venerdì 26 aprile 2019

Il Blog di Raffaella. Riflessioni e commenti fra gli Amici di Benedetto XVI: "Chi crede non è mai solo": l'omelia di inizio Pon...

Il Blog di Raffaella. Riflessioni e commenti fra gli Amici di Benedetto XVI: "Chi crede non è mai solo": l'omelia di inizio Pon...: LINK DIRETTO SU YOUTUBE L'omelia della Santa Messa per l'inizio del Ministero di Papa Benedetto XVI (Piazza San Pietro, 24 april...





                                      CHI    CREDE     NON     È      MAI      SOLO 







                                                  AVE      MARIA       PURISSIMA

                                                        MATER   BONI  CONSILII




giovedì 25 aprile 2019

MISTICA CIUDAD DE DIOS

TRE PUNTI


34 Nessuno più mi chiede: "Dove vai?". La tristezza vi fa muti. Eppure è bene anche per voi che Io me ne vada. Altrimenti non verrà il Consolatore. Io ve lo manderò. E quando sarà venuto, attraverso la sapienza e la parola, le opere e l'eroismo che infonderà in voi, convincerà il mondo del suo peccato deicida e di giustizia sulla mia santità. E il mondo sarà nettamente diviso nei reprobi, nemici di Dio, e nei credenti. Questi saranno più o meno santi, a seconda del loro volere. Ma il giudizio del principe del mondo e dei suoi servi sarà fatto. Di più non posso dirvi, perché ancora non potete intendere. Ma Egli, il divino Paraclito, vi darà la Verità intera, perché non parlerà di Se stesso. Ma dirà tutto quello che avrà udito dalla Mente di Dio e vi annunzierà il futuro. Prenderà ciò che da Me viene, ossia ciò che ancora è del Padre, e ve lo dirà.
   Ancora un poco da vedersi. Poi non mi vedrete più. E poi ancora un poco, e poi mi vedrete.

35 Voi mormorate fra voi ed in cuor vostro. Udite una parabola. L'ultima del vostro Maestro.
   Quando una donna ha concepito e giunge all'ora del parto, è in grande afflizione perché soffre e geme. Ma quando il piccolo figlio è dato alla luce ed ella lo stringe sul cuore, ogni pena cessa e la tristezza si muta in gioia, perché un uomo è venuto al mondo.
   Così voi. Voi piangerete e il mondo riderà di voi. Ma poi la vostra tristezza si muterà in gioia. Una gioia che il mondo mai conoscerà. Voi ora siete tristi. Ma, quando mi rivedrete, il vostro cuore diverrà pieno di un gaudio che nessuno avrà più potere di rapirvi. Una gioia così piena che vi offuscherà ogni bisogno di chiedere e per la mente e per il cuore e per la carne. Solo vi pascerete di rivedermi, dimenticando ogni altra cosa. Ma proprio da allora potrete tutto chiedere in mio Nome, e vi sarà dato dal Padre perché abbiate sempre più gioia. Domandate, domandate. E riceverete.
   Viene l'ora in cui potrò parlarvi apertamente del Padre. Sarà perché sarete stati fedeli nella prova e tutto sarà superato. Perfetto quindi il vostro amore, perché vi avrà dato forza nella prova. E quanto a voi mancherà Io ve lo aggiungerò prendendolo dal mio immenso tesoro e dicendo: "Padre, lo vedi. Essi mi hanno amato credendo che Io venni da Te". Sceso nel mondo, ora lo lascio e vado al Padre, e pregherò per voi».


36 «Oh! ora Tu ti spieghi. Ora sappiamo ciò che vuoi dire e che Tu sai tutto e rispondi senza che nessuno ti interroghi. Veramente Tu vieni da Dio! ».
   «Adesso credete? All'ultima ora? È tre anni che vi parlo! Ma già in voi opera il Pane che è Dio e il Vino che è Sangue non venuto da uomo, e vi dà il primo brivido di deificazione. Voi diverrete dèi se sarete perseveranti nel mio amore e nel mio possesso. Non come lo disse Satana ad Adamo ed Eva, ma come Io ve lo dico. È il vero frutto dell'albero del Bene e della Vita. Il Male è vinto in chi se ne pasce, ed è morta la Morte. Chi ne mangia vivrà in eterno e diverrà "dio" nel Regno di Dio. Voi sarete dèi se permarrete in Me. Eppure ecco... pur avendo in voi questo Pane e questo Sangue, poiché sta venendo l'ora in cui sarete dispersi, voi ve ne andrete per vostro conto e mi lascerete solo... Ma non sono solo. Ho il Padre con Me. Padre, Padre! Non mi abbandonare! Tutto vi ho detto... Per darvi pace. La mia pace. Ancora sarete oppressi. Ma abbiate fede. Io ho vinto il mondo».
AMDG et DVM

