, in realtà si conoscono, perché sono tutti parte della famiglia di Dio, sono vicini perché hanno tutto: l'amore del Signore, l'amore della Madonna, l'amore dei Santi, la successione apostolica e il successore di Pietro, i vescovi. Direi che questa gioia della cattolicità, con i suoi molteplici colori, è anche la gioia della bellezza. Abbiamo qui la bellezza di un bell'organo; la bellezza di una bellissima chiesa, la bellezza cresciuta nella Chiesa. Mi sembra una meravigliosa testimonianza della presenza e della verità di Dio. La Verità si esprime nella bellezza e dobbiamo essere grati per questa bellezza e cercare di fare tutto il possibile perché rimanga presente, si sviluppi e cresca ancora. Così mi sembra che arrivi Dio, in modo molto concreto, in mezzo a noi.

D.  Sono don Lorenzo, parroco. Santo Padre, dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano specialisti nel promuovere l'incontro dell'uomo con Dio. Non sono parole mie, ma di Sua Santità in un intervento al clero. Il mio padre spirituale in seminario, durante quelle faticosissime sedute di direzione spirituale, mi diceva: "Lorenzino, umanamente ci siamo, maÖ." e quando diceva "ma" intendeva dire che a me piaceva più giocare al pallone che fare l'adorazione eucaristica. E questo non faceva bene alla mia vocazione, che non era bello contestare le lezioni di morale e di diritto, perché i professori ne sapevano più di me. E con quel "ma" chissà cos'altro voleva intendere. Ora lo penso in cielo e gli dico comunque qualche requiem. Malgrado tutto ciò, sono 34 anni che sono prete e ne sono anche felice: miracoli non ne ho fatti, disastri conosciuti nemmeno, sconosciuti forse. "Umanamente ci siamo", per me è un grande complimento. Ma avvicinare l'uomo a Dio e Dio all'uomo non passa soprattutto attraverso quanto chiamiamo umanità che è irrinunciabile, anche per noi preti?

R. ó Grazie.

Direi semplicemente sì a quanto Lei ha detto alla fine. Il cattolicesimo, un po' semplicisticamente, è stato sempre considerato la religione del grande et et: non di grandi esclusivismi, ma della sintesi. Cattolico vuole dire proprio "sintesi". Perciò sarei contro una alternativa o giocare al pallone o studiare la Sacra Scrittura o il Diritto Canonico. Facciamo ambedue le cose. E' bello fare lo sport, io non sono un grande sportivo, ma magari andare in montagna mi piaceva quando ero ancora più giovane, adesso faccio solo camminate molto facili, ma sempre trovo molto bello camminare qui in questa bella terra che il Signore ci ha dato. Quindi non possiamo sempre vivere nella meditazione alta, forse un Santo nell'ultimo gradino del suo cammino terrestre può arrivare a questo punto, ma normalmente viviamo con i piedi per terra e gli occhi verso il cielo. Ambedue le cose ci sono date dal Signore e quindi amare le cose umane, amare le bellezze della sua terra non solo è molto umano, ma è anche molto cristiano e proprio cattolico.

Direi che ó e mi sembra di averlo già accennato prima ó ad una pastorale buona e realmente cattolica appartiene anche questo aspetto: vivere nell'et et; vivere l'umanità e l'umanesimo dell'uomo, tutti i doni che il Signore ci ha dato e che abbiamo sviluppato e, nello stesso tempo, non dimenticare Dio, perché alla fine la luce grande viene da Dio e soltanto da Lui viene poi la luce che dà gioia a tutti questi aspetti delle cose che ci sono. Quindi vorrei semplicemente impegnarmi per la grande sintesi cattolica, per questo "et et"; essere veramente uomo ed ognuno secondo i suoi doni e secondo il suo carisma amare la terra e le belle cose che il Signore ci ha dato, ma essere anche grati perché sulla terra splende la luce di Dio, che dà splendore e bellezza a tutto il resto. Viviamo in questo senso gioiosamente la cattolicità. Questa sarebbe la mia risposta.

(Applausi)

D.  Mi chiamo don Arnaldo. Santo Padre, esigenze pastorali e di ministero, oltre al diminuito numero di sacerdoti, sollecitano i nostri vescovi a rivedere la distribuzione del clero, spesso accumulando impegni e più parrocchie nella stessa persona. Ciò tocca la sensibilità di tante comunità di battezzati e la disponibilità di noi sacerdoti a vivere insieme ó preti e laici ó il ministero pastorale. Come vivere questo cambiamento di organizzazione pastorale, privilegiando la spiritualità del buon Pastore? Grazie, SantitàÖ

R. ó Sì, ritorniamo a questa questione delle priorità pastorali e come oggi fare il parroco. Poco tempo fa, un Vescovo francese, che era religioso e quindi non è stato mai parroco, mi ha detto: "Santità, vorrei che Lei mi chiarisse che cosa è un parroco. Noi in Francia abbiamo queste grandi unità pastorali con 5-6-7 parrocchie e il parroco diventa un coordinatore di organismi, di lavori diversi", ma gli sembrava che, essendo talmente occupato con il coordinamento di questi diversi enti con i quali ha da fare, non avesse più la possibilità dell'incontro personale con le sue pecorelle e lui, essendo Vescovo e quindi un grande parroco, si domandava se questo sistema è giusto o se non dovremmo ritrovare una possibilità affinché il parroco sia realmente parroco e quindi pastore del suo gregge. Naturalmente non potevo immediatamente dare una ricetta per risolvere questa situazione della Francia, ma il problema si pone in generale, che il parroco nonostante nuove situazioni e nuove forme di responsabilità non perda la vicinanza con la gente, l'essere realmente in persona il pastore di questo gregge affidatogli dal Signore. Le situazioni sono diverse: penso ai vescovi nelle loro diocesi con situazioni molto diverse; essi devono vedere bene come assicurare che il parroco rimanga pastore e non diventi un burocrate sacro. In ogni caso mi sembra che una prima opportunità nella quale possiamo essere presenti alle persone affidateci sia proprio la vita sacramentale: nell'Eucaristia siamo insieme e possiamo e dobbiamo incontrarci; il Sacramento della penitenza e della riconciliazione è un incontro personalissimo; così come lo è il Battesimo che è un incontro personale e non solo il momento del conferimento del Sacramento. Questi Sacramenti direi che hanno tutti un contesto: battezzare vuole dire prima catechizzare un po' questa giovane famiglia, parlare con loro così che il Battesimo sia anche un incontro personale ed un'occasione per una catechesi molto concreta. Così come la preparazione alla Prima Comunione, alla Cresima e al Matrimonio sono sempre occasioni dove realmente il parroco, il sacerdote, in persona incontra le persone; è il predicatore ed è l'amministratore dei Sacramenti in un senso che implica sempre la dimensione umana. Il Sacramento non è mai soltanto un atto rituale, ma l'atto rituale e sacramentale è il condensamento di un contesto umano nel quale si muove il sacerdote, il parroco.
Mi sembra poi molto importante trovare dei sistemi giusti di delega. Non è giusto che il parroco debba fare solo il coordinatore di organismi; egli deve piuttosto delegare in modi diversi e certamente nei Sinodi ó e qui in diocesi avete avuto il Sinodo ó si trova il modo per poter liberare sufficientemente il parroco, affinché da una parte conservi la responsabilità di questa totalità dell'unità pastorale affidatagli, ma non si riduca sostanzialmente e soprattutto il burocrate che coordina, ma uno che tiene in mano i fili essenziali, ma ha poi dei collaboratori. Mi sembra che questo sia uno dei risultati importanti e positivi del Concilio: la corresponsabilità di tutta la parrocchia: non è più soltanto il parroco che deve vivificare tutto, ma, poiché tutti siamo parrocchia, tutti dobbiamo collaborare ed aiutare, affinché il parroco non rimanga isolato sopra come coordinatore, ma si trovi realmente come pastore affiancato in questi lavori comuni nei quali, insieme, si realizza e si vive la parrocchia. Direi quindi che – da una parte – questo coordinamento e questa responsabilità vitale di tutta la parrocchia e ó dall'altra parte ó la vita sacramentale e di annuncio come centro della vita parrocchiale potrebbero consentire anche oggi, in circostanze certamente più difficili, di essere il parroco che non conosce forse tutti per nome, come il Signore ci dice del Buon Pastore, ma conosce realmente le sue pecorelle ed è realmente il pastore che le chiama e che le guida.

