martedì 25 dicembre 2012

Un cert'uomo assistendo alla Messa...


"...Un cert'uomo assistendo alla Messa senza divozione, come fanno tanti, a quelle parole che in fine si dicono, Et Verbum caro factum est, non fé alcun segno di riverenza; allora un demonio gli diede un forte schiaffo, dicendo: 'Ingrato, senti che un Dio s'è fatt'uomo per te, e tu neppure ti degni d'inchinarti? Ah che se Iddio, disse, avesse fatto ciò per me, io in eterno starei per sempre ringraziandolo' (*).

Dimmi, cristiano, che avea da fare più Gesù Cristo per farsi amare da te? Se il Figlio di Dio avesse avuto a salvar dalla morte il suo medesimo Padre, che più poteva fare che abbassarsi sino a prender carne umana, e sacrificarsi alla morte per la di lui salvezza?
Dico più: se Gesù Cristo fosse stato un semplice uomo, e non già una persona divina, e avesse voluto con qualche segno d'affetto acquistarsi l'amore del suo Dio, che avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto per te? Se un servo tuo per tuo amore avesse dato tutto il sangue e la vita, non ti avrebbe già incatenato il cuore, ed obbligato almeno per gratitudine ad amarlo? E perché Gesù Cristo poi, giungendo a dare sino la vita per te, non ha potuto sinora giungere ad acquistarsi il tuo amore?"
(S. Alfonso M. de' Liguori)



(*) MAGNUM SPECULUM EXEMPLORUM, Distinctio 9, Exemplum 75. Venetiis, 1618, pag. 608.


AVE MARIA!

Gesù è nato proprio un 25 dicembre.



AUGURI DI SANTO NATALE:
 Evangelizo vobis gaudium magnum:
Puer natus est nobis!




Lo studio di un professore dell’Università ebraica di Gerusalemme cancella ogni dubbio su un enigma millenario.

La data del 25 dicembre non è soltanto un simbolo
Dai rotoli di Qumran la conferma della sua esattezza
Quando tutti sono via, quando le città sono vuote, a chi - e dove - mandare cartoline e consegnare pacchi con nastri e fiocchetti? Non sono i vescovi stessi a tuonare contro quella sorta di orgia consumistica cui sono ridotti i nostri Natali? E allora, spiazziamo i commercianti, spostiamo tutto a Ferragosto. La cosa, osservavo, non sembra impossibile: in effetti, non fu la necessità storica, fu la Chiesa a scegliere il 25 dicembre per contrastare e sostituire le feste pagane nei giorni del solstizio d’inverno.
La nascita del Cristo al posto della rinascita del Sol invictus . All’inizio, dunque, ci fu una decisione pastorale che può essere mutata, variando le necessità. Una provocazione, ovviamente, che si basava però su ciò che è (o, meglio, era) pacificamente ammesso da tutti gli studiosi: la collocazione liturgica del Natale è una scelta arbitraria, senza collegamento con la data della nascita di Gesù, che nessuno sarebbe in grado di determinare. 

Ebbene, pare proprio che gli esperti si siano sbagliati; e io, ovviamente, con loro. In realtà oggi, anche grazie ai documenti di Qumran, potremmo essere in grado di stabilirlo con precisione: Gesù è nato proprio un 25 dicembre. Una scoperta straordinaria sul serio e che non può essere sospettata di fini apologetici cristiani, visto che la dobbiamo a un docente, ebreo, della Università di Gerusalemme.

Vediamo di capire il meccanismo, che è complesso ma affascinante. Se Gesù è nato un 25 dicembre, il concepimento verginale è avvenuto, ovviamente, 9 mesi prima. E, in effetti, i calendari cristiani pongono al 25 marzo l’annunciazione a Maria dell’angelo Gabriele. Ma sappiamo dallo stesso Vangelo di Luca che giusto sei mesi prima era stato concepito da Elisabetta il precursore, Giovanni, che sarà detto il Battista. La Chiesa cattolica non ha una festa liturgica per quel concepimento, mentre le antiche Chiese d’Oriente lo celebrano solennemente tra il 23 e il 25 settembre. E, cioè, sei mesi prima dell’Annunciazione a Maria. Una successione di date logica ma basata su tradizioni inverificabili, non su eventi localizzabili nel tempo. Così credevano tutti, fino a tempi recentissimi. In realtà, sembra proprio che non sia così.

In effetti, è giusto dal concepimento di Giovanni che dobbiamo partire. Il Vangelo di Luca si apre con la storia dell’anziana coppia, Zaccaria ed Elisabetta, ormai rassegnata alla sterilità, una delle peggiori disgrazie in Israele. Zaccaria apparteneva alla casta sacerdotale e, un giorno che era di servizio nel tempio di Gerusalemme, ebbe la visione di Gabriele (lo stesso angelo che sei mesi dopo si presenterà a Maria, a Nazareth) che gli annunciava che, malgrado l’età avanzata, lui e la moglie avrebbero avuto un figlio. Dovevano chiamarlo Giovanni e sarebbe stato «grande davanti al Signore».

Luca ha cura di precisare che Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia e che quando ebbe l’apparizione «officiava nel turno della sua classe». In effetti, coloro che nell’antico Israele appartenevano alla casta sacerdotale erano divisi in 24 classi che, avvicendandosi in ordine immutabile, dovevano prestare servizio liturgico al tempio per una settimana, due volte l’anno. Sapevamo che la classe di Zaccaria, quella di Abia, era l’ottava, nell’elenco ufficiale. Ma quando cadevano i suoi turni di servizio? Nessuno lo sapeva. Ebbene, utilizzando anche ricerche svolte da altri specialisti e lavorando, soprattutto, su testi rinvenuti nella biblioteca essena di Qumran, ecco che l’enigma è stato violato dal professor Shemarjahu Talmon che, come si diceva, insegna alla Università ebraica di Gerusalemme. Lo studioso, cioè, è riuscito a precisare in che ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali. Quella di Abia prestava servizio liturgico al tempio due volte l’anno, come le altre, e una di quelle volte era nell’ultima settimana di settembre. Dunque, era verosimile la tradizione dei cristiani orientali che pone tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria. Ma questa verosimiglianza si è avvicinata alla certezza perché, stimolati dalla scoperta del professor Talmon, gli studiosi hanno ricostruito la «filiera» di quella tradizione, giungendo alla conclusione che essa proveniva direttamente dalla Chiesa primitiva, giudeo-cristiana, di Gerusalemme. Una memoria antichissima quanto tenacissima, quella delle Chiese d’Oriente, come confermato in molti altri casi.
Ecco, dunque, che ciò che sembrava mitico assume, improvvisamente, nuova verosimiglianza. Una catena di eventi che si estende su 15 mesi: in settembre l’annuncio a Zaccaria e il giorno dopo il concepimento di Giovanni; in marzo, sei mesi dopo, l’annuncio a Maria; in giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; sei mesi dopo, la nascita di Gesù. Con quest’ultimo evento arriviamo giusto al 25 dicembre. Giorno che, dunque, non fu fissato a caso.

