mercoledì 4 dicembre 2019

Sarah Salviander: Quello che so è che quello che ho letto ha cambiato la mia vita per sempre.

La conversione dell’astrofisica Salviander: «ho percepito un ordine nell’Universo»

ordine universoHa fatto il giro di molti siti web internazionali la testimonianza della dott.ssa Sarah Salviander, ricercatrice presso il Dipartimento di Astronomia dell’Università del Texas e docente di Astrofisica presso la Southwestern University. La storia della sua conversione è davvero incredibile, originatasi dai suoi studi scientifici e dalla morte della figlia. Vale la pena prendersi cinque minuti per leggere le sue parole.
«Sono nata negli Stati Uniti, ma cresciuta in Canada», ha scritto la scienziata riassumendo quanto ha raccontato nel periodo pasquale in una chiesa di Austin (Texas) dove era stata invitata. «I miei genitori erano atei anche se preferivano definirsi “agnostici”, sono stati gentili, amorevoli e morali, ma la religione non ha giocato alcun ruolo nella mia infanzia».
«Il Canada era già un paese post-cristiano», ha proseguito, «col senno di poi è incredibile come per i primi 25 anni della mia vita ho incontrato solo tre persone che si sono identificate come cristiane. La mia visione del cristianesimo era fortemente negativa, guardando indietro ho capito che era dovuto all’assorbimento inconscio della generale ostilità verso il cristianesimo comune in Canada e in Europa. Non conoscevo nulla del cristianesimo ma pensavo che rendeva le persone deboli e sciocche, filosoficamente banale».
A venticinque anni la Salviander, che allora abbracciava la filosofia razionalista del filosofo Ayn Rand, si è trasferita negli Stati Uniti per frequentare l’università: «Mi sono iscritta al programma di fisica presso la Eastern Oregon University percependo subito l’aridità e la sterilità dell’oggettivismo razionalista, incapace di rispondere alle grandi domande: qual è lo scopo della vita? Da dove veniamo? Perché siamo qui? Cosa succede quando moriamo? Mi sono anche accorta che soffriva di una coerenza interna: tutta l’attenzione è rivolta alla verità oggettiva ma mancava una fonte per quella verità. E, tutti concentrarti a godersi la vita, gli oggettivisti razionalisti non sembravano provare alcuna gioia. Al contrario, erano rabbiosamente preoccupati di rimanere indipendenti da qualsiasi pressione esterna».
L’attenzione è stata così completamente rivolta agli studi di fisica e matematica, «sono entrata nei club universitari, cominciai a fare amicizia, e, per la prima volta nella mia vita, ho incontrando i cristiani. Non erano come i razionalisti: erano gioiosi, contenti e intelligenti, molto intelligenti. Sono rimasta stupita di scoprire che i miei professori di fisica, che ammiravo, erano cristiani. Il loro esempio personale ha cominciato ad avere una certa influenza su di me, ritrovandomi sempre meno ostile al cristianesimo. In estate, dopo il mio secondo anno, ho partecipato a uno stage di ricerca presso l’Università della California aderendo ad un gruppo del Center for Astrophysics and Space Sciences impegnato nello studiare le prove del Big bang. Sembrava incredibile trovare la risposta alla domanda sulla nascita dell’Universo, mi ha fatto pensare all’osservazione di Einstein che la cosa più incomprensibile sul mondo è che è comprensibile. Ho cominciato a percepire un ordine sottostante all’universo. Senza saperlo, stavo risvegliando in me quello che il Salmo 19 dice chiaramente: “I cieli narrano la gloria di Dio; il firmamento annunzia l’opera delle sue mani”».
Dopo questa intuizione la sua ragione si progressivamente trasformata in un’apertura al Mistero«ho iniziato a rendermi conto che il concetto di Dio e della religione non erano così filosoficamente banale come avevo pensato. Durante il mio ultimo anno ho incontrato uno studente di informatica finlandese. Un uomo di forza, onore e profonda integrità che come me era cresciuto come ateo in un paese laico, ma aveva abbracciato Gesù Cristo come suo personale Salvatore a vent’anni attraverso un’intensa esperienza personale. Ci siamo innamorati e sposati. In qualche modo, anche se non ero religiosa, ero confortata nel sposare un uomo cristiano. Mi sono laureata in fisica e matematica in quell’anno e in autunno ho iniziato ad insegnare Astrofisica presso l’Università del Texas a Austin».
Il penultimo passaggio del suo percorso è stato l’incontro, anch’esso casuale, con un libro scritto da Gerald SchroederThe Science of God«Sono stata incuriosita dal titolo, ma qualcos’altro mi ha spinto a leggerlo, forse la nostalgia per una connessione più profonda con Dio. Tutto quello che so è che quello che ho letto ha cambiato la mia vita per sempre. Il dottor Schroeder è un fisico del MIT e un teologo, mi resi conto che incredibilmente la Bibbia e la scienza sono completamente d’accordo. Ho letto anche i Vangeli e ho trovato la persona di Gesù Cristo estremamente convincente, mi sentivo come Einstein quando disse di essere “affascinato dalla figura luminosa del Nazareno”. Eppure, nonostante avessi riconosciuto la verità e fossi intellettualmente sicura, non ero ancora convinta nel mio cuore».
L’approdo al cristianesimo è avvenuto solamente due anni fa attraverso un drammatico evento«mi è stato diagnosticato il cancro, non molto tempo dopo mio ​​marito si è ammalato di meningite ed encefalite, guarendo per fortuna soltanto tempo dopo. La nostra bambina aveva circa sei mesi e abbiamo scoperto che soffriva trisomia 18, un’anomalia cromosomica fatale. Ellinor è morta poco tempo dopo. E’ stata la perdita più devastante della nostra vita, mi ha colto la disperazione fino a quando ho lucidamente avuto una visione della nostra bambina tra le braccia amorevoli del suo Padre celeste: solo allora ho trovato la pace. Pensai che, dopo tutte queste prove, io e mio marito non eravamo solo più uniti ma anche più vicini a Dio. La mia fede era reale. Io non so come avrei fatto di fronte a tali prove se fossi rimasta atea. Quando si hanno venti anni si è in buona salute, c’è la famiglia intorno e ci si sente immortali. Ma arriva un momento in cui la sensazione di immortalità svanisce e si è costretti a confrontarsi con l’inevitabilità del proprio annientamento e di quello dei propri cari».
Nella conclusione la dott.ssa Salviander ha spiegato i motivi della sua testimonianza pubblica: «Amo la mia carriera di astrofisico. Non riesco a pensare a nient’altro di meglio che studiare il funzionamento dell’universo e mi rendo conto ora che l’attrazione che ho sempre avuto verso lo spazio altro non era che un desiderio intenso di una connessione con Dio. Non dimenticherò mai quando uno studente, poco tempo dopo la mia conversione, si è avvicinato chiedendomi se era possibile essere uno scienziato e credere in Dio. Gli ho detto di si, naturalmente. L’ho visto visibilmente sollevato e mi ha riferito che un altro professore gli aveva invece risposto negativamente. Mi sono chiesta quanto altri giovani erano alle prese con domande simili, così ho deciso di aiutare coloro che stanno lottando con il dubbio. So che sarà una strada difficile da percorrere, ma il significato del sacrificio di Gesù non lascia dubbi su quello che devo fare».
La redazione
AMDG et DVM

