martedì 27 ottobre 2020

UFFICIO MARIANO. MARTEDI'

 


Inno

Salve, Arca foéderis,
Thronus Salomonis,
Arcus pulcher aétheris,
Rubus visionis.

Virga frondes gérminis,
Vellus Gedeònis,
Porta clausa Nùminis,
Favusque Samsonis.

Décuit Natum tam nobilem,
Matri praecavére
Ab originali
Labe Matris Hevae.

Almam, quam elégerat,
Genitricem vero,
Nulli prorsus sinens
Culpae subjacére.

Salve, Arca dell’alleanza,
Trono di Salomone,
Arco splendido del Cielo,
Roveto della visione.

Albero adorno di fronde,
Vello di Gedeone,
Porta serrata del Signore,
Favo di Sansone.

Fu giusto che il tuo così nobile Figlio
Preservasse la Madre
Dalla colpa originale
Della Madre Eva.

La forte Genitrice,
che Egli aveva scelto,
Non poteva essere soggetta
Ad alcun peccato.

Ant. Sicut lìlium inter spinas, sic amica mea inter filias Adae.

Ant. Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le figlie di Adamo.



Salmo 1 – di clemenza e di misericordia.

Domina, venérunt Gentes in haereditatem Dei,
Quas tu meritis tuis Christo confoederasti.

Vennero, o Signora, le Genti per ricevere l’eredità di Dio,
Che tu hai ottenuto per loro per i meriti di Cristo.

Pulchrae sunt viae tuae,
Et sémitae tuae pacificae, gyrum terrae sola cìrcuis,

Belle sono le tue vie,
e di pace i tuoi sentieri. Tu sola percorri il giro della terra

Ut subvènias invocantibus te.
Copiosa facta est super me misericordia tua,

Per aiutare quanti ti invocano.
La tua misericordia è stata grande su di me,

Et dilatata est super me clementia.
Imperfectum meum aspexit oculus tuus,

E la clemenza si è diffusa sopra di me.
Il tuo sguardo hai diretto verso le mie imperfezioni,

Et palpebrae tuae noverunt vias meas:
Cognovisti ruinam et transgressionem meam.

e le tue palpebre si aprirono sulle mie vie:
Hai conosciuto la mia rovina e i miei peccati.

Non avèrtas sacrum aspectum tuum,
Neque abominéris me propter immunditiam meam.

Non distogliere il sacro tuo volto,
Non respingermi a causa della mia miseria.

Inclina vultum Dei super nos,
Coge illum peccatoribus miseréri.

Fa’ che il volto di Dio si volga su di noi,
Inducilo ad aver misericordia dei peccatori.

Serénet corda nostra lux misericordiae tuae,

Rassereni i nostri cuori la luce della tua misericordia,

Et récreet nos pacis tuae dulcedo.
Splendor vultus tui fulgeat super nos,

E ci ristori la dolcezza della tua pace.
Lo splendore del tuo volto rifulga sopra noi,

Ut servetur conscientia nostra apud Altissimum.

Perché la nostra coscienza si mantenga pura presso l’Altissimo.

Gloria Patri...

Gloria al Padre...

Salmo 2 – di dolcezza e amore puro.

Salvum me fac, Mater pulchrae dilectionis,
Fons clementiae, et dulcor pietatis.

Portami a salvezza, Madre del puro amore,
Fonte di clemenza e soavità di misericordia.

Omnes sitientes, venite ad illam,
De fonte suo gratanter vos potabit.

Voi tutti assetati, venite a lei,
Volentieri vi disseterà dalla sua fonte.

Quam magna est multitudo dulcédinis tuae, Domina!
Quam praeparasti diligentibus, et sperantibus in te.

Quanto è grande la molteplicità della tua dolcezza, o Signora!
L’hai preparata per quanti ti amano e sperano in te.

Stilla nobis, Domina, gratiam ùberum tuorum,
Ex manante lacte dulcèdinis tuae réfice viscera puerorum tuorum.

Distillaci, o Signora, la grazia del tuo seno,
Con il latte che scaturisce dalla tua dolcezza ristora le viscere dei tuoi figli.

Stilla nobis guttam suavitatis tuae,
Quia tu es pincérna gratiae dulcoris.

Donaci una goccia della tua soavità,
Perché tu sei dispensatrice della dolcezza della grazia.

Distilla mihi suavitatem gratiarum tuarum,
Et tuorum charìsmatum fragrantiam, et odorem.

Distillami la soavità delle tue grazie,
La fragranza e il profumo dei tuoi doni.

Spiritus enim tuus super mel dulcis,
Et haeréditas tua super mel et favum.

Infatti il tuo spirito è dolce più che il miele,
E la tua eredità supera il miele e il favo.

Esto refrigerium nostrum, gloriosa Mater Christi,
Quia tu es totìus Religionis firmamentum.

Sii nostro refrigerio, gloriosa Madre di Cristo,
Perché tu sei il sostegno delle verità della nostra Fede.

Gloria Patri...

Gloria al Padre...

Salmo 3 – di richiesta di luce e protezione.

Laudate pueri Matrem Dei,
Glorificate senes nomen ejus.

Lodate, fanciulli, la Madre di Dio,
Glorificate, anziani, il suo nome.

Benedicta sit Maria, Mater Christi,
Ipsa enim est via ad Patriam sanctitatis.

Sia benedetta Maria, Madre di Cristo,
Lei è infatti la via verso la Patria dei Santi.

Excelsus super Chérubim thronus ejus,
Et sedes ejus super cardines Coeli.

Eccelso sui Cherubini è il suo trono,
E la sua dimora sopra i cardini del Cielo.

Super humiles vultus ejus,
Et super confidentes in eam aspectus illius.

Sopra gli umili è il suo volto,
E il suo viso su quanti in lei confidano.

Misericordia ejus super omnem carnem,
Et eleemòsyna illius usque ad extremum terrae.

Su ogni uomo è la sua misericordia,
E la sua beneficenza fino agli estremi confini della terra.

Illumina splendore tuo celeritatem meam,
Dulcifica dulcore tuo contritionem meam.

Purifica del tuo splendore la mia prontezza,
Lenisci con la tua dolcezza la mia contrizione.

