martedì 5 aprile 2022

Buonanotte!... di Andrea Cionci

 04 aprile 2022

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Una “soffiata” direttamente dalla Curia ci ha permesso di venire a capo dell’ultimo, straordinario messaggio in Codice Ratzinger che il vero papa, Benedetto XVI, ci ha lasciato il 28 febbraio 2013, accomiatandosi dal palazzo apostolico di Castel Gandolfo prima di autoesiliarsi in sede impedita. Instaurava così quel “pontificato d’eccezione” (Ausnahmepontifikat) di cui parlava Mons. Gänswein e che il canonista Guido Ferro Canale aveva ben intuito come riferito allo stato di sospensione dell’ordinamento giuridico nella Chiesa QUI  .

Come sempre avviene per i messaggi in Codice Ratzinger, ci sono DUE PIANI DI LETTURA: il primo è quello superficiale, buono per i non credenti, gli indifferenti e tutti coloro che detestano papa Benedetto, modernisti, o tradizional-sedevacantisti che siano. C’è sempre, tuttavia, qualche incoerenza che incuriosisce chi “ha orecchie per intendere”, come abbiamo visto QUI  e che spinge a far lavorare il Logos, la ragione che scopre la verità.

La prima apparente assurdità era stata individuata dallo scrivente il 18 dicembre scorso nell’inversione dei termini del titolo pontificale QUI “Dalle otto di sera non sarò più pontefice sommo”, disse il papa, ma il titolo è indiscutibilmente “Sommo Pontefice”.

Difficile che il papa sbagli il proprio titolo: il significato della frase non è quindi “non sarò più il papa”, ma “non sarò più il pontefice al sommo grado, nel posto più importante, perché ce ne sarà un altro più in vista di me”, e illegittimo, perché, come abbiamo visto, Benedetto, non ha mai abdicato in quanto ha rinunciato in modo differito al ministerium e non in modo simultaneo al munusQUI  Avete mai sentito qualche canonista contraddirci? Non ci ha smentito nemmeno il Santo Padre Benedetto, quando ci ha onorato di una sua risposta QUI  .

Ma a confermare definitivamente (e splendidamente) questa oggettiva realtà canonica, è la seconda apparente incoerenza nel discorso di Castel Gandolfo: papa Benedetto salutava i fedeli dicendo: “Buonanotte!”.

Alle 17.30, IN PIENO POMERIGGIO? Come è possibile?

Sulle prime, pensavamo che fosse un riferimento al “black out antipapale” che avrebbe oscurato la Chiesa - e ci sta pure - ma la questione è estremamente più precisa e geniale.

Per scoprirla era necessario un primo input arrivato l’11 febbraio da un lettore, che ci ha scritto all’email dell’inchiesta codiceratzinger@libero.it: “Un prete della Curia mi disse che Benedetto ha salutato i fedeli non per caso da Castel Gandolfo. Non mi disse altro, invitandomi a riflettere. Così ho notato che, sopra il balcone del palazzo papale c'è un evidente orologio romano, che è diverso dai nostri comuni orologi”.

Dunque, in Vaticano ci sono pur dei religiosi che sanno già tutto, o che hanno capito da soli.

Il secondo input è arrivato il 30 marzo da un altro lettore, G.P.: “L’orologio sul balcone è «alla romana» …  Considerando l’antico orario pontificio, quel «buonanotte»  è perfettamente logico”.

Abbiamo così approfondito la questione insieme a C.D.C., esperto cultore di Roma: l'orologio romano, introdotto nello Stato Pontificio fin dal XIII secolo, faceva iniziare il giorno successivo non alla mezzanotte, ma mezz’ora dopo il tramonto, dividendo le 24 ore in 4 cicli di 6 ore ciascuno. Fu Pio IX che abbandonò definitivamente il sistema nel 1847 per adeguare l’ora di Roma a quella “napoleonica”, diffusa in tutto il mondo e che usiamo oggi.

Insomma, il sistema pontificio tradizionale è una specie di ALTRO FUSO ORARIO che giustifica perfettamente il “Buonanotte!” di papa Benedetto XVI. Secondo l’ora romana, infatti, le 17.30 di quel 28 febbraio 2013 erano le 23.30 “romane”, per cui l’augurio del papa era del tutto appropriato. Questa è la CHIAVE per scoprire che Benedetto stava considerando un altro fuso orario per fornirci, così, un dirompente messaggio logico-canonico.

Seguiteci con attenzione.

Con la Declaratio in latino dell’11 febbraio 2013, Benedetto usa il sistema orario nostrano, di eredità napoleonica, a 24 ore: “Dichiaro di rinunciare al ministero (ministerium) di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, […] in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà VUOTA  (e non VACANTE, come da corretta traduzione del verbo vacet QUI)”. 

Ed ecco QUI il discorso di commiato che il papa pronuncia da Castel Gandolfo alle  17.30 del 28 febbraio (23.30, ora  romana).

“Cari amici, sono felice di essere con voi, circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più pontefice sommo della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera (13.30 del 1° marzo, ora romana) sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatiaAndiamo avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo. Grazie, vi imparto adesso con tutto il cuore la mia Benedizione.

Ci benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Grazie, BUONA NOTTE! Grazie a voi tutti!”