Lingua precisa ed essenziale

Don Roberto Spataro: “Il latino è patrimonio immateriale dell’umanità”

"Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro” potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino". (Giovannino Guareschi) Indice articoli dedicati al Latino.

Illustri professori e studenti, cari amici,
nella relazione che sto per presentare, attenendomi al titolo che mi è stato affidato, svilupperò tre punti. Anzitutto, definirò il concetto di patrimonio immateriale e lo applicherò alla lingua latina; in secondo luogo, mostrerò alcune caratteristiche del latino liturgico; infine, presenterò la cosiddetta “Messa tridentina”, comunemente designata anche come “Messa in latino”, che valorizza moltissimo il latino liturgico.

1) Per definire il concetto di “patrimonio immateriale”, vorrei rifarmi ad un’iniziativa promossa circa due anni e mezzo fa da una benemerita istituzione culturale italiana, l’Accademia “Vivarium Novum”, che, con il sostegno di altri prestigiosi partner europei, ha raccolto moltissime adesioni perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiari la lingua latina e la lingua greca antica “patrimonio culturale immateriale dell’umanità “. Nella petizione che è stata diffusa, era descritto, pur se con altre parole, come “patrimonio immateriale dell’umanità” un qualche bene spirituale intangibile capace di creare una sorta di comunione diacronica tra gli uomini che ne usufruiscono. Come tutti le ricchezze culturali, esprime sempre un’esperienza significativa dell’avventura umana sulla terra che possa toccare l’anima dell’uomo in quanto tale, senza esclusioni e senza barriere nel tempo e nello spazio.