D. * Io ho l'ultima domanda e sarei molto tentato di metterla via, perché si tratta di una domanda piccola e dopo nove volte che vostra Santità ha saputo trovare la strada per parlarci di Dio e portarci molto molto in alto, mi pare quasi banale e povero quello che sto per chiederle, ma ormai lo faccio. Si tratta di una parola per quelli della mia generazione, per noi che ci siamo preparati durante gli anni del Concilio, poi siamo partiti con entusiasmo e forse anche con la pretesa di cambiare il mondo, abbiamo anche lavorato tanto ed oggi siamo un po' in difficoltà, perché stanchi, perché non si sono realizzati molti sogni ed anche perché ci sentiamo un po' isolati. I più anziani ci dicono "Vedete che avevamo ragione noi ad essere più prudenti" ed i giovani qualche volta ci trattano da "nostalgici del Concilio". La nostra domanda è questa: "Possiamo ancora portare un dono alla nostra Chiesa, specialmente con quell'attaccamento alla gente che ci sembra ci abbia contraddistinto? Ci aiuti a riprendere speranza e serenitàÖ.

R. * Grazie, è una domanda importante e che io conosco molto bene. Anch'io ho vissuto i tempi del Concilio, essendo nella Basilica di San Pietro con grande entusiasmo e vedendo come si aprivano nuove porte e pareva realmente essere la nuova Pentecoste, dove la Chiesa poteva nuovamente convincere l'umanità, dopo l'allontanamento del mondo dalla Chiesa nell'Ottocento e nel Novecento, sembrava si rincontrassero di nuovo Chiesa e mondo e che rinascesse nuovamente un mondo cristiano ed una Chiesa del mondo e veramente aperta al mondo. Abbiamo tanto sperato, ma le cose in realtà si sono rivelate più difficili. Tuttavia rimane la grande eredità del Concilio, che ha aperto una strada nuova, è sempre una magna charta del cammino della Chiesa, molto essenziale e fondamentale.

Ma perché è andata così? Prima vorrei forse cominciare con un'osservazione storica. I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea – che per noi è realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la fede formulata a Nicea ó non è nata una situazione di riconciliazione e di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro tutti.

San Basilio nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce l'altro, ma tutti sono contro tutti.

Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l'imperatore invita San Gregorio Nazianzeno a partecipare al Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato. Quindi non è adesso, in retrospettiva, una sorpresa così grande come era nel primo momento per noi tutti digerire il Concilio, questo grande messaggio. Immetterlo nella vita della Chiesa, riceverlo, così che diventi vita della Chiesa, assimilarlo nelle diverse realtà della Chiesa, è una sofferenza, e solo nella sofferenza si realizza anche la crescita. Crescere è sempre anche soffrire, perché è uscire da uno stato e passare ad un altro. E nel concreto del dopo-Concilio dobbiamo constatare che vi sono due grandi cesure storiche.

Nel dopo-Concilio, la cesura del "68, l'inizio o l'esplosione – oserei dire – della grande crisi culturale dell'Occidente. Era finita la generazione del dopoguerra, una generazione che dopo tutte le distruzioni e vedendo l'orrore della guerra, del combattersi e constatando il dramma delle  grandi ideologie che avevano realmente condotto le persone verso il baratro della guerra, avevamo riscoperto le radici cristiane dell'Europa e avevamo cominciato a ricostruire l'Europa con queste ispirazioni grandi.

Ma finita questa generazione si vedevano anche tutti i fallimenti, le lacune di questa ricostruzione, la grande miseria nel mondo e così comincia, esplode la crisi della cultura occidentale, direi una rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente. Dice: non abbiamo creato, in duemila anni di cristianesimo, il mondo migliore. Dobbiamo ricominciare da zero in modo assolutamente nuovo; il marxismo sembra la ricetta scientifica per creare finalmente il nuovo mondo. E in questo ,diciamo, grave, grande scontro tra la nuova, sana modernità voluta dal Concilio e la crisi della modernità, diventa tutto difficile come dopo il primo Concilio di Nicea. Una parte era del parere che questa rivoluzione culturale era quanto aveva voluto il Concilio, identificava questa nuova rivoluzione culturale marxista con la volontà del Concilio; diceva: questo è il Concilio.

Nella lettera i testi sono ancora un po' antiquati, ma dietro le parole scritte sta questo spirito, questo è la volontà del Concilio, così dobbiamo fare. E dall'altra parte, naturalmente, la reazione: così distruggete la Chiesa. La reazione - diciamo - assoluta contro il Concilio, la anti-conciliarità e - diciamo - la timida, umile ricerca di realizzare il vero spirito del Concilio.

E come dice un proverbio "Se cade un albero fa grande rumore, se cresce una selva non si sente niente perché si sviluppa un processo senza rumore" e quindi durante questi grandi rumori del progressismo sbagliato, dell'anti-conciliarismo cresce molto silenziosamente, con tante sofferenze e anche con tante perdite nella costruzione di un nuovo passaggio culturale, il cammino della Chiesa. 

E poi la seconda cesura nell'89. Il crollo dei regimi comunisti, ma la risposta non fu il ritorno alla fede, come si poteva forse aspettare, non fu la riscoperta che proprio la Chiesa con il Concilio autentico aveva dato la risposta. La risposta fu invece lo scetticismo totale, la cosiddetta post-modernità. Niente è vero, ognuno deve vedere come vivere, si afferma un materialismo, uno scetticismo pseudo-razionalista cieco che finisce nella droga, finisce in tutti questi problemi che conosciamo e di nuovo chiude le strade alla fede, perché è così semplice, così evidente. No, non c'è nulla di vero. La verità è intollerante, non possiamo prendere questa strada.
Ecco: in questi contesti di due rotture culturali, la prima, la rivoluzione culturale del '68, la seconda, la caduta potremmo dire nel nichilismo dopo l'89, la Chiesa con umiltà, tra le passioni del mondo e la gloria del Signore, prende la sua strada. Su questa strada dobbiamo crescere con pazienza e dobbiamo adesso in un modo nuovo imparare che cosa vuol dire rinunciare al trionfalismo. Il Concilio aveva detto di rinunciare al trionfalismo ó e aveva pensato al barocco, a tutte queste grandi culture della Chiesa. Si disse: cominciamo in modo moderno, nuovo. 

Ma era cresciuto un altro trionfalismo, quello di pensare: noi adesso facciamo le cose, noi abbiamo trovato la strada e troviamo su di essa il mondo nuovo. Ma l'umiltà della Croce, del Crocifisso esclude proprio anche questo trionfalismo, dobbiamo rinunciare al trionfalismo secondo cui adesso nasce realmente la grande Chiesa del futuro. La Chiesa di Cristo è sempre umile e proprio così è grande e gioiosa. Mi sembra molto importante che adesso possiamo vedere con occhi aperti quanto è anche cresciuto di positivo nel dopo Concilio: nel rinnovamento della liturgia, nei Sinodi, Sinodi romani, Sinodi universali, Sinodi diocesani, nelle strutture parrocchiali, nella collaborazione, nella nuova responsabilità dei laici, nella grande corresponsabilità interculturale e intercontinentale, in una nuova esperienza della cattolicità della Chiesa, dell'unanimità che cresce in umiltà e tuttavia è la vera speranza del mondo. E così dobbiamo, mi sembra, riscoprire la grande eredità del Concilio che non è uno spirito ricostruito dietro i testi, ma sono proprio i grandi testi conciliari riletti adesso con le esperienze che abbiamo avuto e che hanno portato frutto in tanti movimenti, tante nuove comunità religiose. 