Tu es Mater illuminationis cordis mei,
Tu es nùtrix réfovens mentem meam.

Tu sei Madre che illumini il mio cuore,
Sei nutrice che rianima la mia mente.

Illumina me, Stella maris,
Clarifica me, Virgo clarissima.

Donami luce, o Stella del mare,
Illumina me, o valorosa Vergine.

Miserere mei, Domina, miserere mei,
Quia paratum est cor meum exquìrere voluntatem tuam.

Abbi pietà di me, o Signora, pietà di me,
Perché il mio cuore è pronto a ricercare la tua volontà.

Gloria Patri...

Gloria al Padre...

V. Ego in altissimis habito.

V. Io dimoro nel più alto dei Cieli,

R. Et thronus meus in columna nubis.

R. Ed il mio trono è sopra una colonna di nubi.

L'INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI

 


L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929  Approbation de l’ordre:  fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).  Imprimatur:  Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.  Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900. E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VII

Ultimi effetti dell’inabitazione di Dio  in noi: I FRUTTI DELLO SPIRITO SANTO E LE BEATITUDINI.

Conosciamo ora, se non in dettaglio, almeno con una veduta d’insieme, i principi di attività conferiti ai giusti dallo Spirito Santo, un magnifico e complesso organismo di santità che, secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, fa dell’uomo uno strumento musicale mirabilmente disposto a cantare la gloria e la potenza divina: Instrumentent musicum a Spiritu pulsatum, divinamque gloriam et potentiam canens (S. Greg. Naz., Orat. Ad Popul. XLIII, 67). E quando ha così preparato tutto, lo Spirito Santo, l’Artista incomparabile, si mette alla tastiera e, se non incontra resistenza, trae da questo strumento spirituale, meravigliosi accordi che deliziano il cuore di Dio e non tralasciano di piacere al mondo stesso, affascinato, malgrado tutto, da questa santa armonia. È la dolce e casta Agnese che canta sulla terra, per continuare in cielo, il canto delle vergini: « Io amo Cristo, di cui presto diventerò la sposa; il Cristo, di cui la Madre è vergine ed il Padre celeste genera senza corruzione….. Io sono fidanzata con Colui che è servito dagli Angeli e la cui bellezza è ammirata dal sole e dalla luna » (ex Offic. S. Agnetis). 

– È il martire Ignazio, esposto nell’anfiteatro e che, sentendo il ruggito dei leoni, grida nella sua impazienza di soffrire: « Io sono il frumento di Cristo; sarò macinato dai denti delle bestie per diventare un pane veramente puro. » È il grande Apostolo Paolo, che lancia questa fiera sfida a tutte le potenze nemiche: « Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione? L’angoscia? La fame? La nudità? Il pericolo? La persecuzione? La spada?….. Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le virtù, né qualsiasi altra creatura potrà mai separarmi dall’amore di Dio in Gesù Cristo, nostro Signore » (Rom. VIII, 35-39). 

– È l’innumerevole moltitudine dei Santi sparsi in tutto il mondo e che formano un immenso concerto, dove ognuno fa la sua parte e canta in modo speciale il trionfo della grazia sulla natura: una deliziosa sinfonia, dove tutte le voci si uniscono e si fondono in una meravigliosa armonia. Voci di bambini e di anziani, di vergini e di adolescenti, di uomini e di donne, che salgono dalla terra al cielo. Voci di innocenze preservate o faticosamente riconquistate. Voce di misericordiosa carità che richiama, per bocca di Vincenzo de’ Paoli, a tutte le miserie per alleviarle. Voce di fede trionfante nella persona di Pietro di Verona colpito a morte dall’eresia, e che ancora trova la forza di tracciare con la porpora del suo sangue questa parola sublime: Io credo. Voce di umiltà pronunciata dall’organo di Giovanni della Croce, una delle parole più belle ed eroiche mai pronunciate da una bocca umana, quando, alla domanda di Cristo di quale ricompensa chiedesse per tanto lavoro, rispondeva: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Voi. »  

– Che mirabile fioritura di virtù il soffio dello Spirito Santo fiorisce in anime docili alla sua azione! O piuttosto che frutti deliziosi e variegati fa loro produrre! Questi sono quelli di cui Nostro Signore ha parlato quando ha detto ai suoi Apostoli: « Io vi ho scelto e vi ho costituito perché andiate avanti senza sosta, perché portiate frutti e questi frutti rimangano: Ego elegi vos, et posui vos ut eatis, et fructum afferatis, et fructus vester maneat. » (Giov. XV, 16). Il giusto, in effetti, è paragonato, nei nostri Libri sacri, ad un albero piantato sul bordo delle acque e che dà i suoi frutti nel suo tempo (Ps. I, 3). Cosa sono questi frutti? L’Apostolo san Paolo ce li fa conoscere in questa bella enumerazione che leggiamo nel capitolo V della Lettera ai Galati: « I frutti dello Spirito Santo, dice, sono la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la dolcezza, la fede, la modestia, la continenza e la castità . » (Gal. V, 22-23). – Cosa intendiamo con questi “frutti dello Spirito Santo”? Perché sono così chiamati? Come si differenziano dalle virtù e dai doni? Qual è il loro numero?

I.

E innanzitutto, cosa si intende per frutti dello Spirito Santo? Con questo intendiamo – dice san Tommaso – « tutti gli atti di virtù che hanno raggiunto una certa perfezione e in cui l’uomo si diletta: Sunt enim fructus quæcumque virtuosa opéra in quibus homo delectatur » (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). Si chiamano frutti – dice sant’Ambrogio – perché riempiono l’anima di pura e santa delizia. – In senso naturale, il frutto è il prodotto finale e gustoso di una pianta o di un albero che ha raggiunto la perfezione, adattato alla sua specie (Ibid. ad 1); è il termine regolare della vegetazione, il risultato definitivo di questo meraviglioso lavorio in cui è impegnata la vita della pianta. Diversi in quanto diversi sono gli alberi da cui sono stati raccolti, i frutti hanno in comune il fatto che sono l’ultimo prodotto della pianta e che, una volta giunti a maturazione, hanno tutti un certo sapore, diverso a seconda della specie. Fructus sensibilis est id quod ultimum ex arbore expectatur, et cum quadam suavitate percipitur (S. Th., Ia IIæ, q. XI, a. 1).  Quand’anche deliziassero la vista con la luminosità dei loro colori e deliziassero l’olfatto con la dolcezza e la finezza del loro profumo, né le foglie né i fiori meritano questo bel nome di frutto; perché non è da questi ciò che ci si aspetta definitivamente dall’albero: quod ultimum ex arbore expectatur