Ma sì, pare proprio che il Natale a Ferragosto sia improponibile. Ne farò, dunque, ammenda ma, più che umiliato, piuttosto emozionato: dopo tanti secoli di ricerca accanita i Vangeli non cessano di riservare sorprese. Dettagli apparentemente inutili (che c’importava che Zaccaria appartenesse alla classe sacerdotale di Abia? Nessun esegeta vi prestava attenzione) mostrano all’improvviso la loro ragion d’essere, il loro carattere di segni di una verità nascosta ma precisa. Malgrado tutto, l’avventura cristiana continua.
Vittorio Messori - Corriere della Sera del 09/07/2003
Dal Mar Morto a Oxford:
i papiri che nascondono la verità
La data di nascita di Gesù è stata stabilita grazie ai documenti di Qumran. In alcune grotte della località sul Mar Morto un pastore scoprì, nel 1947, una serie di papiri manoscritti. Le scoperte proseguirono, in modo rocambolesco, fino al ’56. Si tratta di circa 750 testi in ebraico, aramaico (la lingua parlata dallo stesso Gesù) e greco. Vanno dal terzo secolo a.C. fino al I d.C. Ci sono scritture sacre, commenti, documenti religiosi della comunità di Qumran, forse gli Esseni, setta ebraica che viveva nel deserto. Alcuni documenti consentirebbero, secondo qualche studioso, di ridatare il Vangelo di Marco. Una parte dei papiri è stata poi tenuta nascosta in Israele fino al 1991, alimentando il «giallo».
La pubblicazione, in 38 volumi, del materiale di Qumran si è conclusa a Oxford solo lo scorso anno.

Corriere della Sera del 09/07/2003

Sant'Alfonso Maria de' Liguori

Santo e musicista. Compose 'Tu scendi dalle stelle'

S. Alfonso Maria de' Liguori
Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita.
Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato. L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione.
Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet).
Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado.
Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi.
E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere…
Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori.
Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione.
Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”. Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.
Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo.
Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.
Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…”.

di Francesco Agnoli Il Foglio, Natale 2012







COR IESU 
BONITATE ET AMORE PLENUM,
MISERERE NOBIS!

**Alfonso Ratisbonne / San Massimiliano Maria KOLBE


S. Massimiliano Maria Kolbe:
Grande Apostolo della Medaglia Miracolosa
dal giorno in cui conobbe
l’apparizione della SS. Vergine
all’ebreo Alphonse Ratisbonne,
nella chiesa di S. Andrea delle Fratte (Roma)



Il pellegrino chi se trova a Roma, spostandosi nella zona tra Piazza di Spagna e Via del Tritone, si imbatterà nella Basilica di Sant'Andrea delle Fratte, nella via omonima. Forse penserà che si tratti di "una in più" tra le belle e storiche chiese della Città Eterna. Entrandoci, però, si accorgerà che si tratta di un Santuario dove è accaduto qualcosa di straordinario. Infatti, entrando dalla porta principale, vedrà subito alla sua sinistra un altare particolarmente illuminato, sull'arco del quale si leggono queste impressionanti parole: "Qui apparve la Madonna del Miracolo - 20 gennaio 1842". Sotto l'arco c'è un gran dipinto che raffigura la Madonna che sovrasta le nuvole e sparge dalle mani raggi luminosi.
A sinistra di chi guarda l'altare c'è una placca, con evidenti segni di non essere recente, scritta in francese che dice: "Il 20 gennaio 1842, Alphonse Ratisbonne da Strasburgo venne qui da ebreo ostinato. Questa Vergine gli apparve così come tu la vedi. Cadde ebreo e si alzò cristiano. - Forestiero, portati a casa il prezioso ricordo della misericordia di Dio e del potere della Vergine."
Più in basso, ecco un'altra placca, più recente con queste parole: "In questa cappella la Madonna apparve all'ebreo Alfonso Ratisbonne convertendolo a Cristo il 20-1-1842". Un po’ più giù si vede una colonna sulla quale poggia un'imponente busto di marmo raffigurante il privilegiato Ratisbonne, con la sua folta barba e uno sguardo che scruta l'infinito.
Facendo pendant dal lato destro si trova il busto di San Massimiliano Maria Kolbe presso il quale una placca registra un fatto: "In questa cappella dell'apparizione San Massimiliano M. Kolbe celebrò la sua prima Messa il 29-4-1918".
Ma, ricapitolando in breve i fatti, che cosa era accaduto in quei giorni?

"Vidi sull'altare, in piedi, viva, grande, maestosa,
bellissima, misericordiosa, la Santissima Vergine Maria"

Vediamo ciò che registra il piccolo ma sostanzioso opuscolo La Madonna del Miracolo (Postulazione Generale dei Minimi, Roma, 1980), che raccomandiamo vivamente ai nostri cari lettori (i sottotitoli sono nostri, tranne l'ultimo. I lettori desiderosi di approfondire questo straordinario evento potranno consultare le seguenti fonti: La conversione miracolosa alla fede cattolica di Al'[fonso] M'[aria] Ratisbonne, tratta dai processi autentici formati a Roma nel 1842, Roma, 1892; cf pure Conversion de M.M.A. Ratisbonne, racontée par lui-même, Le Mans 1842):

Il 20 gennaio 1842, sul mezzogiorno, miracolo nella parrocchia romana dei Minimi.

A Sant'Andrea delle Fratte, l'israelita ventisettenne Alfonso Ratisbonne, di Strasburgo, con un'apparizione dell'Immacolata com'è coniata nella Medaglia Miracolosa, istantaneamente illuminato dalla grazia si convertì al cattolicesimo.
Che cosa avvenne di preciso nell'ora della grazia, lo descrive lo stesso Ratisbonne in alcune lettere e nella deposizione giurata al Vicariato di Roma, per appurare la verità del fatto.
"Vidi come un velo davanti a me - depose il veggente al processo -. La chiesa mi sembrava tutta oscura, eccetto una cappella, quasi che tutta la luce della chiesa si fosse concentrata in quella. Alzai gli occhi verso la cappella raggiante di tanta luce, e vidi sull'altare della medesima, in piedi, viva, grande, maestosa, bellissima, misericordiosa, la Santissima Vergine Maria, simile nell'atto e nella forma, all'immagine che si vede nella Medaglia Miracolosa dell'Immacolata. Mi fece cenno con la mano di inginocchiarmi. Una forza irresistibile mi spinse verso di Lei, che parve dicesse: Basta così. Non lo disse ma capii.
"A tal vista caddi in ginocchio nel luogo dove mi trovavo; cercai, quindi, varie volte di alzare gli occhi verso la Santissima Vergine, ma la riverenza e lo splendore me li faceva abbassare, ciò che, però, non impediva l'evidenza di quell'apparizione.
"Fissai le di Lei mani, e vidi in esse l'espressione del perdono e della misericordia. Alla presenza della Santissima Vergine, benché Ella non mi dicesse parola, compresi l'orrore dello stato in cui mi trovavo, la deformità del peccato, la bellezza della Religione Cattolica, in una parola compresi tutto. (...)

"Uscivo da una tomba, da un abisso di tenebre"...
"Provavo un cambiamento così totale che mi credevo un altro. Cercavo di ritrovarmi e non mi ritrovavo... La gioia più grande si sprigionava dal fondo della mia anima; non potetti parlare; non volli rivelar niente; sentivo in me qualche cosa di solenne e di sacro che mi fece chiedere un sacerdote... Vi fui condotto, e solo dopo averne avuto l'ordine positivo ne parlai come mi era possibile, in ginocchio e col cuore tremante. (...)
"Tutto quel che posso dire, è che al momento del prodigio, la benda cadde dai miei occhi; non una sola benda, ma una quantità di bende che mi avevano avvolto disparvero una dopo l'altra rapidamente, come la neve e il fango e il ghiaccio sotto l'azione di un sole cocente.
"Uscivo da una tomba, da un abisso di tenebre, ed ero vivo, perfettamente vivo... Ma piangevo! Vedevo nel fondo dell'abisso le miserie estreme dalle quali ero stato strappato da una misericordia infinita; rabbrividivo alla vista di tutte le mie iniquità, ed ero stupito, intenerito, sprofondato in ammirazione e riconoscenza. (...)

