lunedì 3 agosto 2015

SAN DOMENICO DI GUZMAN


LA VITA

di P. Gerardo Cioffari OP
Domenico e i suoi ideali

     Il fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, Domenico di Guzman[1], canonico della cattedrale di Osma, era nato a Caleruega (Castiglia, Spagna) in un anno tra il 1171 e il 1175, in una famiglia della nobiltà locale. Notevole influenza sul suo carattere ebbe la madre Giovanna Aza. Uno zio arciprete consigliò Palencia quale città adatta a completare gli studi di arti liberali. Domenico vi si recò, applicandosi per alcuni anni. Non sembra tuttavia che li portasse a termine, dedicandosi piuttosto agli studi sacri, oltre che ovviamente alla grammatica e alla dialettica. Non aveva infatti una predisposizione allo studio per lo studio, ma solo in vista di scopi più alti. Così si spiega anche l’episodio accaduto a Palencia e narrato da Giordano di Sassonia nel suo “Libretto sui primi tempi dell’Ordine dei Predicatori”: Scosso dalla miseria dei poveri e divorato dalla compassione, risolvette con un unico gesto di obbedire ai consigli evangelici e di alleviare nel modo che gli era possibile la miseria dei poveri che morivano. E vendette i libri che possedeva, libri a lui indispensabili fra l’altro, e tutte le sue suppellettili. Dando origine ad una elemosina, Domenico distribuì i suoi beni ai poveri [2]. E secondo un altro testimone, al momento di vendere manoscritti e pergamene per dare il ricavato ai poveri, Domenico avrebbe detto: Non voglio certo studiare su pelli morte, mentre delle persone muoiono di fame [3].
    Sul finire del suo soggiorno di studi a Palencia, Domenico fu avvicinato dal priore del capitolo di Osma, Diego de Acebés, che lo convinse a seguirlo e ad entrare in quel capitolo di canonici, il quale già da qualche decennio aveva intrapreso un cammino di riforma. Di conseguenza, pur trattandosi di chierici e sacerdoti secolari, avevano in parte condiviso alcune forme della vita religiosa. Dicevano l’ufficio divino in comune e parecchi di loro vivevano in abitazioni annesse alla chiesa.  Entrato verso il 1198 nel capitolo della Cattedrale di Osma, ne divenne il sottopriore nel 1201, mentre Diego era elevato alla cattedra episcopale.
       Dovendo nel 1202 recarsi in Danimarca quale ambasciatore del re di Castiglia Alfonso VIII, allo scopo di chiedere la mano di una nobile per il figlio Ferdinando, il vescovo volle con sé il giovane sottopriore del capitolo. Durante quel lungo viaggio i due attraversarono il territorio di Tolosa e, giunti a destinazione, ottennero il consenso della fanciulla. Tuttavia, rientrarono ben presto in Spagna, dovendo attendere che i promessi sposi raggiungessero l’età prevista per il matrimonio. Quando ciò avvenne nel 1205, Diego e Domenico ripartirono per riprendere il filo del discorso, ma, arrivati in Danimarca, appresero che la nobile fanciulla era morta.
     Durante il loro breve soggiorno a corte vennero a conoscenza dei popoli ancora pagani dell’Europa orientale e specialmente dei Cumani. Presi dal desiderio di andare ad evangelizzarli, mandarono un’ambasceria al re di Castiglia per informarlo sulla morte della fanciulla, e i due si recarono a Roma dal papa Innocenzo III. Questi però, dopo averli ascoltati, si rifiutò di accondiscendere alla loro richiesta. E’ ancora Giordano di Sassonia a descrivere l’incontro: Il  papa non accondiscese a quella richiesta. Non solo, ma non gli consentì nemmeno, nonostante che Diego lo supplicasse di ingiungerglielo in remissione dei propri peccati, di entrare nei confini dei Cumani, pur con la dignità episcopale: e ciò per occulto disegno di Dio che aveva disposto di volgere ad altra abbondante messe le fatiche di un uomo così eccezionale[4] .
      Ripresero così il cammino per rientrare in Spagna. Sulla via del ritorno nel 1206 Domenico e il suo vescovo attraversarono la Francia meridionale, giungendo a Montpellier. Fu qui che incontrarono un gruppo di ecclesiastici impegnati a discutere sui metodi per affrontare gli eretici, che ormai si erano addirittura organizzati ecclesiasticamente nella regione. Questi eretici erano i Catari (puri), detti anche Albigesi perché nella città di Albi avevano il loro quartier generale.
      La forza trascinatrice dei movimenti ereticali nasceva dal fatto che proponevano un esempio di rigorosa povertà evangelica, che rigettava tutti i compromessi accettati dalla chiesa cattolica per fronteggiare le esigenze dei tempi. Un esempio era stato una quarantina d’anni prima Pietro Valdo (da cui i Valdesi), il ricco mercante di Lione che nel 1174 aveva abbandonato tutte le sue ricchezze per abbracciare una vita di povertà. I suoi seguaci si presentarono al concilio Lateranense del 1179, ricevendo un netto rifiuto alla loro richiesta di darsi alla predicazione, a meno che non ne fossero espressamente richiesti dai sacerdoti del luogo (nisi rogantibus sacerdotibus). L’aspetto istituzionale e dogmatico si sviluppò variamente e in tempi diversi. Come Valdo, anche i Patareni della Lombardia (noti anche come Umiliati o boni homines) erano interessati soprattutto ad una vita rigorosa, senza però il concetto dell’itineranza né di rinuncia ai beni[5].
    A differenza dei Valdesi e degli Umiliati, i Catari o Albigesi si erano già organizzati ecclesiasticamente ed avevano elagorato un sistema dottrinale, il che faceva sì che la loro fosse una chiesa concorrente alla chiesa ufficiale. Dal punto di vista dottrinale, essi credevano che il mondo materiale fosse stato creato da Satana, come quello spirituale da Dio. Gli uomini sono quegli angeli che Satana nel combattimento è riuscito a strappare a Dio e che, a causa del loro desiderio di tornare in cielo, ha rinchiuso in un involucro corporeo. Di conseguenza la condizione umana è una dolorosa prigionia. Cristo stesso non era che uno degli angeli che non aveva partecipato alla ribellione. La sua nascita dalla Vergine come il suo involucro terreno non erano che apparenza, essendo egli venuto non a redimere l’uomo col suo sacrificio, ma ad insegnargli la Buona Novella. Da questa si apprende che lo spirito dell’uomo, se assimila la dottrina catara e riceve il Consolamentum, può liberarsi del corpo e tornare a Dio. Per rendere efficace il Consolamentum , cioè questo battesimo spirituale, è necessario fare i digiuni, osservare la castità, non uccidere né uomini né animali. Tutte cose, spesso buone, ma che spinte all’estremo comportavano conseguenze sociali disastrose, come ad esempio l’esaltazione della castità implicava la negazione del matrimonio[6].
      Come si può vedere, non si trattava della negazione di questa o quella verità rivelata, come gli antichi eretici, ma di una visione mitica che, ispirandosi ad alcune narrazioni bibliche, proponeva un sistema dottrinale totalmente diverso da quello cristiano. Questa grande “distanza” dottrinale era forse la causa principale dell’insuccesso dei legati papali, vale a dire l’abate del famoso monastero di Citaux, Arnaldo Amaury, e i monaci di Fontfroide, Pietro di Castelnau e maestro Raoul, tutti col titolo di legati pontifici già da due anni. Gli insuccessi di quei due anni li avevano provati, per cui quando Diego propose di affrontare gli eretici secondo lo spirito apostolico, rinunciando cioè  alle cavalcature, ne furono prosternati, ma accettarono il consiglio. Anzi, dato che l’abate di Citaux doveva assentarsi per presiedere il capitolo generale del suo Ordine, affidarono a Diego la guida della missione.
     Da parte sua Domenico, seguendo anche qui una modalità cara agli eretici albigesi, fondò a Prouille una comunità femminile che con la preghiera e col loro servizio fungesse di appoggio alla predicazione. Poi, passando a Tolosa, ebbe la gioia di vedersi accolto dal vescovo Folco, che benedisse alcune donazioni fatte a lui e ad alcuni suoi primi seguaci [7]. Innocenzo III non mancò di esprimere la sua soddisfazione per il fatto che Domenico e Diego si fossero aggregati ai legati papali nella sancta Praedicatio.
     Non di rado questi legati vennero a trovarsi di fronte agli albigesi in veri e propri dibattiti pubblici. Di uno di questi, quello di Montreal, ci è pervenuta notizia. Dinanzi al signore della città e a quattro giudici laici si affrontarono con tante argomentazioni e citazioni dal Nuovo Testamento Diego, Raoul, Domenico e Pietro di Castelnau da parte cattolica, Guilberto di Castres, Ponzio Giordano, Benedetto di Termes e il diacono Arnaldo Ottone da parte albigese [8].
     La disputa durò due settimane e, poco a poco, il ruolo di Domenico diventò sempre più preminente. Si è tramandato al riguardo l’episodio secondo cui, incapaci forse di esprimere un giudizio definitivo, i giudici proposero di gettare tra le fiamme il foglio redatto da Domenico contenente citazioni dalla Scrittura e dai Padri. Il foglio non bruciò, benché fosse gettato una seconda ed una terza volta tra le fiamme[9]. Ciò nonostante, la conclusione fu equidistante e a nessuna delle due parti fu assegnata la vittoria, anche se, secondo le fonti cattoliche,  la vicenda portò circa 150 persone alla conversione.
    Tra il mese di maggio e di giugno del 1207 la schiera dei predicatori si era enormemente ingrossata al punto da raggiungere quasi una quarantina di unità, la maggior parte dei quali appartenenti all’Ordine dei cistercensi. Nonostante la quantità però le cose stagnavano, anche perché gli eretici divenivano sempre più aggressivi. Prima la morte di Raoul, poi la partenza di Diego per la Castiglia (ove sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1207), indebolirono alquanto l’efficacia della predicazione.
     Le cose sembravano avviate ad un punto morto e senza sbocchi di rilievo, quando all’improvviso un episodio non accese l’atmosfera. La svolta in questione si verificò ai primi di gennaio del 1208, quando il legato Pietro di Castelnau affrontò direttamente il conte di Tolosa Raimondo VI rinfacciandogli la sua protezione degli eretici. Il conte gli rispose altrettanto duramente. Sembrava uno dei soliti fuochi di paglia destinato a rimanere senza esito. Ma, mentre si allontanava dalla città, il legato pontificio fu raggiunto da un cavaliere e trapassato con una lancia. Tutti si attendevano che il crimine venisse punito, ma il conte, invece di punire il cavaliere, sembra che lo rimunerasse  (almeno stando alle fonti successive che giustificavano la guerra). A quel punto il papa Innocenzo III incollerito per l’affronto, proclamò la crociata contro il conte protettore degli eretici e colpevole della morte del legato.  
   Nel 1208 il papa chiedeva dunque al re di Francia di muovere guerra agli Albigesi. Per diversi motivi di politica internazionale il re preferì astenersi dall’obbedire al papa, lasciando tuttavia ai suoi feudatari la libertà di entrare in guerra col conte di Tolosa. Questi trovò degli alleati e non recedette dall’appoggio ai Catari per cui dovette sostenere la guerra contro eserciti che scendevano dal nord alla conquista delle sue terre. Il più intraprendente dei “Crociati” era allora Simone di Monfort, che in capo ad un anno costrinse il difensore degli Albigesi alla resa.
    Le sue crudeltà spinsero Raimondo a riprendere le armi, ma Simone uscì ancora vincitore, conquistando Béziers e Carcassonne. Il condottiero era accompagnato dall’energico (e spietato) abate di Citaux che, entrando a Béziers, avviò il massacro con queste parole: Ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi. La battaglia decisiva fu quella di Muret (12 settembre 1213), che vide fronteggiarsi il Montfort da parte dei cattolici e Pietro II d’Aragona, divenuto a sua volta difensore degli Albigesi al fine di fermare le ambizioni del Monfort. A quel punto infatti l’elemento ereticale era passato in secondo piano, rispetto agli sconvolgimenti degli equilibri politici e territoriali. La vittoria arrise ancora una volta al Montfort, e dato che era il condottiero di parte cattolica e quindi aveva buoni rapporti con Domenico [10], alcuni storici hanno supposto che alla battaglia di Muret Domenico abbia partecipato personalmente. Anche i pittori lo hanno visto in azione, come  G. B. Crespi (1576-1632) il cui dipinto è nel museo civico di Cremona, e  G. A. Donnucci, detto il Mastelletta (1575-1655), nella chiesa di S. Domenico di Bologna.
    Signore delle terre di Foix e di Tolosa divenne così Simon de Montfort, che diede mostra di notevole crudeltà mutilando orribilmente i prigionieri e disponendo il rogo per 140 eretici. La situazione radicalmente mutata a favore dei cattolici fece sì che anche l’attività di Domenico cambiasse alquanto. Non si trattava più di affrontare gli eretici in dibattiti pubblici, ma di “riconciliare” alla Chiesa quelli che (per paura o per convinzione) si convertivano. Alcuni documenti che ci sono pervenuti mostrano un Domenico sempre “delegato” degli inviati del papa, ma con una certa autorità dovuta alla benevolenza nei suoi confronti del conte Simone di Montfort.
      Il Vicaire, per attutire le critiche della storiografia laica contro S. Domenico, cerca di alleggerire il Monfort dalle accuse di crudeltà: Soldato di una sorprendente attività, sempre a cavallo e sempre sulla breccia, intrepido e fedele verso i suoi compagni, brutale – anche se non sadico – verso i nemici.[11] Anzi, a sottolineare il suo spirito religioso, dice anche: Impegnatosi nella quarta crociata (1204), se ne era allontanato davanti a Zara quando si era accorto che ne veniva mutato il suo scopo di conquista cristiana. Molti amici lo avevano allora seguito nelle sue gesta in Palestina.  Tuttavia si lascia sfuggire: Noi avremmo preferito che Domenico non avesse mai dovuto comparire su questo sfondo, al fianco del conte e dei suoi amici.[12] E che fossero amici lo affermano gli antichi cronisti domenicani. Il Beato Giordano di Sassonia, ad esempio, dice che il Monfort aveva un rapporto di amicizia verso Domenico, aveva verso di lui una “dedizione speciale e calda”[13].  Nessun documento tuttavia riferisce di una qualche partecipazione personale di Domenico alla crociata e tantomeno alle operazioni militari.              