Don, din don, din don, din don….

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Don Antonio e i primi indizi della resurrezione



di Gianni Valente

Ognuno ha la sua postazione da cui sbirciare il mondo. A lui, don Antonio Persili da Tivoli, è toccata la parrocchietta di San Giorgio, incastonata nella parte vecchia della sua cittadina. Piazzette, vicoli e archetti abbarbicati sui precipizi che si affacciano sull’Aniene. E laggiù, spalmata di foschia, c’è Roma, che la notte diventa un mare di luci. 

A settantasette anni, arriva su una vecchia Ritmo scarburata color carta da zucchero, come la giacca a vento che porta stiracchiata sulla tonaca a proteggere da un improvviso contropiede dell’inverno. Si carica le due buste della spesa (pane, latte, uova, qualche yogurt), apre il portoncino verde e sale col solito passo le scale della canonica. Fa così da tanto tempo. Da quando è arrivato qui nel ’55 come parroco, e, cosa rara in questa Chiesa di preti e vescovi volanti, non l’hanno più spostato. 

Ora, in quest’angolo di mondo a cui si è avvicinata troppo la città dove risiede il successore di Pietro, don Antonio non aveva il problema di sentirsi investito di chissà quale missione. La vita andava da sé, senza neanche troppo trasporto per la propria condizione. "Figurarsi… sono diventato prete perché mio padre mi aveva spedito al seminario quasi per punizione, per farmi studiare, un giorno che avevo marinato la scuola insieme a un compagno. Allora, si usava così…". E infatti, non è che all’inizio (e anche dopo l’inizio) fosse molto contento. "Quello che m’insegnavano, lo accoglievo senza obiezioni, ma non mi toccava il cuore. C’era un modo di esporre le verità della fede cristiana che dava tutto per scontato. Sentivo che mancava qualcosa. Comunque, si tirava avanti…". 

Ma poi successe qualcosa. Dal suo appartato punto d’avvistamento il prete di provincia si accorse anche lui di quella che oggi descrive come una silenziosa ma radicale metamorfosi nella Chiesa. Un particolare, in questo epocale smottamento, fissò la sua attenzione: il modo nuovo in cui si cominciò a parlare della resurrezione di Nostro Signore. "Al seminario di Tivoli mi avevano insegnato che la resurrezione di Gesù Cristo nella carne era la prova della sua divinità, e per questo era il fondamento della nostra fede. Poi, qualcuno cominciò a dire che bisognava considerarla innanzitutto come un "mistero di salvezza". Altri aggiunsero che non era tanto importante riconoscere la resurrezione come un fatto accaduto, ma credere nella sua forza salvifica per noi. Infine, qualcun altro ci fece sapere che per accogliere questo mistero di salvezza apportato dalla resurrezione non bisognava inseguire indizi concreti, storici, ma occorreva avere la fede". Insomma, un rovesciamento totale. "Se prima la resurrezione era il fondamento della fede, adesso serviva la fede per cogliere il mistero di salvezza della resurrezione…". Don Antonio snocciola a casaccio mille esempi di questa deriva idealistica, 
partita dai teologi e dai maestri e poi a poco a poco penetrata fin nei capillari della predicazione ordinaria della Chiesa. Da Karl Rahner – per il quale anche i dettagli storici dei racconti evangelici sulla resurrezione di Gesù "vanno interpretati come rivestimenti plastici e drammatizzanti (di tipo secondario) dell’esperienza originaria "Cristo vive" e non come descrizione di questa stessa nella sua autentica essenza originaria", né, tantomeno, "come esperienza quasi grossolanamente sensibile" – giù giù fino al Dizionario Biblicodi J.-L. McKenzie, pubblicato in italiano da Cittadella nell’81, dove si legge che "Gesù risorto (come le apparizioni di Gesù) è una realtà sovrannaturale che non appartiene a questo mondo e non può essere oggetto di ricerca storica in quanto tale: essa è soltanto oggetto di fede. […] Riconoscere l’avvenimento come un fatto, non è nulla: accettarlo come un fatto salvifico è credere in esso ed ottenere la salvezza che in esso si compie. Nel Vangelo di Giovanni (20, 29) Gesù elogia la fede nella resurrezione, non l’osservazione del fatto. L’importanza della resurrezione nella predicazione e nella catechesi del Nuovo Testamento si fonda sul suo significato teologico".