...Come "un cieco nato che vedesse la luce tutto d'un colpo"
"Ma si domanda come appresi queste verità, poiché è accertato che non ho mai aperto un libro di religione, non ho mai letto una pagina della Bibbia, e che il dogma del peccato originale, totalmente dimenticato o negato dagli Ebrei dei nostri giorni, non aveva mai occupato un istante il mio pensiero; dubito anche di averne sentito il nome. Come sono arrivato, dunque, a questa conoscenza? Non saprei dirlo. Questo io so: che entrando in chiesa ignoravo tutto; che uscendone vedevo chiaro. Non posso spiegare questo cambiamento che con l'immagine di un uomo il quale si risvegliasse da un sonno profondo, o con quella di un cieco nato che vedesse la luce tutto d'un colpo; vede, ma non può definire la luce che lo illumina e nella quale contempla gli oggetti della sua ammirazione. (...)

"Le prevenzioni contro il cristianesimo non esistevano più"
"Qualunque cosa ne sia di questo linguaggio inesatto e incompleto, il fatto positivo è che io mi trovavo in qualche modo come un essere nuovo, come una tabula rasa... Il mondo non era più niente per me; le prevenzioni contro il cristianesimo non esistevano più; i pregiudizi della mia infanzia non avevano più la minima traccia; l'amore del mio Dio aveva talmente preso il posto di ogni altro amore, che la mia stessa fidanzata mi appariva sotto un altro aspetto. L'amavo come un oggetto che Dio tiene nelle sue mani, come un dono prezioso che fa amare ancora di più il donatore.

"I superiori ecclesiastici mi fecero capire che il ridicolo, le ingiurie, i falsi giudizi,
facevano parte del calice di un vero cristiano"
"Ripeto che scongiuravo il mio confessore, il reverendo Padre Villefort, e il signor de Bussières, di mantenere un segreto inviolabile su ciò che mi era avvenuto. Volli seppellirmi al monastero dei Trappisti per occuparmi solo delle cose eterne; lo confesso, e pensavo anche, che nella mia famiglia mi avrebbero creduto folle, che mi avrebbero tacciato di ridicolo, e che così avrei preferito fuggire totalmente il mondo, le sue chiacchiere e i suoi giudizi.
"Però i superiori ecclesiastici mi fecero capire che il ridicolo, le ingiurie, i falsi giudizi, facevano parte del calice di un vero cristiano; mi invitarono a berlo dicendomi che Gesù Cristo aveva predetto ai suoi discepoli pene, tormenti e supplizi. Parole così gravi, lungi dallo scoraggiarmi, infiammarono la mia letizia interiore; mi sentivo pronto a tutto, e chiesi con insistenza il battesimo. Vollero ritardarlo. 'Ma come! Esclamai, gli Ebrei che ascoltarono la predicazione degli Apostoli furono battezzati immediatamente, e voi volete rimandarmelo, dopo aver io ascoltato la Regina degli Apostoli?' I miei sentimenti, i miei acuti desideri e le mie suppliche toccarono gli uomini pietosi che mi avevano accolto, e mi fecero la promessa, per sempre felice, del battesimo!" (cfr. op. cit., pp. 5, 6, 39-43).

AVE AVE AVE MARIA PURISSIMA!


* ASEO. (“A mis Sacerdotes” de Concepción Cabrera de Armida)





"A MIS SACERDOTES" De Concepción Cabrera de Armida. CAPITULO XXV: Aseo.

MENSAJES DE NUESTRO SEÑOR
JESUCRISTO PARA SUS PREDILECTOS.


(“A mis Sacerdotes” de Concepción Cabrera de Armida)


XXV


ASEO


Otra de las espinas que tengo en muchos de mis sacerdotes es el poco aseo en sus personas y en las cosas del culto, pero sobre todo respecto de los Sagrarios.

¡Tocar con cuerpos sucios- al celebrar, al dar la comunión- tocar, digo, al que es el esplendor del Padre, a la Pureza misma! ¡Habitar Yo, el Dios de la luz, la Limpieza por esencia, en Sagrarios sucios y posarme en lienzos manchados!

Yo, solo como hombre y en mi humildad sin término, pasaría por todo sin quejarme; pero soy Dios hombre, y Yo mismo, en cuanto hombre, sé honrar a la Divinidad mía, una con la del Padre y del Espíritu Santo. Como hombre tengo que darle su lugar a Dios; como puro hombre –si esto fuera posible en Mí-, nada exigiría, nada pediría; pero como soy al mismo tiempo Dios y hombre, exijo pulcritud y suma limpieza en lo relativo al culto divino, aun en lo material. Y aunque tengo en más aprecio la limpieza interior que la exterior, me lastima la falta de cuidado, porque implica falta de fe y falta de amor.

Me agradaría que se formara una comisión para cerciorarse de la limpieza y que cesara este mal que ha cundido más de lo que se cree. Na bastan las Visitas pastorales; Yo quisiera una vigilancia más asidua para enterarse de este punto que lastima mi delicadeza. No pido riquezas, pero si grande limpieza y aseo.

¡Si vieran las vergüenzas que paso ante mi Padre Celestial, con estos descuidos increíbles de los míos en lo que debiera ser asunto primordial de mis sacerdotes!

Los vasos sagrados a veces no serían dignos de presentarse al mundo más bajo, ¡y ahí estoy Yo, con mi Cuerpo, mi Sangre y mi Divinidad! ¡Los corporales!... ¡Cuántas veces me repugna reposar en ellos sacramentado! Las manos sucias de algunos sacerdotes me repelen; y ahí estoy, y me dejo coger, manejar, poner y quitar siempre callado y obediente, siempre en silencio, sonrojándome ante mi Padre amado ante la mirada de los ángeles que se cubren el rostro, que llorarían si pudieran al verme tratado así.
Pero aunque este trato exterior e indigno me lastima, lo que más hiere mi Corazón es la falta de fe viva en mis sacerdotes, la rutina con que se acostumbrar tratar lo santo y al Santo de los santos.

Me duele también el descuido en las rúbricas sagradas y el poco aprecio o ninguno que hacen de ellas algunos sacerdotes.

Me lastiman esas maneras tan poco finas de dar la comunión, de exponerme en la Custodia y hasta de omitir palabras que debieran pronunciar y que no lo hacen por sus prisas, por su fastidio; y administran los sacramentos (por ejemplo, bautismos, confesiones, etc.), por salir del paso, sin darles todo el peso divino y santo que los sacramentos merecen.

Y ¿de qué viene todo esto? De la falta de amor, repito; de que toman los deberes sacerdotales y santos como una carga pesada y molesta; de que no miden lo sublime de su cargo y de sus deberes para con Dios y para con las almas, de que se familiarizan con el Altar y no lo respetan ni lo dan a respetar como debieran hacerlo.

¡Ay! ¿Quién recibirá estas quejas de mi Corazón herido? ¿Quién las hará saber a quienes deben remediar estas arbitrariedades en mi Iglesia?