Appartengono a questa categoria lingue, non mai e/o non più parlate da nessun popolo, che hanno svolto nella storia delle idee e della cultura un ruolo fondamentale. Gli esempi sono numerosi: il sanscrito, soprattutto in India, ha trasmesso dottrine e speculazioni filosofiche da epoche remotissime fino ai nostri giorni; l’arabo classico e il persiano medievale ci hanno consegnato le meditazioni dei mistici sufi e le discussioni dei pensatori che riflettevano con profondità sui loro testi sacri e sulle opere della filosofia greca; la lingua ebraica, di recente riportata in vita con la nascita dello Stato d’Israele, ha per quasi due millenni tramandato la sapienza religiosa di una comunità di credenti dispersa nell’orbe. Queste ed altre lingue, e le civiltà che esse esprimono, costituiscono un grande patrimonio, che va rispettato, apprezzato, tutelato. Se disperso e trascurato, tutti diventano più poveri culturalmente, il che equivale a dire, tutti diventano più poveri di umanità. (1)

È a tutti evidente che il concetto di “patrimonio immateriale”, così come descritto, si applichi alle lingue latina e greca. Chi potrà negare che anche e principalmente nelle civiltà greca e latina sussistano le radici storiche e il tesoro inesauribile della memoria comune dell’Europa?

Il latino è patrimonio immortale dell’umanità perché è la lingua di autori che definiamo “classici” in quanto, secondo una felice intuizione di Italo Calvino, ogni volta che entriamo in dialogo con loro, scopriamo sempre qualcosa di nuovo che si incide nella nostra anima (2). Sono classici perciò Virgilio, con la sua dolorosa meditazione delle umane vicende, Seneca che sosteneva che tutti gli uomini hanno la stessa dignità, Agostino che, nella sua sofferta e pur serena autobiografia, ha scoperto la psicologia del profondo. Non è necessario moltiplicare i nomi dei “classici” latini ed il loro imperituro messaggio. Vorrei, invece, ricordare che, dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuto nel V secolo in concomitanza con l’irruzione di nuovi popoli, la lingua latina diventò immortale, mai più destinata a perire. A partire dal V secolo comunità civili e politiche scelsero il latino per le conversazioni quotidiane, per l’allacciamento di relazioni, per la stesura degli atti burocratici, per la composizione di opere di letteratura, per la celebrazione della preghiera. In tal modo i popoli europei, dialogando tra loro con l’uso della medesima lingua, maturavano un unico e medesimo spirito. Scrissero in latino i monaci eruditi che, maestri alla corte palatina di Carlo Magno, coltivarono gli studi umanistici ed avviarono un rinascimento delle lettere e delle arti. Tra essi eccelle Alcuino. In latino composero le loro summae di teologia i pii dottori del Medioevo per mostrare il modo in cui gli uomini, con argomentazioni razionali, possono comprendere i misteri della fede cristiana. Ed il nostro pensiero va al più grande tra essi, Tommaso d’Aquino. In latino Dante Alighieri, come altri suoi contemporanei, trattò problemi di natura politica. In latino gli umanisti dei secoli XV e XVI sostennero la grandezza e la dignità dell’uomo, come Erasmo da Rotterdam, profeta della pace, o Thomas More martire della giustizia. Usarono il latino gli autori, come Francesco de Vittoria, il grande filosofo di Salamanca, che rivendicarono i diritti inviolabili delle popolazioni indigene contrastando l’avidità dei conquistadores. In latino approfondirono temi di matematica studiosi illustri, quale Giovanni Napier che nel XVI secolo scrisse un’opera intitolata “Mirifici logarithmorum canonis descriptio” (3). Quanti capolavori di natura letteraria, filosofica, teologica, giuridica, scientifica, matematica, biologica sono stati composti in questa lingua fino al secolo XIX! E persino nell’ambito politico, il latino, era la lingua dei parlamenti, come quello croato e quello ungherese fino al secolo XIX, o la lingua della corrispondenza di uomini dotti, mercanti, esploratori, missionari: un enorme patrimonio, davvero universale nel tempo e nello spazio.