Attenzione: le “otto di sera” di cui parla Benedetto (non dice sta-sera), secondo l’ora romana, sono le 13.30 del 1° marzo. Papa Ratzinger dichiara quindi che non sarà più “pontefice sommo” dalle 13.30 del 1° marzo e non, come tutti pensano, che smetterà di essere Sommo Pontefice dalle 20.00 nostrane del 28 febbraio. E TUTTO TORNA. Infatti, nella tarda mattinata del 1° marzo, il cardinal decano Angelo Sodano fa partire QUI la LETTERA DI CONVOCAZIONE DEL NUOVO CONCLAVE (illegittimo) che eleggerà l’usurpatore. Così, dopo le 13.30, Benedetto può considerare a buon diritto la propria sede del tutto impedita dato che i cardinali hanno appena iniziato i lavori per eleggere abusivamente un altro papa, mentre lui è  vivente e regnante.

Per semplificare: tutto il mondo ha creduto che papa Benedetto rendesse la “SEDE APOSTOLICA” VACANTE abdicando a partire dalle ore 20.00 del 28 febbraio.

Ma è SBAGLIATO: dato che la rinuncia al ministerium non può giuridicamente produrre sede apostolica vacante, la SEDE DI ROMA, la SEDE DI SAN PIETRO fu semplicemente lasciata VUOTA (vacet), per le 20.00 avendo, infatti, Benedetto abbandonato Roma già intorno alle 17.00. 

Notare che papa Ratzinger, nella Declaratio, non usa il termine “sede apostolica” perché questa è l'ente dotato di personalità giuridica preposto al governo della Chiesa cattolica. Infatti, solo la sede apostolica può essere giuridicamente vacante, mentre la sede di San Pietro o di Roma no: sono espressioni inedite che indicano semplicemente il luogo fisico. Non esiste la "sede di Roma o la sede di San Pietro vacante”.

Ma da Castel Gandolfo, papa Benedetto ci ha detto, con il riferimento al sistema orario romano, da quale ora sarebbe entrato, di fatto, in sede apostolica IMPEDITA, cioè dopo le 13.30 del 1° marzo, quando giustappunto il cardinal decano avrebbe convocato il nuovo pseudo-conclave per eleggere un altro pontefice – illegittimo - che avrebbe preso il posto di papa Benedetto, il quale, non più pontefice sommo, “al massimo posto”, sarebbe divenuto l’”emerito”, (da emereo) cioè colui che, nonostante l’impedimento, HA DIRITTO di essere papa.

Perché il Santo Padre ha parlato così sottilmente col riferimento all’ora romana? Perché era appunto impedito, oppresso, sotto minaccia, e una persona, in tale situazione, ovviamente non può chiedere apertamente aiuto.

E così, si spiega PERFETTAMENTE anche il resto del discorso di saluto: “Voi SAPETE che questo mio giorno è DIVERSO da quelli precedenti”: tutti “sapevano”, cioè avevano l’informazione, potevano vedere l’orologio romano sopra la sua testa. Anche se c’era la luce, per l’orario romano era quasi notte: un giorno “diverso”.

“Mi sento appoggiato dalla vostra SIMPATIA”: da syn + pathos che, nel suo significato etimologico, significa “soffrire con”.

“Vorrei ancora lavorare”: vorrei continuare a esercitare il potere pratico papale, ma non posso perché sono impedito.

 “Andiamo avanti con il Signore”il pontificato va avanti, ma in stato di sofferenza, di prigionia.

A questo punto, sorgerà un’obiezione: ma secondo l’ora nostrana, il discorso di Benedetto poteva essere un vero commiato per una vera abdicazione?

NO, MAI. In primis, perché l’abdicazione doveva comportare una rinuncia simultanea al munus e non al ministerium in modo differito. Poi, perché Benedetto saluta tutti PRIMA dell’ora X, alle 17.30, ma dopo le 20.00, non ratifica niente. E, del resto, non avrebbe mai potuto farlo perché non si può ratificare giuridicamente una rinuncia al ministerium separandolo dal munus, come ammette lo stesso canonista vaticano Mons. Sciacca QUI . La rinuncia al ministerium, al potere pratico, può essere solo FATTUALE, appunto come avviene esattamente nella SEDE IMPEDITA.

Quindi, sia dalla prospettiva dell’orario napoleonico, che romano, papa Benedetto ci dice la stessa cosa. EGLI è IN SEDE IMPEDITA ED E’ L’UNICO PAPA REGNANTE, che infatti conserva il munus, l’investitura di origine divina.

E questo cosa comporta? Sono dunque solo “legalismi clericali”, o “chiacchiericcio” QUI , come ripete Mons. Bergoglio, eludendo costantemente la questione? Non proprio. Se siete cattolici, sappiate che il munus lo concede Dio stesso, Francesco non lo ha, quindi è antipapa, pertanto non è stato eletto con l’assistenza dello Spirito Santo, né è assistito dalla Terza Persona trinitaria nell’insegnamento ordinario, come da art. 892 del Catechismo. (Le regole non le abbiamo fatte noi).

Ergo, c’è un miliardo e 285 milioni di fedeli che stanno seguendo una specie di Pifferaio di Hamelin, un vescovo usurpatore che non offre la minima garanzia come custode della fede. E fra Pachamame, fratellanze universali e devastazioni dottrinali, non è che occorra una laurea in teologia a Tubinga per capirlo.

