mercoledì 30 dicembre 2020

Beato Pio IX, enciclica "Amantissimi Redemptoris". I

 


Il Sacerdote e la Santa Messa

Sacerdozio e vita religiosa

Beato Pio IX, enciclica Amantissimi Redemptoris. Il Pontefice esalta la missione dei Sacerdoti, chiamati ad offrire, nell’incruento sacrificio della Messa, quella stessa Vittima che ha riconciliato l’umanita’ con Dio Padre


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Pio IX
Amantissimi Redemptoris


Sono state tanto grandi la bontà e la benevolenza dell’amantissimo Redentore Nostro Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, verso gli uomini che, come ben sapete, Venerabili Fratelli, assunta la natura umana, non solo accettò di subire i più aspri tormenti e di soffrire la più crudele delle morti sulla croce per la nostra salvezza, ma volle mantenere eterna la sua presenza fra noi nel santissimo sacramento del suo corpo e del suo sangue per esserci, con infinito amore, guida e nutrimento e per garantirci, al suo ritorno in cielo alla destra di Dio Padre, la sua divina presenza e un sicuro sostegno della vita spirituale.


Non contento di averci amato con una tale sublime carità, propria di Dio, profondendo doni su doni, volle spargere ulteriormente le ricchezze del suo amore verso di noi perché comprendessimo appieno che, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Proclamando infatti se stesso eterno Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, istituì nella Chiesa Cattolica un Sacerdozio perpetuo, e quello stesso Sacrificio che egli stesso offrì una volta per sempre, spargendo sull’altare della croce il suo preziosissimo Sangue per riscattare e redimere l’intero genere umano dal giogo del peccato e dalla schiavitù del demonio, pacificando le cose del cielo e quelle della terra, ordinò si mantenesse operante fino alla fine dei secoli, e ingiunse che ciò avvenisse ogni giorno, diverso solo per il modo dell’offerta, per mezzo del ministero dei Sacerdoti, perché i salutari e sovrabbondanti frutti della sua passione continuassero a riversarsi sugli uomini.


In questo incruento sacrificio della Messa, che si compie per mezzo del mirabile ministero dei Sacerdoti, viene dunque offerta quella stessa vittima che ci ha riconciliati con Dio Padre e che, racchiudendo in sé il potere legittimo di placare, di impetrare e di soddisfare, “ripropone misteriosamente la morte dell’Unigenito che una volta risorto dai morti non muore più, e la morte non avrà più potere su di Lui; Egli vive dunque in se stesso immortale e incorruttibile, ma viene nuovamente immolato per noi in questa misteriosa sacra offerta” . È un sacrificio così puro che nessuna indegnità e malvagità degli offerenti può in alcun modo sminuire.


Il Signore stesso, per mezzo di Malachia, divinamente ispirato, predisse che questo sacrificio sarebbe stato grande fra le genti e avrebbe dovuto essere offerto puro in ogni parte del mondo, dal sorgere al tramontare del sole (Ml 1,11). È un sacrificio talmente ricolmo di frutti da abbracciare la vita presente e quella futura.


Dio, riconciliato da questo sacrificio, elargendo la sua grazia e il dono del perdono, cancella anche le colpe più gravi e, pur gravemente offeso dai nostri peccati, trascorre dall’ira alla misericordia e dalla severità della giusta punizione alla clemenza. Tramite questo dono vengono annullati il reato e la soddisfazione delle pene temporali; per mezzo suo può essere portato sollievo alle anime dei morti in Cristo non pienamente purificate, e possono essere conseguiti anche beni temporali purché non in contrasto con quelli spirituali. Sempre per suo tramite vengono debitamente esaltati l’onore e il culto resi ai Santi e, in primo luogo, alla santissima Madre di Dio, la Vergine Maria.


Secondo la tradizione ricevuta dagli Apostoli, offriamo il divino sacrificio della Messa “per la pace di tutte le Chiese, per la doverosa armonia del mondo; per i regnanti, per i soldati, per gli alleati, per gli ammalati, per gli afflitti, per tutti coloro che versano nell’indigenza, per i defunti ancora trattenuti in purgatorio, sorretti dalla ferma speranza che potrà tornare di grande giovamento la preghiera elevata in loro favore mentre è presente la Vittima santa e tremenda” .


Non esistendo dunque niente di più grande, di più salutare, di più santo, di più divino dell’incruento sacrificio della Messa, per mezzo del quale, attraverso le mani dei Sacerdoti, viene offerto e immolato a Dio, per la salvezza di tutti, lo stesso corpo, lo stesso sangue, lo stesso Dio e Signore Nostro Gesù Cristo, la Santa Madre Chiesa, dotata dell’inesauribile tesoro del suo divino Sposo, mai tralasciò di circondarlo di cura e di attenzioni, perché un così grande Mistero fosse compiuto da Sacerdoti con cuore grandemente puro e mondo, e venisse celebrato con un apparato esteriore di cerimonie e di riti tale da rendere il culto espressione della grandezza e della magnificenza del Mistero, in modo che i fedeli potessero essere stimolati alla contemplazione delle realtà divine racchiuse in un così ammirevole e venerando Sacrificio.


Con pari cura e sollecitudine la stessa pietosissima Madre mai cessò di ammonire, di esortare e di convincere i suoi fedeli figli perché intervenissero il più frequentemente possibile a questo divino Sacrificio, con le dovute predisposizioni di pietà, di amore e di devozione, ricordando loro il preciso dovere di presenziarvi tutte le feste di precetto, con l’animo e lo sguardo devotamente intenti a quel mistero da cui potevano attingere con facilità la divina misericordia e l’abbondanza di tutti i beni.