Canonico e predicatore: l’idea di un Ordine religioso
     Ma se tante accuse laicistiche a Domenico sono false (la partecipazione alle battaglie) o anacronistiche (la qualifica di inquisitore), non si può negare che l’amicizia col Montfort, le vittorie di questi e la baldanza degli eretici ne cambiarono il carattere originale. Se prima lo spirito missionario era proiettato all’evangelizzazione dei Cumani e quindi ad un’opera che presupponeva la totale libertà dell’ascoltatore ed il rischio del solo predicatore, ora si veniva a trovare in una situazione del tutto diversa. La vittoria del Montfort riduceva enormemente i rischi del predicatore e la tentazione di ricorrere alle maniere forti difficilmente resistibile. Ed infatti Domenico, notando la tenacia di molti eretici, non esitò ad affermare: Da molti anni ormai io vi ho rivolto dolci parole, predicando, implorando, piangendo. Ma, come dice la gente della mia terra “dove non serve la benedizione, servirà il bastone”. Ecco: noi invocheremo contro di voi condottieri e prelati che aduneranno contro questa terra le forze delle nazioni e faranno morire di spada innumerevoli persone, smantelleranno le torri, abbatteranno e distruggeranno le mura e vi ridurranno in schiavitù. Ahimé, prevarrà la forza del bastone, là dove la dolcezza e la benedizione a nulla sono valsi [14].
    Un linguaggio duro e poco idoneo alle labbra di un Santo, ma che esprime bene l’asprezza dello scontro con gli eretici e la sua stanchezza psicologica. E’ chiaro che avrebbe preferito una predicazione più serena e ricettiva. La baldanza degli eretici da una parte e i metodi repressivi della Chiesa dall’altra, avevano fiaccato il suo ottimismo. Non è improbabile perciò che l’idea di un Ordine religioso che si dedicasse totalmente alla predicazione nascesse proprio mentre Domenico  si trovava in questo stato d’animo. Solo una predicazione sistematica infatti avrebbe potuto portare frutti duraturi.
    Alcuni studiosi discutono se l’idea di un Ordine di frati predicatori sia venuta a Domenico, oppure al vescovo Diego oppure allo stesso Innocenzo III. Probabilmente ha ragione lo Scheeben nel dire che Diego e Domenico si fermarono spontaneamente nella Francia Meridionale per aggregarsi ai legati pontifici[15]. Quindi non si fermarono lì in ottemperanza ad una direttiva pontificia, come vorrebbero altri[16]. Forse la verità non è così univoca come la si vorrebbe da questa impostazione del problema. Innocenzo III aveva certamente piacere che Diego e Domenico si fermassero in Francia a fronteggiare gli eretici e potrebbe verbalmente accennato ad una simile ipotesi. Ma certamente era contrario ad un Ordine di predicatori che agisse autonomamente, senza un mandato caso per caso dei vescovi o della curia pontificia. In caso contrario, come aveva permesso che i decreti del concilio Laterano del 1215 non annullassero la sua conferma della regola di S. Francesco, così non avrebbe avuto alcuna remora nel violarli o aggirarli per approvare un Ordine di predicatori. Più interessante è l’ipotesi che l’idea si sia formata nella mente di Diego che poi l’avrebbe trasmessa a Domenico. Ma la scomparsa di Diego dalla scena nel 1207 rende piuttosto accademica la questione, divenendo in ogni caso Domenico il soggetto di quest’idea.
    In tutto questo periodo, a partire dal 1206 (con la fondazione di Prouille), Domenico e i suoi frati erano vissuti in una situazione alquanto indefinita dal punto di vista del loro status religioso. Mentre le monache erano in qualche modo considerate come tali in tutti i documenti, non così Domenico e i suoi frati. In realtà non c’era un convento vero e proprio, ma una schiera di uomini, con a capo il canonico Domenico, che appoggiandosi al monastero di Prouille, predicava la parola di Dio in quello che si può definire il cratere dell’eresia, la regione di Tolosa.
     I documenti oscillano nella qualifica da dare a Domenico. Alcuni lo definiscono frater, e fratres quelli che lavorano con lui. Altri lo chiamano semplicemente domino Dominico, Oxomensi canonico, et cunctis fratribus et sororibus presentibus et futuris ibi Deo et Sancte Marie et monasterio de Prolano servientibus. Dal 25 maggio 1214 Domenico comincia ad essere qualificato non più in termini generici, ma come fra Domenico, cappellano di Fanjeaux, oppure fra Domenico, canonico di Osma. Non soltanto. Il decennio che va dal 1206 al 1215 vede un crescendo nell’autorevolezza di Domenico. Inizialmente era uno degli aggregati alla Praedicatio, ed in tale contesto si può considerare anche il documento della reconciliatio di Ruggero Ponzio (1208), in cui Domenico, definendosi frater Dominicus, Oxomensis canonicus, praedicatorum minimus, ordina la solita punizione corporea dell’eretico con l’autorità concessagli dal legato apostolico: Per l’autorità del signor abate cistercense, legato della Sede Apostolica, che ci ha affidato (iniunxit) questo ufficio. Un verbo, l’iniunxit, che fa pensare piuttosto ad un esecutore di ordini[17]. In un altro documento, invece, degli inizi del 1215, non sembra agire per nessuna autorità delegata, ma per la propria: A tutti i fedeli di Cristo ai quali perverrà questa lettera, fra Domenico, canonico di Osma, umile ministro della Predicazione, salute e carità sincera nel Signore. La discrezione della vostra municipalità per l’autorità della presente prenda atto che noi abbiamo dato il permesso a Raimondo Guglielmo di Altaripa, conciatore, di trattare come gli altri amici e ricevere in casa a Tolosa Guglielmo Ugo, già rivestito dell’abito ereticale, come egli stesso ha detto in nostra presenza, fino a che il cardinale non invii un espresso suo mandato a noi o a lui, e che questa cosa non vada ad infamia o danno dello stesso Raimondo Guglielmo [18].
     Benché ufficialmente senza alcuna autorità, essendo soltanto un subdelegato, Domenico era dunque giunto ad una autorità effettiva non indifferente, grazie alla sua amicizia con Simone di Montfort. In questa nuova veste di autorevolezza, l’umile ministro della Predicazione pensò che fosse giunto il momento della svolta. L’occasione venne con la celebrazione del concilio del Laterano IV (1215).
     Accompagnando a Roma il vescovo di Tolosa, Domenico presentò al papa la richiesta di approvare l’Ordine religioso avente come finalità la predicazione. Benché Innocenzo III soltanto cinque anni prima avesse approvato la regola di S. Francesco, con S. Domenico si comportò in modo del tutto differente, rigettando la sua richiesta. Per mitigare il suo rifiuto richiamò la recente disposizione del Concilio: Affinché l’eccessiva proliferazione degli Ordini religiosi non provochi nella Chiesa di Dio una grande confusione, si fa proibizione a chicchessia di fondare una nuova Religione. Se qualcuno poi volesse abbracciare la vita religiosa può entrare in un Ordine già approvato. Allo stesso modo, se qualcuno volesse fondare una nuova casa religiosa, faccia propria una delle regole o istituzioni già approvate. Dopo aver rigettato la richiesta di Domenico, Innocenzo III consigliava dunque di ispirarsi ad una regola già esistente.
     Il rifiuto del papa di primo acchito potrebbe apparire strano, se si pensa che lo stesso Concilio aveva sottolineato l’importanza della predicazione: Con questa costituzione generale stabiliamo che i vescovi assumano uomini idonei a svolgere efficacemente l’ufficio della santa predicazione, potenti nell’azione e nella parola, che, visitando con sollecitudine il popolo loro affidato in loro vece, non avendo essi vescovi la possibilità, lo edifichino con l’esempio, di modo che per carenza di cose necessarie non abbandonino l’opera cominciata.[19]
     Riesce difficile comprendere il rifiuto del papa a S. Domenico, specialmente se messo a confronto con la risposta positiva a S. Francesco. Probabilmente la spiegazione del diverso atteggiamento sta nella diversa natura dei due Ordini religiosi. L’Ordine francescano, infatti, nasceva con una valenza prevalentemente etica, nel senso di una maggiore aderenza al Vangelo. Accogliendo nel grembo della Chiesa un Ordine religioso “evangelico” l’autorità ecclesiastica ammortizzava quel crescente movimento di ribellione dei cosiddetti “Fraticelli”, che nelle forme estreme tendeva a trascinare nel baratro l’intera Chiesa cattolica, rea di essersi allontanata dalla povertà evangelica.
     L’Ordine proposto da Domenico aveva, invece, una valenza più dottrinale. E’ vero che lo scopo era di difendere la Chiesa dagli attacchi degli eretici e dei miscredenti, tuttavia il rischio che l’annuncio della parola sfuggisse al controllo della gerarchia era molto alto. Quello che avrebbe dovuto essere uno strumento di difesa covava dentro di sé i germi degli strumenti di offesa. In altre parole, il caso di Domenico è troppo simile a quello di Pietro Valdo. Come i seguaci di quest’ultimo si erano visti rigettare dal concilio Laterano del 1179 la facoltà di predicare, così ora Domenico, a distanza di 36 anni, non poteva sperare in un diverso atteggiamento della Chiesa. Tutta l’opera già svolta in Francia era stata sì in prima linea, ma, da un punto di vista formale, egli aveva agito sempre come delegato o subdelegato (il già menzionato nisi rogantibus sacerdotibus dei Valdesi), non per facoltà o autorità propria.
     Il modo “composto” con cui Domenico incassò il diniego pontificio farebbe pensare che comprendesse l’allarmismo della Chiesa al riguardo. Invece di ribellarsi, preferì agire con circospezione, il che gli dava ancora un pò di tempo per riflettere su quell’idea ricca di potenzialità. Infatti, egli aveva appena spostato la sua attenzione dalla riconciliazione degli eretici alla fondazione di un Ordine. La sua intenzione di partire missionario fra i pagani l’aveva condivisa col suo vescovo Diego, e con lui aveva anche condiviso la predicazione fra gli eretici. Ma l’idea di un nuovo Ordine religioso sembra esclusivamente sua. Con ogni probabilità fu proprio l’esperienza della riconciliazione (solitamente ed erroneamente definita inquisitoriale) a convincerlo che le conversioni ottenute con la paura potevano essere soddisfacenti per la sicurezza della società e dello stato, ma non per l’autentico rapporto spirituale con Dio. Per una conversione vera era necessaria la predicazione. Erano necessari uomini che dedicassero la loro vita alla diffusione della parola di Dio.
     Era chiaro che la Chiesa non era pronta a delegare l’annuncio della parola di Dio. Il problema di fronte al quale ora Domenico si trovava riguardava il come rispondere ad un simile rifiuto. Se abbandonare o meno l’impresa. Decise di agire con prudenza, chiedendo cioè non l’approvazione di un Ordine, ma del modo di vivere di questa casa o di quel convento.
      Rientrato a Tolosa, nel luglio del 1216 Domenico otteneva dal vescovo Folco la chiesa di S. Romano. Per i suoi  seguaci scelse la regola di S. Agostino, anche perché atta ad integrazioni e variazioni (senza dimenticare le Consuetudini Premonstratensi). Essendo nel frattempo morto Innocenzo III, chiese al successore, Onorio III, di approvare il modo di vivere della comunità di S. Romano, e di confermare le donazioni avute.  In altri termini decise di seguire la politica del passo dopo passo, una politica che, come si vedrà, fu coronata da completo successo.