Se siete laici, sappiate che un capo di stato con diretta influenza su quel miliardo e rotti di persone ha preso il potere con un golpe e ha dichiarato esplicitamente la propria volontà di costruire un nuovo ordine mondiale (Intervista a La Stampa del 13 marzo 2021).

Da entrambi i punti di vista, laico e cattolico, l’antipapato in corso comporterà squilibri, imposture e danni colossali di cui faremo le spese tutti.  

Poi se il Codice Ratzinger è troppo faticoso da capire, e molti continueranno a preferire “papa Francesco” perché “è buono”, “uno di noi” e indossa il grembiule da pizzaiolo QUI , facciano pure.

sabato 2 aprile 2022

Considerazioni sul latino nella liturgia e nella preghiera.

 

Considerazioni sul latino nella liturgia e nella preghiera.

Diversi cattolici insistono molto sulla necessita' di pregare in latino.
Su questo campo ho alcune difficolta', chiedo pertanto a chi e' esperto di inserire materiale per approfondire l' uso del latino nella preghiera e per cercare di rispondere ad alcune questioni dove ho sempre avuto delle difficolta' specialmente in alcune discussioni.

Alcune questioni.
  • Ai tempi di Gesu' , la lingua liturgica era l' ebraico, mentre la lingua del popolo era l' aramaico.
    Gesu' parla al popolo in aramaico, prega e insegna in questa lingua. Ad esempio nei vangeli troviamo (Mt. 5: 35-43) Talita' Kum (significa: Fanciulla Alzati!). Effata' "apriti" (MC 7,34). La frase aramaica piu' lunga riportata dai vangeli e' il grido di Gesu' morente in croce: Eloi' Eloi' lema' sabactani' (Mt 27,46; Mc 15,34). Queste parole, riportate con leggere varianti da Matteo (Eli') e da Marco (Eloi'), sono le parole iniziali del Salmo 22 citate da Gesu' in aramaico e trascritte dagli evangelisti in greco. Quando Gesu' insegna a pregare il Padre Nostro, e' presumibile che insegna in aramaico.
    Se la lingua liturgica era l' ebraico, per quale motivo Gesu' ha usato la lingua volgare, la lingua del popolo (aramaico giudeo-palestinese), sia per pregare che per insegnare alle folle?
  • Il vangelo di Matteo e' stato scritto originariamente in aramaico. La stessa tradizione, attestata fin dal II secolo, afferma che Matteo scrisse il primo vangelo per i cristiani convertiti dal giudaismo, in aramaico, la lingua comune in Palestina ai tempi di Gesu', ma di esso non abbiamo traccia. A noi invece, e' giunto il testo greco di Matteo, scritto probabilmemte nel decennio che va' dal 70 all' 80 D.C.
    Se la lingua sacra di quel tempo era l' ebraico, per quale motivo Matteo utilizzo' una lingua volgare cioe' l' aramaico?
  • Ai tempi degli Apostoli, il greco era una lingua franca diffusa in tutto l' Impero (arrivata con la cultura ellenistica, era diffusa anche nei centri urbani della Palestina).
    Il greco in quel tempo era la lingua in voga che si studiava per cultura e per moda (come avviene per l' inglese di oggi).
    Gli apostoli e i loro collaboratori usarono il greco per redimere il Nuovo Testamento, inoltre il greco fu la lingua ufficiale della Chiesa occidentale ed orientale fino al IV secolo.
    Perche' gli Apostoli usarono il greco (paragonabile all' inglese di oggi) sia per redimere il Nuovo Testamento che per la Liturgia della Chiesa anziche' usare una lingua "arcaica" ( differente dalla lingua ufficiale) come per esempio poteva essere l' aramaico o l' ebraico?
  • La lingua greca nei primi secoli e' stata la lingua liturgica della Chiesa occidentale ed orientale.
    Con il progressivo estraniamento dell' Impero d' Occidente con l' Impero d' Oriente, anche la Chiesa d' Occidente cambia la lingua della Liturgia (III-IV secolo) eliminando il greco (sempre piu' estraneo al popolo) per utilizzare il latino.
    Per quale motivo la Chiesa occidentale nella liturgia aboli' il greco, che era una lingua diversa dalla lingua ufficiale del popolo, per utilizzare il latino, la lingua parlata dal popolo di quel tempo?
  • Con la caduta dell' Impero Romano d' Occidente, il latino divenne sempre più corrotto e sempre più influenzato dal linguaggio parlato (latino medioevale) ed era diverso dal latino classico. In seguito abbiamo il latino scolastico che era ormai diverso dal latino classico.
    La Chiesa con il passare dei secoli acquisi' il latino volgarizzato dal popolo (latino ecclesiastico) che e' diverso dal latino classico.
    Per quale motivo per pregare bisogna usare il latino ecclessiastico che e' una volgarizzazione del latino classico?
    Se la Chiesa nel corso dei secoli ha usato diverse lingue (greco,latino classico, latino medioevale, latino scolastico ecc.) perche' non usare il latino classico (periodo apostolico)?
  • Il famoso esorcista don Amorth, in un suo libro "Nuovi racconti di un esorcista" a pag. 134 racconta una storia che mi ha fatto molto riflettere.
    Il sacerdote racconta la storia di un giovane militare che si era rivolto a lui per problemi di salute e per problemi spirituali. L' esorcista dopo aver accertato una forte presenza malefica, gli pratico' tre esorcismi nei quali il giovane ricevette dei vantaggi ma nessuna liberazione. Al succesivo appuntamento il militare telefono' e disse al sacerdote che per motivi di servizio non poteva presentarsi, poi non si fece piu' sentire. Dopo molti mesi il militare scrisse una lettera all' esorcista dal Nord Italia, in cui si scusava del silenzio dovuto al suo improvviso trasferimento e lo ringrazio' con commozzione. Tuttavia il militare racconto' all' esorcista di aver incontrato un cristiano evangelico il quale intui' il suo stato e lo invito' a partecipare ad una preghiera nella sua comunita' evangelica pentecostale. Dopo un paio di incontri in questa comunita' nella quale gli evangelici pregarono su di lui, dopo una lunga lotta fu totalmente liberato da tutti i suoi disturbi e si senti' dinuovo se stesso, quello di prima, guarito. Il sacerdote ammette nel libro che all' inizio ci rimase un po' male, poi pero' accetto' serenamente la cosa citando Mc 9,38.