E poiché ogni Sacerdote, scelto tra gli uomini, è deputato per gli uomini a tutto ciò che riguarda Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati, in forza delle vostre approfondite conoscenze, Venerabili Fratelli, Voi sapete bene che i pastori di anime sono tenuti ad offrire il sacrosanto Sacrificio della Messa per le anime loro affidate. Si tratta di un obbligo che, secondo gli insegnamenti del Concilio Tridentino, nasce dalla stessa legge Divina. Il Concilio fa ricorso a parole assai autorevoli ed eloquenti per affermare “che a tutti coloro a cui è stata affidata cura di anime è fatto obbligo, per divina disposizione, di riconoscere le proprie pecore e di offrire per esse il Sacrificio” .


È pure nota a tutti Voi l’Enciclica di Benedetto XIV, Nostro Predecessore di felice memoria, del 19 agosto 1744 . Parlando diffusamente e in modo approfondito di questo obbligo e procedendo ulteriormente nel precisare e confermare il pensiero dei Padri Tridentini, al fine di eliminare controversie, dubbi e disquisizioni, stabilì in modo chiaro ed inequivocabile che i parroci e tutti coloro che si trovano in cura d’anime debbono offrire il Sacrificio della Messa per il popolo loro affidato, tutte le domeniche e le feste di precetto, anche in quelle che per sua disposizione, in molte Diocesi, erano state tolte dal novero delle feste di precetto per permettere a quelle popolazioni di dedicarsi alle opere servili, fermo restando l’obbligo di ascoltare la Messa.


Il Nostro cuore non è certo pervaso da mediocre soddisfazione, Venerabili Fratelli, mentre leggiamo le relazioni inviate a Noi e a questa Sede Apostolica in adempimento ad un preciso compito del vostro ufficio pastorale, sulla situazione delle vostre Diocesi. Sono notizie che tornano a vostro onore e Ci riempiono di gioia. Veniamo infatti a sapere che tutti coloro che hanno cura d’anime adempiono al loro dovere nei giorni di domenica e negli altri tuttora di precetto, e non tralasciano di celebrare la Messa per il popolo loro affidato. Ma siamo anche a conoscenza che in molti luoghi è invalsa tra i parroci la consuetudine di non assolvere questo impegno in quei giorni di festa che un tempo, sulla scorta della Costituzione di Urbano VIII, Nostro Predecessore di felice memoria , dovevano essere ritenuti di precetto. È accertato che questa Sede Apostolica, accogliendo le motivate richieste di molti sacri Pastori e valutando le motivazioni presentate, non solo diminuì per quei luoghi il numero dei giorni festivi di precetto per permettere a quelle popolazioni di dedicarsi alle opere servili, ma le esentò anche dall’obbligo di ascoltare la Messa. Ma non appena queste benevole concessioni della Santa Sede diventarono di pubblico dominio, subito i parroci di molte località, ritenendo di essere stati sollevati dall’obbligo di applicare la Messa per il popolo, lo lasciarono cadere del tutto. Ne derivò dunque, per i parroci di quelle regioni, la consuetudine di tralasciare in quei giorni l’applicazione del santissimo Sacrificio della Messa per il popolo, e non mancarono coloro che si ersero a difensori di una simile consuetudine.


Noi pertanto, mossi da profonda sollecitudine per il bene spirituale dell’intero gregge del Signore a Noi affidato per volere divino, profondamente addolorati perché per tale omissione i fedeli di quelle regioni vengono defraudati dei maggiori frutti spirituali, abbiamo deciso di intervenire in una questione di sì rilevante importanza, ben sapendo che questa Sede Apostolica ha sempre insegnato che i parroci hanno l’obbligo di celebrare la Messa per il popolo anche nei giorni festivi non più di precetto.


Sebbene dunque i Romani Pontefici Nostri Predecessori, indotti dalle insistenti petizioni dei Sacri Pastori, dalle molteplici e difformi necessità delle comunità dei fedeli e dalle gravi difficoltà legate ai tempi e alle situazioni locali abbiano deciso di ridimensionare il numero dei giorni di festa e, nello stesso tempo, abbiano benignamente concesso ai fedeli di dedicarsi liberamente alle opere servili, senza l’obbligo di ascoltare la Messa, tuttavia gli stessi Nostri Predecessori, nel concedere simili indulti, intendevano mantenere integre le disposizioni che vietavano, nei summenzionati giorni, qualsiasi innovazione nel consueto svolgimento dei divini uffici e dei riti liturgici: tutto doveva essere compiuto nello stesso modo in cui si era soliti operare quando era ancora in vigore la menzionata Costituzione di Urbano VIII con cui si decidevano i giorni festivi di precetto.


Da tutto questo i parroci potevano facilmente dedurre che in quei giorni non potevano in alcun modo essere sollevati dall’obbligo di applicare la Messa per il popolo, perché è questa la componente essenziale dei riti, soprattutto prestando mente al fatto che i Rescritti Pontifici devono essere accolti e interpretati con assoluta fedeltà al loro significato.


A ciò si aggiunga che questa Santa Sede più volte interpellata per casi specifici inerenti questo dovere dei parroci, mai tralasciò di rispondere per il tramite delle sue Congregazioni, sia del Concilio, sia di Propaganda Fide, sia dei Sacri Riti, sia anche della Sacra Penitenzieria, e di precisare che i parroci erano soggetti all’obbligo di applicare la Messa per i fedeli anche in quei giorni che erano stati depennati da quelli festivi di precetto.


Avendo dunque soppesato con somma attenzione tutte le circostanze, e sentito il parere di molti Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa della Nostra Congregazione incaricata di difendere e di interpretare i Decreti Tridentini, abbiamo deciso, Venerabili Fratelli, di scrivervi questa Lettera Enciclica per stabilire una sicura e definitiva normativa da osservare con scrupolosa diligenza da tutti i parroci. A questo fine, con la presente Lettera dichiariamo, stabiliamo e decretiamo che i parroci e i sacerdoti in cura d’anime debbono celebrare e applicare il sacrosanto sacrificio della Messa per il popolo loro affidato, non solo in tutte le domeniche e negli altri giorni tuttora annoverati come feste di precetto, ma anche in quelli che per indulto di questa Sede Apostolica sono stati eliminati dal novero delle feste di precetto o trasferiti, allo stesso modo al quale tutti i curatori d’anime erano obbligati quando la menzionata Costituzione di Urbano VIII manteneva piena la sua validità, e le feste di precetto non erano ancora state ridotte e trasferite.


