lunedì 2 novembre 2020

IL "CREDO" di Sua Santità PAOLO VI


 

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SOLENNE CONCELEBRAZIONE A CONCLUSIONE DELL'«ANNO DELLA FEDE»
NEL CENTENARIO DEL MARTIRIO DEGLI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIA DI SUA SANTITÀ PAOLO VI*

Piazza San Pietro - Domenica, 30 giugno 1968

 

Venerati Fratelli e diletti Figli.

Con questa solenne Liturgia Noi concludiamo la celebrazione del XIX centenario del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e diamo così all’«Anno della Fede» il suo coronamento: l’avevamo dedicato alla commemorazione dei Santi Apostoli per attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede (Cfr. 1 Tim. 6, 20) che essi ci hanno trasmesso, e per rafforzare il nostro desiderio di farne sostanza di vita nella situazione storica, in cui si trova la Chiesa pellegrina nel mondo.

Noi sentiamo pertanto il dovere di ringraziare pubblicamente tutti coloro che hanno risposto al Nostro invito, conferendo all’ «Anno della Fede» una splendida pienezza, con l’approfondimento della loro personale adesione alla Parola di Dio, con la rinnovazione della professione di fede nelle varie comunità, e con la testimonianza di una vita veramente cristiana. Ai Nostri Fratelli nell’Episcopato, in modo particolare, e a tutti i fedeli della santa Chiesa cattolica, Noi esprimiamo la Nostra riconoscenza e impartiamo la Nostra Benedizione.

Al tempo stesso, Ci sembra che a Noi incomba il dovere di adempiere il mandato, affidato da Cristo a Pietro, di cui siamo il successore, sebbene l’ultimo per merito, di confermare cioè nella fede i nostri fratelli (Cfr. Luc. 22, 32). Consapevoli, senza dubbio, della Nostra umana debolezza, ma pure con tutta la forza che un tale mandato imprime nel Nostro spirito, Noi Ci accingiamo pertanto a fare una professione di fede, a pronunciare un Credo, che, senza essere una definizione dogmatica propriamente detta, e pur con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo, riprende sostanzialmente il Credo di Nicea, il Credo dell’immortale Tradizione della santa Chiesa di Dio.

Nel far questo, Noi siamo coscienti dell’inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. Senza dubbio la Chiesa ha costantemente il dovere di proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire - come purtroppo oggi spesso avviene - un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli.

A tale proposito occorre ricordare che al di là del dato osservabile, scientificamente verificato, l’intelligenza dataci da Dio raggiunge la realtà (ciò che è), e non soltanto l’espressione soggettiva delle strutture e dell’evoluzione della coscienza; e che, d’altra parte, il compito dell’interpretazione - dell’ermeneutica - è di cercare di comprendere e di enucleare, nel rispetto della parola pronunciata, il significato di cui un testo è espressione, e non di ricreare in qualche modo questo stesso significato secondo l’estro di ipotesi arbitrarie.

Ma, soprattutto, Noi mettiamo la Nostra incrollabile fiducia nello Spirito Santo, anima della Chiesa, e nella fede teologale su cui si fonda la vita del Corpo mistico. Noi sappiamo che le anime attendono la parola del Vicario di Cristo, e Noi veniamo incontro a questa attesa con le istruzioni che normalmente amiamo dare. Ma oggi Ci si offre l’occasione di pronunciare una parola più solenne.

In questo giorno, scelto per la conclusione dell’«Anno della Fede», in questa Festa dei beati Apostoli Pietro e Paolo, Noi abbiamo voluto offrire al Dio vivente l’omaggio di una professione di fede. E come una volta a Cesarea di Filippo l’Apostolo Pietro prese la parola a nome dei Dodici per confessare veramente, al di là delle umane opinioni, Cristo Figlio di Dio, vivente, così oggi il suo umile Successore, Pastore della Chiesa universale, eleva la sua voce per rendere, in nome di tutto il popolo di Dio, una ferma testimonianza alla Verità divina, affidata alla Chiesa perché essa ne dia l’annunzio a tutte le genti.

Noi abbiamo voluto che la Nostra professione di fede fosse sufficientemente completa ed esplicita, per rispondere in misura appropriata al bisogno di luce, sentito da così gran numero di anime fedeli come da tutti coloro che nel mondo, a qualunque famiglia spirituale appartengano, sono in cerca della Verità.

A gloria di Dio Beatissimo e di Nostro Signore Gesù Cristo, fiduciosi nell’aiuto della Beata Vergine Maria e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per il bene e l’edificazione della Chiesa, a nome di tutti i Pastori e di tutti i fedeli, Noi ora pronunciamo questa professione di fede, in piena comunione spirituale con tutti voi, Fratelli e Figli carissimi.

 

PROFESSIONE DI FEDE

Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli (Cfr. Dz.-Sch. 3002), e Creatore in ciascun uomo dell’anima spirituale e immortale.

Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè (Cfr. Ex. 3, 14); ed Egli è Amore, come ce lo insegna l’Apostolo Giovanni (Cfr. 1 Io. 4, 8): cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» (Cfr. 1 Tim. 6, 16) è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l’unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l’umana misura (Cfr. Dz-Sch. 804). Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l’Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.

Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità» (Dz-Sch. 75).

Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (Dz-Sch. 150); e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità (Cfr. Dz.-Sch. 76), ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l’unità della persona (Cfr. Ibid.).

Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.

E il suo Regno non avrà fine.

Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione al Padre; Egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell’intimo dell’anima, rende l’uomo capace di rispondere all’invito di Gesù: «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Matth. 5, 48).

Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo (Cfr. Dz.-Sch. 251-252) e che, a motivo di questa singolare elezione, Ella, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente (Cfr. Lumen gentium, 53), preservata da ogni macchia del peccato originale (Cfr. Dz.-Sch. 2803) e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature (Cfr. Lumen gentium, 53).