Muchos sacerdotes, al no amarme a Mí, tampoco aman a la Iglesia, y esto para Mí es horrible, por tratarse de sus mismos ministros en donde ella descansa. Ven como cosa de poco más o menos mi honra y abusan de sus bondades y desbordan mi Iglesia, que llora no sólo la pérdida de sus hijos, sino también el descuido inaudito y la poca finura y delicadeza con que la tratan lo que son más que sus hijos.

Y la Iglesia, como quien dice, soy Yo; y el alma de la Iglesia es el Espíritu Santo; y ni a Mí, ni al Espíritu Santo, ni al cuerpo de la Iglesia que son los fieles, les hacen caso. No reflexionan ni se hacen el cargo de la sublime dignidad y grandeza de la Iglesia. Esposa inmaculada del Cordero, Esposa espiritual también suya; y es que falta solidez, penetración, seriedad en esos corazones ligeros que no se detienen a considerar la gracia insigne y sin precio que han recibido del cielo con la vocación sacerdotal.

Pero, ¿es difícil que un sacerdote sea así con todas esas cualidades?

Difícil, no. Porque al recibir al Espíritu Santo, reciben sus Dones y quedan sus almas consagradas a Mí. Claro está que tienen que luchar, como hombres, con la tierra natural del hombre; pero por eso mismo, un sacerdote no debe vivir a lo natural, sino a lo sobrenatural y divino. Está en la tierra, pero también en el cielo; tiene que tocar el polvo, pero con alas y suficientes fuerzas para emprender el vuelo a lo alto sobre las miserias humanas. ¿Quién puede creer que Yo sea injusto y que le reclame cosas que no pueden hacer?

Al darles la vocación, al concederles la oración sacerdotal, al admitirlos a los Altares, Yo abundo y sobreabundo en gracias especiales, en gracias de estado; y por eso reclamo el servicio que me pertenece, el celo, la fidelidad que me juraron, y el amor, el amor divino del que debieran estar poseídos sus corazones.

Además, es una gran gracia para ellos que Yo reclame mis derechos, que Yo haga llegar a sus oídos mis quejas, que mi palabra dolorida llegue hasta sus corazones. Porque si pido remedio para sostener la dignidad de la Trinidad y de la Iglesia, les hago una merced muy grande, quitándoles si me escuchan, pecados, faltas, purgatorio y ¡ay! hasta el infierno.

Entiéndase que Yo no me quejo por deshonrar a los sacerdotes. Me quejo, si bien es cierto para quitar ofensas a mi Padre y al Espíritu Santo y espinas a mi Corazón, también lo hago para el bien de los sacerdotes y por la honra inmaculada de mi Iglesia, a quien se debe dar gloria, y lustre, y honor e todos los sentidos, interior y exteriormente.

Con esto, también ganarán las almas en muchos sentidos, en grandes escalas que sólo Yo veo, y se quitarán muchas murmuraciones y ocasiones de ofenderme.

Deben reaccionar todos los sacerdotes: los buenos enfervorizándose más; los tibios, recibiendo mi Palabra como el paralítico del Evangelio: -“Levántate y anda”-, activándose en el amor y el sacrificio; y los malos, llorando sus pecados y convirtiéndose a Mí.

Yo soy todo caridad y no puedo moverme sin esparcirla; soy amor y no puedo dar más que amor, y mis advertencias, y mis quejas, y aun mis castigos en este mundo, son amor, sólo amor, puro amor… Si tengo en la otra vida que usar la justicia, mi justicia entonces también es amor. Pero ¿cómo? Porque el amor todo lo perdona, todo lo olvida; pero no puede perdonar el amor la falta de amor: ésa es la única cosa que no perdona el amor…”

Que el Espíritu Santo y la Virgen María los transforme en otros Jesús,




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“A los Sacerdotes, hijos predilectos de la Virgen Santísima.”


Las acechanzas de mi adversario

“Dejaos conducir siempre por Mí, hijos míos predilectos, con la mayor confianza a mi Corazón Inmaculado.

Para ser dóciles a mis órdenes, para formar mi ejército invencible, debéis resistir a las acechanzas de mi Adversario, que en estos tiempos más que nunca, se ha desatado contra vosotros.

Os quiere llevar a la desconfianza y al desánimo; os hace sufrir con su acción astuta y engañosa.

Hasta os quiere hacer dudar de que no sois ni mis elegidos, ni mis predilectos, poniéndose insistentemente delante de vuestra gran miseria y haciéndoos sentir toda vuestra humana fragilidad.

Para llevaros a la parálisis del espíritu y haceros así inofensivos, lanza contra vosotros toda clase de tentaciones.

Estad alerta, hijos míos predilectos, éstas son las acechanzas de mi Adversario.

Ésta es el arma secreta que emplea contra vosotros; es su mordedura venenosa con que intenta hacer daño a este pequeño talón mío.

Vuestra Madre quiere descubriros hoy su trama y poneros en guardia contra sus insidias.

Vosotros sois mis lirios y por eso os atormenta con imágenes, fantasías y tentaciones impuras.


AVE MARIA!

Obras de misericordia en la Obra de Valtorta



Obras de misericordia 
en la Obra de Maria Valtorta

Dice Jesús:

“La paz sea con todos vosotros y la sabiduría sobre todos vosotros.
Escuchad. Hace muchos días se me pidió que dijese hasta qué punto Dios es misericordioso para con los pecadores. Quien me preguntaba esto era un pecador perdonado que no lograba persuadirse del absoluto perdón de Dios. Con palabras lo calmé, se lo aseguré, y le prometí que para él siempre hablaría de misericordia para que su corazón arrepentido, que cual niño extraviado dentro de él lloraba, se sintiese seguro de estar ya entre los que posee el Padre celestial.
Dios es misericordia porque Dios es Amor.
El siervo de Dios debe ser misericordioso para imitar a Dios.
Dios se sirve de la misericordia como de un medio para atraer a Sí a los hijos desviados.
El siervo de Dios debe servirse de la misericordia como de un medio para llevar a Dios los hijos desviados.
El precepto del amor es obligatorio a todos. Pero en los siervos de Dios debe ser tres veces más.
No se conquista el cielo si no se ama. Esto basta a los creyentes. A los siervos de Dios digo: “No se hace que los creyentes conquisten el cielo, si no son amados con perfección”. Y vosotros ¿qué sois? ¿Vosotros que estáis a mi alrededor? La mayoría de vosotros sois creaturas que tendéis a una vida perfecta, a una vida bendita, llena de fatigas, de luz, propia de los siervos de Dios, del ministerio del Mesías. ¿Y cuáles son los deberes que tenéis en esta vida de siervos y ministros? Un amor total a Dios, un amor total al prójimo. Vuestra meta: servir. ¿Cómo? Devolviendo a Dios lo que el mundo, la carne, el demonio, le arrebataron. ¿De qué modo? Con el amor. El amor que tiene mil formas de manifestarse y un único fin: hacer amar.
Pensemos en nuestro hermoso Jordán. ¡Qué imponente en Jericó! ¿Pero era así en sus principios? No. Un hilito de agua, y así hubiera quedado, si hubiera sido siempre solo. Pero de montes y collados, de una y de la otra parte de los valles, descienden miles y miles de afluentes, unos que ya lo eran, otros formados de cientos de riachuelos, y todos desembocan en su lecho que crece, crece, crece, hasta convertirse de dulce arroyuelo plateado de azul que ríe y juguetea en su niñez, en el grande, majestuoso río que pone una cinta azul celeste entre las exuberantes orillas de esmeralda.
Así es el amor. Un hilito inicial en los párvulos del camino de la vida que apenas saben salvarse del pecado grave por temor del castigo, y luego siguiendo por el camino de la perfección, sucede que de las montañas de la humanidad escabrosa, árida, soberbia, dura, brotan, por voluntad de amor, riachuelos y riachuelos de esta virtud principal; y todo sirve para hacerla surgir y desbordarse: dolores, alegría, así como en los montes sirven para formar un río las eternas nieves y el sol que las derrite. Todo sirve para abrirles camino: la humildad como el arrepentimiento. Todo sirve para escoltar el río inicial. Porque el alma empujada por ese Camino ama las bajadas en el aniquilamiento del “yo”, aspira a volver a subir, atraída por el Sol-Dios, después de que se convirtió en poderoso, hermoso, bienhechor río.
Los riachuelos que nutren el río inicial del amor son, además de las virtudes, las obras que las virtudes enseñan a realizar. Las obras que por ser ríos de amor son obras de misericordia. Vamos a verlas en conjunto. Algunas las conocía Israel, otras os las enseño porque mi ley es perfección de amor.