In Brasile sono arrivato sapendo come si espandono le sette e come sembra un po' sclerotizzata la Chiesa cattolica; ma una volta arrivato ho visto che quasi ogni giorno in Brasile nasce una nuova comunità religiosa, nasce un nuovo movimento, non solo crescono le sette. Cresce la Chiesa con nuove realtà piene di vitalità, non così da riempire le statistiche – questa è una speranza falsa, la statistica non è la nostra divinità – ma crescono negli animi e creano la gioia della fede, creano presenza del Vangelo, creano così anche vero sviluppo del mondo e della società.     Quindi mi sembra che dobbiamo combinare la grande umiltà del Crocifisso, di una Chiesa che è sempre umile e sempre contrastata dai grandi poteri economici, militari ecc., ma dobbiamo imparare insieme con questa umiltà anche il vero trionfalismo della cattolicità che cresce in tutti i secoli. Cresce anche oggi la presenza del Crocifisso risorto, che ha e conserva le sue ferite; è ferito, ma proprio così rinnova il mondo, dà il suo soffio che rinnova anche la Chiesa nonostante tutta la nostra povertà. E direi, in questo insieme di umiltà della Croce e di gioia del Signore risorto, che nel Concilio ci ha dato un grande indicatore di strada, possiamo andare avanti gioiosamente e pieni di speranza.


AMDG et DVM

Una riflessione serena sulla continenza perfetta per il regno dei cieli.

 «ECCO, LA VERGINE CONCEPIRÀ…»

Riflessioni sul celibato sacerdotale e la verginità consacrata
di P. Raniero Canatalamessa O.F.M cap.
6 dicembre 2002

"VI SONO ALCUNI CHE NON SI SPOSANO 

PER IL REGNO DEI CIELI"

"L'angelo del Signore fu mandato da Dio a una vergine" (Lc 1, 26): così comincia il vangelo di domenica prossima, festa dell'Immacolata Concezione. Si ha un bel discutere sul senso e l'origine della parola "vergine", parthenos; essa sta lì, nella Bibbia, piantata come una roccia. È vero che il racconto lucano dipende, in questo punto, dalla profezia di Isaia 7, 14:
"Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio", questo però non diminuisce,
ma accresce il valore del testo evangelico, mostrandone la lunga preparazione profetica e il radicamento nella storia della salvezza.


La verginità è il mezzo scelto da Dio per dare un nuovo inizio al mondo. Come nella prima creazione, anche ora Dio crea "dal nulla", cioè dal vuoto delle possibilità umane, senza bisogno di alcun concorso e di alcun appoggio, ex nihilo sui et subiecti, come si diceva nella Scolastica. E questo "nulla", questo vuoto, questa assenza di spiegazioni e di cause naturali, è rappresentato appunto dalla verginità di Maria. Essa è un segno grandioso che non si può eliminare senza scompaginare tutto il tessuto del racconto evangelico e svisarne il significato.


In questo Avvento, vorrei partire dalla verginità di Maria per una riflessione serena sulla continenza perfetta per il regno dei cieli. Oggi si tende a riservare il termine "vergine" alle donne consacrate, ma per il Nuovo Testamento esso designa anche quelli "che non si sono macchiati con donne" (Ap 14,4), dunque anche gli uomini che scelgono la continenza perfetta. A questo uso mi attengo anch'io.
Celibato e verginità sono diventati ai nostri giorni un'istituzione, oggetto, dentro la Chiesa, di innumerevoli dibattiti, guardato con sospetto e, talvolta, con commiserazione, fuori di essa, da parte di molti rappresentanti delle cosiddette scienze umane. Uno di essi – per citare il più famoso di tutti, Freud – ha detto che "la nevrosi sostituisce, nella nostra epoca, il convento nel quale solevano ritirarsi tutte le persone che la vita aveva deluso o che si sentivano troppo deboli per affrontarla"1 . La verginità e il celibato sarebbero, secondo lui, l'equivalente antico della moderna nevrosi!


In questa atmosfera è molto facile che le parole celibato e verginità evochino subito l'idea di un problema irrisolto, di una materia "che scotta", anziché quella di un impegno liberamente assunto e di un dono di grazia. Non si vive serenamente il celibato e non se ne sfruttano tutte le potenzialità spirituali, perché si è frastornati dal chiasso che c'è intorno ad esso, o magari perché si pensa che, chissà, un giorno la legislazione a suo riguardo potrebbe cambiare. Ci fu un momento dopo il concilio di Trento in cui in alcune aree di Europa si era diffusa la convinzione che il celibato obbligatorio del clero sarebbe stato presto abolito; l'attesa servì da pretesto al vescovo-principe di Salisburgo, Wolf Dietrich von Reitenau, per portarsi avanti e avere nel frattempo ben undici figli, come viene a sapere chiunque oggi visita, a Salisburgo, il castello Mirabell da lui costruito per ospitare la numerosa famiglia.


È necessario dunque un rovesciamento di mentalità, e questo può avvenire soltanto con un rinnovato contatto con le radici bibliche di questa istituzione. Viviamo ormai in un contesto sociale in cui, nella difesa della propria castità, non si può più far leva su protezioni di tipo esterno, come la separazione dei sessi, un rigoroso filtro dei contatti con il mondo e tutte le dettagliate precauzioni con cui le Regole monastiche e il diritto canonico circondavano l'osservanza di questo voto.
La facilità delle comunicazioni e degli spostamenti ha creato una situazione nuova; TV, internet, pubblicità e giornali ci riversano a fiotti il mondo dentro casa, ce lo cacciano a forza negli occhi. La custodia della propria castità è affidata ormai, in massima parte, all'individuo stesso e non può riposare che su forti convinzioni personali, attinte dalla parola di Dio. A questo scopo vorrebbero servire le riflessioni che mi accingo a fare, prescindendo volutamente da ogni preoccupazione polemica o apologetica.


"Vi sono alcuni che non si sposano per il regno dei cieli"
La proposta della continenza perfetta è contenuta nel Vangelo di Matteo, al capitolo 19: "Gli dissero i discepoli: Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini; e vi sono alcuni che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca" (Mt 19, 10-12).
La parola eunuco era dura e offensiva a quel tempo, non meno che per noi oggi. Se Gesù la usa, in questo contesto, probabilmente è perché i suoi avversari accusavano lui di essere un eunuco per non essersi sposato, come lo accusavano di essere un mangione e un beone. Nel riprendere, però, la parola dagli avversari, egli le conferisce un senso del tutto nuovo, spirituale non fisico. Così lo ha sempre compreso la tradizione cristiana, eccetto il noto caso di Origene che, contrariamente alla sua abitudine di spiegare tutto spiritualmente, interpretò questo passo alla lettera e si mutilò, pagando in seguito un caro prezzo per il suo errore.
Nasce così un secondo stato di vita nel mondo e questa ne è la "magna charta". Non esisteva infatti, prima di Gesù, una condizione di vita paragonabile a questa, almeno nelle motivazioni, se non nel fatto. Essa non annulla l'altra possibilità, il matrimonio, ma la relativizza. Avviene come per l'idea di stato, nell'ambito politico: esso non è abolito, ma radicalmente relativizzato dalla rivelazione della contemporanea presenza, nella storia, di un regno di Dio.


La continenza perfetta sta di fronte al matrimonio un po' come il regno di Dio sta di fronte al regno di Cesare: non lo elimina, ma lo fa apparire in una posizione diversa da prima. Esso non è più l'unica istanza nel suo campo. Siccome il regno di Dio è di un ordine di grandezza diverso dal regno di Cesare, l'uno non ha bisogno di negare l'altro per sussistere. Allo stesso modo, la continenza volontaria non ha bisogno che sia rinnegato il matrimonio, per essere riconosciuta nella sua validità. Essa, anzi, non prende senso che dalla contemporanea affermazione del matrimonio. Se il matrimonio fosse qualcosa di negativo, rinunciare ad esso non sarebbe una scelta libera, ma un obbligo e nulla più.