Associata ai Misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile (Cfr. Lumen gentium, 53, 58, 61), la Vergine Santissima, l’Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste (Cfr. Dz.-Sch. 3903) e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, Nuova Eva, Madre della Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 53, 56, 61, 63; cfr. Pauli VI, Alloc. in conclusione III Sessionis Concilii Vat. IIA.A.S. 56, 1964, p. 1016; Exhort. Apost. Signum Magnum, Introd.), continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti (Cfr. Lumen gentium, 62; Pauli VI, Exhort. Apost. Signum Magnum, p. 1, n. 1).

Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, «non per imitazione, ma per propagazione», e che esso pertanto è «proprio a ciascuno» (Dz-Sch. 1513).

Noi crediamo che nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che - secondo la parola dell’Apostolo - «là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5, 20).

Noi crediamo in un sol Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano «dall’acqua e dallo Spirito Santo» alla vita divina in Gesù Cristo (Cfr. Dz-Sch. 1514).

Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l’opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria (Cfr. Lumen gentium, 8 e 5). Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (Cfr. Lumen gentium, 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 5, 6; Lumen gentium, 7, 12, 50). Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l’irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.

Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell’Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale (Cfr. Dz-Sch. 3011). Noi crediamo nell’infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli (Cfr. Dz.-Sch. 3074), e di cui è dotato altresì il Collegio dei vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo (Cfr. Lumen gentium, 25).

Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza (Cfr. Lumen gentium, 23; cfr. Orientalium Ecclesiarum, 2, 3, 5, 6).

Riconoscendo poi, al di fuori dell’organismo della Chiesa di Cristo, l’esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all’unità cattolica (Cfr. Lumen gentium, 8), e credendo alla azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l’amore per tale unità (Cfr. Lumen gentium, 15), Noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l’unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.

Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 14). Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch’essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza (Cfr. Lumen gentium, 16).

Noi crediamo che la Messa, celebrata dal Sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell’Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del suo Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (Cfr. Dz.-Sch. 1651).

Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino (Cfr. Dz-Sch. 1642, 1651-1654; Pauli VI, Litt. Enc. Mysterium Fidei), proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo Mistico (Cfr. S. Th. III, 73, 3).

L’unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel Cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il Sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il Cielo, si è reso presente dinanzi a noi.

Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire - ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi - al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno.

Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.

Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com’è (Cfr. 1 Io. 3, 2; Dz.-Sch. 1000) e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine (Cfr. Lumen gentium, 49).

Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo- la parola di Gesù: Chiedete e riceverete (Cfr. Luc. 10, 9-10; Io. 16, 24). E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.

Sia benedetto Dio Santo, Santo, Santo. Amen.


*Insegnamenti di Paolo VI, vol. VI, 1968, pp. 300-310.

domenica 1 novembre 2020

KAROL... Y ... CARLOS: DUE CARISMATICI

 

Karol Wojtyla pellegrino da Padre Pio



"EL INFIERNO REAL (8 DE 8) VISTO POR OLIVA CON JESUS - Padre CARLOS CANCELADO, VOCES DE DEMONIOS"




AMDG et DVM



Ognissanti 2020 - E COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI

Ognissanti 2020- La Festa di tutti i Santi al tempo del Coronavirus è una festività cristiana che celebra si celebra il 1° Novembre e dedicata ai Santi. Ognissanti anticipa la Festa dei Morti. La festa di Ognissanti si celebrava fin dal 4° secolo e coincideva con il Capodanno celtico. Papa Bonifacio IV la spostò al 13 maggio quando nel 610 dedicò il Pantheon e Maria e a tutti i martiri. Papa Gregorio IV nell’835 la riportò al 1° Novembre. Successivamente papa Sisto IV nel 1475 ne estese l’obbligo a tutta la cristianità rendendola una delle feste più importanti.

Ognissanti e Festa dei Morti: le tradizioni più note in Italia

Per Ognissanti e per la Festa dei Morti sono davvero numerose le tradizioni in giro per l’Italia. In Valle d’Aosta nella tra l’1 e il 2 novembre si veglia davanti ai fuoco, lasciando sulla tavola le pietanze per i morti, credendo che questi ultimi tornino a visitare i vivi.
In Piemonte, in Val D’Ossola, le case sono lasciate vuote dopo cena per far sì che i defunti possano visitarle: solo al suono della campana, simbolo di riconciliazione tra vivi e morti, è possibile rientrare nelle proprie abitazioni. In Lombardia, invece, nella notte tra 1 e 2 novembre viene lasciato un vaso d’acqua nella cucina di casa affinché i defunti, venuti in visita, possano dissetarsi, mentre in Friuli era comune lasciare un lume acceso, un secchio d’acqua e un pò di pane. Un’antica usanza dell’Emilia Romagna era la carità di murt, ossia l’abitudine dei poveri di recarsi di casa in casa per chiedere cibo per i defunti. In Toscana, invece, in provincia di Massa Carrara, ai bambini viene regalata la sfilza, una collana fatta di castagne lesse e noci da indossare alla festa del Bèn d’i morti. In Calabria, a Serra San Bruno, vi è l’usanza del coccalu di muorto. I ragazzini intagliano e modellano le zucche, riproducendo su di esse un teschio, girando per le vie del paese con in mano le loro macabre creazioni, dicendo: “Mi lu pagati lu coccalu?” (Me lo pagate il teschio?). In Sicilia il 2 novembre è molto sentito: si preparava la cesta con tanta frutta martorana, lu scacciu, i tetù, le ossa ri muorti, con doni per i più piccoli tra cui giocattoli, scarpe e capi d’abbigliamento. A Palermo e a Catania viene allestita una Grande Fiera dei Morti per acquistare giocattoli e dolci per i piccoli.
In Basilicata, a Matera, si crede che il primo novembre i morti scendano in città dalle colline del cimitero, stringendo un cero acceso nella mano destra; in Puglia la sera dell’1 novembre si imbandisce la tavola con pane, acqua e vino affinché i defunti, che si fermeranno in visita sino a Natale o all’Epifania, possano ristorarsi. Nel dopoguerra nei quartieri popolari della Campania si usava, invece, andare in giro con una cassetta di cartone a forma di bara: “U tavutiello”, gridando: “Fammi del bene per i morti: in questo grembiule che ci porti? Uva passa e fichi secchi porti e fammi del bene per i morti”. In Sardegna le tradizioni vengono chiamate in modo differente in base alle zone: panixeddas, id animeddas, su mortu su mortu, su prugradoriu. I bambini, girando di casa in casa, chiedono una piccola offerta per il bene delle anime: oggi ricevono caramelle e cioccolata mentre un tempo, principalmente, pane casereccio, frutta secca e frutta di stagione.