Per quanto concerne le feste trasferite, è ammessa una sola eccezione, quando cioè la solennità e il rispettivo ufficio vengono traslati in giorno di domenica. In questo caso deve essere applicata dai parroci una sola Messa per il popolo, dal momento che si può ritenere che la Messa, parte essenziale dell’ufficio divino, sia stata trasferita unitamente allo stesso ufficio.


Ora, spinti dal sentimento di paterno amore del Nostro animo, volendo restituire la tranquillità a quei parroci che per l’invalsa consuetudine tralasciarono, nei giorni menzionati, di applicare la Messa per il popolo, concediamo ampia assoluzione, in forza del Nostro Apostolico Potere, per tutte le trascorse omissioni. Non mancando inoltre sacerdoti in cura d’anime che hanno ottenuto da questa Sede Apostolica uno specifico indulto di riduzione, così viene chiamato, concediamo loro di poterne fruire nei limiti definiti dall’indulto stesso e finché eserciteranno l’ufficio di parroco nelle parrocchie rette e amministrate al presente.


Mentre dunque decretiamo e concediamo, siamo sorretti dalla ferma speranza, Venerabili Fratelli, che i parroci, accesi da ancor maggiori impegno e amore per le anime, sentano l’orgoglio di soddisfare, con somma diligenza e piena devozione, quest’obbligo di applicare la Messa per il popolo, prendendo in seria considerazione la sovrabbondante messe di favori e di doni celesti che, dall’applicazione di questo incruento e divino Sacrificio, si riversa sul popolo cristiano affidato alla loro cura.


Essendo peraltro pienamente consapevoli che potranno presentarsi dei casi specifici in cui, per particolari difficoltà del momento, dovrà essere concesso ai parroci un alleggerimento di quest’obbligo, intendiamo informarvi che per ottenere i relativi indulti occorre rivolgersi esclusivamente alla Nostra Congregazione del Concilio, eccetto i casi riservati alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, avendo delegato ad ambedue le Congregazioni le opportune facoltà.


Non nutriamo alcun dubbio, Venerabili Fratelli, che in forza della vostra ammirevole sollecitudine episcopale e senza interporre alcun indugio, vorrete scrupolosamente rendere noto a tutti e singoli i parroci delle vostre Diocesi quanto in questa Nostra Lettera, con il Nostro supremo potere, confermiamo, nuovamente decretiamo, vogliamo, comandiamo e disponiamo sull’obbligo di applicare il sacrosanto Sacrificio della Messa per il popolo loro affidato. Siamo anche del tutto certi che attiverete in pieno la vostra vigilanza, perché anche chi si trova in cura d’anime adempia diligentemente a questa parte del proprio dovere e si attenga scrupolosamente a quanto abbiamo decretato in questa Nostra Lettera.


È Nostro desiderio che copia di questa Lettera sia conservata in perpetuo nell’Archivio episcopale di tutte le vostre Curie.


Poiché ben sapete, Venerabili Fratelli, che nel sacrosanto Sacrificio della Messa è racchiusa una grande possibilità di insegnamento per il popolo cristiano, non tralasciate mai di rivolgere pressanti esortazioni, in primo luogo ai parroci, a chi si dedica alla predicazione della parola divina e a coloro ai quali è affidato il compito di istruire il popolo cristiano perché, in modo attento e accurato, espongano e illustrino ai fedeli l’importanza, la maestà, la grandezza, il fine e il frutto di un così grande e mirabile Sacrificio, e nello stesso tempo sollecitino e infiammino i fedeli ad assistere ad esso il più frequentemente possibile con la fede, con la devozione è con la pietà degne di questo Sacrificio, al fine di procurarsi la divina misericordia e ogni grazia di cui hanno bisogno.


Non tralasciate di operare con viva sollecitudine perché i Sacerdoti delle vostre Diocesi eccellano per l’integrità dei costumi, per la serietà, per la rettitudine e per la santità, come si addice a chi ha ricevuto il potere di consacrare l’Ostia divina e di compiere un così santo e tremendo Sacrificio. Rivolgetevi inoltre, con pressanti ammonizioni e sollecitazioni, a tutti coloro che muovono i primi passi nel divino Sacerdozio affinché, meditando seriamente sul ministero che hanno ricevuto nel Signore, possano adempierlo e, sempre memori della dignità e del celeste potere di cui sono investiti, si ammantino dello splendore di tutte le virtù e del pregio della sacra dottrina; rivolgano con convinzione la mente al culto, alle cose divine e alla salvezza delle anime; mostrando se stessi come ostia viva e santa donata al Signore, e testimoni viventi della Passione di Gesù, offrano a Dio, come si conviene, con mani pure e cuore mondo, la Vittima di espiazione per la propria salvezza e per quella di tutto il mondo.


Niente, infine, Ci torna più gradito, Venerabili Fratelli, dell’approfittare di questa occasione per assicurarVi nuovamente e confermarVi tutto l’affetto con cui abbracciamo Voi tutti nel Signore e, nel contempo, Vi incoraggiamo perché possiate tutti affrontate con ancor maggiore ardore il vostro gravissimo compito pastorale senza tentennamenti e cadute di zelo, e provvedere con la più viva passione alla salvezza e alla sicurezza delle amatissime pecore.


Siate certi che Noi siamo pienamente disposti a compiere, con viva gioia, tutto ciò che si rivelerà utile a procurare il maggior bene a Voi e alle vostre Diocesi. Intanto ricevete, auspice di tutti i favori celesti e testimone della Nostra più viva benevolenza, l’Apostolica Benedizione che con il più profondo affetto impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, a tutti i Chierici e ai Fedeli affidati alla cura di ciascuno di Voi.


Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 maggio 1858, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.