La dimensione profetica della verginità e del celibato
Per capire questa nuova forma di vita e la sua intima ragion d'essere, bisogna partire dalla motivazione addotta da Gesù: "per il regno dei cieli". Il regno di Dio ha una caratteristica che oggi viene espressa mediante i due avverbi "già" e "non ancora", dejà et pas encore, already and not yet, schon und noch nicht, secondo le varie lingue. Esso è "già" qui; è venuto, è presente. Il regno dei cieli – proclama Gesù – è vicino, è in mezzo a voi. Ma, in un altro senso, il regno dei cieli non è ancora venuto, è in cammino, ed è per questo che preghiamo: "Venga il tuo Regno".
Poiché il regno dei cieli è già venuto, poiché con Cristo la salvezza finale è già operante nel mondo, dunque – ecco la conseguenza che ci riguarda – è possibile che alcune persone, chiamate da Dio, scelgano, fin d'ora, di vivere come si vive nella condizione finale del Regno. E come si vive nella condizione finale del Regno? Lo dice lo stesso Gesù nel Vangelo di Luca: "I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito, ma quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" (Lc 20, 34-36; cf anche Mt 22, 30).


In ciò risiede propriamente la dimensione profetica della verginità e del celibato per il Regno. Questa forma di vita mostra, con la sua semplice esistenza e senza bisogno di parole, quale sarà la condizione finale dell'uomo, quella destinata a durare in eterno. Si è tanto discusso, in passato, se la verginità sia uno stato più perfetto del matrimonio e, se sì, in che senso. Io credo che essa non è uno stato ontologicamente più perfetto (ognuno dei due stati è perfetto per chi vi è chiamato), ma è uno stato escatologicamente più avanzato, nel senso che è più simile a quello definitivo, al quale tutti siamo incamminati. "Voi avete cominciato a essere ciò che noi tutti un giorno saremo", scriveva san Cipriano alle prime vergini cristiane"2 .


Una tale profezia, lungi dall'essere contro gli sposati, è invece anzitutto per loro, a loro beneficio. Ad essi ricorda che il matrimonio è santo, è bello, è creato da Dio e redento da Cristo, è immagine dello sposalizio tra Cristo e la Chiesa, ma che non è tutto. È una struttura legata a questo mondo e perciò transitoria. Quando non si potrà più morire, non ci si dovrà più sposare.



Agli sposati, la verginità ricorda perciò che non si può fare, del matrimonio e della famiglia, l'idolo a cui sacrificare tutto e tutti, una specie di assoluto nella vita. Tutti sanno quanto è facile fare di un buon matrimonio l'ideale e lo scopo supremo della vita, misurando dalla sua riuscita la riuscita stessa dell'esistenza. E siccome il primo a soffrire di questa indebita assolutizzazione è proprio il matrimonio, che è come schiacciato da queste attese sproporzionate, ecco perché dico che la verginità viene in soccorso degli stessi sposati. Essa libera il matrimonio e ognuno dei due coniugi dal peso insopportabile di dover essere il tutto e sostenere le veci di Dio.


La riserva escatologica, che la verginità pone al matrimonio, non ne offusca la gioia, ma la preserva anzi dalla disperazione, perché apre a essa un orizzonte anche dopo la morte. Proprio perché esiste l'eternità e una Gerusalemme celeste, i coniugi che si amano sanno che la loro comunione non è destinata a finire con questo mondo che passa e a dissolversi nel nulla ma, trasfigurata e spiritualizzata, durerà in eterno.
Partendo da questo carattere profetico della verginità e del celibato, possiamo capire quanto sia ambigua e falsa la tesi secondo cui questo stato sarebbe contro natura e impedirebbe all'uomo e alla donna di essere pienamente se stessi, cioè uomo o donna. Il dubbio pesa terribilmente sull'animo dei giovani ed è uno dei motivi che più li distoglie dal rispondere alla vocazione. Non si è tenuto sempre conto che, essendosi la psicologia moderna costituita sulla base di una visione materialistica e atea dell'uomo, quello che essa dice, in questo campo, può avere un certo peso per chi non crede nell'esistenza di Dio e di una vita dopo morte, mentre non ne ha alcuno per chi ha una visione di fede, o semplicemente spiritualista, dell'uomo.


All'amico Jacques Rivière, convinto che scegliere la castità fosse un tagliarsi fuori dalla corrente della vera vita, Paul Claudel rispose con queste illuminanti parole: "Noi viviamo ancora nel vecchio pregiudizio romantico che la felicità suprema, il grande interesse, l'unico romanzo dell'esistenza, consistono nei nostri rapporti con la donna e nelle soddisfazioni dei sensi che ne ricaviamo. Si dimentica solo una cosa: che l'anima e lo spirito sono realtà altrettanto forti, altrettanto esigenti che la carne – lo sono ben di più! – e che, se accordiamo a quest'ultima tutto ciò che essa chiede, è a detrimento di altre gioie, di altre regioni meravigliose, che ci resteranno precluse per sempre. Svuotiamo un bicchiere di cattivo vino in una bettola o in un salotto [qui affiora il poeta] e ci dimentichiamo di questo mare verginale che altri contemplano al levarsi del sole" 3.


La verginità e il celibato non rinnegano la natura, ma soltanto la realizzano a un livello più profondo. Per sapere cos'è l'uomo e cosa è "naturale" per lui, il pensiero umano (specie quello influenzato dalla filosofia greca) si è sempre basato sull'analisi della sua natura, intendendo per natura – secondo il significato etimologico di questa parola – ciò che l'uomo è per nascita: un animale che ragiona, animal rationale.
La Bibbia si basa invece sul concetto di vocazione: l'uomo non è solo ciò che è determinato ad essere dalla sua nascita, ma anche ciò che è chiamato a divenire con l'esercizio della sua libertà, nell'obbedienza a Dio. L'uomo perfetto è Gesù risorto, "l'Adamo ultimo" (cf 1 Cor 15, 45-47), dicevano i Padri della Chiesa. Più un uomo si avvicina a questo modello di umanità, più è lui stesso veramente e pienamente uomo.


Se non ci fosse che la natura, non ci sarebbe un motivo valido per opporsi alle tendenze e agli impulsi naturali, ma c'è anche la vocazione. In un certo senso, potremmo dire perciò che lo stato più "naturale" dell'uomo è proprio la verginità, perché noi non siamo "chiamati" a vivere in un eterno rapporto di coppia, ma a vivere in un eterno rapporto con Dio. È quello che riconosce lo stesso Goethe nei celebri versi finali del suo Faust, riferendosi proprio all'amore terreno tra Faust e Margherita: "Tutto ciò che passa / non è che un simbolo; / solo in cielo l'irraggiungibile / diventa realtà 4.

La dimensione missionaria del celibato e della verginità
Questa è la prima motivazione della verginità e del celibato, derivante dal fatto che il Regno è "già" venuto. Il regno di Dio, però, in un altro senso, dicevamo, "non è ancora" venuto, ma è in cammino. Deve venire in intensità all'interno della Chiesa e delle anime e deve venire in estensione, fino ad arrivare ai confini del mondo.
Ed ecco la motivazione che scaturisce da ciò. Poiché il regno di Dio non è ancora venuto, ma è in cammino, occorrono uomini e donne che, a tempo pieno e a cuore pieno, si dedichino alla venuta di questo Regno. Siamo così alla dimensione missionaria, o apostolica, della verginità e del celibato. Essa non riguarda soltanto i consacrati che di fatto vanno in terre lontane ad annunciare il Vangelo, ma tutti i vergini e le vergini. La Chiesa lo ha riconosciuto, proclamando una claustrale, santa Teresa di Gesù Bambino, compatrona delle missioni.


È difficile immaginare come sarebbe oggi il volto della Chiesa, se non ci fosse stata lungo i secoli questa schiera di uomini e di donne che hanno rinunciato a "casa, moglie e figli", per il regno dei cieli (cf Lc 18, 29). L'annuncio del Vangelo e la missione hanno riposato in gran parte sulle loro spalle. All'interno della cristianità, essi hanno fatto avanzare la conoscenza della parola di Dio coltivando gli studi; hanno aperto vie nuove al pensiero e alla spiritualità cristiani; all'esterno, hanno portato l'annuncio del Regno ai popoli lontani. Sono essi che hanno fatto sorgere quasi tutte le istituzioni caritative che hanno tanto arricchito la Chiesa e il mondo.