A quel punto, don Antonio non ci capiva più niente. "Da tutte le parti sentivo discorsi che mettevano in opposizione la grazia della fede alla storia. Dietro tanti paroloni, alla fine la fede cristiana diventava una specie di partito preso. Una autoconvinzione che poggia su se stessa". Un dogmatismo idealista che, a suo vedere, poco c’entrava con quanto era successo tra i primi testimoni: "A sentire i Vangeli, le donne, i discepoli e gli apostoli non avevano alcuna fede "preventiva" nella resurrezione. Per raggiungere questa fede, non sarebbe bastato loro nessuno sforzo di immaginazione mistica, magari tirando in ballo a sproposito la grazia. Tutti, invece, per diventare testimoni della resurrezione, avevano avuto le prove storiche del suo reale accadimento. Tommaso, in particolare, aveva voluto personalmente sincerarsi che il Gesù risorto fosse lo stesso Gesù che era morto in croce". 

Il povero prete tiburtino, per non rimanere confuso, scese a Roma. Andò a chiedere lumi agli illustri professori del Pontificio Istituto Biblico. Fece anche un salto dagli scrittori della Civiltà Cattolica. "Ci fu chi mi disse che ogni tentativo di cercare riscontri storici ai racconti della resurrezione non apparteneva alla teologia cristiana, ma alla "scienza del demonio", perché che Cristo sia risorto non è un problema storico, ma è solo oggetto di fede". Finì che don Antonio si scrollò i calzari, provò ad andare avanti senza l’aiuto degli "esperti". E senza chiedere permesso. 

Ripartì dall’inizio, dalla prima volta che, a quanto scrivono i Vangeli, un uomo aveva iniziato a credere nella resurrezione di Gesù. Ossia da quella scena davanti al sepolcro in cui era stato sepolto il corpo di Gesù, dove erano arrivati trafelati Giovanni e Pietro, quella domenica mattina. "È lì che, come racconta nel suo Vangelo, davanti a ciò che era rimasto nel sepolcro spalancato, ormai senza il corpo di Gesù, Giovanni "vide e credette". A differenza di Pietro, che era rimasto solo confuso e quasi turbato dalla mancanza del corpo di Gesù". Come prima cosa, don Antonio registrò con stupore che la gran parte degli esperti neanche si soffermavano su questo episodio che aveva causato la prima, embrionale presa d’atto della resurrezione di Gesù da parte del discepolo prediletto. "Ad esempio, il teologo Bruno Forte, in un libro del 1982, sosteneva l’ipotesi che si trattasse solo di una leggenda eziologica "tendente a motivare il culto che a Gerusalemme si teneva presso il luogo della sepoltura di Gesù". E il catechismo per i giovani della Cei, nella sua versione del 1976, liquidava la faccenda annotando che Pietro e Giovanni si erano soltanto "stupiti di trovare il sepolcro aperto e vuoto"". 

Poi, leggendo e rileggendo la pericope evangelica dei due apostoli davanti al sepolcro, concordò che in effetti le versioni di uso corrente non facevano capire perché Giovanni aveva iniziato a credere nella resurrezione di Gesù proprio da quel momento. "Ad esempio, nel Nuovo Testamento pubblicato dalla Cei è scritto che i due discepoli, scrutando all’interno del sepolcro, videro "i teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo". Ora, non si capisce proprio per quale motivo Giovanni, per aver visto una simile scena, ossia delle bende funerarie e un sudario ripiegato, avrebbe dovuto intuire che Nostro Signore era risorto. Anzi, un simile salto logico a me farebbe sorgere dubbi sulla sanità mentale di Giovanni…". 