AMDG et DVM

Il sacerdote e il diaconato

 

Il sacerdote e il diaconato

Spiritualita

a lato: Beato Mosé Tovini (1877-1930), sacerdote diocesano

Mons. Agostino Gonon
Vescovo di Moulins

Verso le vette della Santità Sacerdotale

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RITIRO DEL MESE DI DICEMBRE

IL SACERDOTE E IL DIACONATO

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Considerate ergo, Fratres, viros vobis boni testimonii septem, plenos Spiritu Sancto et sapientia.

(Act. 6, 3). Ecco le parole che iniziano la prima ordinazione dei Diaconi, narrata dagli Atti degli Apostoli. Esse rivelano la importanza del passo che stava per compiere la Chiesa nascente; richiamano l’attenzione sul valore del nuovo Ordine che si voleva istituire, per il fatto che ammettevano soltanto uomini meravigliosamente favoriti di buona testimonianza, di pienezza di Spirito Santo, di abbondante Sapienza. Solo un dono regale può giustificare simili esigenze e il Diaconato è davvero tale: Diaconus quasi propinquus ordini sacerdotali aliquid participat de ejus officio 65). Quest’affermazione di S. Tommaso ci mostra nel Diacono qualche cosa del sacerdote, ci si avvicina alla vetta luminosa. Non ancora il sacerdozio, ma una parte notevole del suo ministero viene conferita agli eletti.

Quasi eco di quel preludio antico, la cerimonia del nostro Diaconato incominciò con un rito fino allora inusitato per noi, e che dovette incuterci sacro timore, se l’animo nostro era compreso, come avrebbe dovuto esserlo, del sentimento del nostro nulla, della cognizione della nostra miseria. Ricordiamo!

L’Arcidiacono, nel presentarci al Pontefice consacrante lo pregò di ordinarci.

Gli fu risposto: — Scis illos dignos esse?

Egli riprese: — Quantum humana fragilitas nosse sinit, et scio, et testificor, ipsos dignos esse ad hujus onus offici.

E non paventammo, benché il Vescovo, continuando l’inchiesta, lanciasse agli astanti l’intimazione: Si quis habet aliquid contra illos… exeat et dicat.

Nessuno si mosse, neppure la nostra coscienza, dominata com’era dalla fede nell’Amore che ci aveva chiamati: Non vos me elegistis, sed ego elegi vos! (Ioan. 15. 16). Ma allora dovette avvivarsi in noi il bisogno di essere grandi, di nobili sensi, per ricevere degnamente la grazia preziosissima che stava per esserci conferita; si dovette raffermare in noi la volontà d’adottare un metodo di vita che favorisse tutta la possibile fecondità.

Siccome non v’è dubbio riguardo alla natura sacramentale del Diaconato 66) perché fu l’inizio del Sacramento dell’Ordine sacro, così è certo che esso ha infuso nelle nostre anime una grazia abbondante, concessa per tutta la vita in una volta sola, con possibilità d’essere accresciuta in seguito con gli atti che ne dovevano promanare; una grazia permanente, che ci comunicava il diritto assoluto a grazie attuali, le quali dovevano aiutarci a compiere con frutto le funzioni proprie del Diacono.

Facciamo rivivere tanta grazia riconoscendone ancor meglio l’alto valore alla luce della fede. Meditiamo quindi la dignità e gli uffici del Diacono.

1. – DIGNITÀ

Nell’istruzione e nel prefazio con cui incomincia il rito solenne del conferimento del Diaconato, quest’Ordine è assimilato al Levitico e additato come un privilegio singolare; Adeo ut grandi quodam privilegio haereditatis, et tribus Domini esse mereretur et dici. I Leviti erano separati dal popolo di Dio, resi superiori ai loro fratelli con prerogative immense.

I misteriosi disegni della Provvidenza distinguono in tal modo quanti essa destina a una più larga partecipazione all’opera della santificazione delle anime, ai benefici che irradiano dai due grandi misteri dell’Incarnazione e della Redenzione, ossia all’opera di Cristo.

Bisognava anzitutto venisse il Cristo adorabile, Verbum caro factum est et habitavit in nobis, (Ioan. 1, 14,) e poi si perpetuasse nel tempo e nello spazio fino alla fine dei secoli. Nell’uno e nell’altro mistero il concorso della SS. Vergine fu intimo e profondo. Ella compì la sua mirabile funzione di Mater Christi a Bethlehem, e nel Cenacolo il giorno della Pentecoste, assistendo agli inizi della Chiesa docente, benedicendo lo zelo degli Apostoli, acceso dal soffio rinnovatore dello Spirito Santo. Essa cominciò la sua missione di Madre delle anime: Ecce Mater tua (Ioan. 19, 26).

A questi due ministeri che le conferivano una dignità eccelsa, Ella fu preparata da tutta l’eternità; ma in modo manifesto e più immediato nel tempo con il suo ritiro di preghiera e di meditazione nel Tempio, e con il mistero complesso che in lei si compì il giorno dell’Annunciazione.

Il decreto della sua Concezione Immacolata costituì la preparazione eterna; la preparazione nel Tempio si ebbe con lo studio delle sacre Lettere in cui Ella apprese anticipatamente la storia di Colui che doveva poi essere suo Figlio! Con S. Paolo, ma con più ragione, avrebbe potuto esclamare: Non enim indicavi me scire aliquid inter vos, nisi Jesum Christum (1 Cor. 2, 2). Ma in che consistette la preparazione nel giorno dell’Annunciazione? L’Angelo ce lo rivela come qualche cosa di meraviglioso: Et respondens angelus dixit ei: Spiritus Sanctus superveniet in te, et virtus Altissimi obumbrabit Ubi. Ideoque et quod nascetur ex te sanctum vocabitur Filius Dei (Luc. 1, 35-36).

Maria per poter divenire Madre del Figlio di Dio, Gesù, e dei figli di Dio, i cristiani, ricevette nuova effusione dello Spirito Santo, benché già lo possedesse in tutta pienezza nell’anima sua idealmente pura. Il celeste Messaggero infatti non le dice: veniet, ma superveniet insinuando così un accrescimento di grazia incommensurabile.