2) Negli ambiti in cui la lingua latina è stata usata eccelle senz’altro la liturgia della Chiesa Cattolica che ha quasi spontaneamente scelto la lingua di Roma per elevare la sua preghiera a Dio negli atti più solenni, i sacramenti, soprattutto la Santa Messa, e l’Ufficio divino. Tra le varie cause che hanno portato a questa felicissima simbiosi tra la preghiera ufficiale della Chiesa e l’uso del latino, vorrei ricordarne una: il latino è una lingua sacra. Gli argomenti che adduco per sostenere questa tesi sono cinque.
  1. Anzitutto, le più remote testimonianze dell’uso letterario della lingua, rinviano ad un contesto rituale, gli antichissimi “carmina” perché le caratteristiche fonetiche del latino, con la sua alternanza di sillabe lunghe e brevi, con la sua sonorità robusta, ma mai sgraziata, di consonanti occlusive, ingentilita dalla frequenza di sibilanti e liquide, lo rende una lingua poetica e, dunque, la sottrae alla funzionalità della prosa, per immergerla nella sfera della bellezza, che è il mondo di Dio.
  2. Inoltre, il latino è una lingua “sacra”, come ha notato Michael Lang sulla scorta delle osservazioni di Christine Mohrmann, perché è immutabile (4). Il latino, infatti, nelle sue strutture morfologico-sintattiche si è fissato una volta per sempre, come ricordavamo, intorno al V secolo d.C., conoscendo solo un graduale e fecondo arricchimento lessicale.
  3. La lingua sacra, tra l’altro, è disponibile a recepire prestiti da altre lingue per esprimere realtà sacre, ed il latino liturgico si è mostrato molto duttile in questo tempo, recependo grecismi ed ebraismi.
  4. Infine, la lingua sacra ha una struttura retorica tipica dell’oralità e che allo stesso tempo conferisce maestà e bellezza: basta leggere una qualsiasi orazione del Messale romano per rendersi conto dell’elaborazione retorica, perfetta nella sua sobrietà: chiasmi, iperbati, allitterazioni, equilibrio perfetto tra i cola, rispetto delle clausole che danno un ritmo inconfondibile.
  5. C’è ancora un motivo evidente che fa del latino liturgico una lingua sacra. I testi liturgici sono plasmati come un’eco ed un approfondimento del testo sacro per antonomasia, la Bibbia. Per rivolgersi a Dio, infatti, le parole più appropriate sono quelle che Dio stesso, con la sua rivelazione, mette sulla bocca dei credenti e degli oranti. Ora, la Chiesa Cattolica ha assunto per la sua vita, per la sua preghiera e per la sua dottrina la Vulgata, ossia l’edizione latina della Bibbia, diffusa da Gerolamo nel IV secolo e poi rifatta dopo il Concilio di Trento.
3) E veniamo così all’ultima parte di questa relazione. Stabilito che il latino è un patrimonio immateriale dell’umanità e che, tra le sue espressioni, vi sia il latino liturgico in quanto il latino è una lingua sacra, vorrei affrontare una domanda che sicuramente è nata in ciascuna di noi: non ha forse la Chiesa Cattolica abbandonato l’uso del latino nella celebrazione della liturgia, con l’introduzione delle lingue nazionali, seguita alla riforma liturgica postconciliare? Il problema è complesso. Presento tre elementi che aiutano ad affrontare correttamente tale problema.

Anzitutto, va ricordato che i Padri del Concilio Vaticano II ammisero un uso limitato e ragionevole delle lingue nazionali che avrebbero dovuto coesistere accanto al latino (5). I motivi per i quali questa raccomandazione non sia stata rispettata ma stravolta saranno chiariti dagli storici.

In secondo luogo, tutte le editiones typicae dei testi liturgici sono in latino e i testi in lingue nazionali sono traduzioni dell’originale latino, operazione molto delicata perché è in gioco la fede della Chiesa, al punto che la Santa Sede avoca a sé il diritto/dovere di approvarle, prima di introdurle nella pratica. E sugli infiniti problemi delle traduzioni, vorrei fare due esempi. Al principio della Messa, sia nella forma ordinaria sia in quella straordinaria, si recita il Confiteor, pur se con alcune non irrilevanti variazioni tra l’una e l’altra. Questa bellissima preghiera si conclude con un appello del fedele alla Chiesa celeste e a quella militante di pregare a suo favore per ottenere il perdono dei peccati. In latino si dice: Ideo precor … orare pro me ad Dominum Deum nostrum. La traduzione in lingua italiana dice: “Supplico di pregare per me il Signore Dio nostro”, quella inglese “to pray for me to the Lord our God”. Eppure, in quel ad seguito dall’accusativo non è contenuto solamente il significato della direzione impressa alla preghiera, significato più comune nel tardo latino. Ad e l’accusativo, in dipendenza di un verbo che non indica movimento, come appunto confiteor, significano anche e principalmente “alla presenza di”. Quando si recita il Confiteor, insomma, ci mettiamo dinanzi a Dio perché nella Messa siamo realmente davanti a Lui, come peccatori, tutti quanti, e invochiamo il suo perdono perché siamo al cospetto di Colui che per perdonarci ha subito la Passione e la Morte: anche la posizione del Crocifisso ci aiuta ad assumere questo orientamento interiore. Ancora più sorprendente la traduzione in lingua italiana delle parole della consacrazione del Calice. ACCIPITE ET BIBITE EX EO OMNES: HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI NOVI ET AETERNI TESTAMENTI. La traduzione del Messale italiano dice: “Questo è il sangue per la nuova ed eterna alleanza”, un complemento di fine e non di specificazione. La traduzione è assolutamente inadeguata: al posto di un genitivo oggettivo-costitutivo, (questo è il sangue che “fa”, crea, costituisce la nuova e definitiva alleanza) c’è un ben più debole complemento “per la nuova ed eterna alleanza”. In questo punto, la lex orandi non corrisponde più alla lex credendi.