Onorio III e i Fratres Ordinis Praedicatorum
    Appena morto Innocenzo III (16.luglio.1216) Domenico tornò a Roma, e senza chiedere alcuna bolla di fondazione dell’Ordine, espose le sue iniziative al nuovo papa Onorio III. Questi accolse con favore Domenico e in due bolle (Religiosam vitam del 22.12.1216 e Gratiarum omnium del 21.1.1217) lodò l’opera sua e dei suoi frati. Qualcuno ha voluto vedere nella prima il documento[20] di fondazione dell’Ordine, staccando dal contesto l’espressione Ordo canonicus qui secundum beati Augustini regulam, omettendo la parola chiave: observetur. Vale a dire che nella chiesa di S. Romano i frati dovevano seguire le regole dei canonici. Ordo è impiegato qui in un senso simile a Ordo divini officii, e in alcun modo di Ordine religioso, per il quale (come si è visto nel decreto lateranense) si preferiva la parola religio.
       Altri hanno voluto vedere tale bolla di fondazione nella seconda lettera (21.1.1217),  indirizzata al priore e ai frati di S. Romano predicatori nelle parti di Tolosa.  [  ] invitti atleti, armati dello scudo della fede e rivestiti della corazza della salvezza… vi ingiungiamo di  .. evangelizzare la parola di Dio[21]. In realtà, anche questa seconda bolla manca di qualsiasi elemento giuridico istituzionale per essere considerata documento di fondazione. E’ vero che si parla di predicatori  e non di predicanti, ed è anche vero che il papa ha uno straordinario apprezzamento nei loro confronti. Ma, questo porta a concludere che si tratta di un’approvazione de facto, non esplicitamente verbis, cioè de jure [22].
         La tenacia e la pazienza di Domenico produssero i frutti desiderati. Pur senza ottenere alcuna bolla di fondazione dell’Ordine, de facto l’Ordine dei Predicatori ebbe il riconoscimento tanto desiderato. Un terzo documento di Onorio III, infatti,  è molto vicino a quello che si può intendere per riconoscimento ufficiale. La bolla del 7 febbraio 1217, infatti, pur riferendosi ancora alla comunità di S. Romano, fa riferimento alla nuova realtà dei frati di Domenico, qualificando la loro attività e la loro vita comune come religio. Il papa, nel proibire qualsiasi marcia indietro dopo la professione o cambio di Ordine, senza il permesso di Domenico, scrive: Per l’autorità apostolica vietiamo rigorosamente a chiunque dei vostri frati, dopo aver fatto nel vostro monastero la professione, di recedere, senza licenza tua o dei tuoi successori nel priorato, a meno che non sia per passare ad un Ordine più rigoroso..[23] E’ questo il primo riferimento all’esistenza di un nuovo Ordine religioso, sia pure legato ad una sola comunità quella di S. Romano. Benché il testo è legato ancora ai frati di uno specifico convento, usa un linguaggio che fa espresso  riferimento ad una professione religiosa, nonché ad una arctior religio (ad un Ordine più rigoroso)Il che significa che il discorso in questione vale sì per S. Romano, ma vale ugualmente per ogni comunità che dovesse ispirarsi allo stesso stile di vita. Con questa bolla l’Ordine non nasceva soltanto de facto ma, sia pure soltanto in nuce, anche de jure. Nella primavera del 1217 Domenico tornava così nella comunità di S. Romano a Tolosa con un nuovo spirito, essendo la sua una vera comunità religiosa, composta di una  ventina di frati.
        A questo punto avvenne la grande svolta. Fino a quel momento Domenico aveva incentrato tutta la sua attività nella Francia meridionale e soprattutto nel territorio tolosano, nelle cittadine con più forte presenza di eretici. Come se il riconoscimento della religio da parte di Onorio III gli avesse aperto la mente ad una folgorazione divina, nonostante le esortazioni in contrario di Folco e di Simone di Monfort, disperse i frati mandandoli a Parigi, in Spagna, a Bologna, e lasciandone alcuni a Prouille, altri a Tolosa.
     Questa iniziativa così precoce avrebbe potuto significare la morte prematura di tutta la sua iniziativa, in quanto smembrare la comunità quando i frati raggiungevano si e no la ventina, rappresentava un grosso rischio. In un canonico ci si sarebbe aspettato un’azione ben diversa, quella cioè di rafforzare e organizzare meglio la vita comunitaria di Tolosa secondo le osservanze regolari. Invece, niente di tutto questo. Domenico frantumava ulteriormente quella manciata di semi, nella speranza che fruttificassero. E la sua intuizione risultò estremamente feconda, perché il seme gettato in varie parti produsse una messe meravigliosa.
     Uno dei biografi, Costantino da Orvieto, riferisce di una visione che il santo fondatore avrebbe avuto. Gli apparvero Pietro e Paolo i quali, consegnandogli il bordone del pellegrino ed il Vangelo, gli avrebbero detto: Va’ e predica, perché Dio ti ha scelto per questo ministero. E lo stesso biografo, nell’ufficio divino che redasse in onore di Domenico, ebbe a scrivere: Accuratissimo custode della lingua, conversava soltanto con Dio o di Dio, e a stento parlava di qualche altra cosa [24].
      La presenza di Parigi, che diverrà costante nell’attenzione di Domenico, dimostra anche che, pur essendo egli piuttosto un uomo d’azione missionaria, aveva già in mente l’importanza dello studio. Se si volevano infatti convertire gli eretici, era necessaria la povertà evangelica, ma era altrettanto indispensabile la preparazione culturale. Al processo di canonizzazione del fondatore, fra Giovanni Ispano affermò che Fra Domenico spesso ammoniva ed esortava i frati a parole e per iscritto che si impegnassero sempre a studiare il Vecchio ed il Nuovo Testamento, e questo lo sapeva perché aveva udito con le sue orecchie  mentre diceva tali cose e le  aveva visto scritte nelle sue lettere. E aggiunse che portava sempre con sé il Vangelo di Matteo e le Epistole di Paolo e dedicava molto tempo a studiarli, al punto da conoscerli quasi a memoria.
  Secondo Mandonnet [25], Domenico sin dall’inizio abbinò predicazione ed insegnamento, avendo ricevuto da Innocenzo III il compito sia di predicare che di riformare le scuole, secondo le prescrizioni del IV Concilio Lateranense. Tale dipendenza dell’ideale domenicano dalle ingiunzioni di Innocenzo III fu contestata dallo Scheeben. Lo studio sì, perché contro gli albigesi era necessaria una preparazione culturale, ma non necessariamente le scuole.
      La nuova realtà trovò una conferma giuridica con la bolla di Onorio dell’11.2.1218, in cui i frati, raccomandati ai vescovi del luogo, non venivano definiti in termini canonicali o monastici, bensì per la prima volta espressamente: Fratres Ordinis Praedicatorum [26]Bolla che era stata ottenuta durante il suo quarto soggiorno a Roma (fine 1217 - maggio 1219). La recluta delle vocazioni dovette essere fulminea se, sul finire del 1219, il papa Onorio III emetteva tutta una serie di bolle chiedendo agli ordinari del luogo di sostenere l’opera di questi Fratres ordinis Praedicatorum. In un primo momento si rivolse a vescovi e capitoli di determinate città, come Parigi e Milano, poi allargò l’orizzonte scrivendo universis ecclesiarum praelatis.
     Nel 1218 moriva Simone di Montfort, e i Catari ebbero modo di riorganizzarsi. Ma ormai essi non erano più al centro dell’attenzione di Domenico, tutto preso (e forse sorpreso) dai fulminei inizi dell’Ordine da lui fondato. Un chiaro segno che la sua idea aveva colto una esigenza profondamente sentita nella Chiesa e nella società del tempo.