Dar de comer a los hambrientos.
Deber de gratitud y amor. Deber de imitación. Los hijos agradan al padre que les da el pan, y cuando llegan a ser adultos, lo imitan con dar pan a sus hijos, y al padre, que ya no puede trabajar por su edad le dan pan con su propio trabajo, restitución amorosa, restitución obligatoria por el bien que se recibió. El cuarto precepto lo dice: “Honra a tu padre y madre”. Honrarlos también es no hacer que mendiguen de otros el pan.
Pero antes que el cuarto precepto está el primero: “Ama a Dios con todo tu ser” y el segundo: “Ama a tu prójimo como a ti mismo”. Amar a Dios por sí mismo y amarlo en el prójimo es perfección.
Se le ama dando pan a quien tiene hambre, en recuerdo de las veces que Él dio de comer al hombre por medio de milagros. Sin mirar tan sólo al maná y a las codornices, miremos el milagro continuo del grano que germina por bondad de Dios que dio tierras aptas para el cultivo, que regula los vientos, las lluvias, calores, estaciones para que el grano se convierta en espiga y la espiga en pan.
¿Y no ha sido milagro de su misericordia el haber enseñado con luz que no se le debía al hijo culpable que esas hierbas altas y delgadas, que terminaban en un florecer de granos de oro, con olor caliente de sol, encerradas en dura cáscara de espinosas escamas, eran alimento que podía ser recogido, desgramado, convertido en harina, en masa y que podía cocerse? Dios enseñó todo esto. Cómo recogerlo, limpiarlo, machacarlo, amasarlo y cocerlo. Puso las piedras cerca de las espigas, el agua cerca de ellas, encendió con reflejos de agua y de sol el primer fuego sobre la tierra, y sobre el fuego el viento trajo los granos que ardieron, arrojando un grato olor, para que el hombre entendiese que es mejor así sacado de la espiga, como lo deshacen las aves, o mojado en agua después de convertido en harina, haciendo de él un amasijo, que al fuego cuece. ¿No pensáis, vosotros que ahora coméis el pan sabroso, cocido en horno de casa, cuánta misericordia señala el haber llegado a este modo perfecto de conocimiento, cuánto camino se recorrió para enseñar a los hombres el proceso de la primera espiga masticada como lo hace el caballo al pan actual? ¿Y quién enseñó? El dador del pan. Y de este modo el hombre ha logrado por luz bienhechora conocer cada clase de alimentos entre las plantas y los animales con que el Creador cubrió la tierra, después del castigo paterno con que castigó al hijo culpable. Dar, pues, de comer a los hambrientos es una oración de agradecimiento al Padre y Señor que nos quita el hambre, y es imitar al Padre, cuya semejanza tenemos gratis, y que es menester hacerla crecer, imitando sus acciones.

Dar de beber a los sedientos.
¿Habéis alguna vez pensado en lo que sucedería si el Padre no hiciese llover? Si dijese: “Por vuestra dureza para quien tiene sed, diré a las nubes que no bajen a la tierra” ¿podríamos protestar y maldecir? El agua, mucho más que el grano, es de Dios, porque el grano lo cultiva el hombre, pero tan sólo Dios cultiva los campos de las nubes que bajan en lluvia o rocío, como neblina o nieve, y alimentan los campos y pozos, llenan ríos y lagos, dan refugio a los peces y a otros animales que son comida del hombre. ¿Podéis decir a quien os pide agua: “No, esta agua es mía y no te la doy”? ¡Mentirosos! ¿Quién de vosotros ha hecho un solo copo de nieve o una sola gota de agua? ¿Quién ha hecho aparecer diamantes de rocío a la luz solar? Nadie. Es Dios quien lo hace. Y si las aguas bajan del cielo y a él tornan, es sólo porque Dios controla esta parte de creación, como el resto de ella.
Dad, pues, al sediento agua fresca de las venas de la tierra, o la pura de vuestro pozo, o la que llena vuestras cisternas. Es cosa tan pequeña, que no os cuesta dinero, que no requiere fatiga alguna si no es la de extender una taza o un cubo, os lo aseguro, tendréis recompensa en el cielo. Porque el agua no es grande a los ojos y al parecer de Dios, sino el acto de caridad.