Infine, il Magistero supremo della Chiesa non ha mai cessato di incoraggiare l’uso della lingua latina anche nella liturgia rinnovata. In questo senso, l’esempio e l’insegnamento del Papa emerito, Benedetto XVI, sono stati luminosi. Tuttavia, vorrei ora proporre delle riflessioni su quella forma di celebrazione della Messa in cui l’uso della lingua latina è rimasto intatto ed integrale, la cosiddetta “forma straordinaria” del rito romano, secondo il Messale dell’anno 1962, che, con il Motu proprio Summorum Pontificum, è stato restituito alla Chiesa e che un numero di fedeli e di sacerdoti, per quanto estremamente esiguo rispetto alla maggioranza, ha adottato stabilmente (6).

La Messa tridentina – e così possiamo chiamarla – accentua molto la sacralità dell’azione perché è un atto di fede che potremmo così sintetizzare: Dio è presente in modo realissimo attraverso la consacrazione delle specie eucaristiche e nella Messa si rinnova in modo incruento il sacrificio del Calvario. Di fronte ad un evento tanto sublime, al sacerdote e ai fedeli viene chiesto di coltivare un atteggiamento di intima e convinta adesione, di silenziosa adorazione, di umile accoglienza, di preghiera raccolta. La lingua latina, in quanto lingua sacra, si addice sommamente ad esprimere quest’atmosfera. Christine Mohrmann, già citata, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre solo un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. Del resto, quasi tutte le grandi religioni adottano una lingua diversa da quella dell’uso quotidiano per gli atti di culto. Lo ricordava anche il Cardinale Ranjith in un’intervista di qualche anno fa: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (7). In un convegno, tenutosi a Pavia poco più di un anno fa, don Marino Neri, appassionato cultore della Messa tridentina, ha spiegato che il Latino introduce meglio al mistero, al momento in cui l’Altro per eccellenza si comunica sensibilmente a noi. L’alterità, espressa da luoghi, gesti, abiti “altri”, passa anche attraverso il “principe” dei segni, la parola, che non media solo significati destinati all’intelletto, ma conduce l’astante al rapporto personale religioso, che si nutre di segni. Si tratta né più né meno di un principio formulato da San Tommaso d’Aquino, il teologo che dice le cose più ragionevoli che io conosca: “Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono”. (8)

Alla sacralità del rito tridentino, potentemente ed efficacemente manifestata dall’uso del latino, lingua ieratica, si aggiungono altre caratteristiche in armoniosa simbiosi e che rendono la forma straordinaria del rito romano un’autentica esperienza mistica. Ne ricordo velocemente tre, ben note a coloro che vi hanno partecipato qualche volta o che abitualmente assistono alla Messa antica. Anzitutto, l’orientamento ad Deum, favorito dalla posizione assunta dai fedeli e dai celebranti che, spezzando il circolo un po’ autoreferenziale del guardarsi reciprocamente, volgono lo sguardo verso il Crocifisso, maestoso e semplice nel messaggio salvifico che trasmette: il Sangue di Cristo, sparso cruentemente sul Calvario, viene incruentemente effuso sull’Altare dove si rinnova il Santo Sacrificio. In secondo luogo, lo spazio dato al silenzio che avvolge discretamente l’intero svolgimento del rito, dalle apologie del sacerdote alla recitazione del Canon Missae, per dare risalto alla contemplazione e all’assimilazione intima del significato dei gesti compiuti e delle parole pronunciate. Infine, l’importanza della gestualità che, nella logica del simbolo, riassume l’antropologia cristiana, invitando i fedeli ad essere frequentemente in ginocchio per riconoscere la loro condizione creaturale di fronte al Creatore che li ama e li salva, e che nessuna dimensione della vita dell’uomo tralascia, neppure gli affetti diretti verso quell’Altare, figura eloquente di Cristo, vittima, sacerdote ed altare, che ripetutamente il sacerdote bacia delicatamente.

Concludo con un esempio della bellezza del latino liturgico, porzione non indifferente di questa lingua “patrimonio immateriale dell’umanità”. È una preghiera che il sacerdote pronunzia sommessamente alla fine della Messa, prima di impartire la benedizione finale, purtroppo scomparsa nella forma ordinaria del rito romano. Essa recita in tal modo:

Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meae: et praesta; ut sacrificium, quod oculis tuae maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile, mihique et omnibus, pro quibus illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
In questa preghiera Cielo e terra si uniscono nelle parole del sacerdote, la Trinità invocata al principio della preghiera, i fedeli tutti per i quali il sacerdote prega e lavora. Si alternano il congiuntivo, placeat, e l’imperativo, praesta, che sono i modi verbali della preghiera cristiana: quando parliamo a Dio esprimiamo umilmente una speranza, ed ecco il congiuntivo, ma osiamo anche chiedere fiduciosi, nel nome del Figlio, ed ecco l’imperativo. Le richieste sono espresse ordinatamente: anzitutto la gloria di Dio ed ecco la proposizione ut sacrificium sit acceptabile, e poi la salvezza delle anime, sit propitiabile, la stessa disposizione dell’Oratio dominica, del Padre nostro. Le preghiere sono espresse in un elegante parallelismo, ma esso viene, per così dire, deviato da un ablativo assoluto, cioè da quella costruzione tipica della lingua latina, che esprime le circostanze che accompagnano il racconto di un fatto o l’enunciazione di un pensiero. Quell’ablativo assoluto, che esce dalla struttura parallela, si impone allora come una luce che illumina tutta la preghiera: te miserante, proprio le parole del motto scelto dal Papa Francesco. La misericordia delle Tre persone della Santissima Trinità, il messaggio imperituro del Vangelo che l’attuale Sommo Pontefice ci sta ricordando incessantemente e che la Messa tridentina, ridonataci da Benedictus Magnus, ci lascia alla conclusione di ogni sua celebrazione!
Roberto Spataro
Pontificium Institutum Altioris Latinitatis
Università Pontificia Salesiana
__________________________________________
(1) Cf. An appeal to Unesco on behalf of the Latin and Greek heritage of humanity”. [qui]
(2) Cf. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano 1995.
(3) Cf. R. Spataro, Hortensius vel Sapientia veterum a Christifidelibus tradita, Grottaminarda (Av), 2014, p. 81.
(4) U. M. Lang, Il latino come lingua liturgica del Rito Romano. [qui]
(5) Cf. Sacrum Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Sacrosanctum Concilium, n. 36 §1, in Constitutiones, Decreta, Declarationes, cura et studio Secretariae Generalis Concilii Oecumenici Vaticani II, Typis Poliglottis Vaticanis, MCMLXVI, p. 22.
(6) Benedictus XVI, Litterae Apostolicae Motu proprio datae Summorum Pontificum (07.07.2007).
(7) M. Politi, Liturgia. Perché Ratzinger recupera il ‘sacro’, in “La Repubblica”, 31 luglio 2008, p. 42.
(8) Summa Theologiae III, 64, 2 (Ed. Leonina).

AMDG et DVM

lunedì 2 dicembre 2019

Il Magistero di Benedetto XVI: Il Papa: "Com’è possibile che si neghi a Dio, sole...

Il Magistero di Benedetto XVI: Il Papa: "Com’è possibile che si neghi a Dio, sole...: VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE A SANTIAGO DE COMPOSTELA E BARCELLONA (6 - 7 NOVEMBRE 2010): LO SPECIALE DEL BLOG DISCORSI ED OMELIE DE...





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SANTA BIBBIANA

Santa Bibiana

Nome: Santa Bibiana
Titolo: Martire
Ricorrenza: 02 dicembre
Tipologia: Commemorazione
Protettrice di:epilessiamalattie mentali




I cristiani dei primi tempi, siccome immensamente maggiori erano i bisogni della Chiesa, avevano anche doni e grazie straordinari. Ad essi era concesso sovente il dono dei miracoli. Per questo e perché professavano la religione cattolica, che ai pagani sembrava assurda ed impraticabile, erano ritenuti maghi ed aventi relazioni cogli spiriti infernali. Imbevuti di queste false teorie i pagani attribuivano perciò ai cristiani ogni sciagura privata o pubblica.

Se venivano sconfitti in battaglia, se moriva loro un figlio od altra persona amata, o se altri era impedito di realizzare i suoi desideri, sovente iniqui, la colpa era certamente dei seguaci di Gesù Cristo.

Fu così che Aproniano, governatore di Roma, avendo perduto un occhio in guerra, attribuì la sciagura alle magie dei cristiani e si propose di estirpare dall'impero quegli uomini malefici.

Fra i martiri più celebri, vittime del furore e della vendetta di Aproniano, vi fu S. Bibiana.

Essa era una vergine nativa di Ròma. Suo padre Flaviano e sua madre Dafrosa, con la sorella Demetria, erano tutti ottimi cristiani. Scoperti e accusati come tali, Flaviano fu dimesso dalla carica, e dopo essere stato bruciacchiato in viso con un ferro rovente, venne esiliato ad Aquapendente, ove pochi giorni dopo morì. Dafrosa fu decapitata fuori della città.

Rimanevano Bibiana e Demetria che s'incoraggiavano a vicenda e si preparavano al martirio. Ambedue arrestate, per cinque mesi provarono le privazioni e le angustie del carcere, dopo i quali Demetria, confessata generosamente la fede di Gesù Cristo, morì ai piedi del giudice durante l'interrogatorio.

Restava solo Bibiana: vedendo Aproniano che questa non cedeva alle sue lusinghe, s'appigliò al mezzo più infame e diabolico. Rinchiuse la casta vergine nel carcere con una certa Ruffina, donna malvagia e di pessimi costumi perché la inducesse al male.