Da quanto si è detto, appare che la verginità non significa sterilità, ma, al contrario, fecondità massima, s'intende su un piano diverso da quello fisico. La prima volta che la verginità compare nella storia della salvezza, è associata alla nascita di un bambino: "Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio…" (Is 7, 14). La tradizione ha colto questo legame, associando costantemente il titolo di vergine a quello di madre. Maria è la vergine madre; la Chiesa è vergine e madre. "Uno è il Padre di tutti – scrive Clemente Alessandrino – uno anche il Verbo di tutti, uno e identico è lo Spirito Santo e una sola è la vergine madre: così io amo chiamare la Chiesa" 5. Infine, ogni anima, e in particolare ogni anima consacrata, è vergine e madre: "Ogni anima credente, sposa del Verbo di Dio, madre, figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta, a suo modo, vergine e feconda"6 .


Si tratta, dicevo, di una fecondità diversa, spirituale, non carnale; ma siccome l'uomo è anche spirito, e non solo carne, si tratta di una fecondità anch'essa squisitamente umana. È lo stesso tipo di fecondità che permetteva a san Paolo di dire, rivolto ai cristiani da lui istruiti nella fede: "Sono io che vi ho generati in Cristo Gesù" (1 Cor 4, 15) e ancora: "Figlioli miei che io di nuovo partorisco nel dolore" (Gal 4, 19).
Lo sa bene il popolo cristiano che, in ogni cultura, ha spontaneamente attribuito ai vergini il titolo di padre e alle vergini il titolo di madre. Quanti missionari e quanti fondatori di opere sono ricordati semplicemente come "il Padre" e quante donne, semplicemente come "la Madre". Esempi recenti: Padre Pio da Pietrelcina e Madre Teresa di Calcutta. (Anche dopo la sua canonizzazione, si stenta ad abbandonare il titolo di Padre Pio per quello di San Pio, e così avverrà probabilmente anche per Madre Teresa).


Tante crisi affettive nella vita dei sacerdoti, con le conseguenze disastrose che tutti conosciamo, dipendono, penso, dall'assenza di queste esperienze forti di paternità spirituale, dall'"impotenza" a generare figli nella fede, mediante l'annuncio del Vangelo.
Oggigiorno si parla molto della "qualità della vita". Si dice che la cosa più importante non è aumentare la quantità della vita sul nostro pianeta, ma elevarne la qualità. Ma esiste anche una qualità spirituale della vita ed è la più importante perché riguarda l'anima dell'uomo, ciò che di lui resta in eterno. I vergini per il Regno sono chiamati a spendersi per elevare questa qualità spirituale della vita, senza contare che gli stessi hanno lavorato e lavorano per elevare anche la qualità igienica, sanitaria, sociale e culturale della vita.


San Gregorio Nazianzeno ha creato un verso stupendo a lode della verginità. Quando lo lessi, pensai, sulle prime, che si trattasse di un'espressione un po' enfatica. Esso infatti viene a dire che la verginità ha un modello più alto della Chiesa, più alto perfino di Maria: la Trinità! "La prima vergine – dice – è la Santa Trinità" 7. Ma ho dovuto costatare, ancora una volta, riflettendoci meglio, che i Padri non dicono mai nulla senza una ragione oggettiva e profonda. Sì, la "prima vergine" è davvero la Santa Trinità e non solo perché verginale è la generazione eterna del Verbo dal Padre, ma anche perché la Trinità ha creato l'universo da sola, senza concorso di alcun altro principio, fosse pure quello di una "materia preesistente" come pensavano i greci e gli gnostici. Ha creato dal nulla, verginalmente.
In ogni generazione di tipo sessuale c'è un elemento di egoismo e di concupiscenza. L'uomo e la donna, nel generare un figlio, fanno dono, ma anche "si fanno" dono; realizzano, ma anche "si realizzano", avendo bisogno dell'incontro con l'altro per completarsi e arricchirsi. Ma la Trinità, quando crea, realizza, non "si realizza", essendo già in se stessa perfettamente felice e completa. "Hai dato origine all'universo – dice la Preghiera eucaristica IV – per effondere il tuo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della tua luce".


Si rimprovera talvolta alla Chiesa cattolica di aver dato un'interpretazione troppo estesa alla parola di Gesù sul celibato per il Regno, imponendolo a tutti i suoi preti. Ora è vero che Gesù non impose la scelta del celibato, ma neppure la Chiesa la impone, né tanto meno impedisce ad alcuno di sposarsi. La Chiesa cattolica ha solo stabilito questo come uno dei requisiti per quelli che desiderano esercitare il ministero sacerdotale, che resta una scelta libera. È lo stesso identico principio, in base al quale la Chiesa ortodossa riserva l'episcopato ai non sposati. Tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa la differenza è solo nell'estensione dell'applicazione, non nel principio.
A me pare che sia molto più seria la mancanza per difetto di quelle Chiese cristiane che si propongono di predicare il "pieno Vangelo", ma mancano di qualsiasi forma di realizzazione di questa proposta evangelica del celibato per il Regno, come pure di quella di vendere tutto per seguire Cristo in povertà volontaria. Sono stato per oltre dieci anni membro della delegazione cattolica per il dialogo con le chiese pentecostali. Visto il clima sereno e di amicizia che c'era tra noi, ho potuto una volta permettermi una battuta nei loro confronti. "Voi -ho detto loro sorridendo- non fate che parlare di Full Gospel, del "pieno vangelo" da voi predicato; a me sembra che il vostro Vangelo è, sì, pieno, ma pieno di… buchi, full of holes".


Non essendo di origine divina, la legge del celibato obbligatorio dei preti può certamente essere cambiata dalla Chiesa, se a un certo punto lo ritiene necessario (mi astengo dal discutere questo aspetto del problema, non essendo questo il luogo per farlo), ma nessuno può negare onestamente che, nonostante tutti gli inconvenienti e le defezioni, esso abbia favorito enormemente la causa del Regno e della santità e sia anche oggi un segno efficacissimo del Regno in mezzo al popolo cristiano.


La Vergine Maria
Torniamo con il pensiero alla Vergine Maria da cui siamo partiti. In Maria appare, in tutto il suo fulgore, la motivazione biblica della verginità, espressa dalle parole: "per il regno dei cieli". Ella è stata scelta; il Regno si è impadronito di lei; l'ha "requisita" e lei si è lasciata requisire (Geremia direbbe: si è lasciata "sedurre").
Maria ha corrisposto perfettamente, con fede assoluta, alla chiamata alla verginità; ne ha accettato, senza discutere e gioiosamente, tutte le conseguenze, dicendo: "Eccomi!" e divenendo, così, modello per tutta l'innumerevole schiera di giovani e di ragazze che, lungo i secoli, avrebbero ricevuto in sorte la sua stessa chiamata a essere "vergini e madri", "vergini e padri".
San Gregorio Nisseno mette in luce la profonda affinità che esiste tra Maria e ogni vergine cristiana e che si fonda su un analogo rapporto con Cristo: "Quello – scrive – che si verificò fisicamente in Maria immacolata, quando la pienezza della divinità risplendette in Cristo attraverso la verginità, si ripete anche in ogni anima che resta vergine seguendo la ragione, anche se il Signore non si fa presente in essa materialmente" 8.


Maria non è solo modello, ma anche "avvocata" e difesa dei vergini. Non si limita ad additare loro la via della verginità, ma li aiuta anche a percorrerla con la sua intercessione e vigile custodia. San Basilio scrive: "Come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime pneumatofore, illuminate dallo Spirito, diventano esse stesse pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia" 9. Maria è, per eccellenza, l'anima "pneumatofora", portatrice dello Spirito, è il corpo luminoso che riflette sugli altri la luce. Lo stesso Lutero ha dovuto scrivere di lei: "Nessuna immagine di donna dà all'uomo pensieri così puri come questa vergine"10. Per questo una costante attenzione e devozione a Maria è tra i mezzi più efficaci per vivere bene e serenamente il celibato e la verginità per il regno.
Dopo il titolo di Theotókos, di Genitrice di Dio, quello di Aeiparthenos, "Semprevergine", è il titolo con cui Maria è più spesso invocata nella liturgia, sia latina che ortodossa. Quest'ultima non si stanca di salutarla, nel suo inno mariano più bello, l'Akáthistos, con il titolo di "vergine sposa": "Ave, di vergini madre e nutrice. Ave, che anime porti allo Sposo. Ave, vergine sposa". E anche noi la salutiamo così: "Ave, Vergine Sposa".