Ognissanti e Festa dei Morti: i dolci tipici della tradizione italiana

Davvero numerosi i dolci tipici preparati per Ognissanti e Festa dei Morti. Le fave dei morti, ad esempio, sono tipici delle cucine romane, fatti con farina di mandorle tritate, albume d’uovo, pinoli, zucchero e buccia di limone grattugiata, in origine preparati con le fave.
Molto note anche le ossa dei morti, dalla consistenza croccante della pasta. I

Ognissanti e Festa dei Morti: i festeggiamenti più significativi nel Mondo

Tra i festeggiamenti più significativi in giro per il Mondo, quelli che si tengono in Messico, dove le celebrazioni iniziano il 18 ottobre, protraendosi sino al 1° novembre. Sono i giorni festosi dello Xantolo, in cui i messicani attendono con gioia di poter accogliere nuovamente le anime dei defunti che tornano, per l’occasione, a far visita a parenti e amici. I messicani preparano l’altare dei morti con immagini del defunto, una croce, un arco e dell’incenso bruciato. Le città sono addobbate con fiori, tra canti, banchetti e racconti interessanti sulla vita dei defunti. In Francia il 1 novembre, Fete de la Toussaint, è il giorno in cui si festeggiano tutti i Santi riconosciuti dalla Chiesa Romana e non, mentre il giorno seguente, Le Jour des Morts, è dedicato alle anime dei defunti. In Svezia la festa di Ognissanti è conosciuta come Alla Helgons Dag. L’isola delle Mauritius, forte del suo multiculturalismo, festeggia All Saints’s Day: le tombe vengono pulite, abbellite con corone floreali, viene portato sulla lapide il piatto preferito del defunto, consumato in compagnia dei parenti, accompagnato da un sorso di rum. In Spagna è Cadice il simbolo della festa di Ognissanti. La città andalusa si trasforma in un luogo magico, con una serie interminabile di eventi. Nelle Filippine si festeggia Ognissanti con un ricco pranzo al cimitero in compagnia di amici e parenti.

Ognissanti 2020– A corredo dell’articolo varie immagini (gallery in alto), frasi video per fare gli auguri di “Buona Festa di tutti i Santi” al tempo del Coronavirus.

Ecco le FRASI per gli auguri su Facebook e WhatsApp:

  • Essere un uomo grande e un santo per se stesso, ecco l’unica cosa importante. (Charles Baudelaire)
  • Tutti gli uomini sono santi, se prendono veramente sul serio i propri pensieri e le proprie azioni. Chi reputa che una cosa sia giusta deve anche farla. (Hermann Hesse)
  • Dove è odio, fa’ che io porti l’amore. Dove è offesa, che io porti il perdono. Dove è discordia, che io porti l’unione. Dove è dubbio, che io porti la fede. Dove è errore, che io porti la verità. Dove è disperazione, che io porti la speranza. Dove è tristezza, che io porti la gioia. Dove sono le tenebre, che io porti la luce. (San Francesco)
  • Vuoi essere un grande? Comincia con l’essere piccolo. Vuoi erigere un edificio che arrivi fino al cielo? Costruisci prima le fondamenta dell’umiltà. (Sant’Agostino)
  • Iniziate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile, e alla fine vi ritroverete a fare ciò che credevate impossibile. (S. Francesco D’Assisi)
  • È meglio illuminare gli altri nel vostro cammino anziché brillare solo per se stessi. (S. Tommaso d’Aquino)
  • Il peccato inizia con l’amare ciò che Dio odia, e odiare ciò che Dio ama. (Santa Caterina da Siena)
  • Non rimandate a domani il bene che potete esercitare oggi, perché domani potreste non avere più il tempo (Don Bosco)
  • I Santi sono degli Angeli nel cielo che indicano la via di un Dio che si fa Uomo per noi. (Stephen Littleword)
  • I santi cercarono sempre di stare nascosti e di non apparire santi, e non hanno potuto perché quanto più si nascondevano e quanto più occultavano l’opere loro, tanto più Iddio le manifestava agli altri. (Girolamo Savonarola)
  • Un nome, una garanzia! Auguro un buon onomastico ad una persona davvero speciale!
  • Sarebbe impossibile non ricordarsi di te in questo giorno! Felice onomastico!
  • Hai il più splendido dei nomi, ed oggi sono felice di poter fare gli auguri al più fantastico tra i festeggiati!
  • Avevo pensato a una frase speciale ma poi ho capito che sono le frasi semplici ad essere le più speciali, se dette col cuore. Buon onomastico!
  • Mille pensieri affettuosi e auguri di cuore a te che sei una persona tanto speciale e unica!
  • Buon onomastico, a te che hai il più dolce dei nomi, e festeggi il più importante degli onomastici!
  • Il tuo nome è come tanti ma tu sei una persona come poche. Buon onomastico!
  • Gli antichi credevano che nel nome fosse racchiuso il nostro destino, spero che il tuo futuro sia meraviglioso. Auguri di buon onomastico!
  • Un bellissimo nome, meravigliosamente portato da una persona stupenda come te. Auguri di buon onomastico!
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QUADERNI DEL 1943 CAPITOLO 163