Quindi fu investita di una forza sovrumana, della virtù stessa dell’Altissimo. Non doveva Ella concorrere ad un’opera infinitamente superiore alla creazione del mondo? Essere collaboratrice di Dio per la generazione del Verbo nella natura umana, è, senza confronto, dignità più grande che non esserlo, come Adamo, per la generazione dell’umanità intera.

Oh, inaccessibile sublimità di misteri che ci presentano Maria in un nembo di luce, più alta che le creature dotate di ragione e delle stesse creature angeliche: Regina angelorum!

Generationem ejus quis enarrabit?… (Isai. 53, 8). Ma queste linee rapidamente abbozzate descrivono la storia della Vergine Santa o la nostra?

Oh, sì, come Lei avemmo la nostra preparazione eterna nel decreto misericordioso che ci contrassegnò del luminoso segno della vocazione: In caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te… (Jerem. 31, 3). Electus ex minibus! (Cant. 5, 10).

Come Lei avemmo la preparazione al Tempio nella nostra vita raccolta fra le mura del Seminario, dove imparammo a conoscere meglio Gesù iniziandoci alle scienze sacre.

Come Lei infine ci deliziammo di quel Natale che fu il giorno del nostro sacerdozio; ma prima, come Lei ancora, esultammo della nostra Annunciazione nel giorno del Diaconato.

Nel giorno del mistico nostro Natale ricevemmo il potere di generare il Figlio dì Dio e i figli di Dio. Dopo d’allora, ogni mattino, proni all’altare su cui lo facciamo discendere con le parole della consacrazione, alle quali Egli obbedisce irresistibilmente, non possiamo ripetere a Gesù: Filius meus es tu, ego hodie genui te? (Ps. 2, 7). Ogni giorno, prodigandoci generosi in un apostolato fatto più intenso per nostro volere: Ego autem libentissime impendan: et superimpendar ipse pro animabus vestris (2 Cor. 12, 5), non moltiplichiamo forse il numero di coloro cui possiamo dire con intima gioia e un’immensa gratitudine verso Dio: Per Evangelium ego vos genui? (1 Cor 4, 5).

No, non v’è opera che uguagli la nostra; essa è superiore allo stesso Fiat lux che produsse soltanto cose temporali, mentre noi produciamo cose eterne… et fructus vester maneat! (Ioan. 15, 16).

Prima d’essere investiti del potere di consacrare e di santificare, come Maria ricevemmo una sovrabbondanza dello Spirito Santo e della forza che ne è la manifestazione: Accipe Spiritum Sanctum ad robur, ci fu detto dal Vescovo consacrante nel momento in cui imprimeva in noi il carattere sacro del Diaconato. E continuava: Emitte in eos, quaesumus, Domine, Spiritum Sanctum, quo in opus minuterii tui fideliter exsequendi, septiformis gratiae tuae munere roborentur. Abundet in eis totius forma virtutis. E’ commovente e stupenda l’armonia coll’annunzio angelico: Spiritus sanctus superveniet… Virtus Altissimi obumbrabit… (Luc. 1, 35). L’Annunciazione prepara il Natale, il Diaconato prepara il Presbiterato: le due aurore preparano meriggi di meravigliosa luminosità.

Oh, la grandezza nostra! Quando lasciammo il Tempio, rivestiti delle nostre bianche dalmatiche, gli angeli potevano leggere sulla nostra fronte: Amictus lumine sicut vestimento (Ps. 103, 2); con un accento suggestivo dovette ripercuotersi l’eco della parola del Maestro: Ut filii lucis sitis (Ioan. 12, 36).

Lo siamo stati finora? Lo spirito del Diaconato trasporta in alto: Video coelos apertos et Filium hominis stantem a dextris Dei (Act. 7, 55). Viviamo a simili altezze? Noi apparteniamo all’Ordine dei Leviti, alla porzione eletta delle anime, alla famiglia di Stefano presentato dagli Atti plenum fide et Spiritu Sancto, alla stirpe di quel Lorenzo di cui è scritto: Bonum opus operatus est. Non dimentichiamo che tanta nobiltà ci impone obblighi immensi. Se abbiamo a rimpiangere qualche deviazione dalla via che ci deve far salire sempre più alto, o una diminuzione di luce; per risalire sulle vette e avvivare il focolare di luci inestinguibili, attingiamo vigore nuovo dalla grazia già ricevuta, la quale permane in noi come un capitale inesausto, fino all’eternità.

2. – UFFICI

Diaconum oportet ministrare ad altare, baptizare et praedicare 67).
Ecco la parte di ministero sacerdotale che ci fu allora commessa. Benchè limitata in parte nel suo esercizio, ci imponeva nondimeno e subito, virtù eminenti, sulle quali il Vescovo consacrante insisteva. Rileggiamo queste linee così suggestive del Pontificale: Levi quippe interpretatur additus, sive assumptus. Et vos, filii dilectissimi… estote assumpti a carnalibus desideriis, a terrenis concupiscentiis, quae militant adversus animam; estote nitidi, mundi, puri, casti, sicut decet ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei. Leggiamo ancora: Quia comministri et cooperatores estis corporis et sanguinis Domini, estote ab omni illecebra carnis alieni.

Tutto si compendia nella purezza, che nel diacono deve essere illibatissima. Sappiamo poi che questa virtù è progressiva, poichè essa parte bensì dall’esenzione del vizio proibito dal sesto comandamento ed esenzione tale e così delicata, che, in più della castità ordinaria, anche perfetta, esige angelica verginità; ma va ben oltre. La purezza infatti non è soltanto una virtù negativa che esclude il male, ma anche una virtù positiva che produce il bene.

Dio è purezza infinita. Il puro si riveste di Lui progressivamente: Qui sanctus est sanctificetur adhuc (Apoc. 22, 71). Questo deciso progresso verso il bene è richiesto al ministro dell’altare che, secondo l’Apostolo, non solo dev’essere segregatus a peccatoribus, ma inoltre, excelsior coelis factus (Hebr. 7, 26).