    Sempre in alcuni suoi libri don Amorth dichiara di conoscere efficaci esorcismi effettuati nella Chiese Ortodosse ma anche nelle Chiese evangeliche/protestanti.
    Don Amorth per gli esorcisimi dichiara di usare il rituale in latino. Bisogna dire che nell' esorcista cattolico abbiamo una persona che possiede il carattere (grazia) del Battesimo ma anche quello della Cresima e dell' Ordine Sacro. Inoltre il rituale dell' esorcismo e' un sacramentale della Chiesa (un altra grazia in piu') e la lingua usata e' il latino.
    Una persona evangelica possiede solo il carattere del Battesimo e usa la lingua nazionale. La storia citata da don Amorth riporta un efficace esorcismo ottenuto da semplici battezzati (evangelici pentecostali) che hanno pregato per una persona usando presumibilmente la lingua nazionale dato che e' risaputo che gli evangelici-pentecostali non usano il latino.

    Anche nei vangeli troviamo qualcosa di simile:
    Mc 9,38 Giovanni gli disse: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri". Ma Gesù disse: "Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi".
    Inoltre abbiamo esempi simili anche nella Storia della Chiesa. Ad esempio Santa Caterina da Siena era una semplice battezzata, non era sacerdote, eppure scacciava il diavolo dai posseduti, anzi, erano gli esorcisti stessi a chiedere il suo aiuto perché loro, pur essendo preti, non ci riuscivano.
    Siccome santa Caterina era analfabeta, e' difficile sostenere che santa Caterina uso' il latino per queste preghiere di liberazione, molto probabile invece che per queste preghiere uso' la lingua volgare del tempo. Infatti la lingua volgare era usata anche dai predicatori di piazza e la stessa cosa possiamo dire di san Francesco, infatti una sua preghiera in volgare entro' addirittura nella Liturgia della Chiesa (inno Laudes Creaturarum).
    E' logico che a parita' di condizione i sacramenti e i sacramentali rappresentano una grazia superiore a chi non li possiede, pero' da questi esempi notiamo che, nella preghiera, e' la fede che fa' la differenza.

    Infatti nei vangeli leggiamo:
    Mt 17,20 In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile.
    Nel vangelo Gesu' non dice che se preghiamo in aramaico, greco o latino, otteniamo qualsiasi cosa, bensi' e' la fede che ci permette di ottenere le grazie.
    Gv 14,13 Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio.
    Dunque la domanda e' questa:
    Se nella preghiera e' la fede di colui che prega a fare la differenza, indipendentemente dalla lingua usata, dunque a cosa serve sforzarsi di pregare in latino se cio' e' ininfluente per ottenere le grazie?
  • Con quale criterio una lingua viene definita sacra? Se bisogna considerare come sacra la lingua usata dal fondatore, allora i cristiani dovrebbero considerare come sacra solo l' aramaico. Se per lingua sacra bisogna considerare la lingua originale usata per scrivere le Sacre Scritture allora i cristiani dovrebbero considerare principalmente come sacra la lingua ebraica e quella greca. Se bisogna ritenere sacra quella lingua che la Chiesa definisce come "ufficiale" in un determinato periodo storico, allora siccome la Chiesa ha cambiato diverse lingue ufficiali nel corso della storia, questo significa che la lingua sacra e' variabile nel corso dei secoli e dipende dalle circostanze. Se invece per sacra dobbiamo ritenere tutte quelle lingue che la Chiesa ha usato nel corso della storia allora dobbiamo considerare come sacra contemporaneamente l' ebraico,l' aramaico, il greco, il latino classico, il latino medioevale, il latino ecclessiastico, l' italiano, l' inglese ecc. ecc.