NOTE

1 S. FREUD, Cinque conferenze sulla psicoanalisi, 1909, in Opere, VI, Boringhieri, Torino 1974, pp. 129-173.
2 S. CIPRIANO, Sulle Vergini, 22 (PL 4, 475).
3 J. RIVIÈRE – P. CLAUDEL, Correspondance, Paris 1926, p. 261 s.
4 "Alles vergängliche / ist nur ein Gleichnis; / Das Unzulängliche, / Hier wird Ereignis"
5 CLEMENTE ALESSANDRINO, Pedagogo, I, 6.
6 B. ISACCO DELLA STELLA, Sermo 51 (PL 194, 1863).
7 S. GREGORIO NAZIANZENO, Carmi I, 2 (PG 37, 523 A).
8 S. GREGORIO NISSENO, Sulla verginità, 2.
9 S. BASILIO MAGNO, Sullo Spirito Santo, IX, 210 M. LUTERO, Sermoni sui Vangeli (ed. Weimar, 10, 1, p. 68).

AVE MARIA!

lunedì 28 novembre 2022

L'UNIONE A GESÙ CRISTO

 SILVIO MARIA GIRAUD, MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA



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LIBRO TERZO

LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO

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CAPITOLO DODICESIMO. LA SANTA MESSA

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La sublimità cui il Sacerdote viene innalzato dall'Ordinazione sacra è assolutamente superiore ad ogni pensiero umano. Neppure gli Angeli potrebbero giungere a intendere perfettamente la dignità, lo stato santo, o meglio per usare il linguaggio di san Dionigi (541), lo stato deiforme al quale viene elevato il Sacerdote. È questo il profondo segreto di Dio. Il Sacerdote è sacerdote in tutta la sua persona e in tutto il suo essere; nell' anima come nella carne: Sacerdote sempre, sia che adempia qualche ministero, ovvero che si presenti come uomo privato. In lui tutto è sacerdotale e quindi tutto è divino; egli pensa e ama divinamente; egli vive, ma non più lui; Dio medesimo vive in lui, quei Dio che lo ha fatto il suo Sacerdote e un altro se stesso. Epperò quando il Sacerdote umile e modesto, Si avvia all'altare rivestito dei gloriosi abiti sacerdotali, tutto s'inchina al suo passaggio, la Chiesa della terra come gli Angeli del Cielo. In quell'anima che per la sacra ordinazione è divenuta un altro CRISTO, vi è una gloria celeste e divina; se fossero visibili i raggi che circondano la sua fronte, il suo volto, il suo cuore e il suo corpo medesimo, tutto nell'universo resterebbe impallidito. Se la grandezza del Sacerdote potesse comparire visibilmente nella sua vera realtà, i re e le regine getterebbero ai suoi piedi le loro corone. Quando si potesse vedere quale inesauribile sorgente di ogni bene si apra per tutte le creature, ogni volta che il Sacerdote alza la mano per benedire e consacrare, ne risulterebbe dappertutto sulla faccia della terra un immenso tripudio di gioia. In cielo avviene un tale tripudio quando il Sacerdote va all'altare, perché quaggiù egli è il concittadino deI Cielo; avviene pure in Purgatorio, poiché il Sacerdote è l'amico, l'aiuto, il liberatore delle anime purganti; avviene anche in una moltitudine di anime, le quali secondo la parola di sant'Ambrogio, «vedendo CRISTO nel Sacerdote, stanno nella luce vera ed infallibile» (542). Ma un tale tripudio di gioia, avviene nell’Ostia in una maniera incomprensibile, più profonda e più amorosa… O Sacerdote! l'Ostia vivente trasalisce, l'Ostia vivente ti aspetta perché vuol venire nelle tue mani; nelle tue mani soprattutto essa si compiace: Essa è tua, e tu sei suo. L'Ostia sempre richiede il suo Sacerdote, e sempre il Sacerdote è una cosa sola con l'Ostia; non possono star separati. La gioia dell'Ostia è di aver il suo Sacerdote; la gioia del Sacerdote è di aver la sua Ostia, mistero bello e delizioso! O impenetrabile abisso di grazia, di pace e di gioia che rimane il segreto del Sacerdote e dell'Ostia!

«Il mondo non ci ama, scriveva san Paolino da Nola, ma GESÙ CRISTO ci ama: Mundus nos non amat, sed amat nos Christus» (543), GESÙ CRISTO ci ama e ogni mattina ci accorda il sublime onore di salire all'altare e celebrare la santa Messa; e allora cosa importa che il mondo non ci ami? La santa Messa è tutto per il Sacerdote, è il suo gran tesoro, la sua consolazione, la sua gloria, la vita della sua vita, il centro dove tutto in lui trova il suo riposo, dove lo spirito, il cuore, l'anima intera trova tutto quanto può essere oggetto dei più ardenti desideri: luce, dolcezza, pace. sicurezza, felicità, forza, grandezza, e, per dire tutto con una parola sola, unione e unità con Dio e in Dio, per mezzo di CRISTO Ostia del Padre, fattosi Ostia nostra. La santa Messa è propriamente l'azione, la grande Azione del Sacerdote; all'altare, e solamente all'altare, il Sacerdote è veramente tale: quando tiene nelle sue mani l'Ostia santa, la innalza, la divide, ne dispone secondo il suo diritto per se medesimo e per le anime; qui sta il fine supremo del suo ministero; qui si rivela la sostanza del suo misterioso Sacerdozio. Per questa azione, infatti, il Sacerdote è particolarmente segnato con un sigillo indelebile; il carattere ricevuto nell'Ordinazione si riferisce tutto all'Ostia. Perciò, di tutto lo si può privare, fuorché del suo potere sopra l'Ostia. Ministero dolcissimo insieme e terribile! Il Sacerdote e l'Ostia: unità così indissolubile che neppure la degradazione la può rompere. Neppure la dannazione potrebbe togliere, nel disgraziato Sacerdote che precipitasse nell'inferno, la relazione con l'Ostia; il carattere sacerdotale sarebbe «quel sale, col quale sarà salata ogni vittima» (Mc 9, 47-48). Disgrazia terribile! La Chiesa, nella preghiera Hanc igitur, immediatamente prima della Consacrazione, ci fa domandare di esserne preservati. Si verifichi piuttosto per noi la bella parola di sant'Ambrogio: «La nostra Ostia si compiaccia di riconoscere in noi la sua gloriosa impronta. Oblatio sicut hostia pura, in vobis semper suum signaculum recognoscat!» (544).

Celebriamo sempre degnamente ogni santa Messa, perciò ricordiamo questa parola di san Giovanni Eudes: «La Messa è cosa così grande che ci vorrebbero tre eternità per celebrarla degnamente: la prima per la preparazione, la seconda per la celebrazione, la terza per il ringraziamento».

I. Preparazione alla santa Messa. – Probet autem seipsum homo(1 Cor 11, 28).

Pervulgatum apud sanctos Patres axioma est, dice il Card. Bona, quod talem se animae exhibet Deus, qualem se illa praeparat Deo. Ideo Christus in Eucharistia, aliis quidem est fructus vitae… aliis vero panis insipidus… Pauci sunt qui admirables hujus sacri convivii in se sentiant effectus, quia pauci sunt qui se ad illos recipendos rite disponant… Instante itaque celebratione, totis viribus curare debet (Sacerdos), ut in ara cordis ignem divini amoris succendat, actusque eliciat diversarum virtutum… tanto Sacrificio, quantum fieri poterit, convenientes (545). E san Bonaventura: Abstractus et divinus factus, nihil aliud videat, nihil aliud sentiat, quam Deum (546).