La giovane però ebbe la forza di resistere e superare quest'ultima e grandissima prova e di conservare illibato il giglio della purezza.

Vieppiù irato il governatore per tanta fortezza in una giovane verginella, la fece uccidere con le verghe.



PRATICA. Per vincere la battaglia della purezza occorre preghiera, mortificazione e vigilanza.

PREGHIERA. O Signore Gesù che nel martirio della tua serva Bibiana, ci hai dato un saggio mirabile di fortezza e di amor di Dio, fa' che esercitando noi pure queste virtù, arriviamo un giorno a goderti nel cielo.

PROVERBIO: Se piove il giorno di santa Bibiana piove 40 giorni e una settimana

MARTIROLOGIO ROMANO. A Roma la passione di santa Bibiàna, Vergine e Martire, la quale, sotto il sacrilego Imperatore Giuliano, fu per Cristo percossa con flagelli piombati, finché non rese lo spirito.

AMDG et DVM

CERCARE L'AMATO

2 dicembre 2019
Risultato immagini per san giovanni della croce
STROFA 3
In cerca dei miei amori
mi spingerò tra i monti e le riviere,
non coglierò fiori
né temerò le fiere,
ma passerò i forti e le frontiere.

SPIEGAZIONE

1. All’anima non bastano i gemiti e le preghiere né l’aiuto d’intermediari per conversare
con l’Amato, come ha fatto nelle precedenti strofe, ma insieme a questo ella stessa deve
mettersi a cercarlo. Questo è il pensiero che esprime nella presente strofa: cercare
l’Amato, esercitandosi nelle virtù e nelle mortificazioni della vita contemplativa e
attiva. A tale scopo, non ammetterà alcun piacere o comodità, né basteranno a fermarla 
o ad ostacolarle il cammino tutte le forze e le insidie dei tre nemici dell’anima: il
mondo, il demonio e la carne. Perciò dice: In cerca dei miei amori,
cioè del mio Amato, mi spingerò tra i monti e le riviere.

3. Essa chiama le virtù monti, anzitutto per la loro altezza e poi per le difficoltà e la
fatica che si affrontano nel salirvi, quando si esercita nella vita contemplativa. Chiama,
inoltre, riviere le mortificazioni, gli atti di umiltà e il disprezzo di sé, quando esercita
queste cose nella vita attiva; infatti, per acquisire le virtù, sono necessarie l’una e l’altra
vita. Il che, dunque, equivale a dire: per cercare il mio Amato metterò in opera le alte
virtù e mi umilierò nelle mortificazioni e negli esercizi più modesti. Dice questo perché
la ricerca di Dio consiste nel fare il bene in lui e mortificare il male in sé, come si dice
dopo: non coglierò fiori.

4. Poiché per cercare Dio si richiede un cuore spoglio e forte, libero da tutti i mali e da
tutti i beni che non siano esclusivamente Dio, nel verso presente e nei seguenti l’anima
parla della libertà e della forza necessarie per cercarlo. 

Sostiene, quindi, che non si
fermerà a cogliere i fiori che troverà lungo il cammino e che rappresentano tutte le
voglie, le soddisfazioni e i piaceri che le si possono offrire in questa vita: tutto questo
potrebbe ostacolare il cammino, se volesse coglierli e goderli. 

Gli ostacoli sono di tre
tipi: terreni, sensibili e spirituali. Sia gli uni che gli altri occupano il cuore e
impediscono lo spogliamento spirituale richiesto per camminare direttamente nella via
di Cristo, se l’anima dovesse soffermarvisi od occuparsene. Per cercare Cristo, afferma
che non si attarderà a cogliere cose del genere. È come se dicesse: non riporrò il mio
cuore nelle ricchezze e nei beni offerti dal mondo, né accoglierò le consolazioni e i
piaceri della mia carne, né indugerò nei gusti e nei conforti del mio spirito, per non
essere trattenuta nella ricerca dei miei amori per i monti delle virtù e delle fatiche.
Dicendo così, segue il consiglio che dà il profeta Davide a coloro che percorrono questo
cammino: Divitiae si affluant, nolite cor apponete: Anche se abbondano le ricchezze,
non attaccatevi il cuore (Sal 61,11). Questo vale sia per le soddisfazioni sensibili che
per gli altri beni terreni e le consolazioni spirituali. Ne segue che non solo i beni terreni
e i piaceri corporali impediscono e ostacolano il cammino verso Dio, ma anche le
consolazioni e i conforti spirituali, se posseduti o cercati con attaccamento, impediscono
di seguire la via della croce dello Sposo Cristo. Chi vuole progredire, quindi, non deve
attardarsi a cogliere questi fiori. Non solo, ma deve avere anche il coraggio e la forza
per dire: né temerò le fiere, ma passerò i forti e le frontiere.