 

  • Con quale criterio una lingua viene definita sacra?
  • La Chiesa nel corso dei secoli ha sempre acquisito la lingua del popolo. Prima l' aramaico (gli Apostoli nella Chiesa di Gerusalemme parlavano l' aramaico la lingua del popolo), poi il greco (lingua franca dell' Impero), poi il latino classico (lingua del popolo dell' Impero occidentale), poi il latino medioevale e infine il latino ecclessiastico acquisito anch' esso dal popolo. Quindi nel corso dei secoli la Chiesa ha sempre seguito per quanto possibile la lingua del popolo.
    Per quale motivo oggi dovrebbe essere il popolo a sforzarsi a seguire una lingua per la strangrande maggioranza dei fedeli, difficile da comprendere?
  • Il latino non è più parlato dunque non e' possibile conoscere la vera pronuncia della lingua dei nostri padri.
    wikipedia : la Chiesa cattolica ha acquisito il latino parlato dal popolo, e non ha inventato una nuova pronuncia: non a caso infatti la pronuncia ecclesiastica è più vicina all'italiano moderno, poiché le modifiche nella fonetica latina, sebbene non riflettute nella scrittura, si sono conservate nella lingua oralmente fino ai primi scritti in italiano
    Qual e' il senso e l' utilita' di usare una lingua che di fatto e' diversa dalla lingua parlata dai cristiani del periodo apostolico e dai padri della Chiesa?
  • Una Conferenza Liturgica organizzata dall'arcidiocesi di St. Louis, nel Missouri, e' stata conclusa da S. Em. il card. Francis Arinze, con un discorso: La lingua nella liturgia di Rito Romano: latino e lingua volgare
    Pur essendo solo un discorso e non un documento del Magistero, l' ho trovato molto interessante. Pero' alcuni punti mi hanno lasciato perplesso. Ad esempio:
    Non è straordinario che persone, specialmente chierici, se ben formati, possano incontrarsi a riunioni internazionali ed essere capaci di comunicare fra loro almeno in latino?
    Sinceramente a me non e' mai capitato di vedere presbiteri,vescovi o cardinali, anche di nazioni lontane, parlare tra di loro in latino per comprendersi. Quale sarebbe il senso? Ammesso che qualche chierico riesca a comunicare con un altra persona in latino, quale sarebbe l' utilita' spirituale?
    Per comunicare tra chierici di diversa provenienza, non e' molto piu' semplice usare una lingua internazionale come l' inglese?

    È un fenomeno importante il fatto che molte religioni del mondo, o le loro ramificazioni principali, abbiano una lingua che è a esse cara.
    Ma se cosi' fosse perche' Gesu' e gli Apostoli hanno trascurato l' ebraico per usare il volgare sia per comunicare tra di loro che nella predicazione e nella preghiera? Gesu' e gli apostoli avevano una lingua a loro cara?
  • In genere alcuni mettono in evidenza alcune terminologie, chiamando le lingue nazionali come "volgari" distinguendole dal latino.
    Per quale motivo una lingua come l' italiano deve essere denominata "volgare" rispetto al latino, quando invece il latino che usa la Chiesa non e' altro che il latino volgarizzato dal popolo e acquisito dalla Chiesa (latino ecclessiastico)? Quale criterio si usa per definire una lingua come "volgare"?
  • Il latino possiede indubbiamente un certo fascino. Ad esempio, una motto latino oppure il titolo in latino di una Enciclica, possiede un suo fascino.
    Cosi' come un Habemus Papam in latino non sarebbe la stessa cosa se fosse in italiano. Ci sono canti nati in latino, intraducibili, e che sono stupendi.
    Una Liturgia interamente in latino, la trovo indubbiamente adatta in un luogo particolare di pellegrinaggio come per esempio la Basilica di san Pietro, dove un pellegrino si aspetta e cerca una Liturgia diversa dal "solito".
    Inoltre riesco a comprendere anche i desideri dei gruppi tridentini che celebrano interamente in latino, perche' in questo caso, se un gruppo di fedeli richiede esplicitamente una messa in latino, copto, aramaico, inglese ecc. allora e' evidente che questi gruppi comprendono bene la lingua o il rito richiesto, dunque si trovano a loro agio.
    Quello che non riesco a comprendere e' il motivo per il quale diversi gruppi vorrebbero che in tutta la Chiesa venga usato il latino.
    Per quale motivo alcuni insistono sul fatto che la Liturgia e la preghiera dovrebbe essere in latino? Quale sarebbe l' utilita' spirituale?


Ho cercato spesso delle risposte a queste domande e ho provato anche a darne una.
Nei vangeli leggiamo che il latino, il greco, e l' ebraico erano lingue conosciute ai tempi di Gesu'. Infatti leggiamo:


Gv 19,20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.

Quindi il popolo conosceva e parlava le tre lingue scritte sul cartello della croce. Da questo punto di vista si potrebbe dire che per questo motivo il latino e' una delle lingue sacre, perche' e' una lingua che appartiene comunque ai vangeli e alla storia della salvezza.
Inoltre , noi sappiamo che dal punto di vista psicologico esistono le "ancore" (promemoria psicologici) cioe' esistono elementi che se richiamati, riportano con facilita' l' evento o il ricordo ad esso collegato. Ad esempio, a tutti sara' capitato di ricordare con piu' facilita' un evento del passato attraverso una musica o un immagine a cui e' legato un certo ricordo. Questi elementi come la musica, fotografia, parole ecc. sono definiti appunto "ancore" perche' a queste possono legarsi fortemente una emozione o un ricordo e possono quindi con piu' facilita' richiamarli alla mente ogniqualvolta vengono richiamati loro stessi.

Il latino potrebbe rientrare in questa teoria, perche' essendo una lingua presente nella Bibbia e nel periodo apostolico, potrebbe, dal punto di vista spirituale, richiamare alla mente con piu' facilita' determinati eventi della nostra salvezza.