E in effetti, in tanti hanno sparlato di Giovanni come del primo idealista visionario, l’anti-Tommaso, il modello del cristiano che per credere non-ha-bisogno- di-vedere. Ma tutto questo a don Antonio non quadrava. Decise di andare più a fondo. Riprese in mano l’originale greco dei Vangeli e i manuali di greco biblico. Raccolse gli studi e gli articoli più aggiornati sugli usi funerari dell’antico mondo ebraico. Tra un battesimo, un’estrema unzione e una benedizione delle case, si avventurò in una vera e propria indagine storico-linguistica. Alla fine scoprì la magagna, che poi era un po’ un uovo di Colombo. 

Scoprì che le traduzioni ufficiali del brano evangelico in questione erano infelici. Finivano per occultare dei particolari che invece erano indispensabili per cogliere cosa era accaduto quel giorno a Giovanni. E qui, la conversazione col parroco tiburtino prende la piega di una lezione di esegesi e di tradizioni funebri ebraiche. Bisogna seguire bene tutti i passaggi. "Secondo l’uso del tempo, i morti con effusione di sangue venivano sepolti senza essere lavati né unti. Il sangue era considerato la sede del principio vitale, e quindi andava sepolto insieme al cadavere. I Vangeli ci avvertono che Giuseppe d’Arimatea, il ricco sinedrita padrone del sepolcro in cui fu posto Gesù, aveva portato per l’inumazione un rotolo di tela, mentre Nicodemo aveva portato una "mistura di mirra ed aloe di circa cento libbre", più o meno trentacinque chili. Dal rotolo di tela erano stati tagliati tutti i pezzi necessari a ricoprire e fasciare il corpo di Gesù: il telo più grande, con cui fu avvolto tutto il corpo insanguinato, anche per evitare che chi si occupava dell’inumazione lo toccasse con le mani nude; le fasce, abbastanza larghe (nell’originale greco: tà ¶yónia, tà othónia), che vennero fatte girare intorno al lenzuolo, per tenerlo stretto intorno al corpo; e il sudario, un fazzoletto quadrato che fu posto sul capo di Gesù, come testimonia lo stesso Giovanni. I profumi, a cui si ricorreva per coprire il cattivo odore, erano stati versati all’interno delle fasciature e anche sulla superficie in cui era stato posto il corpo di Gesù". Ora, proprio nella pericope che descrive la scena dei due apostoli davanti al sepolcro, errori grammaticali e di traduzione creano malintesi sulla posizione in cui Giovanni e Pietro trovarono tutti questi panni. Spiega Persili: "Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà ¶yónia keímena (tà othónia keímena). Ho già detto che la versione della Cei traduce questa espressione con "i teli ancora là". Altre versioni la traducono con "i teli per terra". In realtà il verbo keîmai (keîmai), da cui viene il participio keímena (keímena), non significa genericamente "essere lì" né tantomeno "stare per terra". Esso indica una posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. 

Probabilmente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse". Gli errori di interpretazione si ripetono, secondo Persili, anche riguardo alla posizione del sudario. L’originale greco usa ben venti parole per descriverla. Le versioni correnti introducono tutte l’idea che il sudario si trovi spostato rispetto al punto in cui si trovava quando il corpo di Gesù era stato sepolto. La versione Cei, ad esempio, traduce: "e [videro] il sudario, non là con i teli, ma in disparte, piegato in un luogo". Don Antonio, davanti a tali traduzioni, freme. E dice la sua: "keímenon (keímenon), come già keímena (keímena), è participio di keîmai (keîmai), giacere. O° metà tÓn ¶yonívn keímenon (Ou metà tôn othoníon keímenon) significa che il sudario non era disteso come le altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l’avverbio xvr짠 khorìs –, in senso modale), appariva arrotolato (•ntetuligménon  entetyligménon –, dal verbo •ntulíssv – entylísso –, che significa avvolgere, arrotolare) in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre eɧ ²na tópon (eis héna tópon), che le versioni correnti traducono banalmente come "in un luogo". Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto inamidante". 