    Durante il soggiorno a Roma Domenico si tenne a contatto con la curia pontificia anche per  creare appoggi ai suoi frati, senza dimenticare la direzione spirituale alle monache. Una volta si recò a Parigi, ove ebbe modo di vedere i frutti della predicazione. Le più importanti adesioni erano state quelle del beato Giordano di Sassonia e del b. Reginaldo d’Orleans. Quest’ultimo, apprezzato giurista, suscitò nuove vocazioni a Bologna. Rientrato a Roma, Domenico si occupò delle claustrali di S. Sisto, la cui comunità era stata  rafforzata dall’arrivo di 8 religiose da Prouille. Fu in quell’occasione che probabilmente lo conobbe la beata Cecilia, che così ne descrisse l’aspetto fisico: Il beato Domenico aveva questo aspetto: era di statura media, di corporatura delicata, la faccia bella e un po’ rossa, i capelli e la barba leggermente rossi, belli gli occhi. Dalla sua fronte e fra le ciglia irraggiava un certo splendore, che attirava tutti a venerarlo e amarlo. Sempre ilare e giocondo rimaneva, a meno che non fosse mosso a compassione da una qualsiasi afflizione del prossimo. Aveva le mani lunghe e belle. Aveva una grande voce bella e sonora. Non era affatto calvo, ma aveva la corona rasile del tutto integra, cosparsa di pochi capelli bianchi [27].
      Il suo temperamento emerge invece da una lettera alla priora di un monastero nel maggio 1220. In questa lettera, in cui Domenico si autodefinisce magister Predicatorum, rivelava il suo modo di vedere la vita religiosa in termini alquanto rigoristici. In tutto il medioevo la donna in genere era vista con sospetto, si può ben immaginare le apprensioni di Domenico per una intera comunità femminile. Ad essa pertanto chiedeva di mantenere il silenzio a refettorio, nel dormitorio e nell’oratorio, senza risparmiarsi in discipline e veglie [28].
      Prolungando la sua permanenza a Roma, senza tralasciare la direzione spirituale delle monache, Domenico cominciò a pensare al prossimo capitolo, cioè a quell’assemblea generale dei frati in rappresentanza dei vari conventi, da tenersi a Bologna. Avendo lasciato Roma con un certo anticipo, anche per incontrare il papa a Viterbo, raggiunse il convento di S. Niccolò delle Vigne a Bologna e la Pentecoste del 1220 apriva il capitolo circondato da numerosi frati. Nella sua umiltà, con lo stesso spirito col quale aveva disperso i frati nel mondo invece di rafforzare la vita comunitaria, così ora, pur avendo un carattere forte e solide convinzioni, decise di non condizionare la libera discussione e le conclusioni dell’assemblea. Lo spirito e la legislazione dovevano nascere dal libero dialogo di coloro che avevano scelto di seguire la sua idea. 
    Il suo spirito di povertà, ad esempio, era molto vivo, tanto che una volta a Bologna aveva strappato un contratto per il quale i frati erano entrati in possesso delle proprietà di tale Odorico di Galizia[29]. Eppure accettò di piegarsi alle decisioni capitolari che rinunciavano sì alle grandi proprietà, ma non in modo radicale. I conventi potevano possedere e utilizzare i frutti delle elemosine. La povertà assoluta riguardava solo il frate, non il convento. Ed anche il frate, con il permesso dei superiori, poteva avere presso di sé dei libri se il suo ufficio lo richiedeva. Fu deciso tra l’altro in quel capitolo che i capitoli generali si tenessero annualmente nel periodo di Pentecoste. Il definitore, eletto dal capitolo provinciale era il principale nesso nel tessuto dell’Ordine. La durata del noviziato non era fissa, ma relativa alla preparazione dell’individuo.
     La predicazione di Domenico in Lombardia fu coronata dal sorgere di varie comunità (Brescia, Piacenza, Parma, Faenza), mentre a Roma nasceva la comunità di S. Sabina. Nel giugno del 1221 il fondatore dell’Ordine era presente al secondo capitolo generale a Bologna (coi rappresentanti di una ventina di conventi). Essendo cresciuto enormemente fra il 1220 ed il 1221, in questo secondo capitolo generale l’Ordine venne diviso in Province: Lombardia, Spagna, Provenza, Francia e Romana. Più tardi si aggiungono: Ungheria, Germania e Inghilterra. Quindi Grecia, Terra Santa, Polonia e Dacia.
    Dopo di che, nonostante che la salute desse segni di allarme, Domenico continuò a predicare in Lombardia. Quando non resse più, si fece portare nel convento di S. Nicola a Bologna, ove morì il 6 agosto del 1221. Fucanonizzato da Gregorio IX il 3 luglio del 1234.
 