La preparazione deve essere particolarmente interna; ma pure non si trascuri l'esterno, ossia l'esatta pulitezza in ogni cosa che si avvicina all'altare; soprattutto si osservi il silenzio. Vespere praecedenti, dice ancora il Card. Bona, cogite Sacerdos se, die crastina, hostiam salutarem Deo omnipotenti oblaturum, eique cagitationi indormiat; sequenti die, in eadem cogitatione invigilet, etc. (547). Vi sono Sacerdoti che, ad imitazione di san Carlo, han la fortuna di confessarsi ogni giorno prima della santa Messa, non per scrupolo, ma per amore.

Il Sacerdote fervente prende con fede i sacri paramenti, e questi gli ricordano come debba essere Vittima con GFSÙ Ostia. Il Card. Bona dice che essi rappresentano le varie circostanze della Passione; l'amitto, è figura del velo con cui i soldati coprirono il volto di GESÙ nel cortile di Caifasso; il camice ricorda la veste bianca di cui lo rivestì Erode; e così degli altri. La Messa è la memoria della Passione, quindi tutto quanto ci ricorda la Passione è mezzo efficace per disporre l'anima al divin Sacrificio. Rivestito degli abiti sacri, il Sacerdote va all'altare, tutto assorto in Dio, come GESÙ quando si avviava all'Orto (548); egli, allora soprattutto, è un altro CRISTO e gli Angeli si prostrano riverenti al suo passaggio. È necessario che abbia i sentimenti e le disposizioni di GESÙ, e sia esso pure Sacerdote e Vittima del Padre. Ma una tale disposizione «non è l'effetto di un semplice preparamento attuale, durasse pure un'ora intera; non può essere l'effetto che della grazia di GESÙ CRISTO in noi, e del lavoro magari di parecchi anni nella mortificazione dei sensi e nella crocifissione di noi stessi per essere conformi a GESÙ CRISTO in qualità di Vittime, prima di essere associati a Lui come Sacerdote. GESÙ, prima di entrare nella perfezione, nei diritti e nelle funzioni del suo Sacerdozio eterno nel Santuario del Cielo, ha dovuto essere Vittima sulla Croce; così coloro che sono destinati ad essere partecipi della potenza e grandezza del suo Sacerdozio per offrire il terribile Sacrificio del suo Corpo, debbono aver lavorato e lavorare continuamente a crocefiggere in se stessi l'uomo vecchio. GESÙ risorto è il Sacerdote del Cielo: così, per compiere su la terra la celeste funzione del suo Sacerdozio, bisogna essere uomini rinnovati, e per così dire, risorti. Per essere sacerdoti con GESÙ CRISTO, bisogna essere Vittime con Lui, Vittime celesti infiammate» (549).

II. Durante la Santa Messa. – Il Sacerdote, nella Messa, è GESÙ CRISTO, quindi Sacrificatore e Vittima come GESÙ CRISTO.

1°) GESÙ CRISTO, come Sacrificatore, è tutto assorto nel sentimento della Maestà del Padre, cui offre se stesso e tutto il creato: il Sacerdote deve rendersi partecipe di questo sentimento, e rimanere nel più profondo raccoglimento. Si è sempre ammirato nei Santi quando stavano all'altare, quel contegno raccolto, calmo e tranquillo, espressione del raccoglimento e della pace dell'anima che riusciva di somma edificazione per chiunque assisteva alla loro Messa. Bossuet osserva che GESÙ CRISTO medesimo ci ha dato l'esempio, nella sua oblazione; ecco le sue parole: «Perché GESÙ appare così tranquillo sul Calvario mentre nell'Orto era così turbato? il motivo più evidente sta in questo che sul Calvario Egli era nell'azione medesima del suo Sacrificio, e nessuna azione deve essere compiuta con maggior tranquillità. E Voi che assistete al santo Sacrificio, vi lasciate distrarre!… Ah! non avete ancora compreso ciò che è il Sacrificio.

«Il Sacrificio è un'azione con la quale rendete a Dio i vostri omaggi; orbene, chi non sa che tutte le azioni che esprimono il rispetto esigono un contegno, calmo e dimesso? L'olio che si spandeva sulla testa del Pontefice per consacrarlo (Lv 8, 12), era appunto il simbolo sacro della tranquillità dello spirito ottenuta con l'allontanamento di ogni pensiero estraneo… O GESÙ, Pontefice mio divino! per questo senza dubbio vi dimostrate così tranquillo nella vostra Agonia (sulla Croce). Nell'Orto lo veggo turbato, sia pur volontariamente, perché si considerava come Vittima, voleva operare come Vittima e prendere l'azione e il contegno di una Vittima che si lascia trascinare per compiere la funzione Sacerdotale, appena le sue mani si sono elevate per offrire la Vittima al Cielo corrucciato, non vuol più provare nessun turbamento… e in mezzo a tanti dolori, Egli «muore, dice sant'Agostino, con maggior dolcezza e tranquillità che noi nell'addormentarci» (550).

Quale lezione per noi che ci lasciamo così facilmente, distrarre da vani pensieri! All'altare, con tutto il nostro contegno e con l'osservanza esatta e modesta di ogni rubrica, dobbiamo essere l'immagine fedele di GESÙ CRISTO crocefisso. Nella santa Messa, dice san Gregorio, qui Passionis Dominicae mysteria celebralmus; debemus imitari quod agimus (Dialog., IV).

Su l'altare, come già su la Croce, GESÙ offre e abbandona se stesso al Padre e con sé offre tutto il creato, così il Sacerdote deve pure offrirsi e abbandonarsi completamente con GESÙ CRISTO. Ad ogni parola, ad ogni movimento, quando prende l'Ostia fra le mani, o bacia l'altare vicino all'Ostia, quando la innalza, soprattutto quando dice: Per ipsum, et cum ipso et in ipso est tibi omnis honor et gloria, deve innalzarsi lui pure al Padre, come il fumo dell'incenso e la fiamma dell'Olocausto. Quando l'incenso è consumato, non ne resta che un po’ di cenere, tutta la sostanza è scomparsa e si è innalzata davanti a Dio; così il fervente Sacerdote, nella santa Messa, vuole, per così dire, svanire e perdersi davanti alla Gloria e alla Maestà del Padre, dimodochè in lui l'io non abbia più consistenza e neppure realtà.

Il Sacerdote all'altare dà e offre tutto quanto può dare; ha diritto di offrire e consacrare tutto il creato, perché offre e consacra persino il Creatore. Quale sconvenienza e indecenza se, in quei momenti, egli rivolgesse il pensiero e l'intenzione a qualche miserabile interesse materiale! Non potest Sacerdos illa intentione celebrare… ut ex hoc pecuniam consequatur, quia peccaret mortaliter (551).

2°) GESÙ CRISTO nel santo Sacrificio, in quanto Vittima, è in uno stato di morte e di annientamento, di espiazione e di penitenza per le anime; si dà alle anime per comunicar loro il suo stato di Ostia. Il Sacerdote, quando celebra, deve mettersi, come Lui, in istato di morte, di espiazione e di penitenza a pro delle anime, con la disposizione di darsi totalmente alle anime ed anche morire per esse. San Gregorio dice di san Cassio, Vescovo di Narni, che quando doveva offrire il santo Sacrificio, Velut totus in lacrymis defluens, semetipsum, et cum magna contritione, mactabat (552). Tale dovrebbe essere ogni Sacerdote.

Cosa degna di attenzione, nella Liturgia della Messa occupano un posto notevole le espressioni di umiltà, di penitenza e di contrizione; ciò indica che tra i fini del Sacrificio, il più sensibile ed evidente è l'espiazione; è quello che maggiormente risalta. Tutti i Sacramenti parlano di penitenza e di morte; ma il Sacramento dell'altare «annuncia particolarmente la morte del Signore» (1 Cor 11, 26). Perciò la sostanza della vita cristiana sta nella contrizione, nell'odio del peccato e nella volontà ferma di esserne liberi e distruggerne in noi le minime tracce, come pure di offrirne a Dio una conveniente riparazione. Sarebbe sommamente deplorevole che il Sacerdote non intendesse praticamente questa dottrina.