Se questo fu lo spettacolo che si presentò ai due apostoli, si può comprendere perché a quella vista il discepolo che Gesù amava poté intuire ciò che era accaduto. Non lo avevano portato via. Era risorto nel suo vero corpo, come aveva promesso, con parole che nemmeno i suoi avevano capito. Spiega don Antonio: "Era impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce per una improvvisa rianimazione, o che fosse stato portato via, da amici o da nemici, senza slegare le fasce o manometterle in qualche maniera. Se le fasce erano rimaste al loro posto, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, era il segno che Gesù era uscito vivo dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che lo avvolgevano, fuori dalle leggi dello spostamento dei corpi. Un intervento sovrannaturale aveva sottratto quel corpo dalla nicchia nel sepolcro, lasciando tutte le cose intatte, senza manomettere i teli funerari. Giovanni, davanti al sepolcro, non fece nessun salto mistico. Nel suo Vangelo, soffermandosi così minuziosamente sulla posizione delle fasce, voleva solo descrivere la prima traccia storica della resurrezione". 

Se ripensa ai tanti esperti che hanno passato la vita su queste cose, senza riuscire a tradurre degnamente quattro versetti dal greco, gli viene quasi da ridere. Intanto, gli spunti delle sue ricerche non autorizzate li ha raccolti in un libro. Ne aveva proposto la pubblicazione ad alcune case editrici cattoliche. Respinsero al mittente il manoscritto, bocciandolo per il tono "eccessivamente apologetico". Alla fine se lo pubblicò da solo, nel 1988 (Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni C. P. R.). A distanza di una dozzina d’anni, il volumetto sta uscendo dalla clandestinità. Lo si trova perfino in qualche libreria cattolica. E anche padre Jean Galot, illustre professore della Gregoriana, in un recente saggio su La Civiltà Cattolica ha citato ricerche aggiornate che confermano le "scoperte" di don Persili (cfr. 30Giorni, n.7/8, 2000). Lo hanno anche chiamato in televisione. 
Dice don Persili: "Adesso, mi hanno invitato a parlare, su a Pordenone. Mi hanno anche chiesto il mio curriculum. Gli ho scritto un foglietto con la data di nascita, quella di battesimo, e quella di quando sono diventato prete. Non è che avessi altro, da raccontare…". Poi questo don Nessuno si alza dalla sedia. Sono quasi le quattro. Deve andare a suonare la campana: "La suono tutti i giorni, a quest’ora. Sa, è per ricordare il momento in cui i primi due, Giovanni e Andrea, hanno incontrato Gesù: "Erano le quattro del pomeriggio", dice il Vangelo…". 

Sulla via del ritorno, attraverso i vicoli di Tivoli, tornano in mente le parole di Péguy, quando avvertiva che il nostro è un tempo in cui la realtà viene difesa solo da gente così, "individualità senza mandato". 
Don, din don, din don, din don…. 


AMDG et DVM

mercoledì 24 aprile 2019

«Tu hai di­menticato tutto per Me. Ora sarai certamente punito e perderai il posto. Lo vedi? Io ti porto sempre dolore. Per Me hai perduto la sinagoga e ora perderai il padrone... ».

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 Io sono il Pastore buono. E un pastore quando è buono dà la vita per difendere il suo gregge dai lupi e dai ladroni, men­tre il mercenario, che non ama le pecore ma il denaro che rica­va dal condurle ai pascoli, non si preoccupa che di salvare se stesso e il gruzzolo che ha in seno e, quando vede venire il lupo o il ladrone, fugge... 



VOLUME VIII CAPITOLO 518



DXVIII. A Gerusalemme, l’incontro con il cieco guarito e 

il discorso che rivela in Gesù il buon Pastore. 