[1] La documentazione su S. Domenico si trova in Historia diplomatica S. Dominici, edidit M. H. Laurent, MOPH XV, Paris 1933 e Monumenta diplomatica S. Dominici, edidit Vladimir J. Koudelka, auxiliante Raymundo J. Loenertz, MOPH XXV, Roma 1966. Per la letteratura coeva o di poco posteriore, vedi Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum, (ed.  H. Chr. Scheeben, MOPH, XVI, Roma 1935); Costantino da Orvieto, Legenda Sancti Dominici, ed. Scheeben, MOPH XVI, Roma 1935; Teodorico d’Apolda, Vita S. Dominici, Acta Sanctorum Augusti I, pp. 558-628; Stefano di Salagnac, De quatuor in quibus Deus Predicatorum Ordinem insignivit, II, 3,  ed. Th. Kaeppeli, MOPH XXII, Roma 1949; Processus canonizationis S. Dominici apud Bononiam, ed. A. Walz, MOPH XVI,  Roma 1935: Processus canonizationis S. Dominici apud Tholosam, ed. A. Walz, MOPH XVI,  Roma 1925; Bernard Gui, Libellus de magistris Ordinis Praedicatorum, in  E. Martène, Veterum Scriptorum et monumentorum... amplissima collectio, I-IX, Paris 1724-1733, vol. VI, pp. 397-566. Si vedano inoltre H.D. Lacordaire, San Domenico, trad. it. di P. Fanfani, ed. Marietti, Torino 1935; B. Altaner, Der hl. Dominikus. Untersuchungen und Texte, Breslau 1922; H. Chr. Scheeben, Der heilige Dominikus, Freiburg in Br., 1927; L. Getino, Santo Domingo de Guzman, Madrid 1939; P. Mandonnet e M. H. Vicaire, S. Dominique. L’idée, l’homme et l’oeuvre, I-II, Paris 1938; Vicaire, Storia di S. Domenico, Paoline, Alba (Cuneo) 1959, Guy Bedouelle, S. Domenico. La grazia della parola, Borla, Roma 1984; Alfonso D’Amato, Domenico di Guzman. L’uomo, il santo, l’eredità, Ed. Luigi Parma, Bologna 1992. Per un approfondimento critico e una maggiore attenzione ai particolari cronologici, vedi i recenti studi di Vladimir Koudelka (anche la bella sintesi sulla Bibliotheca Sanctorum) e di Simon Tugwell. Sul come i primi Domenicani rendessero “agiografica” la figura storica del fondatore: Canetti Luigi, L’invenzione della memoria. Il culto e l’immagine di Domenico nella storia dei primi Frati Predicatori, Spoleto 1996.
[2] Giordano di Sassonia, Libellus de principiis , § 10.
[3] Processus canonizationis S. Dominici apud Bononiam,  § 35 (la testimonianza è attribuita a fra Stefano).
[4]  Giordano,  Libellus,  § 14.
[5] Cfr. Herbert Grundmann, Movimenti religiosi nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 40-41.
[6] Cfr. Lidia Flöss, I Catari. Gli eretici del male, Xenia, Milano 1999, pp. 46-64, 66-67, 79-84, 88.
[7] Cfr. Monumenta Diplomatica S. Dominici, (Koudelka 1966), doc. 5 (il 17 aprile 1207 Berengario, arcivescovo di Narbona, concede alle monache di Prouille la chiesa di S. Martino di Limoges nelle mani di fra Domenico e fra Guglielmo Claret; confermato nel doc. 9 del 19 marzo 1209), doc. 6 (l’8 agosto 1207 i fratelli Vilario e Galardo concedono che i loro servitori Ermengarda e Sancio si mettano al servizio di Domenico, e dei suoi frati e monache), 
[8] Humbert Vicaire, Storia di S. Domenico, 1959, p. 167; J. Guiraud, L’inquisizione medioevale, Corbaccio, Milano, p. 61.
[9]  Pierre de Vaux Cemal,  Historia Albigensis,  ed. P. Guébin e E. Lione, I-III, Paris 1926/1939, b. 54; cfr. H. Vicario  Storia di San Domenico,  pag. 171.
[10] Cfr. Monumenta, del Koudelka, doc. 10 del 15 maggio 1211. Simone di Monfort dona alle monache (priora madre Guglielma) e ai frati di Prouille i beni che aveva nel territorio di Salzens, ma soprattutto: Nos eandem ecclesiam et personas et res eiusdem cum omnibus rebus suis predictis tenemus et volumus nos et heredes nostri semper custodire et tueri (ivi, p. 21). Lo stesso giorno (doc. 11) il vescovo Folco di Tolosa dona alle monache la chiesa di Brom. Che i rapporti fra Domenico e Simone di Monfort fossero ottimi è attestato dal doc. 12 del 20 giugno 1211, in cui Domenico compare fra i testimoni all’atto di fedeltà del vescovo Guglielmo di Cardaillac verso Simone di Monfort.
[11] Vicaire, Storia di S. Domenico, p. 221.
[12] Ivi, p. 229.
[13] Ivi, p. 227. In nota altri riferimenti.
[14]  Stefano di Salagnac,  distinto con l'Ordine della Predica ai quali il dio dei quattro,  2, 3; cfr Vicaire, Ivi, p. 230.
[15]  Cfr. H. Ch. Scheeben,  San Domenico,  Friburgo 1927, pag. 27, 429
[16] Cfr. A. Luchaire, Innocent III. La Croisade des Albigeois, Paris 1905, p. 189 ss. E in termini più sfumati anche P. Mandonnet, Saint Dominique. L’idée, l’homme et l’oeuvre, Gand 1921, p. 33 ss. ; J. Guiraud, Cartulaire de Notre Dame de Prouille,précedé d’une étude sur l’Albigéisme languedocien aux XII et XIII siècles, Bibliothèque Historique du Languedoc, I, Paris 1907, p. CCCVII (cito da H. Grundmann, Movimenti religiosi nel Medioevo, Bologna 1971, p. 117-118).
[17]  Con l'autorità dell'abate signore della cistercense, gli inviati della Sede Apostolica, che noi il desiderio di andare in ufficio . Cfr.  Monumenta,  Koudelka, doc. 8, pp. 16-18.
[18] Ivi, doc. 61, pp. 52-53.
[19]  Per timore troppo grande varietà di ordini religiosi conduce alla tomba confusione nella Chiesa di Dio, abbiamo rigorosamente proibiscono a chiunque d'ora in poi di fondare un nuovo ordine, ma tanti quanti desiderano entrare un ordine per uno dei già approvato. Allo stesso modo, chi vorrebbe stabilire il luogo del nuovo, già approvato, deve accettare una regola  (cap. 13),   il decreto generale Ordiniamo che i vescovi svolgono un modo sano, prendere sul dovere degli uomini adatti per il santo, potente in opera e parola, che sono le persone a loro affidate in luogo di loro, dal momento che di per sé, non poteva la stessa, è venuto attentamente visitare, che possono costruire sull'esempio della parola; per timore che in mancanza di un impegno costretto ad abbandonare la propria  (cap. 10) Cfr. JD Mansi,  il più notevole dei Consigli Sacri, il nuovo e la collezione,  t. 22, Venezia, 1778, col. 998-999, 1015. Anche  Monumenta,  Koudelka, cit., pp. 61-63.
[20] Monuimenta Diplomatica, Koudelka, doc. 77, pp. 71-76.
[21] Pietro Lippini, La spiritualità domenicana, Bologna 1958. I riferimenti qui sono alla recente edizione dello Studio Domenicano di Bologna. Per il testo della lettera in questione, vedi pp. 78-79.
[22] Testo in Monumenta Diplomatica, Koudelka, cit., doc. 79,  pp. 78-79.
[23] Con l'autorità degli apostoli dei vostri fratelli, noi severamente voglia che non è consentito di dare vita dopo aver fatto professione nel tuo monastero, in coerenza con il proprio, è figlio del primo, o successori di licenza, ma un più grave della vita religiosa, a partire dallo stesso punto.  Ivi, doc. 81, pp. 80-81.
[24]  Il portiere di i più devoti alla lingua, fu solo con Dio o correlate a Dio colloquebatur:. di altre cose a lui, e poteva a malapena una conversazione  Nei  primi anni del S. le Costituzioni dell'Ordine dei Predicatori , a cura dei redattori della Rivista di ascetica e Mistica, Fiesole 1962, pag. 33.
[25] Lippini, La spiritualità, cit., p. 96.
[26] Cfr. Monumenta Diplomatica, Koudelka, cit., doc. 86, pp. 86-87.
[27] D’Amato Alfonso, Il cammino di una grande idea, Zanichelli ed., Bologna 1955, p. 11.
[28]  Cfr.  Monumenta  Diplomatica , Koudelka, doc. 125, pp. 126-127.
[29]  Testimonianza di Rodolfo di Faenza, a  Costituzioni dell'Ordine dei Predicatori dei primi S. , Fiesole 1962, pag. 32.
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AMDG e BVM

domenica 2 agosto 2015

2 AGOSTO SANTA MARIA DEGLI ANGELI ALLA PORZIUNCOLA Solennità Perdono d'Assisi




www.liturgiaetmusica.com/foglietti-latino-italiano....
SMARIÆ ANGELORUM. DE PORTIUNCOLAIntroitus (Prov8,34-35). Beatus homo qui audit me, et qui vigilat ad fores meas quoti- die, et observat ad postes  ...



Die 2 augusti

Beatae Mariae Virginis Angelorum de Portiuncula

Festum

Ant. ad introitum Gdt 13, 31
Benedícta tu a Dómino
quóniam in omni gente quae audíerit nomen tuum,
magnificábitur super te Deus Israel.

Benedetta sei tu dal Signore:
tutte le generazioni, nell’udire il tuo nome, loderanno l’Altissimo.

Collecta
Sanctíssimae venerántibus Vírginis Maríae
Angelórum Regínae memoriam gloriósam,
ipsíus nobis, quaésumus, Dómine, intercessióne concede,
ut de plenitúdine grátiae tuae
nos quoque mereámur accípere.
Per Dóminum…

Guarda, Signore, il tuo popolo riunito nel ricordo della beata Vergine Maria, Regina degli Angeli, e fa’ che, per sua intercessione, possa partecipare alla pienezza della tua grazia.Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

Alleluia Lc 1, 28. 42
R. Allelúia
V. Ave María, grátia plena, Dóminus tecum,
benedícta tu in muliéribus.
R. Allelúia

Super oblata
Laudis tibi, Dómine, hóstias offérimus,
de Genetrícis Fílii tui festivitáte laetántes;
praesta, quaesumus, ut per haec sacrosáncta commercia
ad redemptiónis aetérnae proficiámus augméntum.
Per Christum.

Ti offriamo con gioia, o Signore, il pane e il vino per il sacrificio di lode nella festa della Madre del tuo Figlio; in cambio della nostra umile offerta, donaci una conoscenza sempre più viva del mistero della redenzione. Per Cristo nostro Signore.

Praefatio de beata Maria Virgine (et te in festivitate).

Ant. ad Communionem Cfr Lc 1, 48
Béatam me dicent omnes generations,
quia ancíllam húmilem respéxit Deus.

Tutte le generazioni mi chiameranno beata,
perché Dio ha guardato all'umiltà della sua serva.

Post Communionem
Recoléntibus, Dómine, beátae Maríae Vírginis memoriam
prosit caeléste convívium,
ut dignius imménsam in nos Fílii tui
misericórdiam celebrémus,
et dilectiónem erga eum perpétuam nutriámus.
Per Christum.

Ci giovi, o Signore, il convito a cui abbiamo preso parte, in questa celebrazione della Vergine Maria; ci faccia sperimentare più abbondante la misericordia del tuo Figlio, e ci ottenga di amare per sempre Lui, che è Dio, e vive e regna nei secoli dei secoli.