1 novembre 1943

   1Dice il Signore Gesù:
   «Io sono che ho dato ai miei santi la Sapienza di cui sono possessore assoluto. Sono Io che parlo ai diletti perché spargano la mia Sapienza fra gli uomini. Sono Io che benedico con gratitudine i miei eletti che hanno consumato se stessi per essere portatori della mia Sapienza. Sono Io che li premio perché l’amore alla Sapienza è amore a Dio, non potendovi essere conoscenza della Sapienza e ribellione a Dio. Chi ama la Sapienza ama la sua fonte: ama Dio. Chi ama Dio conquista il premio.
   Voi dunque, che sempre aspirate alla gloria, aspirate a questa gloria vera ed eterna. Lasciate cadere scettri e celebrità della terra e tendete a conquistare la fama e la corona immortale della santità beata. Sforzatevi di meritare la Sapienza e fino dalla terra tutto possederete poiché possederete Iddio, che parlerà in voi, vi guiderà, vi consolerà, vi eleverà, vi farà amici miei e profeti dell’Altissimo. Voi allora capirete, parlerete, vedrete non con i vostri organi le vostre capacità, ma con la vista e la mente di Colui che è in voi come il Santo dei Santi nel suo tabernacolo vivente.
   Sarete, o miei fratelli cari, come era mia Madre quando nel suo seno mi portava e Io le comunicavo i miei movimenti d’amore. Maria, velo preziosissimo e casto al Vivente, al Sapiente, al Santo, già infusa di Sapienza per la sua purità superangelica, fu una con la Sapienza quando l’Amore la fece Madre della Sapienza incarnata. Né voi siete da meno quando con Me-Eucarestia nel cuore, e col cuore volente vivere di Dio - ecco la condizione essenziale - divenite uni con Me e in Me sapete rimanere anche dopo la consumazione delle Specie, col vostro amore adorante.
   Siatemi delle "Marie". Portate il Cristo in voi. Il mondo ha bisogno, fra tanta scienza inutile, di avere chi comunica la Sapienza vera. E chi mi ha in sé, anzi chi annulla sé in Me, anche se non dice parole, comunica con le sue opere la Sapienza, perché le sue opere testimoniano Dio.
   Io poi, per pietà dei ciechi e dei sordi, degli analfabeti dello spirito, do voce e penna nelle mani e sulle labbra di chi scelgo, perché lo Spirito di Dio sia nuovamente udito e si salvino gli sviati e ritrovino la giusta direzione coloro che sono erranti, si rialzino i caduti e confidino in Chi ha nome: Misericordia.»

   

   Lo stesso 1° novembre alle 12,30, dopo una anti-professione di fede di m. c.2 che mi fa tanto soffrire.

   Dice Gesù:
  «A cosa paragoneremo certi poveri disgraziati? A degli infelici maniaci che, mentre c’è fuori il bel sole e presso a loro degli affetti e dei cibi, ricusano di uscire di nutrirsi, di parlare, e si rimbucano come bestie selvagge nel loro covo all’oscuro, lasciandosi morire d’inedia.
   Sono abissi di errore, di orrore, di odio talora, che vanno colmati con la pazienza, la misericordia, l’amore e il dolore. Pazienza sopportando le loro idee, misericordia avvicinandoli ancora nonostante la ripugnanza che ci dà la lebbra del loro spirito, amore perché l’amore è il vincitore e la medicina più potente di tutte, e dolore perché per dare la Vita e la Luce bisogna morire come fa la lampada che fiammeggia col suo consumarsi e il grano che dà cibo se muore.
   Date queste cose, basta. Le parole sono inutili perché quelle anime sono rintronate da Satana che impedisce che sentano. Occorre prima vincere Satana, e questo si vince colla preghiera e il dolore, non con le discussioni in cui esso è maestro per persuadere alla sua dottrina.
  Che tu soffra, è naturale. Ognuna di quelle parole, prima di ferire le mie Carni, sono passate attraverso le tue, perché tu ti sei messa fra il mondo e il Maestro per difendere il tuo Re. È l’ufficio delle vittime. Ma io su ogni ferita ci metto un bacio e per ognuna ti dico: grazie, Maria, per il tuo amore. Che tu ne sia benedetta.

   Sono le l6 e godo di un raro momento di solitudine.
   Alla fatica del sopportare le voci intorno a me, che vorrei vivere udendo solo la "Voce" che lei3 sa e che io amo con tutta me stessa, o ricordando quella "Voce", si è oggi unita la doppia fatica di sentire delle... (la carità di cui mi vengono date così alte istruzioni mi vieta di scrivere la parola che mi viene spontanea) delle, dirò così: parole ignoranti. L’ignoranza spero sia compatita dal buon Dio. E spero che l’ignorante che l’ha così ampiamente professata sia perdonato appunto per la sua ignoranza.
   Certo è come se fossi fustigata, tanto ne ho sofferto. Così palesemente che egli ha capito e ha cercato di rimediare portandomi un dolcetto. Come mi era amaro quel dolce intriso dell’offesa al mio Dio Eucaristico! Non potendo, anzi: non volendo parlare, perché sarei stata troppo severa, ho taciuto, ma io credo che parlò il mio viso.
   Nel pomeriggio, poi, a Paola4 ho detto che ho bisogno di silenzio, perché le troppe parole stancano il mio fisico sfinito. E lei l’ha detto agli altri. Ma non è il fisico che si turba e soffre. È lo spirito che è disturbato. Vorrei poter vivere isolata almeno 18 ore su 24. O per lo meno rimanere con chi mi capisce e conosce e rispetta la terribile, santa, soave esigenza di Dio su me.
   Il mio Gesù mi ha consolata, come lei vede, con le parole dette alle 12,30. Ma l’amarezza di certe cose udite e di certe constatazioni fatte in merito allo stato di certe anime, permane.
   Ora la sosta di pace cessa e io cesso a mia volta di scrivere.
  Meno male che Paola mi dedica una fotografia con queste parole: "Ti voglio bene e voglio dirti grazie perché vivendo accanto a te sento di essere più vicina a Dio". Meno male! Se lui non lo porterò dove voglio, porto lei. E dato che è giovane, e sarà forse madre di famiglia5, è bene che si infonda di Dio.

 

   1 La scrittrice aggiunge a matita: Cap. 6, dal v. 11 in poi  

 2 Su una copia dattiloscritta, la scrittrice precisa: mio cugino G. B. (Giuseppe Belfanti, cugino della mamma della scrittrice).