Vestir a los desnudos.
Pasan por las calles del mundo miserias desnudas, vergonzosas, que mueven a compasión: ancianos abandonados, inválidos por enfermedad o por desgracia, leprosos que vuelven a la vida por bondad del Señor, viudas cargadas de hijos, desafortunados que se han visto privados de bienestar, huérfanos inocentes. Si pongo mis ojos sobre la extensa tierra, por todas partes encuentro personas desnudas o cubiertas de harapos que apenas defienden el cuerpo del frío, que apenas lo cubren. Y estos ven con ojos que se sienten humillados a los ricos que pasan envueltos en vestidos suaves, calzados muellemente. ¿Por qué no salís al encuentro de esta humillación, procurando que los buenos se hagan mejores, y destruyendo el odio que existe en los menos buenos con vuestro amor?
No digáis: “Solo tengo para mí”. Como sucede con el pan que siempre sobra algo sobre la mesa, así también hay algo en los armarios que no es absolutamente necesario. Entre los que me escuchan hay uno que supo, con un vestido tirado porque ya estaba viejo, hacer un vestido para un huérfano, para un niño pobre; con una sábana vieja hacer fajas para un inocente que no las tenía. Y hay también uno que, siendo mendigo, supo dividir su pan que había conseguido con grandes trabajos con uno que por la lepra no podía ir a extender su mano hasta los umbrales de los ricos. En verdad os digo que no hay que buscar estos misericordiosos entre los dueños de bienes, sino entre los ejércitos humildes de pobres que por serlo, saben qué penosa es la pobreza.
También en este punto pensad que la lana y el lino, como el agua y el pan, proceden de animales y plantas que fueron criadas por el Padre no para los ricos solamente, sino para todos. Sólo ha dado una riqueza al hombre: la de su gracia, de la salud, de la inteligencia; pero la sucia riqueza que es el oro, que habéis exaltado como un bello metal más que los otros sin serlo, y menos útil que el hierro con el que se fabrican asadas, arados, rastrillos, hoces, escoplos, martillos, sierras, garlopas, los santos instrumentos del santo trabajo. Elevasteis el oro a una nobleza inútil, mentirosa a instigación de Satanás que de hijos de Dios os ha convertido en salvajes como fieras. La riqueza de lo que es santo os permitía haceros siempre más santos. Pero no esta homicida riqueza que exprime tanta sangre y tantas lágrimas. Dad como se os dio. Dad en nombre del Señor, sin temer que os quedaréis desnudos. Es mejor morir de frío por haberse despojado del vestido en favor del mendigo, que dejar que se entumezca el corazón bajo muelles vestiduras, por falta de caridad.
Lo tibio del bien hecho es más acariciador que el que produce la lana más pura, y las carnes cubiertas del pobre le hablan a Dios y le dicen: “Bendice a quien nos ha vestido”.
El quitar al hombre la sed, el vestir al desnudo, son actos con los que uno se desprende de algo para dar a otros, son actos en que la santa templanza está unida a la santísima caridad, y muestran que existe en vosotros la bienaventurada justicia, por la que santamente se cambia la suerte de nuestros hermanos infelices porque se da de lo que se abunda. Iguales virtudes resplandecen al “dar hospedaje a los peregrinos”, pues la caridad se junta con la confianza y con la buena intención que tiene el prójimo en su corazón. “El dar hospedaje” es también una virtud, una virtud que demuestra que quien la posee, además de la caridad, posee la honradez. Pues quien es honrado obra bien. Y como se suele obrar, se piensa que los demás obren así, entonces nace esa confianza, esa simplicidad con que se cree a las palabras de los demás. Esto muestra que quien las escucha es uno que dice la verdad en asuntos grandes o pequeños, y que por lo tanto no desconfía de lo que otros le cuenten.
¿Por qué pensar ante el peregrino que os pide refugio: “¿Y si es un ladrón o asesino?” ¿Estáis tan arraigados a vuestras riquezas que tengáis miedo de ellas a la presencia de algún extraño? ¿Tenéis tanto miedo por vuestra vida que sintáis encogeros de horror pensando que se os quite? ¿Y qué? ¿Pensáis que Dios no pueda defenderos de los ladrones? ¿Y qué? ¿Tenéis miedo de que el que pasa sea un ladrón y no tenéis miedo del huésped tenebroso que os roba lo que no tiene cambio? ¡Cuántos hay que dan hospedaje al demonio en el corazón! Podría afirmar: todos hospedan el pecado capital, y sin embargo nadie tiembla ante él.¿Es, pues, tan sólo precioso el bien de la riqueza y de la existencia? ¿No será más preciosa la eternidad de que os dejáis robar y matar por el pecado? Pobres, pobres almas, a quien se ha robado su tesoro, que están a merced de manos asesinas, y eso las tiene sin cuidado; en cambio los hogares se defienden con barricadas, con cerrojos, con perros y otros artificios con tal de salvar lo que no llevaremos a la otra vida.
¿Por qué obstinarse en ver en cada peregrino un ladrón? Somos hermanos. Las puertas se abren al hermano que pasa. ¿El peregrino no es acaso de nuestra sangre? Sí que lo es. Es sangre de Adán y Eva. ¿No es hermano nuestro? ¡Y cómo no va a serlo! El Padre es uno solo: Dios que nos ha dado un alma igual; así como los hijos de un mismo padre, tienen igual sangre. ¿Es pobre? Haced que vuestro espíritu privado de la amistad del Señor no sea más obre que él. ¿Trae vestidos rotos? Procurad que vuestra alma no sea harapos de pecado. ¿Sus pies están sucios de lodo y fango? Haced que su sandalia sucia de tanto camino, despedazada por el andar, no lo esté más que vosotros mismos con los vicios. ¿Es de fea presencia? Procurad que no lo seáis más vosotros a los ojos de Dios. ¿Es extraño su hablar? Tratad de que vuestro lenguaje no sea incomprensible en la ciudad de Dios.
Ved en el peregrino a un hermano. Todos somos peregrinos en el camino que va al cielo, y todos llamamos a las puertas que hay a lo largo de la senda que va al cielo. Las puertas son los patriarcas y los justos, los ángeles y los arcángeles, a quienes nos encomendamos para que nos ayuden y protejan, para que podamos llegar a la meta sin caer agotados en la oscuridad de la noche, en el rigor del invierno, presas de las asechanzas de lobos y chacales que son las pasiones malvadas y de los demonios. Como queremos que ángeles y santos nos abran su amor para hospedarnos, y devolvernos aliento para continuar el camino, de igual modo tratemos a los peregrinos de la tierra. Y por cada vez que abramos nuestra casa y brazos, saludando con el dulce nombre de hermano al desconocido, pensando que Dios lo sabe, os digo que se habrán recorrido muchos kilómetros en el camino que va al cielo.

Visitar los enfermos.
De verdad que así como todos los hombres son peregrinos, también todos están enfermos. Las enfermedades mayores, las invisibles y morales son del espíritu. Y con todo no causan ningún asco. No provoca repugnancia la llaga moral. Ni náusea el hedor del vicio, ni miedo la locura demoníaca. No causa vómito la gangrena de un leproso de espíritu. No hace huir el sepulcro lleno de podredumbre de un hombre muerto y corrompido en el espíritu. No es anatema acercarse a ninguna de estas impurezas. ¡Pobre estrechez del pensamiento humano! Pero decidme: ¿tiene más valor el espíritu o la carne y espíritu? ¿Tiene poder lo material para corromper con su cercanía lo incorpóreo? No. Os lo digo que no. El espíritu respecto a la carne y sangre tiene un valor infinito; pero la carne no es más poderosa que él. El espíritu puede corromperse no con cosas materiales, sino espirituales. Si alguien cura un leproso, no se hace leproso su espíritu, antes bien, por la caridad heroicamente practicada, que lleva a estar en valles de muerte por compasión al hermano, cae de él toda mancha de pecado, porque la caridad es absolución de pecado, y superior a las purificaciones.
Partid siempre de este pensamiento: “¿Qué querría que se me hiciese a mí si fuese como este?” Y como quisieseis, haced. Todavía Israel tiene sus antiguas leyes, pero llegará un día, y su aurora no está muy lejana, cuando se venerará como símbolo de absoluta belleza la imagen de Uno en quien se reflejará materialmente el Hombre de los dolores del que habla Isaías. Y el Torturado del salmo davídico. Aquel que por haberse hecho semejante a un leproso, se convertirá en el Redentor del linaje humano, y a sus llagas correrán como los ciervos sedientos a las fuentes, los enfermos, los agotados, los que lloran, y Él les quitará la sed, los curará, restablecerá, consolará en el espíritu y cuerpo, y para los mejores será un anhelo asemejarse a Él, verse cubierto de heridas, desangrados, golpeados, coronados de espinas, crucificados por amor de los hombres que hay que redimir, y que continuarán la obra del Rey de reyes y del Redentor del mundo.
Vosotros que todavía sois Israel, pero que ya levantáis las alas para volar hacia el reino de los cielos, tomad en vuestras manos este modo de pensar y este modo de valuar la enfermedad, y al bendecir a Dios que os conserva sanos, inclinaos sobre quien sufre y muere. Un apóstol mío dijo a un hermano suyo un día: “No tengas miedo de tocar a los leprosos. Ningún mal acaecerá por voluntad de Dios”. Y dijo bien. Dios cuida de sus siervos. Pero aunque os contagiaseis curando a los enfermos, seréis colocados en las filas de los mártires del amor en la otra vida.