Questa e' una delle spiegazioni che ho provato a darmi, davanti ad alcune obiezioni o domande provenienti da cristiani non cattolici oppure da parte di non credenti.
Tuttavia questa mia spiegazione non mi ha convinto per un motivo.
Il latino che usiamo oggi (latino ecclessiastico) ha poco a che fare con il latino classico del periodo storico dei vangeli. Si tratta di lingue e pronuncie diverse.

Per questa ragione la teoria del "ricordo" non mi ha convinto. Inoltre se cosi' fosse, cioe' se la lingua dovesse facilitare davvero un ricordo biblico, allora sarebbe piu' opportuno usare l' aramaico.
Si tratta di un argomento e di una questione a cui personalmente faccio fatica a trovare una risposta.

confronta: https://forum.termometropolitico.it/461625-diciamo-messa-latino-bellissimo-articolo-don-francesco-ricossa.html


 

Benedetto XVI

 


Benedetto XVI, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI sec

20 Aprile 2010


    Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo. Un colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, € 18

Il libro, risalente al 1996, è stato ripubblicato, come molti altri testi di Joseph Ratzinger, dopo l’elezione dell’autore al soglio pontificio. Si tratta di un libro intervista col giornalista Peter Seewald, che potrebbe far coppia col più celebre Rapporto sulla fede, anch’esso libro intervista scritto con Vittorio Messori, per accostarsi in maniera scorrevole – ma non per questo banale – al pensiero del regnante pontefice. Benché non sia, ovviamente, un atto pontificio, esso può costituire un invito alla lettura – e un aiuto per la comprensione – del magistero di papa Benedetto XVI.


Seewald esordisce nella premessa (pp. 5-7) descrivendo « un uomo di aspetto modesto, dai capelli bianchissimi, che dava una certa impressione di fragilità; camminava a piccoli passi, vestito del suo nero abito talare, con una piccolissima e semplice valigia. […] L’atmosfera dell’incontro è stata intensa e seria, ma talvolta questo “principe della Chiesa” sedeva tanto leggero sulla sua sedia che si aveva l’impressione di avere a che fare con uno studente. Una volta egli interruppe la nostra conversazione per ritirarsi in meditazione o, forse, anche per chiedere allo Spirito Santo le parole giuste. Non lo so. Il cardinale Joseph Ratzinger è considerato, soprattutto in patria, un controverso – e discusso – uomo di Chiesa. Tuttavia, molte delle analisi e dei giudizi da lui formulati in determinati momenti si sono nel frattempo avverati, spesso persino nei dettagli. E sono pochi ad avere una tanto dolorosa consapevolezza delle perdite e del dramma della Chiesa del nostro tempo, come questo signore intelligente, che ha le sue radici nella Baviera contadina».


Segue una parte intitolata «La fede cattolica – Segni e parole» (pp. 9-44) – che si differenzia dai successivi capitoli “a tema” – in cui la chiacchierata tra il giornalista e il cardinale prende le mosse da una battuta: «Eminenza, si dice che il papa talvolta abbia paura di Lei e che gli sia capitato di chiedersi: “Per carità, che cosa ne dirà il cardinal Ratzinger?” – (divertito) Può essere stata una battuta. Ma di sicuro non ha paura di me!». Gli argomenti toccati sono qui molto vari, dai colloqui con Giovanni Paolo II alla vita di fede del cardinale – che afferma «per me avere a che fare con Dio è già di per sé una necessità» – fino alla situazione attuale della barca di Pietro («Vale ancora la pena di salirvi?» chiede Seewald): «Si può anche vedere che il crollo della Chiesa e del cristianesimo cui abbiamo assistito negli ultimi trenta, quarant’anni, è in parte responsabile delle gravi situazioni di sfacelo spirituale, delle difficoltà di orientamento, dell’abbandono e della trascuratezza che noi osserviamo. Per questo io dico: se non ci fosse questa barca, la si dovrebbe inventare». 

Infatti la barca, benché la secolarizzazione ne abbia notevolmente diminuito i passeggeri, e la crisi di vocazioni l’equipaggio, continua a restare a galla e non ci si sta neanche male… basterebbe avere la pazienza di esplorarla prima di dire che è meglio rituffarsi in mare: «l’idea dominante è quella che il cristianesimo già lo si conosce e quindi si deve cercare qualcosa di diverso. Deve venir fuori, per così dire, una nuova curiosità per il cristianesimo, il desiderio di conoscere davvero ciò che esso è». Lo spazio non ci consente di avvertire il clero che la «nuova curiosità per il cristianesimo» non si suscita certo con il piano-bar domenicale, ma per tale aspetto rinviamo agli splendidi scritti di Ratzinger sulla liturgia…


Tra i numerosi altri argomenti toccati, meritevoli di segnalazione, ci limiteremo solo alla domanda: «Qual è la cosa che più la affascina nell’essere cattolico? – Affascinante è questa grande, viva storia, in cui noi siamo entrati, e questo, anche solo dal punto di vista umano, è già qualcosa di speciale. Affascinante è che una istituzione, con tante debolezze umane e malgrado tanti fallimenti, si mantenga intatta nella sua continuità e che io, vivendo in questa grande comunità, possa sentirmi in comunione con tutti i viventi e i defunti […]». Perché «cattolico» non indica solo un’universalità spaziale, ma anche temporale, una comunione con tutti coloro che nei secoli hanno fatto parte della «famiglia degli amici di Dio» (espressione cara al papa). Come non ripensare alle scene di un anno fa, quando il nuovo pontefice, partendo dalla tomba di Pietro, si apprestava a continuarne la difficile missione accompagnato dal canto delle Laudes Regiae, le invocazioni alla schiera dei santi, a ciascuno dei quali si chiedeva “tu illum adiuva”, “aiutalo”…?