 – Il frutto non è solo l’ornamento e la perfezione dell’albero, è la sua ragion d’essere, il suo scopo, il suo fine; è il frutto che conferisce all’albero il suo pieno valore e compensa la cura dedicata alla sua coltivazione. Ecco perché, parlando nella parabola di un albero di fico che aveva smesso di dare frutti diversi anni prima, il Salvatore ha detto: « Tagliatelo; perché occupa inutilmente il posto? Succide ergo illam; ut quid etiam terram occupât ? » (S. Luc. XIII, 7). Una grande lezione per il Cristiano, che, sotto pena di essere tagliato come un ramo inutile e gettato nel fuoco, non deve lasciare inattive le energie divine che gli sono state conferite come germi destinati a fiorire sotto il soffio dello Spirito di Dio e a produrre quelle opere sante degne della vita eterna che la Scrittura chiama i frutti dello Spirito Santo. Infatti, per analogia, nell’ordine spirituale, questo nome di frutto è dato al prodotto finale della grazia nelle anime, cioè agli atti di virtù, se non a tutti indistintamente, almeno a quelli che possiedono un certo grado di perfezione e di sapore. I frutti dello Spirito Santo non sono dunque delle abitudini, delle qualità permanenti, ma degli atti; non possono quindi essere confusi con le virtù e con i doni, ma si distinguono da essi come l’effetto si distingue dalla sua causa, il torrente dalla sua sorgente. 

– E sebbene l’Apostolo san Paolo elenchi tra questi frutti la carità, la pazienza, la dolcezza, ecc., non è da intendere con queste espressioni le virtù stesse, ma le loro operazioni; poiché, per quanto perfette possano essere le virtù, esse non possono essere considerate come l’ultimo prodotto della grazia, essendo esse stesse ordinate, come principii, a dei prodotti successivi, cioè ai loro atti. 

 – Tuttavia per meritare il nome di frutto, gli atti di virtù devono essere accompagnati da una certa soavità. All’inizio, questi atti si compiono solo con difficoltà, richiedono fatica, alcuni sono addirittura amari per natura come un frutto non ancora maturo. « Ma – osserva un pio autore –  quando si è da tempo praticato con fervore nella pratica delle virtù, si acquisisce la possibilità di produrre i propri atti. Non proviamo più la ripugnanza che abbiamo provato all’inizio. Non dobbiamo più combattere o essere violenti. Siamo felici di fare quello che facevamo una volta con difficoltà. Poi succede alle virtù quello che succede agli alberi. Come questi frutti che, giunti a maturità, non hanno più l’acredine, ma sono dolci e di piacevole sapore; allo stesso modo, quando gli atti di virtù abbiano raggiunto una certa maturità, si fanno con piacere, e li si trova di un gusto delizioso » (Lallemant, Doctrine spirit.). Il mondo non capisce nulla di questo genere di delizie; perché – secondo l’osservazione di San Bernardo – vede la croce, ma non l’unzione: Crucem quidem vident, sed non etiam unctionem (Serm. 1 de Dedicat.); le afflizioni della carne, la mortificazione dei sensi, le fatiche della penitenza colpiscono il suo sguardo solo per il loro lato doloroso, e li ha in orrore, le consolazioni dello Spirito Santo sfuggono ad essa. Le anime sante, invece, dicono volentieri con la sposa del Cantico: « Mi sono seduto all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato » (Cant. II, 3). Sono numerosi i frutti dello Spirito Santo? San Paolo ne conta dodici, come abbiamo visto sopra. Perché questo numero di duodenario? Sembra che dovrebbero essere ammessi così tanti anche gli atti virtuosi. Questa è, infatti, la conclusione di san Tommaso: « I frutti – egli dice – sono tutti atti di virtù nei quali l’uomo trova piacere: Sunt fructus quæcumque virtuosa opera in quibus homo delectatur ». (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). 

– L’Apostolo avrebbe potuto includerne un numero maggiore o minore nella sua enumerazione, perché non pretendeva di elencarli tutti. Se si è fermato al numero di dodici, è stato prima perché questo numero, nello stile della Scrittura, si riferisce all’universalità; poi, perché tutti gli atti di virtù possono essere opportunamente ridotti a quelli nominati dall’Apostolo, poiché abbracciano l’intera vita cristiana. (Ibid. a 3, ad 4). 

– Noi parliamo di frutti; ma potremmo anche chiamarli fiori, se, invece di considerare le nostre buone opere come l’ultimo prodotto della grazia in questo mondo, le considerassimo in relazione alla vita eterna, di cui sono come l’annuncio e la promessa. Perché, così come si vede apparire il fiore, si concepisce la speranza di raccogliere un frutto, così  il darsi alla pratica delle opere sante e meritorie ci dà la speranza di raggiungere la vita e la beatitudine eterna.

II.

Al culmine della vita spirituale, quindi al di sopra degli atti di virtù ordinaria, al di sopra dei frutti dello Spirito Santo, vi sono le beatitudini, il coronamento dell’opera divina in noi, l’ultimo e più sublime effetto della presenza di Colui che il Padre si è degnato di inviarci per la nostra santificazione, l’anticipazione della felicità celeste.  Cosa intendiamo per beatitudini? Quante ce ne sono? Sono diversi da frutti, virtù e doni? 