   3 Padre Migliorini.

   4 Figlia di Giuseppe Belfanti.

   5 Paola Belfanti sarà sposa nel l945 con Giuseppe Cavagnera e avrà una figlia. Ora è vedova e nonna, e risiede a Milano.







 


Commemorazione di tutti i fedeli defunti

2 novembre

La pietas verso i morti risale agli albori dell’umanità. In epoca cristiana, fin dall’epoca delle catacombe l’arte funeraria nutriva la speranza dei fedeli. A Roma, con toccante semplicità, i cristiani erano soliti rappresentare sulla parete del loculo in cui era deposto un loro congiunto la figura di Lazzaro. Quasi a significare: Come Gesù ha pianto per l’amico Lazzaro e lo ha fatto ritornare in vita, così farà anche per questo suo discepolo! La commemorazione liturgica di tutti i fedeli defunti, invece, prende forma nel IX secolo in ambiente monastico. La speranza cristiana trova fondamento nella Bibbia, nella invincibile bontà e misericordia di Dio. «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!», esclama Giobbe nel mezzo della sua tormentata vicenda. Non è dunque la dissoluzione nella polvere il destino finale dell’uomo, bensì, attraversata la tenebra della morte, la visione di Dio. Il tema è ripreso con potenza espressiva dall’apostolo Paolo che colloca la morte-resurrezione di Gesù in una successione non disgiungibile. I discepoli sono chiamati alla medesima esperienza, anzi tutta la loro esistenza reca le stigmate del mistero pasquale, è guidata dallo Spirito del Risorto. Per questo i fedeli pregano per i loro cari defunti e confidano nella loro intercessione. Nutrono infine la speranza di raggiungerli in cielo per unirsi gli eletti nella lode della gloria di Dio.

Martirologio Romano: Commemorazione di tutti i fedeli defunti, nella quale la santa Madre Chiesa, già sollecita nel celebrare con le dovute lodi tutti i suoi figli che si allietano in cielo, si dà cura di intercedere presso Dio per le anime di tutti coloro che ci hanno preceduti nel segno della fede e si sono addormentati nella speranza della resurrezione e per tutti coloro di cui, dall’inizio del mondo, solo Dio ha conosciuto la fede, perché purificati da ogni macchia di peccato, entrati nella comunione della vita celeste, godano della visione della beatitudine eterna.



L’origine storica della festa  
La commemorazione liturgica dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario Fortunato di Metz (770-850c), vescovo di Treveri (809), poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei Santi che erano già in cielo.  La festività, però, venne celebrata per la prima volta nel cristianesimo nel 998, per disposizione di Odilone di Mercoeur, abate di Cluny, che ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 novembre come giorno solenne per la “Commemorazione dei defunti”.


Dal biografo del santo Odilone, san Pier Damiani, si conosce il decreto circa la data del 2 novembre come giorno per la Commemorazione di tutti i defunti dopo la festa di Tutti i Santi, del 1 novembre: “Venerabilis Pater Odilo per omnia Monasteria sua constituit generale decretum, ut sicut prima die Novembris iusta universalis Ecclesiae regulam omnium Sanctorum solemnis agitur, ita sequenti die in Psalmis, eleemosynis e paecipue Missarum solemnis, omnium in Christo quiescentium memoria celebratur” (in Jean Croiset, Esercizi di pietà per tutti i giorni dell’anno, Venezia 1773, 35-36). Il venerabile Padre Odilone emanò, nel 998, per tutti i suoi monasteri cluniacensi un decreto generale, affinché, come il primo di novembre secondo la chiesa universale si celebra la festa di tutti i Santi, così nel giorno seguente si celebri la solenne Messa per tutti i defunti in Cristo con salmi elemosine e canti.  


A partire, poi, dal XIII secolo, con il nome di “Anniversarium Omnium Animarum”, la festa era ormai riconosciuta da tutta la Chiesa Occidentale, apparendo per la prima volta in veste ufficiale nell’Ordo Romanus XIV, composto dal cardinale diacono Napoleone Orsini (1260-1342) e dal cardinale Giacomo Caetani Stefaneschi (1270-1343), poco prima del trasferimento della sede pontificia in Avignone (1309-1377), dove venne ampliato nel 1311, per ordine del papa Clemente V (1305-1314).

Antropologia cristiana
Nel grande mistero dell’esistenza terrena, solo l’uomo gode della libertà ed è responsabile delle sue azioni, perché solo lui è ritenuto artefice del suo destino, che si proietta in una vita trascendente. Ora, non tutte le concezioni antropologiche, che la storia registra, riconoscono l’esistenza di un Dio che, oltre a essere Creatore, sia, nello stesso tempo, anche Giudice. Di conseguenza, l’esistenza di vita ultraterrena, dopo la morte, non da tutte le antropologie viene considerata, perché concepiscono la vita perfetta ed esauriente in sé stessa, cioè “dalla culla alla tomba”, oppure ammettono la sua ciclicità con una nuova reincarnazione.
Nell’antropologia cristiana, invece, si afferma l’esistenza di un Dio Buono, che ha creato tutto ciò che esiste e lo mantiene in essere con la sua Provvidenza. All’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Cristo, affida il compito non solo di governare il mondo creato per la sua conservazione, e gli concede anche il diritto di usarlo per il suo bene personale e per il bene di tutti gli uomini. E di questo delicato compito “amministrativo” è responsabile e dovrà rendere conto al suo Creatore, che, dopo la morte, sarà anche il suo giusto Giudice. Così, al termine della vita terrena, ogni creatura razionale libera e responsabile riceverà dal suo Signore una valutazione del suo operato per ratificare la dovuta ricompensa circa le opere compiute sia in bene che in male, per entrare o nella beatitudine eterna o nell’eterno tormento.