5. In questi versi l’anima cita i suoi tre nemici – il mondo, il demonio e la carne – che le
fanno guerra e rendono difficile il cammino spirituale. Per fiere intende il mondo, per
forti il demonio e per frontiere la carne.

6. Chiama fiere il mondo perché, all’anima che inizia il cammino di Dio, il mondo si
presenta nell’immaginazione come una fiera che minaccia e spaventa, soprattutto
secondo tre maniere. La prima le fa pensare che perderà il favore del mondo, gli amici,
la stima, il prestigio e persino il patrimonio. La seconda – una fiera non meno terribile –
le fa vedere quanto dovrà soffrire non avendo più le gioie e i piaceri del mondo e non
provando più le sue lusinghe. La terza, ancora più grande, le fa pensare che le si
solleveranno contro le male lingue, deridendola e beffeggiandola con motteggi e burle, e 
sarà stimata pochissimo. Simili minacce di solito si presentano ad alcune anime tanto da
rendere loro difficilissima non solo la perseveranza contro queste fiere, ma anche la
possibilità d’intraprendere il cammino.

7. Ad alcune anime più generose, però, spesso si presentano altre fiere più interiori e
spirituali: difficoltà e tentazioni, tribolazioni e prove di vario genere che esse dovranno
affrontare. Dio invia tali fiere a coloro che vuole elevare a una perfezione maggiore,
provandoli ed purificandoli come l’oro sul fuoco, secondo quanto afferma Davide:
Multae tribulationes iustorum, cioè: Molte sono le sventure dei giusti, ma li libera da
tutte il Signore (Sal 33,20). Tuttavia l’anima profondamente innamorata, che stima il
suo Amato più di ogni altra cosa, fidandosi del suo amore e del suo favore non teme di
dire: né temerò le fiere, ma passerò i forti e le frontiere.

8. Chiama forti il secondo nemico, i demoni, perché essi cercano con grande forza di
sbarrare il passo di questo cammino e anche perché le loro tentazioni e astuzie sono più
forti e dure da superare e più difficili da riconoscere rispetto a quelle del mondo e della
carne. Inoltre i demoni si rafforzano con gli altri due nemici, il mondo e la carne, per
muovere un’aspra guerra all’anima. Per questo Davide, parlando di essi, li chiama forti:
Fortes quaesierunt animam meam: I forti insidiano la mia vita (Sal 53,5). 
    A questa forza si riferisce anche il profeta Giobbe quando dice che non c’è sulla terra potere
paragonabile a quello del demonio e tale che di nessuno debba aver paura (Gb 41,24
Volg.), cioè nessun potere umano può essere paragonato al suo. Solo il potere divino,
quindi, può vincerlo e solo la luce divina può scoprire i suoi inganni. Ecco perché
l’anima che deve vincere la sua forza non potrà riuscirvi senza la preghiera, né potrà
scoprire i suoi inganni senza l’umiltà e la mortificazione. Per questo san Paolo, volendo
mettere in guardia i fedeli, usa queste espressioni: Induite vos armaturam Dei, ut
possitis stare adversus insidias diaboli, quoniam non est vobis colluctatio adversus
carnem et sanguinem: Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie
del diavolo; la nostra battaglia, infatti, non è contro creature fatte di sangue e di carne
(Ef 6,11-12). Per sangue intende il mondo e per armatura di Dio la preghiera e la croce
di Cristo, ove risiedono l’umiltà e la mortificazione di cui ho parlato.

9. L’anima aggiunge che passerà oltre le frontiere, con le quali – ripeto – indica le
ripugnanze e le ribellioni che la carne solleva naturalmente contro lo spirito. Come dice
san Paolo: Caro enim concupiscit adversus spiritum: La carne ha desideri contrari allo
Spirito(Gal 5,17), e si pone quasi sul confine ostacolando il cammino spirituale.
L’anima deve andare oltre queste frontiere, superando le difficoltà e abbattendo con la
forza e la determinazione dello spirito tutti gli appetiti sensuali e le affezioni naturali.
       Difatti, finché questi persisteranno nell’anima, lo spirito sarà talmente soggiogato da
non poter andare avanti verso la vera vita e il diletto spirituale. Tutto questo ci fa ben
comprendere san Paolo quando afferma: Si spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis:
Se con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,13).
Questo dunque è l’atteggiamento che, secondo la presente strofa, l’anima ritiene
opportuno adottare lungo il cammino di ricerca del suo Amato. Vale a dire: costanza e
arditezza per non abbassarsi a cogliere i fiori, coraggio per non temere le fiere e forza
per superare i forti e le frontiere, con l’unico scopo di andare sui monti e lungo le riviere
delle virtù, come ho spiegato sopra. 

AMDG et DVM