 – Il nome “beatitudini” si riferisce ad alcuni atti della vita presente che, per la loro particolare perfezione, conducono direttamente e sicuramente alla beatitudine eterna. Sono chiamate così, beatitudini metonimiche, perché sono allo stesso tempo il pegno, la causa meritoria e, in una certa misura, i primi frutti della vera e perfetta beatitudine. La beatitudine propriamente detta, è essenzialmente una sola, e consiste nel possesso di Dio. È chiaro, infatti, che Dio, essendo il Bene sovrano, il Bene infinito, l’unico capace di soddisfare tutti i desideri, nessuno è felice se non nella misura in cui lo possiede. Da questo mondo, è vero, lo possediamo per grazia, ma imperfettamente; lo portiamo dentro di noi, ma nascosto alla vista; lo amiamo, lo godiamo, ma con il pericolo di perderlo. « Quindi, se parliamo di beatitudine qui sulla terra, possiamo solo intendere, naturalmente, una beatitudine imperfetta, una beatitudine desiderata e meritata, tutt’al più cominciata. » (Mgr. Gay: Sermons de l’Avent). 

– Le beatitudini menzionate nel Santo Vangelo e di cui ci stiamo occupando attualmente non significano, quindi, felicità assoluta, felicità vera e propria. Non è manifesto che la povertà, le lacrime, la fame e la sete, foss’anche di giustizia, le persecuzioni subite per la causa di Dio, non possono costituire una vera e perfetta beatitudine? Ma Nostro Signore afferma che questi sono mezzi, dei gradi, delle salite per raggiungere la beatitudine assoluta: mezzi così potenti, così efficaci, così sicuri, che chiunque li usi con perseveranza può ripetere seguendo l’Apostolo: « Sono salvato nella speranza » (Rom. VIII, 24). Non si dice di qualcuno che è giunto alla fine dei suoi voti, quando ha una fondata speranza di ottenerli? Ma come non concepire la speranza di ottenere un fine determinato, quando ci si muove verso di esso in modo costante e regolare, quando ci si avvicina, quando soprattutto si comincia già a gustare la dolcezza del bene atteso? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 1.) Quando, dunque, un Cristiano, docile alle ispirazioni dello Spirito Santo, avanza quotidianamente nel cammino di bontà attraverso gli atti di virtù ed i doni, quando lo si vede realizzare gradualmente queste mirabili ascese di cui parla il Salmista (Ps LXXXIII, 6), ed avvicinarsi sempre di più al termine, come non sentire la fiducia che egli raggiungerà la perfezione del cammino e quella della patria, e non proclamarlo benedetto in anticipo? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2). 

Ma quali sono questi mezzi che conducono così sicuramente al termine della salvezza eterna, questi atti così pieni di soavità che possiamo considerarli come l’inizio della beatitudine? 

– Il Salvatore stesso ce li ha fatti conoscere in questo famoso sermone della montagna che apre il periodo della sua vita pubblica. « Beati – Egli dice – i poveri in spirito, perché il regno dei cieli è loro. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati coloro che piangono, perché saranno confortati….. Otto volte di fila ripete, con delle varianti, la stessa espressione « Beati », annunciando così al mondo stupito quelle che il linguaggio cristiano ha chiamato le otto beatitudini. Sono otto: la povertà di spirito, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’amore per la pace, le persecuzioni subite a causa di Dio; ma l’ottava è solo la conferma e la manifestazione delle altre (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 3 ad 5.). Infatti, dal momento in cui l’uomo è rafforzato nella povertà spirituale, dalla mitezza e dalle altre beatitudini, la persecuzione non è più in grado di staccarlo da questi beni. 

– Le beatitudini non sono né virtù né doni dello Spirito Santo, ma degli atti che queste abitudini ci portano a produrre (Ibid. a. 1). Tuttavia, per la loro eccellenza e perfezione, questi atti devono essere considerati più come un prodotto dei doni che come un’emanazione delle virtù. Infatti, la virtù della povertà può anche ispirare questo distacco che fa usare con moderazione dei beni terreni, ma è il dono del timore, che ne ispira il disprezzo. La virtù della mitezza dà all’uomo l’energia necessaria a superare l’impetuosità della rabbia e a stare entro i limiti della giusta ragione; ma è il dono della pietà che assicura la calma, la serenità dell’anima, il perfetto possesso di sé e la completa sottomissione alla volontà di Dio. La temperanza mette il freno alle passioni che tendono al piacere sensibile e le mantiene entro i limiti; il dono della scienza eleva l’anima più in alto, e illuminandola sulla fragilità, la vanità, la breve durata di questi piaceri, insegna a rifiutarli del tutto, se necessario, e ad abbracciare volontariamente il dolore e le lacrime. Le beatitudini si distinguono anche dai frutti dello Spirito Santo, perché, benché  dilettando come questi, abbiano anche il vantaggio di perfezionare chi le possiede: sono, se volete, dei frutti, ma i più eccellenti, i più belli, i più squisiti; frutti giunti, con gli ultimi tocchi del Sole divino, ad una perfetta maturità; anch’esse contengono una dolcezza e perfezione tale da farci sentire e gustare in anticipo qualcosa della felicità celeste. Così è coronata da opere perfette, segni precursori della beatitudine di Dio e del suo pieno possesso, questa serie di meraviglie che lo Spirito Santo compie nelle anime dove ha stabilito la sua dimora.

III.

Prima di concludere questo già lungo studio, diamo un ultimo, rapido sguardo alle verità che ne sono state oggetto, così come, prima di varcare la soglia di un edificio che è stato visitato ed esaminato nel dettaglio, diamo uno sguardo per comprenderne le linee principali e ammirarne la sapiente armonia. Dio è ovunque, in ogni essere e in ogni luogo, come causa immediata di tutto ciò che esiste fuori di Lui; ma abita solo nel giusto, al quale si unisce in modo singolare, come oggetto di conoscenza e di amore. E non è solo con la sua immagine, la sua memoria, o i suoi doni, che Egli è così presente in essi; Egli stesso viene personalmente, inaugurando fin da quaggiù questa vita di unione e di godimento che deve essere consumata in cielo. Non appena una creatura che, fino ad allora era stata peccaminosa, ritorna in grazia al suo Creatore, Colui che è in Dio l’Amore sussistente, lo Spirito Santo, gli viene inviato a suggellare in qualche modo con la sua presenza il patto di riconciliazione, a lavorare alla grande opera di santificazione e a diventare in lui il principio efficace di una nuova vita, incomparabilmente superiore a quella della natura. Non è dunque una visita temporanea, per quanto preziosa, che si degna di fare, ma Egli viene a stabilirsi nell’anima con il Padre e il Figlio e per fissarvi la sua dimora. Quando vi entra, si dà Egli stesso, e questo è il suo grande dono. Si tratta quindi di abbellire e decorare il tempio vivente dove gli piace risiedere. A tal fine, c’è questa Grazia, di un valore infinito, chiamata santificante, che ha l’effetto di purificare da ogni sozzura, di cancellare il peccato, di giustificare, trasformare, divinizzare chi la riceve, farne un figlio di Dio e l’oggetto dei suoi piaceri, con diritto all’eredità celeste. Ma non è tutto, perché la grazia non va mai da sola; essa è sempre accompagnata da una moltitudine di virtù e di qualità sovraeminenti, che sono sia un ornamento per le nostre potenze, sia una fonte di attività soprannaturale. Queste sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo: essi sono i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi; le energie divine, fonte di quegli atti eccellenti che portano il nome di beatitudini perché sono la causa meritoria ed una sorta di anticipazione della felicità che speriamo. 