Ecco il magnifico stadio su cui noi diaconi abbiamo fatto qualche passo, invitati a non mai retrocedere, bensì a percorrerlo senza mai fermarci.

a) Mundamini qui fertis vasa Domini (Isai, 52, 11); ci era consentito di elevare al cielo il calice dell’oblazione dopo aver mescolato al vino le gocce d’acqua, santificata dalla benedizione del sacerdote.

Questa particolarità ci permette di scorgere un’armonia nuova fra il Diacono e la Vergine Santissima.

Il suo sangue verginale fornì gli elementi necessari alla formazione del Sangue di Gesù; una parte di Lei è diventata Gesù. Perciò quanto fu santa Maria!

Il vino del calice offerto dal Diacono, fornisce gli elementi del Sangue di Gesù chiamato dalle parole della Consacrazione: le gocce d’acqua depostevi simboleggiano l’unione della Chiesa con Cristo, ossia le anime ch’Egli unisce a Sé mediante il suo amore redentore e che integrano il suo essere morale, come parte di Lui stesso: Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (1 Cor. 6, 17). Ora, il ministro rappresenta il popolo; il Diacono rappresenta quindi coloro che devono divenire una cosa sola con Gesù. Come bisogna essere santi per divenire idonei a tanto ministero!

b) Dopo il ministero dell’imitare, il ministero del Battesimo.

Giovanni il Precursore lo compiva nel deserto, ma nello scorgere Gesù esclama: Quia vidi Spiritum descendentem quasi columbam de coelo, et mansit super eum… hic est qui baptizat in Spiritu Sancto (Ioan. 1, 32). S. Agostino commentando questo passo così si esprime: «Quegli solo battezza sul quale è discesa la colomba e di cui fu detto: E’ colui che battezza nello Spirito Santo. Lui battezza se Pietro battezza; Lui battezza quando Paolo battezza; Lui battezza se Giuda battezza. E tutti coloro che sono battezzati ricevono una grazia che è simile ed eguale in tutto, perché Egli solo battezza» 68).

Anche con questa seconda funzione il Diacono è identificato a Cristo, ed ha un argomento nuovo e profondo dell’obbligo che lo astringe ad essere santo. Altrimenti come obbedirebbe alla raccomandazione di S. Pietro, che enuncia una legge, la quale non ammette eccezioni? Si quis ministrai, tanquam ex tirtute, quam administrat Deus, ut in omnibus honorificetur Deus per Jesum Christum (1 Petr. 4, 11).

c) Infine il ministero della predicazione.

Primo araldo della parola di Dio fu Maria: mundo effudit Jesum! Col suo consenso a divenir Madre del Verbo Incarnato, Ella apporta la «Parola» gradita al Padre, perciò onnipotente sopra di Lui e. deliziosa per le anime, e vincitrice della loro ignoranza, come delle loro viltà: Verbo, mea spiritus et vita sunt (Ioan. 6, 64). La Vergine benedetta non avrebbe potuto essere canale di questa «Parola» se prima non le si fosse sottomessa docile, se non fosse stata santa. Solo quand’ebbe detto: Fiat mihi secundum verbum tuum (Luc. 1, 38), (l’Angelo non era che il tramite del Verbo di Dio), Verbum caro factum est!… (Ioan. 1, 14). Il Diacono, messaggero del Verbo, sull’esempio di Maria deve essere santo. Invero, bisogna ricordare che la predicazione fa vivere Cristo in noi. Ascoltiamo S. Ambrogio: «V’è una sola parola fra quanti insegnano; uno s’esprime con accenti che sembrano tolti al linguaggio degli Angeli; altri predicano la giustizia o la castità, o la prudenza o la pietà o altra virtù. Ma in questa moltitudine di parole risuona una sola parola: il Verbo di Dio, della pienezza del quale tutti riceviamo, il Verbo, nostro Maestro, nostro solo Maestro, alla scuola del quale tutti siamo condiscepoli; e nel quale tutti siamo ricondotti all’unità. Esteriormente un suono di parole colpisce l’orecchio; nell’interno l’unico Maestro è Cristo» 69).

Tosi perché diaconi, eravamo obbligati a una virtù trascendente a motivo delle funzioni che

tuttavia non potevamo esercitare in pieno. Che nella virtù cui siamo obbligati restiamo, ora che i poteri, limitati nel Diacono, liberi nel sacerdote!

In realtà, ah, quale divario fra ciò che dovremmo essere e ciò che siamo!

Nonostante le deficienze dolorose che si possono constatare, ricordiamo che, dal giorno del nostro Diaconato, siamo dello Spirito Santo. Sappiamo per fede ch’Egli è sanctus… et munificans; corroboriamo la nostra fede con la fiducia, e rinnoviamo a Dio la preghiera che il Vescovo gli porgeva per noi nell’atto di consacrarci:

Domine sancte, Pater fidei, spei et gratiae, et profectuum remunerator qui in coelestibus et terrenis angelorum ministeriis ubique disvositis per omnia elementa voluntatis tuae diffundis

effectum, hos quoque famulos tuos spirituali dignare illustrare affectu; ut tuis obsequiis expediti, sanctis altaribus tuis ministri puri accrescant. — II Signore ci ascolti ed esaudisca!

Spiritum sanctum ad robur…

Siamo forti, e progrediamo continuamente in virtù e santità.


AMDG et DVM

Sono realmente la mistica Rosa e non ho spine sul mio gambo poiché sono la Piena di Grazia. Ma nel mio cuore sono tutte le spine delle colpe umane che mi privano dei miei figli e che fanno offesa al mio Gesù.

Dai Quaderni di Maria Valtorta, 20 maggio 1944


 Dice Maria:


   «Sabato passato ti ho parlato delle mie allegrezze. Oggi ti parlerò dei miei dolori. Non te li illustrerò. Già te li ho illustrati1 tutti meno uno. E te lo illustrerò presto. Ma te li faccio comprendere nel loro significato più grande.