Di questo speciale rendiconto, la teologia cristiana ne distingue due: uno particolare e uno universale. Il primo viene emesso, dopo la morte, per ciascun individuo; l’altro, alla fine del tempo e riguarda tutti gli uomini. Non bisogna pensare al giudizio di Dio come una procedura giudiziale, ma come la normale attività con cui egli realizza il suo disegno generale, che si sviluppa in chiave di relazione personale: Dio invita e l’uomo risponde. Dal tipo di risposta, se di accettazione libera o di libero rifiuto, anche le conseguenze saranno diverse. Il giudizio di Dio assegna a ciascuno la giusta ricompensa: per quelli che muoiono in Cristo, sarà una perfetta ratifica del proprio operato svolto nel corso della vita; per quelli che muoiono lontano da Cristo, invece, una giusta riprovazione che li condannerà a restare soli con sé stessi nelle tenebre misteriose dell’al di là.

Alcune considerazioni teologiche
Al di là dell’occasione storica e dell’accenno antropologico generale, è importante riflettere sul valore profondamente teologico che sottende la Commemorazione di tutti i defunti, perché richiama all’attenzione tutto il mistero dell’esistenza umana dalle sue origini alla sua fine, coinvolgendo direttamente sia la causa efficiente o creativa sia la causa finale o del giudizio ultimo. Per questo veloce riferimento dottrinale, che coinvolge la fede, la cosa migliore è ascoltare il pensiero ufficiale della Chiesa, espresso chiaramente e sinteticamente in alcuni documenti conciliari del Vaticano II, con il dovuto confronto al dato rivelato.

- Comunione dei santi
Al capitolo VII della costituzione dogmatica Lumen Gentium si parla di tre stadi ecclesiali del Corpo Mistico: “Fino a che, dunque, il Signore non verrà nella sua gloria, alcuni dei suoi discepoli saranno pellegrini sulla terra, altri passati da questa vita, stanno purificandosi, e altri godono della gloria contemplando chiaramente Dio uno e trino, Quale Egli è; tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo alla stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria” (LG 49).


Si afferma anche la realtà della Comunione dei Santi e della loro intercessione a favore di quanti sono ancora pellegrini sulla terra: “Tutti, infatti, quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in Lui (Ef 4,16). L’unione quindi dei pellegrini sulla terra con i fratelli morti nella pace di Cristo, non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali…offrendo i meriti acquistati sulla terra mediante cristo Gesù, unico mediatore tra Dio egli uomini” (LG 49).
 E afferma, inoltre, la relazione della Chiesa pellegrinante con la Chiesa celeste: “La Chiesa dei pellegrini sulla terra, riconoscendo benissimo questa comunione con il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana, coltivò con grande pietà la memoria dei defunti, e, ‘poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati’ (2Mac 12, 46), ha offerto per loro anche suffragi” (LG 51).


Fondamentale, per comprendere e vivere la Commemorazione dei defunti, è il mistero della Comunione di tutti i membri della Chiesa in Cristo, che non viene interrotta dalla morte, “anzi, secondo la fede, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali”, come l’Apocalisse di Giovanni conferma con la la liturgia celeste, dove partecipano le anime dei beati, e con la stessa liturgia terrena che, soprattutto con il sacrificio eucaristico, si unisce al culto della Chiesa celeste insieme alla venerazione della gloriosa Vergine Maria, degli beati apostoli, dei martiri e di tutti i santi (specialmente i capitoli  4 e 5).


L’unione della liturgia celeste e terrena attorno all’Agnello che sta in piedi, come immolato (Ap 5, 6), cioè “Cristo Gesù, che è morto e   risorto, e sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8, 34; Eb 7, 25), è la condizione indispensabile per ogni forma di comunione, nella carità, tra i vari membri dei diversi gradi della Chiesa. Per cui, secondo la fede della Chiesa, i beati pregano per noi sulla terra e intercedono per la nostra debolezza, e ogni nostra invocazione a loro è un riconoscimento di Dio, per mezzo di Cristo Gesù, che è l’unico Mediatore e Redentore.


E per quanto riguarda le anime dei defunti, che dopo la morte hanno bisogno ancora di purificazione, la Chiesa da sempre “ha offerto per loro anche i suoi suffragi” (GS 41); e crede, che per questa purificazione “riceveranno un sollievo [...], mediante suffragi dei fedeli viventi, come il sacrificio della messa, le preghiere, le elemosine e le altre pratiche di pietà, che i fedeli sono soliti offrire per gli altri fedeli, secondo le disposizioni della Chiesa” (LG 50).
Anche i Princìpi e norme per l’uso del Messale romano spiegano abbastanza chiaramente il senso di questo “consorzio vitale” tra i membri della Chiesa, che raggiunge il culmine della perfezione nella celebrazione eucaristica, al momento delle intercessioni, che così si esprime: “l’eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa, sia celeste sia terrestre, e che l’offerta è fatta per essa e per tutti i suoi membri, vivi e defunti, i quali sono stati chiamati a partecipare alla redenzione e alla salvezza acquistata per mezzo del corpo e del sangue di Cristo” (n. 79).

- Significato della morte cristiana
La concezione antropologica cristiana offre un modo tutto suo di considerare il fatto ineluttabile della morte. La morte considerata in sé stessa non è qualcosa di desiderabile, né un avvenimento che si possa abbracciare con animo tranquillo, senza superare la naturale ripugnanza. Nella visione cristiana, la morte, pur essendo un fatto di diritto naturale, come ricorda Duns Scoto, è contro la volontà di Dio (Sap 1, 13-14; 2, 23-24) e, quindi una conseguenza del peccato: “il salario del peccato è la morte” (Rm 6, 23). La morte allora si può considerare come fatto morale, come ricorda Paolo, e come necessità naturale come afferma il Cantore dell’Immacolata.


Il cristiano può superare il timore della morte, appoggiandosi su altri motivi, come la fede e la speranza, che aprono un diverso orizzonte alla stessa morte. La morte accettata con fede e nella fede di “abitare presso il Signore” (2Cor 5, 8) realizza il desiderio di comunione con Cristo, e giunge anche a lodare il Signore per la morte, non in sé stessa, ma in quanto realizza la speranza di possedere il Signore. Tale sembra la concezione cantata da Francesco d’Assisi nel famoso Cantico delle creature. La morte allora diventa, per il credente, come la porta che conduce alla comunione con Cristo.