– In questo modo possiamo andare avanti; e, per spostarci efficacemente e in sicurezza verso le sponde eterne, tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere questo impulso dallo Spirito Santo che è la parte dei figli di Dio (Rom. VIII, 14). Essa non si farà attendere. Dal profondo dell’anima dove Esso risiede, questo Spirito divino illumina la nostra intelligenza, riscalda i nostri cuori, ci eccita e ci spinge al bene. Chi conterà tutti i santi pensieri che suscita, i buoni movimenti che provoca, le sane ispirazioni di cui è la fonte? Perché invece ci sono sventurate e troppo frequenti resistenze che vengono più o meno a paralizzare la sua azione benefica e ad ostacolarne gli effetti? Questo spiega perché tanti Cristiani, abitualmente in possesso della grazia e delle energie divine che la accompagnano, rimangono tuttavia così deboli e lassi al servizio di Dio, così poco zelanti per la loro perfezione, così inclini verso la terra, così dimentichi delle cose del cielo, così facili da portarsi al male. Pertanto, l’Apostolo ci esorta a « non contristare lo Spirito Santo » con la nostra infedeltà alla grazia: Nolite contristare Spiritum sanctum Dei (Ephes. IV, 30), e soprattutto “non spegnerlo nei nostri cuori: Spiritum nolite extinguere. » (1 Tessal. V, 19). C’è un’altra causa che cerca di spiegare perché una semenza di grazie così abbondante spesso produca solo un raccolto così scarso. Questo avviene perché, conoscendo solo molto imperfettamente il tesoro di cui sono custodi, molti hanno solo una bassa stima di Esso e si impegnano poco nel farlo fruttificare. Eppure, quale forza, quale generosità, rispetto di sé, quale vigilanza, ma anche quale consolazione e quale gioia non li ispirerebbero per questo pensiero costantemente nutrito e piamente meditato: lo Spirito Santo abita nel mio cuore. Esso è lì, potente protettore, sempre pronto a difendermi dai miei nemici, a sostenermi nelle mie battaglie, ad assicurarmene la vittoria. Amico fedele, è sempre pronto a darmi udienza, e, « lungi dall’essere fonte di amarezza e di noia, la sua conversazione porta allegria e gioia:  Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium. » (Sap.. VIII, 16). 


– Egli è lì, veglia sempre sui miei sforzi e sacrifici, contando, per ricompensarli un giorno, ognuno dei miei passi, seguendo tutti i miei passi, senza dimenticare nulla di quello che faccio per il suo amore e la sua gloria. 


– Lo Spirito Santo abita nel mio cuore! Io sono il suo tempio, il tempio della santità per essenza; devo quindi diventare io stesso santo, perché il primo carattere della casa di Dio è la santità. Domum tuam, Domine, Domine, decet sanctitudo (Ps XCII, 5). Dirò dunque con il Salmista, con la mia condotta più che con le mie parole: « O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e del luogo dove abita la tua gloria: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ. » Cosa c’è di più efficace di queste riflessioni per determinarci a vivere, secondo la parola di san Paolo, « in modo degno di Dio, sforzandoci di piacergli in ogni cosa e di portare ogni sorta di frutti di buone opere? Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes, in omni opera bono fructificantes » (Col. X, 10). Lavoriamo dunque per crescere nella scienza di Dio, crescentes in scientia Dei, applicandoci ogni giorno per conoscere meglio, per apprezzarli di più, i doni divini. Amiamo, onoriamo, invochiamo spesso lo Spirito Santo, siamo docili alle sue ispirazioni; e se un giorno vogliamo occupare il trono di gloria che ci è stato preparato in cielo, iniziamo glorificando qui sulla terra e nella nostra anima e nel nostro corpo questa Santissima Trinità di cui siamo dimora e tempio. 

Glorificate et portate Deum in corpore vestro! (1 Cor. VI, 20).


http://www.exsurgatdeus.org/category/spirito-santo/


AMDG et DVM

Il rito romano in latino ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus nella consacrazione del calice.

 



  

Il card. Arinze ai presidenti delle Conferenze episcopali: La traduzione "per tutti" va cambiata in "per molti"

Lettera della Congregazione per il Culto Divino sulla traduzione di "pro multis" nella Consacrazione del Calice

Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum

Prot. N. 467/05/L
Roma, 17 Ottobre 2006

Eminenza / Eccellenza,
Nel mese di luglio del 2005 questa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, d'accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede, ha scritto a tutti i presidenti delle conferenze episcopali per chiedere il loro parere autorizzato sulla traduzione nelle diverse lingue nazionali dell'espressione pro multis nella formula della consacrazione del prezioso Sangue durante la celebrazione della santa Messa (rif. Prot. N. 467/05/L del 9 luglio 2005).