Nel primo capitolo, «La persona» (pp. 45-136), la conversazione si concentra sulle diverse tappe della vita di Joseph Ratzinger, ultimo di tre fratelli, nato il Sabato Santo del 1927 a Marktl am Inn, in Baviera. Questo capitolo anticipa in gran parte il contenuto del libro «La mia vita», pubblicato da Ratzinger nel 1997 e contenente i suoi ricordi fino alla nomina a cardinale, pertanto più che i passi strettamente biografici segnaleremo qui quelli con ricadute attuali per la vita della Chiesa, cioè l’annoso problema della ricezione e dell’interpretazione del Concilio Vaticano II – problema che sarebbe in realtà risolto da un pezzo, se solo si fosse fatto riferimento ai testi conciliari e all’«interpretatio authentica» che ne hanno dato i successori di Pietro (il cui mestiere è appunto di confermare nella fede i fratelli: cfr. Lc 22,32), invece di rincorrere continuamente i segni dei tempi… per adeguarvisi!


Seewald, ripercorrendo quegli anni, in cui il giovane teologo Ratzinger era parte attiva del rinnovamento conciliare, gli chiede: «Ci si aspettava un salto in avanti, si è raccolto un “processo di decadimento”. Che cosa è andato storto? – […] tra quel che i padri conciliari volevano e quel che è stato mediato all’opinione pubblica e che, poi, ha finito per impregnare la coscienza comune, c’era una sensibile differenza. I Padri volevano aggiornare la fede, ma, appunto, proprio presentandola in tutta la sua forza. Invece è andata via via formandosi l’idea che la riforma consistesse semplicemente nel gettare la zavorra, così che, alla fine, la riforma è sembrata consistere non in una radicalizzazione della fede, ma in un suo annacquamento. In ogni caso, oggi si vede sempre più chiaramente come non si raggiunge la forma giusta di concentrazione, di semplificazione e di approfondimento limitandosi semplicemente alle facilitazioni, agli adattamenti e alle concessioni. 

Ciò significa che, fondamentalmente, esistono due concetti di riforma. Il primo consiste più nel rinunciare alla potenza esteriore, a dei fattori esterni, ma per vivere ancora più della fede, l’altro consiste, per dirla in termini caricaturali, nel mettersi comodi nella storia; e poi, ovviamente, le cose vanno male». E prosegue concludendo che «la vera eredità del concilio si trova nei suoi testi. Se essi vengono interpretati in modo serio e approfondito, allora si è al riparo da estremismi in entrambe le direzioni; e allora si apre davvero una strada che ha ancora molto futuro davanti a sé». Sono gli stessi concetti che ha espresso, da papa, il 22 dicembre 2005 in un denso discorso sull’argomento, al quale, ovviamente, rimandiamo.


Prima di passare alla parte successiva, riportiamo solo una frase detta a proposito dei teologi (tra i quali, non dimentichiamolo, c’è anche lui): «noi siamo al servizio della Chiesa, e non coloro che decidono che cosa essa sia».


Il secondo capitolo (pp. 137-244) si intitola «Problemi della Chiesa cattolica», problemi che si possono riassumere nella drastica riduzione dell’influenza della Chiesa nelle società, e persino sui suoi stessi fedeli – che magari conoscono benissimo la passione di papa Wojtyła per la montagna, o di papa Ratzinger per Mozart, ma ignorano del tutto i loro insegnamenti. Seewald affronta la questione senza falsi pudori, paragonando (l’unico eufemismo è un «quasi») la Chiesa ad un buco nero, ad una stella prossima a spegnersi. L’autorevole interlocutore, altrettanto privo di peli sulla lingua, non si scompone: «In effetti da un punto di vista empirico, le cose possono sembrare davvero così. […] Sarebbe indubbiamente una falsa aspettativa pensare che possa aver luogo un radicale mutamento del trend storico, che la fede diventi nuovamente un grande fenomeno di massa, un fenomeno che domina la storia». La differenza con la stella, però, è che il cristianesimo non è destinato a spegnersi, ma ad essere sempre una «forza vitale della storia», a prescindere dalle dimensioni – proprio come l’evangelico granello di senape.


La diagnosi è confermata. Ma quali sono le cause? Innanzitutto la nostra epoca – detta anche post-moderna – non è più quella della secolarizzazione, dell’eccesso di razionalismo, ma al contrario di una ricerca del sacro un po’ selvaggia, al di fuori delle Chiese tradizionali, nelle quali si crede di non poter trovare «la vivacità, la semplicità della fede». La diffidenza verso le istituzioni è una delle caratteristiche della nostra epoca, e Seewald osserva come «non vi sia provocazione maggiore del fatto puro e semplice che esista ancora una Chiesa istituzionale». «Tutto questo, però, – risponde Ratzinger – depone per molti aspetti a favore della Chiesa cattolica, è l’ammissione che essa ha ancora una capacità di provocare, che è ancora un pungolo e un segno di contraddizione o, come dice san Paolo, è “scandalo”, pietra d’inciampo». Del resto, «è davvero divertente osservare quanto rapidamente cambino le mode culturali».