Le letture della Messa le riporto in Italiano: sono tre per i luoghi dove si festeggia come solennità, altrimenti si sceglie la prima o la seconda come unica lettura prima del Vangelo:

Prima Lettura Sir 24, 1-4. 22-31
Dal libro del Siràcide

La sapienza loda se stessa, si vanta in mezzo al suo popolo. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, si glorifica davanti alla sua potenza. In mezzo al suo popolo si esalta e nella comunità santa si glorifica. Tra la moltitudine degli eletti si darà lode, e tra i benedetti si benedirà.Come un terebinto ho esteso i rami e i miei rami son rami di maestà e di bellezza. Io come una vite ho prodotto germogli graziosi e i miei fiori, frutti di gloria e ricchezza.Io sono la madre del bell’amore e dei timore, della cogni­zione e della santa speranza. In me è ogni grazia di via e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù.Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce dei miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. La mia memoria rimarrà per tutti i secoli.Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete. Chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie le mie opere non peccherà. Quelli che mi faranno conoscere avranno la vita eterna.

Salmo Responsoriale Lc 1,46-55

R. Grandi cose ha operato il Signore nella Vergine Maria.

«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza dei suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri dei loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.

Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre».

Seconda Lettura Gal 4, 3-7
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.E che voi siete figli, ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; se poi figlio, sei anche erede per volontà di Dio.

Canto al Vangelo Lc 1, 28. 42
Alleluia, alleluia.
Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te,
tu sei benedetta fra le donne.
Alleluia.

+ Vangelo Lc 1,26-33
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te».A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.L’angelo le disse: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo;il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».


Testo preso da: luglio 2008 http://www.cantualeantonianum.com/2008_07_01_archive.html#ixzz3hblfcE56 
http://www.cantualeantonianum.com 


***




 Liturgia Santa Maria degli Angeli alla 

Porziuncola

Commento alle Letture tratto dal MESSALE DELL'ASSEMBLEA CRISTIANA - FESTIVO opera del CENTRO CATECHISTICO SALESIANO Leumann (Torino) Editori ELLE DI CI - ESPERIENZE - EDIZIONI O.R. - QUERINIANA
   
2 AGOSTO
SANTA MARIA DEGLI ANGELI
ALLA PORZIUNCOLA

Solennità
 
Perdono d'Assisi
 
LETTURE: Sir 24, 1-4. 22-31; Lc 1,46-55; Gal 4, 3-7; Lc 1,26-33 
 Il serafico Padre Francesco, per il suo singolare amore verso la Beatissima Vergine, ebbe sempre particolare cura della chiesetta dedicata a Santa Maria degli Angeli, chiamata anche Porziuncola. Qui egli prese stabile dimora con i suoi frati, qui diede inizio con santa Chiara all’Ordine delle Clarisse, qui concluse il corso della sua mirabile vita.
Per questa Cappella il santo Fondatore ottenne da papa Onorio III la storica indulgenza, che i Sommi Pontefici confermarono successivamente ed estesero a numerose altre chiese.
Per questi gloriosi ricordi l’Ordine serafico celebra con gioia la festa di Santa Maria degli Angeli.
 
Questo luogo è veramente santo e abitato da Dio
Dagli scritti di Fra Tommaso da Celano  (Le due Vite, Ed. A. Signorelli, Roma 1954, L. Macali o.f.m. conv., pp. 207-208; 137)
Il  servo di Dio Francesco, di statura piccola, di mente umile, di professione minore, nel tempo che visse quaggiù, per sé e per la sua fraternità scelse una particella di mondo, per il solo fatto che non gli fu assolutamente possibile servire Cristo altrimenti, che avendo qualche cosa dal mondo.
E non senza una rivelazione e predisposizione divina, già in antico, fu chiamato Porziuncola quel luogo che doveva toccare in sorte a coloro che desideravano di non avere nulla di proprio in questo mondo.
Vi sorgeva una chiesetta dedicata alla Vergine Madre, la quale per la sua singolare umiltà meritò di essere elevata, dopo il Figlio, alla dignità di capo di tutti gli eletti.
In essa ebbe inizio l’Ordine dei Minori, e come sopra un saldo fondamento, crebbe e si moltiplicò il loro nobile edificio. Il Santo amava questo luogo più di ogni altro, comandò ai frati di venerarlo con rispetto speciale e volle che lo custodissero sempre come specchio di vita religiosa, in umiltà e altissima povertà, riservandone però la proprietà agli altri, e ritenendone per sé e per i suoi soltanto l’uso.
Vi si osservava una rigidissima disciplina in tutto, nel silenzio e ne lavoro e in tutte le altre prescrizioni della regola. Senza tregua, giorno e notte, la fraternità dei Minori di quel luogo era occupata nel lodare Dio e, tutti soffusi di una mirabile fragranza, vi conducevano una vita veramente angelica.
Frate Francesco infatti, pur sapendo che il regno del cielo si può raggiungere ovunque e che la grazia divina non trova difficoltà a scendere sugli eletti ovunque si trovino, tuttavia si era accorto per propria esperienza che il luogo della chiesa di S. Maria della Porziuncola godeva di una maggiore abbondanza di grazia, ed era frequentemente visitato da spiriti celesti.
Spesso quindi diceva ai frati: «Guardatevi, figli, dall’abbandonare mai questo luogo. Se ve ne cacciassero fuori da una parte, rientratevi dall’altra. Questo luogo infatti è veramente santo e abitato da Dio. Qui il Signore moltiplicò il nostro piccolo numero; qui illuminò i cuori dei suoi poveri con la luce della sua divina sapienza; qui accese le nostre volontà con il fuoco del suo amore; qui, chi avrà pregato con devozione, otterrà quello che chiederà, e chi mancherà sarà punito più gravemente. Perciò, figli, ritenete degno di ogni onore il luogo della dimora di Dio, e con tutto il trasporto del vostro cuore rendete in esso lode al Signore». 
 
MESSALE
Antifona d'Ingresso  Gdt 13, 31
Benedetta sei tu dal Signore:
tutte le generazioni, nell’udire il tuo nome, 

loderanno l’Altissimo.


Colletta

Guarda, Signore, il tuo popolo
riunito nel ricordo della beata Vergine Maria,
Regina degli Angeli,
e fa’ che, per sua intercessione,
possa partecipare alla pienezza della tua grazia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, 

per tutti i secoli dei secoli.


LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura  Sir 24, 1-4. 22-31
Quelli che mi faranno conoscere, avranno la vita eterna.
 

Dal libro del Siràcide
La sapienza loda se stessa, si vanta in mezzo al suo popolo. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, si glorifica davanti alla sua potenza. In mezzo al suo popolo si esalta e nella comunità santa si glorifica. Tra la moltitudine degli eletti si darà lode, e tra i benedetti si benedirà.
Come un terebinto ho esteso i rami e i miei rami son rami di maestà e di bellezza. Io come una vite ho prodotto germogli graziosi e i miei fiori, frutti di gloria e ricchezza.
Io sono la madre del bell’amore e dei timore, della cogni­zione e della santa speranza. In me è ogni grazia di via e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù.
Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce dei miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. La mia memoria rimarrà per tutti i secoli.
Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete. Chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie le mie opere non peccherà. Quelli che mi faranno conoscere avranno la vita eterna.
Salmo Responsoriale  Lc 1,46-55
Grandi cose ha operato il Signore nella Vergine Maria.
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza dei suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri dei loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.

Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, 

per sempre ».


Seconda Lettura   
Gal 4, 3-7

Dio mandò il suo Figlio, nato da donna.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati

Fratelli, noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.

E che voi siete figli, ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; se poi figlio, sei anche erede per volontà di Dio.


Canto al Vangelo   
 
 Lc 1, 28. 42
Alleluia, alleluia.

Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te, 

tu sei benedetta fra le donne.
  Alleluia.
  
  
Vangelo 
 
Lc 1,26-33

Hai trovato grazia presso Dio.
 

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te».
A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.
L’angelo le disse: « Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo;

il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Sulle Offerte
Ti offriamo con gioia, o Signore, il pane e il vino per il sacrificio di lode nella festa della Madre del tuo Figlio; in cambio della nostra umile offerta, donaci una conoscenza sempre più viva del mistero della redenzione. Per Cristo nostro Signore.


Prefazio della Beata Vergine Maria II
La maternità della beata Vergine Maria.

E' veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
rendere grazie sempre e in ogni luogo
a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.

Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo,
nella solennità della beata sempre Vergine Maria.
Per opera dello Spirito Santo,
ha concepito il tuo unico Figlio;
e sempre intatta nella sua gloria verginale,
ha irradiato sul mondo la luce eterna,
Gesù Cristo nostro Signore.

Per mezzo di lui si allietano gli angeli
e nell'eternità adorano la gloria del tuo volto.
Al loro canto concedi, o Signore,
che si uniscano le nostre umili voci nell'inno della lode:

Santo, Santo, Santo ...
Antifona alla Comunione   Cfr Lc 1, 48
Tutte le generazioni mi chiameranno beata,
perché Dio ha guardato all'umiltà della sua serva.


Dopo la Comunione

Ci giovi, o Signore, il convito a cui abbiamo preso parte, in questa celebrazione della Vergine Maria; ci faccia sperimentare più abbondante la misericordia del tuo Figlio, e ci ottenga di amare per sempre Lui, che è Dio, e vive e regna nei secoli dei secoli.



PAX ET BONUM




sabato 1 agosto 2015

Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore (Fil 2,12)



Lettera spirituale


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Carissimo/a Amico/a,

Il 22 settembre 1774: papa Clemente XIV è morente. Dopo aver soppresso l'ordine dei Gesuiti (impegolati con le banche del tempo), pare non riuscisse a ritrovare la pace del cuore. Dio, nella sua misericordia, gli invia per assisterlo nei suoi ultimi istanti un santo, Alfonso de' Liguori, allora vescovo di Sant'Agata dei Goti. Ora, nel momento in cui egli assiste il Papa a Roma, il santo vescovo è presente nel suo vescovado a 200 km di distanza. Si tratta di un fenomeno di bilocazione, miracolo veramente straordinario, ma chiaramente attestato dai testimoni oculari.