Le risposte ricevute dalle conferenze episcopali sono state studiate dalle due Congregazioni e un rapporto è stato inviato al Santo Padre. Secondo le sue direttive, questa Congregazione scrive ora a Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza nei termini seguenti:

  1. Un testo corrispondente alle parole pro multis, tramandato dalla Chiesa, costituisce la formula che è stata in uso nel rito romano in latino fin dai primi secoli. Negli ultimi trent'anni, più o meno, alcuni testi approvati in lingua moderna hanno riportato la traduzione interpretativa "for all", "per tutti", o equivalente.
  2. Non vi è alcun dubbio sulla validità delle messe celebrate con l'uso di una formula debitamente approvata contenente una formula equivalente a "per tutti", come già ha dichiarato la Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio de sensu tribuendo adprobationi versionum formularum sacramentalium, 25 Ianuarii 1974, AAS 66 [1974], 661). Effettivamente, la formula "per tutti" corrisponderebbe indubbiamente a un'interpretazione corretta dell'intenzione del Signore espressa nel testo. È un dogma di fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne (cfr. Gv 11,52; 2Cor 5,14-15; Tit 2,11; 1Gv 2,2).
  3. Ci sono, tuttavia, molti argomenti a favore di una traduzione più precisa della formula tradizionale pro multis:
  1. I Vangeli Sinottici (Mt 26,28; Mc 14,24) fanno specifico riferimento ai "molti" (polloi) per i quali il Signore offre il sacrificio, e questa espressione è stata messa in risalto da alcuni esegeti in relazione alle parole del profeta Isaia (53,11-12). Sarebbe stato del tutto possibile nei testi evangelici dire "per tutti" (per esempio, cfr. Lc 12,41); invece, la formula data nel racconto dell'istituzione è "per molti", e queste parole sono state tradotte fedelmente così nella maggior parte delle versioni bibliche moderne.
  2. Il rito romano in latino ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus nella consacrazione del calice.
  3. Le anafore dei vari riti orientali, in greco, in siriaco, in armeno, nelle lingue slave, ecc., contengono l'equivalente verbale del latino pro multis nelle loro rispettive lingue.
  4. "Per molti" è una traduzione fedele di pro multis, mentre "per tutti" è piuttosto una spiegazione del tipo che appartiene propriamente alla catechesi.
  5. L'espressione "per molti", pur restando aperta all'inclusione di ogni persona umana, riflette inoltre il fatto che questa salvezza non è determinata in modo meccanico, senza la volontà o la partecipazione dell’uomo. Il credente, invece, è invitato ad accettare nella fede il dono che gli è offerto e a ricevere la vita soprannaturale data a coloro che partecipano a questo mistero, vivendolo nella propria vita in modo da essere annoverato fra "i molti" cui il testo fa riferimento.
  6. In conformità con l’istruzione Liturgiam authenticam, dovrebbe essere fatto uno sforzo per essere più fedeli ai testi latini delle edizioni tipiche.
Le Conferenze episcopali di quei paesi in cui la formula "per tutti" o il relativo equivalente è attualmente in uso sono quindi invitate a intraprendere la catechesi necessaria ai fedeli su questa materia nei prossimi uno o due anni per prepararli all'introduzione di una traduzione precisa in lingua nazionale della formula pro multis (per esempio, "for many", "per molti", ecc.) nella prossima traduzione del Messale Romano che i vescovi e la Santa Sede approveranno per l’uso in quei paesi.

Con l'espressione della mia alta stima e rispetto, rimango della Vostra Eminenza / Vostra Eccellenza
devotissimo in Cristo

+ Card. Francis Arinze, Prefetto


AMDG et DVM

"I cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio ..."

 


Benedetto XVI: non ho scritto di “missione” agli ebrei

Il Papa emerito interviene pubblicamente su Herder Korrespondenz per contestare un articolo del teologo tedesco Michael Böhnke che criticava un suo precedente contributo su Communio

Benedetto XVI: non ho scritto di “missione” agli ebrei

Non «missione» agli ebrei ma «dialogo» con gli ebrei: Benedetto XVI torna ad affacciarsi in pubblico con una lettera – «correzione» – inviata alla rivista cattolica tedesca Herder Korrespondenz tesa a confutare un articolo di settembre con il quale il teologo di Wuppertal Michael Böhnke criticava uno scritto del Papa emerito riguardo il rapporto tra ebrei e cristiani comparso questa estate sulla rivista Communio .

 

Le accuse contenute nell’articolo di Böhnke sono «stupidaggini grottesche e non hanno nulla a che vedere con quanto ho detto in merito», scrive il Papa emerito 91enne nel messaggio. «Per questo respingo il suo articolo come un’insinuazione assolutamente falsa».

 

Nel merito di una delle questioni affrontate da Böhnke, la questione della «missione» agli ebrei, ossia della ipotesi di annunciare il Vangelo agli ebrei, è vero, scrive Benedetto XVI, che Cristo ha inviato i suoi discepoli in missione presso tutti i popoli e tutte le culture e dunque «il mandato della missione è universale – con un’eccezione: la missione agli ebrei non era prevista e non era necessaria semplicemente perché solo loro, tra tutti i popoli, conoscevano il ‘Dio sconosciuto’». Per quanto riguarda Israele, quindi, non vale la missione ma il dialogo sulla comprensione di Gesù di Nazareth, ossia se egli è «il Figlio di Dio, il Logos», atteso – secondo le promesse fatte al suo stesso popolo – da Israele e, inconsapevolmente, da tutta l’umanità. Riprendere questo dialogo è «il compito che ci pone l’ora presente».

 

Ebraismo e cristianesimo sono «due modi di interpretare le Scritture», scrive il Papa emerito. Per i cristiani, le promesse fatte a Israele sono la speranza della Chiesa e «chi vi si attiene non sta assolutamente mettendo in discussione i fondamenti del dialogo ebraico-cristiano».

 

Benedetto XVI, che sulla discussione sollevata dal suo articolo era già intervenuto la scorsa estate scrivendo al rabbino capo di Vienna, Arie Folger, firma la sua «correzione», che sarà pubblicata nel numero di dicembre di Herder Korrespondenz, «Joseph Ratzinger-Benedetto XVI».

Nel Documento pubblicato nel 2015 dalla Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo, si legge al paragrafo sei: «E’ facile capire che la cosiddetta ‘missione rivolta agli ebrei’ è una questione molto spinosa e sensibile per gli ebrei, poiché, ai loro occhi, riguarda l’esistenza stessa del popolo ebraico. Anche per i cristiani è un tema delicato, poiché considerano di fondamentale importanza il ruolo salvifico universale di Gesù Cristo e la conseguente missione universale della Chiesa. La Chiesa deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto -per principio- di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah».