Gv 9, 35-41; 10, 1-21
  25 ottobre 1946
 Gesù, entrato in città dalla porta di Erode, sta attraversandola dirigendosi verso il Tiropeo e il borgo di Ofel.
   «Al Tempio ci andiamo?», chiede l'Iscariota. 
   «Sì».
   «Bada a ciò che fai! », ammoniscono in molti. 
   «Non mi fermerò che il tempo della preghiera». 
   «Ti tratterranno».
   «No. Entreremo dalle porte di settentrione e usciremo dalle porte di mezzogiorno, e non faranno a tempo ad organizzarsi per nuocermi. A meno che ci sia sempre alle mie spalle uno che mi sorveglia e indica».
Nessuno ribatte e Gesù prosegue verso il Tempio che appa­re, in cima al suo colle, quasi spettrale nella luce verde gialla­stra di un plumbeo mattino d'inverno, nel quale il sole sorgen­te è soltanto un ricordo che si ostina a tenersi presente cercan­do di aprirsi un varco nella nuvolaglia pesante. Sforzo vano! Lo splendere allegro dell'aurora non è ridotto che ad un rifles­so smorto di un giallo irreale, non diffuso, ma a chiazze miste a toni di piombo venato di verde. E sotto a questa luce i marmi e gli ori del Tempio appaiono smorti, tristi, direi lugubri come rovine emergenti da una zona di morte.
   Gesù lo guarda intensamente nel salire verso la cinta. E guarda i volti dei viandanti mattutini. Per la più parte umile gente: ortolani, pastori con le bestiole da macello, servi o mas­saie diretti ai mercati. Tutta gente che va via silenziosa, rav­volta nei mantelli, un poco curva per difendersi dall'aria vi­brata del mattino. Anche i volti sembrano più pallidi che non come sono solitamente i volti di questa razza. È la luce strana che li fa così verdastri o quasi perlacei nel contorno delle stoffe colorate dei manti, non certo atti nei loro verdi, viola vivo, giallo intenso, a gettare riflessi rosei sui volti. Qualcuno saluta il Maestro, ma non si ferma. Non è ora propizia. Mendichi non ce ne sono ancora a gettare il loro lamentoso grido ai crocicchi e sotto i voltoni che coprono le vie ad ogni poco. L'ora e la sta­gione contribuiscono alla libertà, per Gesù, di andare senza ostacoli.
   Eccoli alla cinta. Entrano. Vanno nell'atrio degli Israeliti. Pregano mentre un suono di trombe, direi di argento per il loro timbro, annuncia certo qualcosa di importante, spargendosi per il colle e mentre un profumo di incenso si sparge soave­mente, soverchiando ogni altro odore meno piacevole che pos­sa sentirsi in cima al Moria, ossia il perpetuo, direi naturale, odore di carne che viene sgozzata e consumata dal fuoco, di farina bruciata, di olio ardente che stagna sempre lassù, più o meno forte ma sempre presente per i continui olocausti.
   Vengono via per altra direzione e cominciano ad essere no­tati dai primi accorrenti al Tempio, da appartenenti allo stes­so, dai cambiavalute e venditori che stanno montando i loro banchi e i loro recinti. Ma sono troppo pochi, e la sorpresa è tale che non sanno agire. Fra loro si scambiano parole di stu­pore: «È tornato!», «Non è andato in Galilea come dicevano», «Ma dove era nascosto, se non fu trovato in nessun luogo?», «Vuole proprio sfidarli», «Che stolto!», «Che santo!», e così via, a seconda dell'animo dei singoli.