Alfonso Maria de' Liguori nasce a Napoli, il 27 settembre 1696, primogenito di una famiglia che conterà sette figli. Sua madre li istruisce sulle verità della fede fin dalla più tenera età e insegna loro a pregare. Questo ragazzo è dotato di un'intelligenza vivace, di una memoria pronta, di una ragione retta, di un cuore aperto a tutti i nobili sentimenti, di una volontà ferma ed energica. Suo padre vuole fare di lui un avvocato. I suoi progressi sono così rapidi nello studio della giurisprudenza che, all'età di sedici anni, supera con successo l'esame del dottorato in diritto civile ed ecclesiastico. I giudici sono stupiti della saggezza delle sue risposte e della precisione delle sue repliche.

Avvocato, Alfonso riporta un successo dopo l'altro, il che non manca di dargli il gusto della riuscita e della gloria del mondo. Tuttavia, è tentato di abbandonare questa strada: l'inganno e la menzogna troppo spesso snaturano le cause più giuste, e questo spettacolo rivolta la sua natura retta. Assiduo nella preghiera e in varie opere di carità, mantiene pura la sua anima. Una volta all'anno, si reca in una casa religiosa per dedicarsi agli esercizi spirituali. Riconoscerà in seguito che questi ritiri avevano significativamente contribuito a distaccarlo dai beni temporali per orientarlo verso Dio. Durante la Quaresima 1722, in particolare, il predicatore ricorda i motivi che devono portare l'anima a darsi interamente a Dio; ritrae in modo vivido la caducità delle cose di questo mondo, e non teme di mettere sotto gli occhi dei partecipanti al ritiro i tormenti eterni dell'inferno, così come li ha rivelati Gesù. Si fa allora luce nello spirito del giovane Alfonso: le vanità del mondo si dileguano come altrettante nuvole! Egli si consacra senza riserve alla volontà divina e, qualche tempo dopo, decide di rimanere celibe.

Nel 1723, si parla molto a Napoli di un importante processo intentato dal duca Orsini contro il granduca di Toscana. Molti sono gli avvocati che ambiscono a questo caso, ma Orsini affida la sua difesa ad Alfonso che, fino ad allora, non ha perso nessuna causa. Nel giorno previsto, quest'ultimo si presenta in tribunale e sostiene con chiarezza le rivendicazioni del suo cliente. Tutti i presenti sono ammirati. Ma il suo avversario produce allora un documento che Alfonso aveva avuto tra le mani, e che invalida in modo decisivo la sua argomentazione. Questi è sgomento: come ha potuto trascurare questo testo? Perso il processo, Alfonso si sente schiacciato sotto il peso dell'umiliazione. Tuttavia, tre giorni dopo, un'improvvisa chiarezza gli fa scoprire il motivo della sua distrazione: Dio non l'aveva accecato se non per strapparlo alle vanità della terra. Sotto l'impulso della grazia divina, egli ripete ora le parole che, in un accesso di stizza, aveva mormorato uscendo dall'udienza: «Tribunali, non mi vedrete più!» Dopo un periodo di preghiera e di penitenza, avverte che Dio lo chiama allo stato ecclesiastico. Terminata la sua formazione, viene ordinato prete il 21 dicembre 1726.

La tentazione del sacerdote

Illuminato dallo Spirito Santo, Don Alfonso capisce che l'azione deve nascere dalla contemplazione, l'amore del prossimo dall'amore per Dio, lo zelo apostolico dalla vita interiore, e che la più grande tentazione del sacerdote è quella di voler infiammare le anime senza alimentare in se stesso il fuoco divino. Egli si assoggetta quindi, fin dall'inizio della sua vita sacerdotale, agli esercizi quotidiani senza i quali la vita interiore si spegne: orazione, santa Messa, Ufficio divino, lettura, devozione mariana – soprattutto il rosario. Sapendo di aver bisogno di essere guidato, sottomette volentieri la sua vita spirituale ai consigli di un altro.

Il giovane sacerdote predica il Vangelo a tutti, ma più volentieri ai poveri. Pieno dalla sacra scienza, lontano da ogni affettazione, appare sul pulpito con l'autorità di un uomo di Dio che comunica alla gente non la sua propria dottrina, ma quella del Maestro che lo ha inviato. Toccato dalla compassione di fronte all'ignoranza religiosa delle popolazioni rurali, don Alfonso fonda con diversi compagni, nel novembre 1732, un nuovo Istituto religioso che prenderà il nome di «Congregazione del Santissimo Redentore». Pieni di fervore nel contemplare la sovrabbondanza della redenzione acquistata da Cristo sulla Croce, i Redentoristi si dedicano alla predicazione di missioni ai poveri, al fine di istruirli sulle verità fondamentali della fede, e di illuminarli per quanto riguarda il grande «negozio» e l'«affare».

Don Alfonso scriverà in effetti: «Il negozio della nostra eterna salute è il negozio, che importa tutto: importa o la nostra fortuna o la nostra rovina eterna. Egli va a terminare all'eternità, viene a dire a salvarci o a perderci per sempre: ad acquistarci un'eternità di contenti o un'eternità di tormenti: a vivere una vita o sempre felice o sempre infelice» (Via della Salute [VS], 1a Meditazione). La salvezza delle anime è al centro delle preoccupazioni della Chiesa, come lo ha ricordato papa Benedetto XVI rivolgendosi ai vescovi dell'America Latina: «Il nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1Tm 2,4-6). Questa, e non altra, è la finalità della Chiesa: la salvezza delle anime, una ad una» (11 maggio 2007). «Gran cosa! scrive ancora don Alfonso. Ognuno si vergogna d'esser chiamato negligente ne' negozi del mondo; e poi tanti non si vergognano di trascurare il negozio dell'eternità, che importa tutto!« Negozio «importante», negozio «unico», negozio «irreparabile»« Non v'è errore simile all'errore di trascurare la salute eterna. A tutti gli altri errori vi è rimedio: se uno perde una roba, può acquistarla per altra via; se perde un posto, può esservi il rimedio a ricuperarlo; ancorché taluno perdesse la vita, se si salva, è rimediato a tutto. Ma per chi si danna, non vi è più rimedio. Una volta si muore; perduta l'anima una volta, è perduta per sempre« » (Apparecchio alla morte [AM], 12Considerazione). Non vi è quindi sventura più grande che mancare la propria salvezza.

Senza attendere

Dobbiamo quindi prepararci alla morte che può sopraggiungere in qualsiasi momento. «Bisogna persuaderci che il tempo della morte non è proprio per aggiustare i conti, affin di assicurare il gran negozio dell'eterna salute. I prudenti del mondo negli affari di terra prendono a tempo opportuno tutte le misure per ottenere quel guadagno, quel posto, quel matrimonio; per la sanità del corpo non differiscono punto i rimedi necessari. Che diresti di taluno, che dovesse andare a qualche duello o concorso di cattedra, se volesse attendere ad istruirsi, quando è già arrivato il tempo?« Tale appunto è quel cristiano, che si riduce ad aggiustar la coscienza, quando è arrivata la morte» (AM, 10a Considerazione). Commentando queste parole di san Paolo: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore (Fil 2,12), don Alfonso scriverà ancora: «Per salvarci bisogna che tremiamo di dannarci, e tremiamo non tanto dell'inferno, quanto del peccato, che solo può condurci all'inferno. Chi trema del peccato, fugge le occasioni pericolose, spesso si raccomanda a Dio, piglia i mezzi per conservarsi in grazia. Chi fa così, si salva; e chi non fa così, è moralmente impossibile che si salvi» (VS, 6a Meditazione).

La gente della campagna che beneficia delle missioni riceve con avidità queste sante verità, e si prepara al sacramento della Penitenza. I missionari, fedeli ministri della riconciliazione, trascorrono lunghe ore in confessionale. Qui, da veri medici delle anime, sanno consolare gli afflitti. «Quanto più un'anima è sprofondata nel male, dice don Alfonso, tanto più bisogna accoglierla bene, al fine di strapparla agli artigli del nemico». L'ascolto del penitente con pazienza e dolcezza contribuisce a disporlo all'assoluzione, o immediatamente o dopo un tempo di prova. Come penitenza sacramentale, don Alfonso impone esercizi di pietà molto semplici, ma di natura tale da allontanare dal peccato e ravvivare il fervore. Sollevate dai loro peccati, queste persone ricevono in seguito la santa Comunione, e se ne vanno a raccontare la loro felicità agli abitanti dei borghi più remoti, glorificando così la misericordia di Dio. «Iddio non sa voltar la faccia a chi ritorna a' piedi suoi; no, poiché Egli stesso l'invita e gli promette di riceverlo subito che viene. Revertere ad me, et suscipiam te (Ger 3,1). Convertimini ad me, convertar ad vos, ait Dominus (Zac 1,3). Oh l'amore e la tenerezza con cui abbraccia Dio un peccatore che a Lui ritorna!« Si gloria il Signore di usar pietà e di perdonare i peccatori» (AM, 16a Considerazione).

L'abbondanza della redenzione

Di fronte al rigorismo giansenista che faceva di Dio un giudice severo senza misericordia, padre Alfonso, che aveva scelto per motto «Copiosa apud Eum redemptio: grande presso di Lui la redenzione» (Sal 129 [130]), insiste sulla bontà di Gesù e sul suo amore per tutti gli uomini. Nello stesso tempo, egli mette in guardia contro coloro che, allontanando il pensiero della giustizia divina, predicano solo l'amore. L'amore divino, per essere solido e duraturo, deve fondarsi su una fede integrale: Dio è infinitamente buono, ma anche infinitamente giusto. «La misericordia di Dio è infinita, egli scrive, ma gli atti di questa misericordia (che sono le misurazioni) son finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto« La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. Et misericordia eius timentibus eum (Lc 1,50), come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: «Qui verus est in promittendo, verus est in minando». Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi... » (AM, 17a Considerazione).