LUMINOSISSIMA LETTERA/CATECHESI DI SUA SANTITA' BENEDETTO XVI


 

LETTERA  DI  SUA  SANTITÀ   BENEDETTO XVI

AL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TEDESCA

 

A Sua Eccellenza Reverendissima
Monsignor Robert Zollitsch
Arcivescovo di Freiburg
Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca

Herrenstraße 9
D-79098 FREIBURG

Dal Vaticano, 14 aprile 2012

Eccellenza,
Venerato, caro Arcivescovo,

In occasione della Sua visita del 15 marzo 2012, Lei mi ha fatto sapere che per quanto riguarda la traduzione delle parole “pro multis” nelle Preghiere Eucaristiche della Santa Messa ancora non c’è unità tra i Vescovi dell’area di lingua tedesca. Incombe, a quanto pare, il pericolo che per la pubblicazione della nuova edizione del “Gotteslob” [libro dei canti e preghiere], attesa in tempi brevi, alcune parti dell’area di lingua tedesca vogliano mantenere la traduzione “per tutti”, anche qualora la Conferenza Episcopale tedesca convenisse a scrivere “per molti”, così come richiesto dalla Santa Sede. Le avevo promesso che mi sarei espresso per iscritto riguardo a questa importante questione, al fine di prevenire una tale divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. La lettera che qui, per Suo tramite, indirizzo ai membri della Conferenza Episcopale Tedesca, sarà inviata anche agli altri Vescovi dell’area di lingua tedesca.

Anzitutto, mi lasci spendere brevemente una parola sulle origini del problema. Negli anni sessanta, quando bisognava tradurre in tedesco, sotto la responsabilità dei Vescovi, il Messale Romano, esisteva un consenso esegetico sul fatto che la parola “i molti”, “molti” in Isaia 53,11s, fosse una forma di espressione ebraica per indicare la totalità, “tutti”. La parola “molti” nei racconti dell’istituzione di Matteo e di Marco, sarebbe stata quindi un “semitismo” e avrebbe dovuto essere tradotta con “tutti”. Questo concetto si applicò anche al testo latino direttamente da tradurre, in cui il “pro multis” avrebbe rimandato, attraverso i racconti evangelici, a Isaia 53 e perciò sarebbe stato da tradurre con “per tutti”. Questo consenso esegetico, nel frattempo, si è sgretolato; esso non esiste più. Nella traduzione ecumenica tedesca della Sacra Scrittura, nel racconto dell’Ultima Cena, si legge: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (Mc 14,24; cfr Mt 26,28). Con questo si evidenzia una cosa molto importante: la resa di “pro multis” con “per tutti” non era affatto una semplice traduzione, bensì un’interpretazione, che sicuramente era e rimane fondata, ma tuttavia è già un’interpretazione ed è più di una traduzione.

Questa fusione di traduzione e interpretazione appartiene, in un certo senso, ai principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei libri liturgici nelle lingue moderne. Si era consapevoli di quanto la Bibbia ed i testi liturgici fossero lontani dal mondo del parlare e del pensare dell’uomo d’oggi, così che anche tradotti essi sarebbero rimasti ampiamente incomprensibili ai partecipanti alla liturgia. Era un’impresa nuova che i testi sacri fossero resi accessibili, in traduzione, ai partecipanti alla liturgia, pur rimanendo, tuttavia, a una grande distanza dal loro mondo; anzi, in questo modo, i testi sacri apparivano proprio nella loro grande distanza. Così, ci si sentì non solo autorizzati, ma addirittura in obbligo di fondere già nella traduzione l’interpretazione, e di accorciare in questo modo la strada verso gli uomini, il cui cuore ed intelletto si voleva fossero raggiunti appunto da queste parole.

Fino ad un certo punto, il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale del testo di base rimane giustificato. Dal momento che devo recitare le preghiere liturgiche continuamente in lingue diverse, noto che, talora, tra le diverse traduzioni, non è possibile trovare quasi niente in comune e che il testo unico che ne è alla base, spesso è riconoscibile soltanto da lontano. Vi sono state poi delle banalizzazioni che rappresentano delle vere perdite. Così, nel corso degli anni, anche a me personalmente, è diventato sempre più chiaro che il principio della corrispondenza non letterale, ma strutturale, come linea guida nella traduzione, ha i suoi limiti. Seguendo considerazioni di questo genere, l’Istruzione sulle traduzioni Liturgiam authenticam, emanata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti il 28 marzo 2001, ha posto di nuovo in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza ovviamente prescrivere un verbalismo unilaterale. L’acquisizione importante che è alla base di questa Istruzione consiste nella distinzione, a cui ho già accennato all’inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia nei confronti della parola della Scrittura, sia nei confronti dei testi liturgici. Da un lato, la parola sacra deve presentarsi il più possibile come essa è, anche nella sua estraneità e con le domande che porta in sé; dall’altro lato, è alla Chiesa che è affidato il compito dell’interpretazione, affinché – nei limiti della nostra attuale comprensione – ci raggiunga quel messaggio che il Signore ci ha destinato. Neppure la traduzione più accurata può sostituire l’interpretazione: rientra nella struttura della rivelazione il fatto che la Parola di Dio sia letta nella comunità interpretante della Chiesa, e che fedeltà e attualizzazione siano legate reciprocamente. La Parola deve essere presente quale essa è, nella sua propria forma, forse a noi estranea; l’interpretazione deve misurarsi con la fedeltà alla Parola stessa, ma al tempo stesso deve renderla accessibile all’ascoltatore di oggi.