Visitar a los encarcelados.
¿Creéis que en las galeras están sólo los delincuentes? La justicia humana tiene un ojo tuerto y el otro medio nublado, por el que ve camellos donde hay nubes o confunde una serpiente con un ramo florido. Juzga mal. Y todavía peor porque frecuentemente quien la hace, forma a propósito neblinas de humo para que no juzgue bien. Aun cuando los encarcelados fuesen todos ladrones y homicidas, no es justo que nos hagamos ladrones y homicidas, quitándoles la esperanza de perdón con nuestro desprecio.
¡Pobres prisioneros! No se atreven a levantar los ojos a Dios, cargados como están con su delito. Las cadenas, en verdad, están más bien en el espíritu que en los pies. Pero ¡ay de ellos si desconfían de Dios! Unen al delito contra el prójimo el de la desesperación del perdón. La galera es expiación, como lo es la muerte en el patíbulo. Pero no basta pagar la parte a la que tiene derecho la sociedad humana por el delito cometido. Es menester pagar también y sobre todo la parte que se debe a Dios, para poder expiar, para tener la vida eterna. Quien es rebelde, quien se desespera no expía sino ante la sociedad. Que el amor de los hermanos vaya al condenado o al prisionero. Será luz en las tinieblas. Será una voz. Será una mano que señala lo alto, mientras la voz dice: “Que mi amor te diga que también Dios te ama; Dios que me puso en el corazón este amor por ti, hermano desventurado” y la luz permite entrever a Dios, Padre piadoso.
Que vuestra caridad se dirija con mayor ahínco a consolar a los mártires de la justicia humana. A los que en realidad no son culpables, o a los que una fuerza cruel empujó a matar. No juzguéis allí donde ya se juzgó. No sabéis que muchas veces el que asesina no es sino un muerto, un autómata privado de razón, porque un asesinato incruento le quitó la razón con la vileza de una cruel traición. Dios sabe y basta. En la otra vida se verán muchos de los que estuvieron en las galeras, muchos de los que mataron y robaron, poseyendo el cielo, porque en realidad los verdaderos ladrones de la paz de los demás, de la honradez, de la confianza, los verdaderos asesinos de un corazón fueron ellos: las pseudo–víctimas. Víctimas sólo porque fueron las últimas en recibir el golpe. El homicidio y el hurto son pecados, pero quien mata y roba, porque fue empujado por otro, y luego se arrepiente, y quien induce a otros al pecado y no se arrepiente, será castigado menos duramente que el que lo empujó al pecado sin sentir remordimiento.
Por lo cual, no juzgando jamás, sed compasivos para con los encarcelados. Pensad siempre que si se debiese castigar a todos los homicidas y ladrones, no pocos hombres ni pocas mujeres morirían en las galeras o en el patíbulo. A esas madres que conciben y que luego no quieren dar a luz su fruto, ¿qué nombre se les dará? ¡Oh! no juguemos con las palabras. Digámoslas claramente su nombre: “Asesinas”. Esos hombres que roban reputación y puestos, ¿cómo los llamaremos? Con lo que son: “Ladrones”. Esos hombres y mujeres que siendo adúlteros o maltratando a sus familias y que por eso empujan al homicidio o suicidio, o también los que siendo grandes de la tierra arrastran a la desesperación a sus vasallos, y con la desesperación a la violencia, ¿qué nombre se merecen? Este: “Homicidas”. ¿Huye alguien? Vosotros sois testigos de que entre galeotes que escaparon de la justicia, que llenan casas y ciudades y se topan con nosotros en las calles y duermen en los mismos albergues que nosotros y con ellos condividimos la mesa, se vive sin preocupación alguna. Y sin embargo ¿Quién está sin pecado? Si Dios escribiese en la pared del lugar donde se reúnen para su banquete los pensamientos del hombre, en la frente, las palabras acusadoras de lo que fuisteis, sois o seréis, pocas frentes llevarían escrita con letras luminosas la palabra: “Inocente”. Todas las demás con color de verde como la envidia, negro como la traición, rojo como el crimen, llevarían las palabras: “Adúlteros” “Asesinas” “Ladrones” “Homicidas”.
Sed, pues, misericordiosos sin soberbia para con los hermanos menos afortunados, según la condición humana, que están en las galeras expiando lo que vosotros no expiáis, por la misma culpa. Vuestra humildad sacará de ello humildad.

Enterrar a los muertos.
La contemplación de la muerte es escuela de la vida. Querría llevaros a todos de frente a la muerte y decir: “Sabed vivir como santos para alcanzar esta muerte: separación temporal del cuerpo del espíritu a fin de resucitar triunfalmente para siempre, reunidos, felices”. Todos nacemos desnudos. Todos morimos convirtiéndonos en presa destinada a corrupción. Como se nace, reyes o pordioseros, así se muere. Y si el fausto permite que el cadáver del rey se preserve por largo tiempo, no por eso deja de ser carne muerta. ¿Qué cosa son las mismas momias? ¿Carne? No. Materia fosilizada por las resinas, convertida en madera. No se convierte en presa de gusanos porque está vaciada y preparada con esencias, pero sí es presa de los comejenes como un viejo madero.
El polvo se convierte siempre en polvo porque así Dios lo dijo. Y sin embargo sólo porque este polvo cubrió el espíritu y por él fue vivificado, por esto, como algo que tocó la gloria de Dios –tal es el alma del hombre– es necesario pensar que es polvo santificado no de otra manera que los objetos que están en contacto con el Tabernáculo. Al menos hubo un momento en que el alma fue perfecta: cuando el Creador la creó, mas si después la Mancha la ensucia, le quita la perfección, sólo debido a su origen comunica belleza a la materia y por esa hermosura que viene de Dios el cuerpo se embellece y merece respeto. Somos templos y como tales merecemos honor así como siempre son honrados los lugares donde reposó el Tabernáculo.
Dad, pues, a los muertos la caridad de un reposo honesto en espera de la resurrección, viendo en la admirable armonía del cuerpo humano la mente y el dedo divino que lo ideó y modeló con perfección, y venerando también en los restos mortales la obra del Señor.
El hombre no es sólo carne y sangre. También es alma y pensamiento. También estos sufren y merecen que se les socorra misericordiosamente. Hay ignorantes que hacen el mal, tan sólo porque no conocen el bien. ¡Cuántos hay que no saben o que no conocen bien las cosas de Dios y aun las leyes morales! Como hambrientos languidecen porque no hay quien les dé de comer, y caen en atrofia porque no hay quien los alimente en verdad. Id a instruirlos porque por esto os acojo y os envío. Dad el pan del espíritu al hambre de los espíritus. Instruir a los ignorantes corresponde en lo espiritual, a dar de comer a los hambrientos y si se da un premio al que da un pan a quien está muriendo para que no muera, ¿qué premio se dará al que sacia el espíritu con verdades eternas, dándole la vida perenne? No seáis avaros de los que sabéis. Os fue dado sin gastos de vuestra parte y sin medida, dad sin avaricia porque es don de Dios el agua del cielo y se debe dar como se recibe.
No seáis avaros ni soberbios de lo que sabéis, sino dad con humilde generosidad. Dad el refrigerio limpio y beneficioso de la oración a vivos y muertos que tienen sed de gracias. No se debe negar el agua a las gargantas sedientas. ¿Qué decir entonces de los corazones de los que viven angustiados, de los espíritus en pena? Oraciones, oraciones fecundas porque llenas de amor y de espíritu de sacrificio.
La oración debe ser verdadera, no mecánica como suenan las ruedas por la calle. ¿Es el sonido o la rueda la que hace avanzar el carro? Es la rueda que se gasta por arrastrar más allá el carro. La misma diferencia existe entre la oración vocal y mecánica y la plegaria activa. La primera es sonido, no más; la segunda es obra, en que se gastan las fuerzas y aumenta el sufrimiento, pero se obtiene lo que se quería. Orad más con el sacrificio que con los labios y daréis refrigerio a vivos y muertos, cumpliendo con la segunda obra de misericordia espiritual. El mundo se salvará más con las oraciones de los que saben orar, que con ruidosas, inútiles, mortíferas batallas.
Muchas personas del mundo saben, pero no saben creer con firmeza. Como atrapadas en medio de dos campos opuestos, tambalean, sin dar un solo paso, y se acaban las fuerzas sin lograr nada. Son los que dudan. Son los del “pero”, los del “si”, los de “y después”. Son aquellos que hacen las preguntas: “¿Será así después? ¿Y si no fuera? ¿Y podré yo? ¿Y si no lo logro?” Son cual la flor campanilla que al no encontrar donde asirse no sube y si encuentra, cuelga aquí y allí, y no sólo es menester darle sostén, sino guiarla a cada rato del día.
Que si hacen ejercitar en verdad la paciencia y caridad más que un muchachito tonto. Pero en nombre del Señor, no los abandonéis. Dad toda la fe luminosa, la fortaleza ardiente a estos prisioneros de sí mismos, de su enfermedad llena de niebla. Guiadlos al sol y a lo alto. Sed maestros y padres para estos inseguros. Sin cansaros, sin impacientaros. ¿Hacen que se caigan los brazos? Perfectamente bien. También vosotros me lo hacéis y más al Padre que está en los cielos, que debe frecuentemente pensar que parece que fue en vano que la Palabra se hizo Carne, porque el hombre está todavía lleno de dudas, aun ahora que oye hablar al Verbo de Dios.
¿Queréis presumir que sois más de Dios y de Mí? Abrid las cárceles a estos prisioneros del “pero” y del “sí. Soltad las cadenas de los que preguntan: “¿Por qué?” “¿Y si no logro?” Persuadidles de que basta hacer todo lo mejor que se pueda y que Dios se contenta con ello. Si veis que resbalan y que no están asidos al sostén, no paséis adelante, volvedlos a levantar. Igual como hacen las mamás que no pasan adelante si cae por tierra su pequeñuelo, sino que se detienen, lo levantan, lo limpian, lo consuelan, lo sostienen hasta que le pasó el miedo de que vuelva a caer. Y así hacen por meses y años si el niño es débil de piernas.