La cosa più importante

Ma come imprimere questa giusta rappresentazione di Dio, nello stesso tempo misericordioso e giusto, nelle anime? Eco fedele della tradizione, Alfonso de' Liguori risponde: con la preghiera quotidiana. Nel suo pensiero, l'arte di amare Dio s'identifica con l'arte di meditare o di fare orazione, perché è nella meditazione che l'anima acquisisce la conoscenza di Dio e s'innamora di Lui. Così, il suo libro più importante, come riconosce egli stesso, è Del gran mezzo della preghiera. In questa opera, Alfonso spiega: l'uomo, a causa delle conseguenze del peccato originale, è attratto verso il male, e non può con i propri mezzi resistervi in ogni momento; in effetti, solo la grazia di Dio rende possibile l'osservanza di tutti i comandamenti, che è necessaria per la salvezza. «Poiché enunciano i doveri fondamentali dell'uomo verso Dio e verso il prossimo, i dieci comandamenti rivelano, nel loro contenuto essenziale, obbligazioni gravi. Sono sostanzialmente immutabili e obbligano sempre e dappertutto. Nessuno potrebbe dispensare da essi« Quanto Dio comanda, lo rende possibile con la sua grazia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, [CEC] 2072, 2082). Oppure, come dice sant'Agostino, «Dio vuole donare le sue grazie, ma le dona solo a chi le chiede». Contrariamente a coloro che affermano che l'osservanza dei comandamenti non è possibile in certi casi concreti, lo stesso Dottore risponde: «Che l'uomo che vuole e non può riconosca che non vuole ancora pienamente, e che preghi al fine di avere una volontà abbastanza grande per compiere i comandamenti». Questo è il motivo per cui sant'Alfonso scrive: «Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, colla quale si ottiene da Dio l'aiuto a vincere ogni concupiscenza, ed ogni tentazione« E dico, e replico, e replicherò sempre sino che ho vita, che tutta la nostra salute sta nel pregare». Di qui il famoso assioma, ripreso dal Catechismo: «Chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna » (CEC 2744).

Alcuni autori di quell'epoca [e della nostra no?], sotto l'influenza del protestantesimo e del giansenismo, tendevano a distogliere i fedeli dalla devozione alla Vergine santissima. Don Alfonso pubblica quindi nel 1750 Le Glorie di Maria [GM], che è un commento della Salve Regina; vi enuncia le prerogative della Madre di Dio: tutte le grazie passano attraverso le mani di Maria, e di conseguenza Maria è la nostra mediatrice necessaria (cfr. GM, cap. 5). 
In effetti, così come Maria è la Madre di Gesù, Dio vuole che sia la Madre di ogni uomo redento da Gesù. Così come ha portato Gesù nel suo grembo, ella ci porta nel suo cuore finché Cristo sia formato in noi. «Non si dubita che per li meriti di Gesù è stata conceduta tanta autorità a Maria di essere la mediatrice della nostra salute: non già mediatrice di giustizia, ma di grazia e d'intercessione» (ibid.). 
Don Alfonso vuole che si predichi sempre, nelle missioni, un sermone sulla Vergine Maria, Madre di Misericordia, e sulla necessità, per chi vuole perseverare e salvarsi, di ricorrere spesso alla sua intercessione. Egli scrive: «Così rivelò la stessa beata Vergine a S. Brigida (Rev. lib. I, cap. 6). «Io sono, le disse, la regina del cielo e la madre della misericordia; io sono l'allegrezza de' giusti e la porta per introdurre i peccatori a Dio. Né vi è nella terra peccatore che viva e sia così maledetto, che sia privato della misericordia mia« niuno, disse, è così discacciato da Dio, che, se m'abbia invocata in suo aiuto, non ritorni a Dio e goda della sua misericordia»« Maria a tal fine è stata fatta regina della misericordia, per salvare colla sua protezione i peccatori più grandi e più perduti che a lei si raccomandano» (GM, cap. 1).

Vivere con Gesù

Posto come principio che tutti i cristiani sono chiamati alla santità, che «consiste nell'amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene, nostro Salvatore», Alfonso pubblica diverse opere che aiutano a contemplare la sua vita: Novena del Santo NataleRiflessioni sulla Passione«Visite al Santissimo Sacramento«, e soprattutto Pratica di amar Gesù Cristo. Quest'arte vuole che si distacchi il proprio cuore da ogni creatura per unirlo alla volontà di Gesù, in modo che, così trasformato, ognuno possa esclamare con san Paolo: Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me (Gal 2,20). Nelle sue opere Modo di conversare continuamente ed alla familiare con Dio e Uniformità alla volontà di Dio, Alfonso dà preziosi consigli per aiutare l'anima a vivere alla presenza del Signore, a parlargli da cuore a cuore e ad accettare dalla sua Mano amorevole tutto ciò che ci accade. Il santo pubblica anche altri scritti al fine di suscitare il desiderio di sacrificare tutto per seguire Gesù più da vicino: la Selva«, sui doveri dell'anima sacerdotale, e La vera sposa«, sui doveri degli uomini e delle donne che fanno professione dei consigli evangelici. 
Nella formazione delle giovani vocazioni, sant'Alfonso insiste perché si segua l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino. 
Di fronte alla diversità delle opinioni, si adopera a rivedere la teologia morale con una saggezza tale che nel 1950 papa Pio XII gli conferirà il titolo di «celeste Patrono di tutti i confessori e moralisti». Di fronte al rigorismo, egli afferma che il sacerdote non deve negare l'assoluzione al penitente ben disposto, cioè veramente contrito e che ha il fermo proposito di non peccare più; di fronte al lassismo, non permette che si ammettano ai sacramenti le anime che non sono decise, con la grazia di Dio, a evitare ogni peccato grave.
Le prove non mancano nella giovane Congregazione dei Redentoristi. Nel 1752, il re delle Due Sicilie, Carlo III, decreta la spoliazione dei beni dell'istituto, facendoli passare nelle mani dei vescovi. 
In seguito, lo stesso Alfonso è costretto, dagli intrighi di alcuni dei suoi figli, ad abbandonare il suo posto e ad allontanarsi. Senza turbarsi, predica ai suoi la sottomissione alla volontà divina: «Il Signore, dice, vuol tirare avanti la Congregazione, non con applausi, e protezioni di Principi, e di Monarchi, ma con disprezzi, povertà, miserie, e persecuzioni; quando mai si è veduto, che le opere di Dio si sono cominciate con applauso? S. Ignazio all'ora era contento quando aveva nuove di persecuzioni, e travagli».

Nel 1762, padre Alfonso viene nominato vescovo di Sant'Agata dei Goti, piccola diocesi non lontano da Napoli. Malgrado l'esempio di molti prelati del suo tempo, per cui l'episcopato esige lusso e sfarzo, egli continua a condurre una vita povera e mortificata. Grazie alle sue predicazioni, in breve tempo tutta la città episcopale ha cambiato volto: confessioni e comunioni diventano più frequenti, le chiese si riempiono, la devozione alla Santa Vergine cresce in tutti i cuori. 
Preoccupato per il futuro della diocesi, egli esamina con cura i candidati al sacerdozio prima di imporre loro le mani. In un'epoca in cui le cariche ecclesiastiche remunerate attirano molte persone poco adatte a esercitare il ministero, il suo zelo lo porta a respingere i candidati indegni. 
Il lassismo più o meno generale dell'epoca ha provocato la rovina del fervore, anche all'altare. Uno dei principali oggetti della sollecitudine di mons. de' Liguori è il ripristino ovunque dell'esatta osservanza dei riti sacri

Infatti, allora come oggi, la gloria di Dio esige la dignità nel servizio dei divini misteri: «Troppo grande è il Mistero dell'Eucaristia perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale« Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito» (Istruzione Redemptionis Sacra–mentum della Congre–gazione per il Culto Divino, 25 marzo 2004, nn. 11 e 12).

Immobilizzato per diciannove anni

A partire dal 1768, mons. de' Liguori viene colpito da una malattia che si estende a tutte le articolazioni del corpo. Ben presto le vertebre del collo si ripiegano su se stesse, costringendo il mento a premere fortemente sul petto, il che provoca una piaga viva e rende difficile la respirazione. Il santo rimarrà immobilizzato durante i diciannove anni che gli restano da vivere. Nonostante questa tortura, non lo si sente mai emettere un lamento. Rivolgendosi al grande crocifisso posto davanti a lui, egli esclama: «Signore vi ringrazio che mi date un saggio de' dolori che soffriste nei nervi quando vi conficcarono sulla croce. Voglio patire, Gesù mio, come, e quanto vuoi tu: dammi solo pazienza. Hic ure, hic feca, hic non parcas ut in æternum parcas (Brucia, taglia, non risparmiarmi quaggiù, ma risparmiami nell'eternità) ». Nel luglio 1775, Pio VI accetta le sue dimissioni dall'episcopato. Gli ultimi anni della sua vita sono occupati a scrivere e a difendere i suoi religiosi. Nel luglio 1787, mons. de' Liguori è prossimo alla morte. Nel momento in cui gli viene portato il santo Viatico, esclama: « Gesù mio, Gesù mio, non lasciarmi!» 

Il 1° agosto, tenendo sul cuore il crocifisso e l'immagine di Maria, si addormenta dolcemente nel Signore nel momento in cui la campana del convento suona l'Angelus. È stato dichiarato «Dottore della Chiesa» dal beato Pio IX nel 1871.
In occasione del secondo centenario della sua morte, il 1° agosto 1987, papa Giovanni Paolo II scriveva: «La popolarità del Santo deve il suo fascino alla brevità, alla chiarezza, alla semplicità, all'ottimismo, all'affabilità che arriva fino alla tenerezza. Alla radice di questo suo senso del popolo sta l'ansia della salvezza: salvarsi e salvare. Una salvezza che va fino alla perfezione, alla santità. Il quadro di riferimento della sua azione pastorale non esclude nessuno: egli scrive a tutti, scrive per tutti».
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, ottienici la grazia di camminare risolutamente nella via della salvezza eterna e di trascinarvi il maggior numero di anime possibile!

Dom Antoine Marie osb