   Come ogni allegrezza non fu per me sola, perché questo sarebbe stato egoismo, così ogni dolore non mi fece male per me sola, ma perché, portandovi tutti in me, Madre di tutti i credenti, ho sentito in me tutte le ferite dei vostri spiriti. E se le allegrezze mi fiorirono in rose unicamente quando il fatto si compieva – e della rosa ebbero la corta durata, perché la mano dell'uomo e il fiato di Satana straziarono quella fioritura rendendola nulla per troppi e troppo presto – i dolori furono spine confitte nel cuore dal primo momento e mai più strappate.

   Ecco perché anche i miei illustratori non mi raffigurano con sette rose sboccianti dal cuore ma con sette spade, e se vi è chi me lo cinge di rose, me lo cinge in maniera che la fascia fiorita è, di suo, tortura, perché gli steli sono pieni di spine.
   Sono realmente la mistica Rosa e non ho spine sul mio gambo poiché sono la Piena di Grazia. Ma nel mio cuore sono tutte le spine delle colpe umane che mi privano dei miei figli e che fanno offesa al mio Gesù.


   Il primo dolore non fu unicamente per il mio amore di Madre di Dio. Sapevo la mia sorte. Lo sapevo perché non ignoravo il destino del Redentore. Le profezie parlavano del suo grande soffrire. Lo Spirito di Dio congiunto a me mi illuminava anche più che le profezie non dicessero. Perciò dal momento in cui avevo detto2: "Ecco l'ancella del Signore", avevo abbracciato il Dolore insieme all'Amore.
   Ma quanto dolore sentire e già vedere che gli uomini avrebbero preso il Bene, fattosi Carne, per farne a sé un Male. Nelle derisioni3 date a Simeone io vidi le innumeri derisioni, le sacrileghe negazioni di un numero incalcolabile di uomini. Gesù era venuto per portare la pace. E gli uomini in suo nome o contro il suo nome avrebbero avuto per Lui e fra loro guerra. Tutti gli scismi, tutte le eresie, tutti gli ateismi, ecco, mi erano là davanti… e come un tappeto di spade mi attendevano per lacerarmi il cuore.


   Il secondo dolore, che ti illustrerò a suo tempo, non fu unicamente per i disagi della fuga. Ma esso era intriso dell'amarezza di vedere che la povera potenza umana, tale sinché Dio lo permette, in luogo di fare di sé scudo alla Potenza vera e divenire "grande" facendosi "serva di Dio", per concupiscenza di potere si faceva assassina e deicida. Assassina degli innocenti. Era già grande peccato. Ma assassina di Dio era peccato senza paragone. E se l'Eterno non lo permise, ciò non impedì che la colpa fosse ugualmente attiva. Perché il desiderio di fare il male e il tentativo di compierlo sono di appena un decimo di grado inferiori alla colpa consumata.


 Eppure quanti "grandi" da allora alla fine del tempo avrebbero imitato Erode e calpestato Dio per esser "dèi". Ecco, io li vedevo questi sciacalli che uccidevano per distruggere Dio, e insieme al Figlio mi stringevo sul cuore tutti i perseguitati per la Fede e ne udivo i gemiti santi commisti alle bestemmie dei prepotenti e, non sapendo maledire, piangevo… La via da Betlem all'Egitto fu segnata dal mio pianto.


   Il terzo dolore. Ecco: io lo cercavo Gesù, smarrito non per mia colpa né per quella dello sposo mio. Il mio Bambino aveva voluto far ciò per dare il primo appello ai cuori e dir loro: "L'ora di Dio è giunta". Ma nei milioni di esseri che sarebbero stati, quanti non avrebbero smarrito Dio! Lo si smarrisce per colpa propria o per volere suo. Quando la Grazia muore, ecco che si smarrisce Dio. Quando Dio vuol portare ad una più grande Grazia, ecco che Egli si nasconde. Nell'uno e nell'altro caso è la desolazione.


   Il peccatore morto alla Grazia non è felice. Pare lo sia. Ma non lo è. E se anche ha dei momenti di ebbrezza che non gli fanno comprendere il suo stato, non mancano mai le ore in cui un richiamo della vita gli fa sentire la sua condizione di separato da Dio. E allora è la desolazione. Quella tortura che Dio fa gustare ai suoi prediletti perché siano come il suo Verbo: salvatori.


   Cosa sia tu lo sai4. L'abbandono di Dio! L'orrore più grande della morte. E se è orrore per quelli in cui è unicamente "prova", medita che sia per quelli che è vera realtà. Il mio terzo dolore fu per vedere come tanti avrebbero dovuto abbeverarsi di questo calice per perpetuare l'opera redentrice e, ancor più aspro, per vedere i moltissimi che sarebbero periti nella disperazione.


   Oh! Maria! Se gli uomini sapessero cercare sempre Gesù! La pianta della disperazione cesserebbe di gemere il suo tossico perché morirebbe per sempre.


   Il quarto dolore. Ero Madre, e vedere la mia Creatura sotto la croce era naturale dolore. Ma più grande, soprannaturale dolore, era vedere l'odio, molto più torturante del legno, opprimere il Figlio mio.


   Quanto odio! Un mare senza confini! Da quella turba vociferante bestemmie e scherni sarebbero venuti, per spirituale figliazione, tutti gli odiatori del Martire santo. Avessi potuto levare al mio Gesù la croce e mettermela sulle mie spalle di Madre, avrei sofferto meno che non vedere con gli occhi dello spirito tutti i futuri crocifissori del loro Salvatore. Quelli che tentano abolirlo per non incontrare il suo trono di Giudice, e non sanno che solo per essi Egli sarà Giudice e per gli altri Amico.