Se il Sacerdote non ha questo spirito, tutto il disegno di Dio nel chiamarlo al Sacerdozio diventa inutile. Lo spirito di GESÙ Vittima penitente ed espiatrice, deve essere il carattere dell'intera vita del Sacerdote, ma soprattutto quando oltre all'altare la Vittima della Croce. Per questo appunto la Chiesa, in quell'azione, gli mette sulle labbra tante parole che si addicono alla condizione di peccatore, affinché l'espiazione diventi il carattere principale di tutta la sua vita sacerdotale.

Con questo spirito di espiazione, il Sacerdote deve darsi alle anime. Nostro Signore si è dato alle anime, nelle umiliazioni, nelle sofferenze, nella Croce, con la morte; nella sua Passione e morte Egli manifestò più sensibilmente questo fine dell'espiazione. Il Sacerdote deve attingere nella sua unione con GESÙ Vittima penitente all'altare, quello spirito di espiazione e portarlo sempre e dappertutto. E non deve dimenticare che è questo il mezzo potente di attirare sulle opere dello zelo la benedizione di Dio. Tutti gli uomini apostolici furono Vittime espiatrici. Così, il Sacerdote nella santa Messa, abbandonandosi con amore alla grazia di GESÙ CRISTO Sacrificatore e Ostia, nell'intento di essere unito con Lui nelle medesime disposizioni come lo è nel Sacerdozio, si stabilisce sempre più in quello stato che GESÙ, nel Cenacolo prima di incamminarsi al suo Sacrificio, domandava al Padre principalmente per i suoi Sacerdoti: Ut sint unum, sicut et nos… Ut sint consummati in unum!

III. Dopo la Messa, il ringraziamento. – Nella Liturgia della Messa, il ringraziamento incomincia subito dopo la Comunione: quid retribuam?… Ricevuto il Corpo di GESÙ CRISTO, è necessario un atto di riconoscenza per un dono sì grande, e il Sacerdote, a questo fine, prende il prezioso Sangue di GESÙ CRISTO; questo indica che GESÙ CRISTO, e GESÙ CRISTO solo, è la nostra lode e il nostro ringraziamento. Qual dono, infatti, potremo noi offrire all'Eterno Padre? «Nel ricevere GESÙ CRISTO, dice il Padre de Condren, il Sacerdote ha ricevuto tutto… Siccome non abbiamo nulla che non riceviamo da Dio, anche la nostra lode e il nostro ringraziamento devono essere un dono di Dio. Orbene qual è questo dono di Dio? GESÙ CRISTO, il Calice della salvezza, il tesoro dei poveri; quando abbiamo ricevuto questo nostro tesoro, possiamo dire per ringraziare: In me sunt Deus, vota tua, quae reddam, laudationes tibi (Ps. 55, 12). Possiedo tutto ciò che può esservi offerto, per la lode e il ringraziamento che vi sono dovuti» (Op. cit., parte IV).

Le Orazioni dopo la Comunione, anche se esprimono domande, sono di ringraziamento. Implorando che quel rimedio divino sia permanente in noi, noi domandiamo la grazia della vita di GESÙ CRISTO in noi e, una vita che operi gli atti che le sono proprii, vita che ci renda somiglianti a Lui; è questo il vero frutto della comunione, ma è pure il modo di far onore a GESÙ CRISTO; il miglior ringraziamento è una vita santa. L’ultima parola, Deo gratias, al termine dell'ultimo Vangelo è ancora una parola di azione di grazie.

Il Sacerdote, mentre il popolo si ritira, continua il ringraziamento e, invitando tutte le creature a benedire e lodare Colui ch'egli porta nel Cuore, le chiama tutte attorno a questo o gran Re e Sacerdote: universale, che è il centro della Religione di ogni creatura, l'Ostia nella quale e con la quale ogni creatura deve offrirsi ed immolarsi a Dio. Deposti in silenzio i sacri Paramenti, il Sacerdote si guarderà bene, in quei momenti preziosi, dalle chiacchiere e dalle distrazioni. Lo spirito della Chiesa è che si osservi il silenzio nella Sagrestia tanto come in Chiesa; il Sacerdote, se appena intende il suo dovere e l'interesse dell'anima sua, sa circondarsi dopo la Messa di un ambiente di silenzio e di raccoglimento, onde trattenersi con GESÙ nell'effusione intima dei suoi affetti. Potrà talvolta accadere che la carità imponga di differire il ringraziamento, ma il buon Sacerdote procurerà che tale sacrificio sia eccezione e non frequenza, altrimenti che ne sarebbe della sua vita interiore? «Un Sacerdote privo di vita interiore, dice Monsignor Gay, è una terra senz'acqua e un cielo senza sole» (Mysteres du Rosaire).

Il Card. Bona raccomanda quattro atti principali nel ringraziamento: azione di grazie propriamente detta, offerta di se stesso, domanda e proponimenti. Per l'offerta così si esprime: Sequitur oblatio, qua par pari Deo reddere Sacerdos potest, Filium ejus unigenitum et consubstantialem ei offerendo, seipsum quoque offerat Patri et Christo holocaustum acceptabile in odorem suavitatis (De celebratione Missae). Preghiamo pure la Madonna, Madre e insieme Ostia di Colui che abbiamo nel nostro cuore, perché si unisca a noi. Ricordiamo anche le anime del Purgatorio, applicando loro l'indulgenza plenaria annessa alla preghiera: En ego, o bone Jesu.

Che se talora, in quei momenti così preziosi, 1'anima si sente stanca, distratta e incapace, sia nostro conforto quella verità di fede: GESÙ è tutto, è tutta la Religione dovuta al Padre e a Lui medesimo; in ogni dovere di religione Egli è il nostro supplemento. Dunque, in tutta verità, farà Egli stesso, in noi e per noi, il nostro ringraziamento; noi ci uniremo a Lui, pregandolo di supplire alla nostra debolezza e incapacità.

Il Sacerdote che ha celebrato, porta in se stesso una nuova santificazione che rapisce gli Angeli ed è per la Chiesa una feconda sorgente di ogni benedizione. Ugone da San Vittore, quel santo mistico del secolo XII, stava per morire; essendo venuto a visitarlo un suo discepolo ed avendogli domandato come stava, rispose: «Benissimo, e nel corpo e nell'anima». Poi disse: «Voi avete celebrato la santa Messa; avvicinatevi e soffiate sul mio volto in forma di croce, per comunicarmi lo Spirito Santo». Avendolo obbedito il discepolo, egli esclamò: Os meum aperui et attraxi spiritum. Così apprezzava quel santo uomo, il soffio di una bocca che aveva ricevuto il Sangue di GESÙ. Quale meravigliosa influenza non deve avere il Sacerdote che porta in sé, in virtù del santo Sacrificio, lo spirito e la vita di GESÙ CRISTO?

NOTE

(540) S. AUG., De bono viduitatis

(541) Sacrosancte ad uniformem deiformitatem pro captu nostro, et ad Deum divinamque virtutem promovemur. De Ecel. Hierarch., cap. I. ­ Si verum sit (Sacerdotem) virum esse prorsus divinum,… pro suo modulo ad deiformitatis fastigium perfectissimis perfectivisque deificationibus evectum, etc. Ibid.. cap. III.

(542) Omnis anima, quae Christum cogitat, in lumine semper est; dies lucet, tibi semper Christus aspirat. In Psalm., CXVIII, Serm. XIX.

(543) Epist. ad Severum.

(544) De Sacram. (in fine),

(545) De Sacrificio Missae.

(546) De praepar. ad Missam.

(547) Ibid.

(548) Sciens (Jesus) quia omnia dedit ei Pater in manus, et quia a Deo exivit et ad Deum vadit, Joann XIII, 3.

(549) CONDREN, Idea del Sacerdozio, ecc., parte IV.

(550) I Sermon sur la Compassion

(551) S. TH., Opusc., LXV.

(552) Homil., XXXVII

AMDG et DVM