In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale e non insieme già interpretata. Al posto della versione interpretativa “per tutti” deve andare la semplice traduzione “per molti”. Vorrei qui far notare che né in Matteo, né in Marco c’è l’articolo, quindi non “per i molti”, ma “per molti”. Se questa decisione è, come spero, assolutamente comprensibile alla luce della fondamentale correlazione tra traduzione e interpretazione, sono tuttavia consapevole che essa rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa. Infatti, per coloro che abitualmente partecipano alla Santa Messa questo appare quasi inevitabilmente come una rottura proprio nel cuore del Sacro. Essi chiederanno: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può ed è autorizzata a farlo? E’ qui in atto una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio? Per l’esperienza degli ultimi 50 anni, tutti sappiamo quanto profondamente i cambiamenti di forme e testi liturgici colpiscono le persone nell’animo; quanto fortemente possa inquietare le persone una modifica del testo in un punto così centrale. Per questo motivo, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione “molti”, si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto ne so, una tale catechesi finora non è stata fatta nell’area linguistica tedesca. L’intento della mia lettera è chiedere con la più grande urgenza a Voi tutti, cari confratelli, di elaborare ora una tale catechesi, per parlarne poi con i sacerdoti e renderla contemporaneamente accessibile ai fedeli.

In una tale catechesi si dovrà forse, in primo luogo, spiegare brevemente perché nella traduzione del Messale dopo il Concilio, la parola “molti” venne resa con “tutti”: per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l’universalità della salvezza che proviene da Lui. Ma poi sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell’Ultima Cena Egli ha detto “per molti”? E perché allora noi ci atteniamo a queste parole di istituzione di Gesù? A questo punto bisogna anzitutto aggiungere ancora che, secondo Matteo e Marco, Gesù ha detto “per molti”, mentre secondo Luca e Paolo ha detto “per voi”. Così il cerchio, apparentemente, si stringe ancora di più. Invece, proprio partendo da questo si può andare verso la soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù va oltre loro e la loro cerchia; che Egli era venuto per riunire da tutto il mondo i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52). Il “per voi”, rende, però, la missione di Gesù assolutamente concreta per i presenti. Essi non sono degli elementi anonimi qualsiasi di un’enorme totalità, bensì ogni singolo sa che il Signore è morto proprio “per me”, “per noi”. “Per voi” si estende al passato e al futuro, si riferisce a me del tutto personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti ed amati da Gesù in quanto tali. Quindi questo “per voi” non è una restrizione, bensì una concretizzazione, che vale per ogni comunità che celebra l’Eucaristia e che la unisce concretamente all’amore di Gesù. Il Canone Romano ha unito tra loro, nelle parole della consacrazione, le due letture bibliche e, conformemente a ciò, dice: “per voi e per molti”. Questa formula è stata poi ripresa, nella riforma liturgica, in tutte le Preghiere Eucaristiche.

Ma, ancora una volta: perché “per molti”? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, in quanto Figlio di Dio fatto uomo, sia l’uomo per tutti gli uomini, sia il nuovo Adamo, fa parte delle certezze fondamentali della nostra fede. Su questo punto vorrei solamente ricordare tre testi della Scrittura: Dio ha consegnato suo Figlio “per tutti”, afferma Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8,32). “Uno è morto per tutti”, dice nella Seconda Lettera ai Corinzi, parlando della morte di Gesù (2 Cor 5,14). Gesù “ha dato se stesso in riscatto per tutti”, è scritto nella Prima Lettera a Timoteo (1 Tm 2,6). Ma allora, a maggior ragione ci si deve chiedere, ancora una volta: se questo è così chiaro, perché nella Preghiera Eucaristica è scritto “per molti”? Ora, la Chiesa ha ripreso questa formulazione dai racconti dell’istituzione nel Nuovo Testamento. Essa dice così per rispetto verso la parola di Gesù, per mantenersi fedele a Lui fin dentro la parola. Il rispetto reverenziale per la parola stessa di Gesù è la ragione della formulazione della Preghiera Eucaristica. Ma allora noi ci chiediamo: perché mai Gesù stesso ha detto così? La ragione vera e propria consiste nel fatto che, con questo, Gesù si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53, ha dimostrato di essere quella figura che la parola del profeta stava aspettando. Rispetto reverenziale della Chiesa per la parola di Gesù, fedeltà di Gesù alla parola della “Scrittura”: questa doppia fedeltà è la ragione concreta della formulazione “per molti”. In questa catena di fedeltà reverenziale, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura.

Come abbiamo visto anteriormente che il “per voi” della traduzione lucano-paolina non restringe, ma concretizza; così ora possiamo riconoscere che la dialettica “molti” – “tutti” ha il suo proprio significato. “Tutti” si muove sul piano ontologico – l’essere ed operare di Gesù comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, Egli giunge solo a “molti”. Allora è possibile riconoscere un triplice significato della correlazione di “molti” e “tutti”. // Innanzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, dovrebbe significare sorpresa, gioia e gratitudine perché Egli mi ha chiamato, perché posso stare con Lui e posso conoscerlo. “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa …” [canto religioso “Fest soll mein Taufbund immer stehen”, strofa 1]. // Poi, però, in secondo luogo questo significa anche responsabilità. Come il Signore, a modo suo, raggiunga gli altri – “tutti” – resta, alla fine, un mistero suo. Senza dubbio, però, costituisce una responsabilità il fatto di essere chiamato da Lui direttamente alla sua mensa, così che posso udire: “per voi”, “per me”, Egli ha patito. I molti portano responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sul monte, lievito per tutti. Questa è una vocazione che riguarda ciascuno, in modo del tutto personale. I molti, che siamo noi, devono sostenere la responsabilità per il tutto, consapevoli della propria missione. // Infine, si può aggiungere un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto “molti”, ma molto pochi – una piccola schiera, che continuamente si riduce. Invece no – noi siamo “molti”: “Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”, dice l’Apocalisse di Giovanni (Ap 7,9). Noi siamo molti e rappresentiamo tutti. Così ambedue le parole “molti” e “tutti” vanno insieme e si relazionano l’una all’altra nella responsabilità e nella promessa.

Eccellenza, cari confratelli nell’Episcopato! Con tutto questo, ho voluto indicare le linee fondamentali di contenuto della catechesi per mezzo della quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati il più presto possibile alla nuova traduzione. Auspico che tutto questo possa servire, allo stesso tempo, ad una più profonda partecipazione alla Santa Eucaristia, inserendosi così nel grande compito che ci aspetta con “l’Anno della fede”. Posso sperare che la catechesi venga presentata presto e diventi così parte di quel rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio si è impegnato fin dalla sua prima sessione.
Con la benedizione e i saluti pasquali,
Mi confermo Suo nel Signore

Benedictus PP. XVI