 Questo sentimento positivo della morte è direttamente proporzionato   alla “morte nel Signore”, che conduce alla beatitudine: “beati i morti nel Signore” (Ap 14, 13). In questo modo, la vita terrena è naturalmente ordinata alla comunione con Cristo, dopo la morte, che è un valore superiore alla vita terrena. Superiorità che giustifica il desiderio mistico della morte, che apre la via alla vita eterna. Questo modo di concepire la morte diventa una partecipazione al mistero pasquale di Cristo, di cui il battesimo, nel quale si muore misticamente al peccato, partecipa della risurrezione di Cristo (Rm 6, 3-7), e l’Eucaristia ne è la garanzia, il fondamento e anche la perfezione: fundamentum et forma, direbbe il Cantore dell’Immacolata.
Oltre alla “morte nel Signore”, c’è anche la possibilità della morte fuori del Signore, che conduce alla morte seconda come ricorda l’Apocalisse (20, 14) e anche il Cantico delle creature. In questa seconda accezione della morte, la forza del peccato, attraverso il quale la morte entrò nel mondo (Rm 5,12), manifesta, in grado sommo, la sua capacità di separare da Dio.

- L’uomo è per la risurrezione
Anche dal concilio Vaticano II si apprende che l’uomo è per la risurrezione. Afferma: “Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. [...] L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Difatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo: a questa profonda interiorità egli torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio decide del suo destino. Perciò riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma, invece, va a toccare in profondità la verità stessa delle cose” (GS 14).
L’autoconsapevolezza dell’uomo di essere superiore a tutte le altre creature terrene ha il fondamento nella sua capacità di possedere Dio (capax Dei) sia con la conoscenza e soprattutto con l’amore. Questa differenza fondamentale si manifesta anche nella tendenza innata alla felicità, la quale fa sì che l’uomo aborrisca e respinga l’idea di un suo totale annientamento con la morte, anelando a una vita ultraterrena comunque intesa, dal momento che la sua anima, immortale e spirituale, tende naturalmente verso la sua origine, cioè verso il suo Creatore.
Questo riferimento antropologico fondamentale rende possibile anche una escatologia. Difatti, la realtà dell’uomo, nell’antropologia cristiana, include una dualità di elementi (corpo e anima), che si possono separare temporaneamente con la morte, tanto che l’anima può sussistere separata, conservando sempre la sua intima e profonda tendenza a riunirsi al suo corpo.  E questo perché lo stato di sopravvivenza dell’anima, dopo la morte, non è definitivo né ontologicamente ultimo, bensì intermedio transitorio e ordinato alla risurrezione.
Un cenno a questa interpretazione duale dell’uomo aperto alla risurrezione lo si trova nel logion evangelico: “non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28). Esso, infatti, insegna che l’anima sopravviva dopo la morte terrena, finché nella risurrezione si unisca, di nuovo, al suo corpo.  
 Anche nel VT si trovano affermazioni che inducono a questa interpretazione. Si pensi, per esempio, al secondo libro dei Maccabei, al capitolo settimo presenta il martirio per la verità come l’occasione privilegiata, perché la fede possa illuminare sia il mistero delle origini o creazione e sia il mistero della fine o vita eterna (2Mac 7, 9-36); e al libro della Sapienza che parla di quelli che “agli occhi degli stolti parve che morissero; e la loro fine fu ritenuta una sciagura” (Sap 3, 2), mentre “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” (Sap 3, 1). In breve, questi cenni biblici aiutano a comprendere con chiarezza e sicurezza di fede che il Signore ha il potere di attuare la risurrezione degli uomini.
 
- La risurrezione di Cristo e quella dell’uomo
L’apostolo Paolo scriveva ai corinzi: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Ebbene Cristo non solo risuscitò di fatto, ma egli è “la risurrezione e la vita” (Gv 11,25) ed è anche la speranza della nostra risurrezione. Perciò i cristiani di oggi, come quelli dei tempi passati, nel Credo niceno-costantinopolitano, nella stessa formula “dell’immortale tradizione della santa Chiesa di Dio”, nella quale professano la fede in Gesù Cristo, che “risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture”, aggiungono: “Aspettiamo la risurrezione dei morti”. In questa professione di fede riecheggiano le testimonianze del Nuovo Testamento: “Risusciteranno i morti in Cristo” (1Ts 4,16). “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20). Questo modo di parlare implica che il fatto della risurrezione di Cristo non è un qualcosa di chiuso in sé stesso, ma si estenderà un giorno a quelli che sono di Cristo. Poiché la nostra risurrezione futura è “l’estensione della medesima risurrezione di Cristo agli uomini”, s’intende bene che la risurrezione del Signore è modello della nostra risurrezione. La risurrezione di Cristo è pure la causa della nostra risurrezione futura, “poiché, se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti” (1Cor 15,21).

- Comunione con Cristo dopo la morte
Dalla promessa fatta da Gesù crocifisso al buon ladrone si ricava l’esistenza di un certo stadio intermedio tra la morte e la risurrezione, insieme all’essere in comunione con lo stesso Cristo: “In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Gesù vuole accogliere il “buon ladrone” in comunione con sé, immediatamente dopo la morte. Lo stesso Stefano, durante la lapidazione, manifesta la medesima speranza di entrare in comunione con Cristo: “Signore Gesù, accogli il mio spirito” (At 7,59), con il desiderio di essere accolto immediatamente da Gesù nella sua comunione.
 L’esistenza di uno stato intermedio è presente anche in Paolo, specialmente quando scrive: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne” (Fil 1, 21-24).
 Lo stato dopo la morte è desiderabile soltanto perché implica unione e comunione con Cristo. Paolo con grande gioia parla della speranza della parusia del Signore: “il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Lo stato intermedio, perciò, viene concepito come transitorio, con la speranza sempre della risurrezione: “È necessario che questo essere corruttibile [cioè il corpo] si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità” (1Cor 15,53).