 La quinta spada fu per la conoscenza che quel Sangue, colante come tanti rivoli di salute dalle membra lacerate, sarebbe sempre stato bestemmiato. Eppure parlava, quel Sangue, e parla. Grida con voce d'amore e chiama. E gli uomini non l'hanno voluto e non lo vogliono intendere. Si affollavano intorno al Messia per chiedere salute alle loro malattie e lo supplicavano di dir loro una parola. E nel momento che Egli non usava tocco di dita, né polvere e sputo, ma la sua Vita e il suo Sangue dava per guarirli della vera, unica, incancellabile malattia: "la colpa", essi lo sfuggivano più d'un lebbroso.


   E lo sfuggono. "Ricada5 su noi quel Sangue". Oh! che ricadrà l'ultimo Giorno per chiedere loro ragione del loro odio e, posto che non lo vollero amare, maledirà. Ed io, Madre, non devo soffrire vedendo che tanti miei figli hanno meritato d'esser maledetti e recisi per sempre dalla spirituale famiglia del Cielo in cui io sono la Madre e il mio Gesù il Primogenito e il Fratello primo?


   Quando ricevetti la spoglia esanime del mio Dio e Figlio e potei una per una numerare le sue ferite, sentii lacerarsi il seno mio. Oh! il dolore del generare io non lo conobbi. Ma questo l'ho conosciuto e non c'è doglia di genitrice che possa stare a pari di questa. Tutto il dolore di credente, tutto il dolore di madre si sono fusi in un unico dolore. E su questa, base alla mia croce come il Calvario lo fu alla croce del mio Signore, ecco il Dolore.
   

  Ho visto non Gesù morto nei vostri cuori. Egli non muore. Ma i vostri cuori morti a Lui. Ho visto in quanti cuori Egli sarebbe stato posato come su fredda spoglia. Per quanti inutilmente avrebbe comandato: "Sorgi!". L'uomo che non vuole vivere. Che non vuole sorgere. Il Sacramento della Vita ricusato o accolto sacrilegamente anche quando i momenti della vostra esistenza sono contati. I Giuda innumerevoli che non sanno con una onesta conversione rendersi degni di ricevere il loro Dio ferito e che il loro pentimento guarirebbe.
  

  Guarda, Maria. È preferibile tutto all'essere i novelli Iscariota. Eppure è il peccato che si fa con più indifferenza. E non dai soli grandi peccatori. Ma anche da molti che paiono e si credono fedeli al Figlio mio. Egli li chiama6: "I farisei di ora". Li puoi distinguere dalle loro opere. Il contatto con il Figlio mio non li fa migliori. Ma anzi la loro vita è la negazione della Carità e perciò di Dio. Sono dei morti, se non alla Grazia, ai frutti della stessa. Non hanno vitalità. Gesù non può agire in loro perché da parte loro non vi è rispondenza.
   

Sono coloro che precedono di una sola misura quelli che di cristiano hanno solo il nome. Templi sconsacrati questi e profanati dalla putredine di tutti i vizi, nei quali il nome, solo il nome di Cristo sta come vi fu nel sepolcro il corpo del mio Gesù. Senza vita essi pure. E se nel Getsemani la conoscenza di tutti coloro per cui il Sacrificio sarebbe stato inutile fu il martirio spirituale del Figlio mio, nel baciare nell'ultimo addio Gesù, questa visione fu il mio strazio.
   

Né cessa. No. Le spade sono sempre nel mio cuore perché l'uomo continua a dare ad esso i suoi sette dolori. Finché il numero dei salvati non sarà compito e completata la gloria di Dio nei suoi beati, io soffrirò nel mio dolore duplice di Madre che vede offeso il Primogenito e di madre che vede troppi figli preferire l'esilio eterno alla dimora del Padre.
   

Quando preghi me Addolorata, pensa a queste mie parole. E nei tuoi dolori abolisci ogni egoismo per imitarmi. Io i miei dolori di Madre di Gesù li ho amplificati per tutti i nati. Sono l'Eva nuova. Tu i tuoi dolori usali per tutti i fratelli. Portali a Dio. A me.»

        

te li ho illustrati, soprattutto nell'opera maggiore. Le allegrezze sono state trattate nel "dettato" del 13 maggio.

            
avevo detto, come in Luca 1, 38.



3 derisioni riferite non nel passo di Luca 2, 25-35 ma nel corrispondente capitolo 32 dell'opera "L'Evangelo 

come mi è stato rivelato".            

  

tu lo sai, per averlo provato: dal 9 aprile al 17 maggio

            
5 "Ricada…", come in Matteo 27, 25

.
            
 6 li chiama, come nel "dettato" del 13 maggio.
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Madre di Dio (in greco Θεοτ?κος; in latino Deipara o Dei genetrix) è un titolo che è stato dato a Maria nel 431 dal Concilio di Efeso attraverso la proclamazione di un dogma ed è una conseguenza della dottrina cristologica affermata dal concilio. Secondo il concilio Gesù Cristo, pur essendo sia Dio che uomo – come già diceva in precedenza il concilio di Nicea (325), è un’unica persona. Le due nature, divina e umana, sono inseparabili e perciò Maria può essere legittimamente chiamata Madre di Dio. La solennità di Maria S.ma Madre di Dio è la prima festa mariana comparsa nella Chiesa occidentale. 

   Il Servo di Dio Paolo VI, volle, a partire dal 1967, che il 1° gennaio diventasse anche la Giornata Mondiale della Pace ; in questa occasione il Sommo Pontefice invia ai Capi delle Nazioni un messaggio che invita alla riflessione sul tema della Pace.

Secondo giorno: PREGHIERA ALLA MADRE DI DIO (di Santa Faustina Kowalska)

   O Madre di Dio, la tua anima è stata immersa in un mare di amarezze: guarda alla tua bambina e insegnale a soffrire e ad amare nella sofferenza.
   Fortifica la mia anima, in modo che il dolore non la spezzi.
   O Madre della grazia, insegnami a vivere con Dio.

   Sette Ave, 1 Gloria, 1 Salve Regina, 1 Magnificat



Ave Maria, Madre di Gesù-Dio, 

noi ci affidiamo a Te!