Vestid a los desnudos del espíritu perdonando a quien os ofende.
La ofensa es anticaridad. La anticaridad despoja de Dios, por esto el que ofende se desnuda y sólo el perdón del ofendido le vuelve a poner las vestiduras, porque torna a llevarlo a Dios el cual está dispuesto a perdonar a quien el ofendido haya perdonado. El ofendido, pues, debe perdonar, y el ofensor espera el perdón tanto del hombre como de Dios. Oídlo bien, nadie hay que no haya ofendido al Señor. Dios nos perdona si perdonamos al prójimo y perdona al prójimo si el ofendido perdona a quien le ofendió. Se os tratará como tratéis. Perdonad, por lo tanto si queréis que se os perdone y os alegraréis en el cielo por la caridad que hayáis tenido, como de un manto de estrellas sobre vuestras santas espaldas.

Sed misericordiosos con los que lloran. Son los heridos de la vida, los enfermos del corazón en sus afectos.
No os encerréis en vuestra indiferencia como dentro de una fortaleza. Aprended a llorar con quien llora, consolar al afligido, llenar el vacío de quien se encuentra solo por la muerte de un familiar. Sed padres con los huérfanos, hijos con los padres, hermanos unos con otros. Amad. ¿Por qué amar sólo a los que son felices? Tienen ya su parte. Amad a los que lloran. Son los que menos ama el mundo, porque no conoce el valor de las lágrimas. Vosotros lo conocéis. Amad, pues, a quien llora. Amadlos si están resignados en su llanto. Amadlos, todavía mucho más, si se rebelan en su dolor. No reproche sino dulzura para persuadirles de la verdad de dolor y acerca del dolor. Pueden, entre el velo del llanto, ver deformado el rostro de Dios, verlo reducido a una expresión de un poder que no conoce más que la venganza. No. ¡No os escandalicéis! No es sino alucinación que produce la fiebre del dolor. Socorredlos para que la fiebre desaparezca.
Vuestra fe fresca sea como hielo que se aplica al que está delirando. Y cuando la fiebre más terrible desaparece, y luego entra el abatimiento y alelamiento del que vuelve de un trauma, entonces, como a los niños que una enfermedad ha impedido el desarrollo intelectual, volved a hablar de Dios, como de algo nuevo, con dulzura, con paciencia... ¡Oh! un hermoso cuento dicho para distraer al eterno niño que es el hombre. Y luego callad. No impongáis... El alma trabaja por sí. Ayudadla con las caricias y oración. Y cuando ella diga: “¿Entonces no fue Dios?”, decid: “No. Él no quiso hacerte mal porque te ama aun por quien no te ama porque está muerto o por otro motivo”. Y cuando el alma diga: “Pero lo culpé”, decid: “Ya lo olvidó porque era fiebre la que hablaba”. Y cuando diga: “Entonces querría”, decidle: “¡Míralo! está a la puerta de tu corazón esperando a que le abras”.

Soportad a las personas molestas. Ellas entran a perturbar nuestra casita de nuestro modo de ser, así como los peregrinos entran a perturbar la casa en que habitamos. Pero así como os dije que acojáis a éstos, así también acoged a aquéllos.
¿Os molestan? Si no las amáis, por el disturbio que provocan, ellas más o menos os aman. Acogedlas en gracia de este amor. Y aunque vengan por indagar, aunque vengan porque odian, o vengan a insultar, ejercitad la paciencia y caridad. Podéis mejorarlas con vuestra paciencia. Podéis escandalizarlas por vuestra falta de caridad. Que os duela que ellas pequen, pero que más os duela que vosotros mismos las hagáis pecar. Recibidlas en nombre mío, si no las podéis acoger por amor vuestro, y Dios os recompensará después, cuando venga a pagar la visita, y a borrar el recuerdo desagradable con sus caricias sobrenaturales.

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En fin, procurad sepultar a los pecadores para preparar el regreso a la vida de la gracia. ¿Sabéis cuándo lo hacéis? Cuando los amonestéis con insistencia paternal, paciente, amorosa. Es como si enterraseis las fealdades del cuerpo poco a poco antes de que lo depositéis en el sepulcro en espera de que suene la orden de Dios: “Levántate y ven a Mí”.
Nosotros los hebreos ¿no purificamos acaso los muertos por respeto al cuerpo que resucitará? Amonestar a los pecadores es como, purificarlos en sus miembros, primer paso que se da para la sepultura. El resto lo hará la gracia del Señor. Purificadlos con caridad, con lágrimas y sacrificios. Sed heroicos en arrancar un espíritu de la corrupción. Sed héroes. Esta acción no quedará sin recompensa. Porque si la hay por un vaso de agua dado al que tiene sed en la garganta ¿cuál no será la que se dé a quien arranca de la sed infernal a un espíritu?
He terminado de hablar. Estos son los actos de misericordia que se refieren al cuerpo y al espíritu y que aumentan el amor. Id a ponerlas en práctica, y la paz de Dios y mía esté ahora y siempre con vosotros.”

AMDG et B.V.MARIAE