Il problema è dunque cambiato rispetto a qualche tempo fa: se prima il rischio era la secolarizzazione, adesso è la soggettivizzazione della religione, sia nel senso che essa è divenuta una sorta di bricolage, in cui ciascuno toglie o aggiunge secondo i propri comodi, sia nel senso che la religione in quanto tale è relegata nel privato, e lì deve restare: «la religione non è affatto scomparsa, ma si è spostata nell’ambito del soggettivo. La fede è allora tollerata come una delle forme soggettive di religiosità, oppure mantiene un certo spazio come fattore culturale». Date queste premesse non stupisce la lucidità con cui il card. Ratzinger dice che «una dittatura anticristiana del futuro sarà presumibilmente molto più sottile di quelle che abbiamo conosciuto finora. Essa si mostrerà apparentemente aperta alle religioni, ma a condizione che non si vada a toccare il suo modello di condotta e di pensiero». Basterebbe aguzzare un po’ la vista per osservare questo sottile anticristianesimo già al lavoro, e scoprire sotto i rassicuranti proclami buonisti della mentalità odierna (e persino di certo volontariato) le aggressioni alla libertà religiosa, alla vita umana nascente, alla famiglia naturale, o alla semplice possibilità che la ragione umana (anche di un ateo) possa cogliere qualcosa della Verità, qualcosa di più di una semplice opinione da tenere per sé.


Tornando alla perdita d’influenza della Chiesa cattolica, il cuore del discorso di Ratzinger è che i problemi non si risolvono annacquando la fede, ma, al contrario, vivendola più intensamente. Presunte terapie, come il sacerdozio alle donne, o una maggiore elasticità circa la morale sessuale, non avrebbero alcuna utilità, né per la Chiesa – basti l’esempio delle numerose comunità protestanti, cui tutte queste concessioni non hanno provocato altro che uno svuotamento delle panche – che inoltre è vincolata dalla parola di Dio e dalla legge naturale; né per gli uomini, poiché in tal modo la Chiesa non servirebbe più loro, ma i loro capricci. Ratzinger ne parla qui per diverse interessantissime pagine ma conclude andando, ancora una volta, all’essenziale: «Sono convinto che nel momento in cui si verificherà una svolta spirituale, questi problemi perderanno di importanza in modo altrettanto improvviso, come sono emersi. Perché, in ultima analisi, non sono i veri problemi dell’uomo».


Infine arriviamo al terzo capitolo, «Alle soglie di una nuova epoca» (pp. 245-320), che inizia con un bilancio di fronte alle tante critiche (di cui sarebbe buona norma accertare la veridicità e il pulpito di provenienza…) rivolte ai cristiani del passato: «è davvero necessario che la Chiesa reciti il suo “mea culpa”, perché possa porsi con sincerità davanti a Dio e agli uomini. È altrettanto importante, però, non ignorare che, nonostante tutti gli errori e le debolezze, la parola di Dio è sempre stata annunciata e i sacramenti impartiti, e che, di conseguenza, erano comunque percettibili le forze della salvezza, forze che hanno posto argini al male».
Argomento centrale del capitolo sono, tuttavia, le ipotesi, sollecitate da Seewald, circa l’avvenire della Chiesa e del suo ruolo nel mondo. Ratzinger, nonostante abbia alle spalle numerose diagnosi confermate col passare del tempo, è un po’ restio ad avventurarsi in «prospettive future, rispetto alle quali sono molto cauto», ma questo non gli impedisce di presentare all’interlocutore (e ai lettori) qualche riflessione sul domani. Concetto chiave è il fatto che «la Chiesa di domani […] sarà più chiaramente di oggi la Chiesa di una minoranza»: il mondo va in direzione opposta e l’ambiente sociale che circonda il singolo non trasmette più la fede, come avveniva in passato, dunque, poiché «non si può essere cristiani da soli […] è la Chiesa stessa che deve costruirsi delle cellule vitali», che deve sopperire alla disgregazione degli “ambienti”. Eppure, «proprio un’epoca di cristianesimo quantitativamente ridotto può suscitare una nuova vitalità di un cristianesimo più consapevole. Di fronte a noi c’è un nuovo tipo di epoca cristiana».


Ma qual è la funzione di questa Chiesa di minoranza, che in condizioni difficili ritrova la sua vitalità, all’interno di un mondo in gran parte ostile? La risposta ci ricollega al titolo del libro: «Con le immagini bibliche del sale della terra e della luce del mondo si spiega la funzione di rappresentanza della Chiesa. “Sale della terra” presuppone che non tutta la terra sia sale». E il sale -come osservava a tale proposito Gilbert Keith Chesterton – notoriamente condisce in quanto ha un sapore radicalmente diverso da quello del cibo, talvolta persino in contraddizione… proprio come accade tra la Chiesa e il mondo!

Stefano Chiappalone

https://www.totustuus.it/Benedetto-XVI-Il-sale-della-terra-Cristianesimo-e-Chiesa-cattolica-nel-XXI-sec/