- Quando avverrà il giudizio?
È una domanda abbastanza frequente. E Gesù spesso ammonisce: “Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13); “Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16, 27).  
Venuta gloriosa di Gesù e Giudizio universale saranno un solo e stesso avvenimento, ultima sequenza della storia, ultimo atto della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, compimento della liberazione umana, della divinizzazione umana.
Il principio della retribuzione divina è presente abbastanza chiaramente in Paolo: “Il giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Rm 2, 6-8); “tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5,10).

- Il giudice dei vivi e dei morti
Pietro proclama a Cesarea: “Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno... E ci ha ordinato di annunziare al popolo e d’attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio” (At 10, 39-42).
L’espressione “dei vivi e dei morti” richiama la teoria dei Sadducei, che, negando la risurrezione, divideva l’umanità in due categorie: al di qua della morte, i vivi, e al di là, i morti. Gesù, invece, replica: “Quanto alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio d’Abramo, il Dio d’ Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,32). Pertanto, Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i defunti nel Signore non sono dei morti, ma dei vivi; solo che la vita è diversa. In questo senso, Gesù nega che si possa fare distinzione fra morti e vivi: esistono solo dei vivi. La morte non produce dei morti, ma è solo un passaggio verso un’altra vita. Difatti, il termine “defunto” (da latino defunctus: colui che ha abbandonato le sue funzioni sulla terra) non è un morto in senso assoluto, ma uno che vive in un modo diverso da quello che ha lasciato o abbandonato sulla terra. E nella sua venuta gloriosa, Cristo non privilegerà nessuno, affinché nessuno ne risulti frustrato
Paolo, parlando della fine del mondo in cui ci saranno ancora dei “viventi”, scrive: “Ecco, io vi annunzio un mistero: non tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà, infatti, la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati... si compirà allora la parola della Scrittura: la morte è stata ingoiata per la vittoria... per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15, 51-57).
E sempre Paolo precisa: la risurrezione è per tutti. Il Risorto non dimenticherà nessuno dei suoi, sia esso morto che vivo, perché tutti parteciperanno al grande giorno e alla sua festa. Scrive: “Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine... discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre col Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1Ts 4,13).
 Alle consolanti parole di Paolo, si possono aggiungere anche quelle di Pietro per terminare questo veloce riferimento sulla Commemorazione di tutti i fedeli defunti con la testimonianza diretta dei due grandi Apostoli: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi... Quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace” (2Pt 3, 8-14).
 In breve, come la cristianità primitiva, illuminata dalla fede degli Apostoli, interpretò il ritorno di Cristo come un avvenimento carico di speranza e di gioia, così anche i cristiani di oggi dovrebbero aspettare con profonda fede e gioiosa speranza il festoso giorno del “giudizio dei vivi e dei morti”.

Autore: P. Giovanni Lauriola ofm




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QUADERNI DEL 1943 CAPITOLO 164


2 novembre 1943

   Riprendo oggi 2 novembre perché ieri, tra la gente venuta e... la poco piacevole visita inglese1, non ho più potuto scrivere.
   Riguardo alle impressioni subite durante a quel penoso quarto d’ora, le dirò2 che sono diverse e svariate.
   La prima si è che solo pregando mi sentivo sufficientemente calma. Mi pareva impossibile che mentre lo invocavo su me, e su tutti i raccolti presso il mio letto e, con una carità più grande, su tutti gli altri fuggenti per le vie o tremanti nelle case, Egli, il cui Nome è potente, non m’avesse ad ascoltare. Avevo, e l’ho notata tre o quattro volte durante la preghiera, la sensazione che Egli mi abbracciasse e mi facesse capire di esser calma perché ero protetta da Lui.
   Nelle mie condizioni così gravi, sarebbe una bugia dire che il mio cuore non ne ha sofferto. Se mi fa impressione un forte rumore, un grido, l’urto di due auto, il vedere cascare una persona, un alterco, una notizia ecc. ecc., si può ben pensare che cosa avrà risentito il mio cuore fisico da quello sconquassìo. Ma lei ha potuto constatare che, soccorso il cuore con una energica puntura, come morale non era fuori centro.
  La seconda è che era dalla mattina, dopo quella professione anticattolica3, che ero sotto la impressione, meglio detto: la persuasione, che se i nemici fossero venuti in quel giorno, vi sarebbe stato del brutto. E infatti!...
   Terza: a cose finite: il sollievo pensando che era passato l’incubo, che da un 20 giorni mi crucciava, di un bombardamento aereo. Glie ne ho accennato a quel sogno al quale volevo applicare il fatto della morte di quei in piazza Mazzini or sono 15 giorni circa4. Nel sogno avevo visto cadere proiettili dall’alto su Viareggio e capivo che erano venuti da aerei. Ma mi volevo illudere che tutto fosse accaduto con quel proiettile caduto corto.
   Sarà tutto accaduto ora? Dio lo voglia, perché le confesso che l’idea di morire sepolta viva o straziata in un ospedale non mi va. Accetto le mie 5 malattie e ci sto ad accettarne altre 5, altre l0, con tutti gli strazi, ma chiedo solo d’esser lasciata nella mia casa dove tante cose ha operato per me Gesù e che mi è sacra per Lui, perché datami da Lui e perché in essa sono morti i miei.
   Quarta e ultima impressione: di riconoscenza per lei. Ero certa che sarebbe venuto, ma il vederlo venire mi ha commossa e calmata. Non si è mai a sufficienza assolti e benedetti in certi momenti!
in quei giorni che lei era assente, io stavo sempre col cuore sospeso per la tema di qualche incidente mio particolare o di qualche incidente generale. So bene, per esperienza fatta, che medici e sacerdoti è ben difficile averli nei momenti in cui sono più necessari e desiderati. E perciò mi dolevo che lei fosse lontano, perché non c’è che lei che pensi a me. 

 

   1 il primo bombardamento aereo su Viareggio, avvenuto la sera del 1° novembre 1943.

   2 Si rivolge al Padre Migliorini.

   3 Vedi la pagina 348.

   4 A causa di una esercitazione militare, che si svolgeva sulle Alpi Apuane, un proiettile, che sarebbe dovuto finire in 

mare, era invece caduto sulla Piazza Mazzini falciando cinque persone.


AMDG et DVM