 2 Gesù è già fuori dal Tempio e scende verso la strada che va verso Ofel, quando, all'incrocio con delle vie che salgono a Sion, si imbatte nel cieco nato, guarito da poco, che carico di ceste piene di mele odorose cammina tutto allegro, scherzando con altri giovani ugualmente carichi che vanno in senso oppo­sto al suo.
   Forse al giovane passerebbe inosservato l'incontro, dato che egli ignora il volto di Gesù e quello degli apostoli. Ma Gesù non ignora il volto del miracolato. E lo chiama. Sidonia detto Bartolmai si volge e guarda interrogativamente l'uomo alto e maestoso, nonostante sia vestito umilmente, che lo chiama a nome dirigendosi ad una vietta.
   «Vieni qui», ordina Gesù.
Risultati immagini per cesto pieno di mele odorose
   Il giovane si avvicina senza posare il suo carico, sogguarda Gesù e, credendolo uno desideroso di acquistare le mele, dice: «Il mio padrone le ha già vendute. Ma ne ha ancora, se vuoi. Sono belle e buone. Venute ieri dai pometi di Saron. E se ne comperi molte ne hai un forte sconto, perché...».
   Gesù sorride alzando la destra a porre freno alla parlantina del giovane. E dice: «Non ti ho chiamato per acquistare le me­le, ma per rallegrarmi con te e benedire con te l'Altissimo che ti ha usato grazia».
   «Oh, sì! Io lo faccio di continuo, e per la luce che vedo e per il lavoro che posso fare, aiutando mio padre e mia madre, fi­nalmente. Ho trovato un buon padrone. Non è ebreo, ma è buono. Gli ebrei non mi volevano per... perché sanno che sono stato cacciato dalla sinagoga», dice il giovane posando al suolo le ceste.
   «Ti hanno cacciato? Perché? Che hai fatto?».
   «Io niente. Te lo assicuro. Il Signore ha fatto. Egli in sabato mi ha fatto trovare quell'uomo che si dice sia il Messia, ed Egli mi ha guarito, come Tu vedi. E per questo mi hanno cacciato». 
   «Allora Colui che ti ha guarito non ti ha fatto in tutto un buon servizio», tenta Gesù.
   «Non lo dire, uomo! È una bestemmia la tua! Prima di tutto mi ha mostrato che Dio mi ama, poi mi ha dato la vista... Tu non sai cosa è "vedere", perché hai sempre visto. Ma uno che non aveva mai visto! Oh!... È... Sono tutte le cose insieme che si hanno con la vista. Io ti dico che quando ho visto, là presso Siloe, ho riso e pianto, ma di gioia, eh? Ho pianto come non avevo pianto nella sventura. Perché ho capito allora quanto essa era grande e quanto buono era l'Altissimo. E poi posso guadagnarmi la vita, e con lavoro decoroso. E poi... - questo è quello che più di tutto spero mi conceda il miracolo avuto - e poi spero poter incontrare l'uomo che si dice Messia e il suo di­scepolo che mi ha...».
«E che faresti allora?».
«Lo vorrei benedire. Lui e il suo discepolo. E vorrei dire al Maestro, che deve venire proprio da Dio, di prendermi per suo servo».
«Come? Per causa sua sei all'anatema, con fatica trovi lavo­ro, puoi essere anche più punito, e vuoi servirlo? Non sai che sono perseguitati tutti coloro che seguono Colui che ti ha gua­rito?».
   «Eh! lo so! Ma Egli è il Figlio di Dio, così si dice fra noi. Per quanto quelli di lassù (e accenna al Tempio) non vogliono che si dica. E non merita lasciare tutto per servire Lui?».


 «Credi tu dunque nel Figlio di Dio e nella sua presenza in Palestina?».
   «Io lo credo. Ma vorrei conoscerlo per credere in Lui non solamente nell'intelletto ma con tutto me stesso. Se Tu sai chi è e dove si trova, dimmelo, perché io vada a Lui e lo veda, e cre­da completamente in Lui, e lo serva».
   «Lo hai veduto già, né c'è bisogno che tu vada a Lui. Quello che tu vedi in questo momento e che ti parla è il Figlio di Dio».
   Io non potrei asserirlo con piena sicurezza, ma mi è parso che nel dire queste parole Gesù abbia quasi avuto una brevis­sima trasfigurazione, divenendo bellissimo e direi splendente. Direi che, per premiare l'umile credente in Lui e confermarlo nella sua fede, abbia, per la durata di un baleno, svelato la sua bellezza futura, voglio dire quella che assumerà dopo la risur­rezione e conserverà nel Cielo, la sua bellezza di creatura uma­na glorificata, di corpo glorificato e fuso all'inesprimibile bel­lezza della Perfezione che è sua. Un attimo, dico. Un baleno. Ma l'angolo semioscuro, dove si sono ridotti per parlare, sotto l'archivolto del vicolo, si illumina stranamente di una lumino­sità che si sprigiona da Gesù che, ripeto, si fa bellissimo.
   Poi torna tutto come prima, meno il giovane che ora è a ter­ra, col viso nella polvere, e che adora dicendo: «Io credo, Si­gnore, mio Dio! ».
   «Alzati. Io sono venuto nel mondo per portare la luce e la conoscenza di Dio e per provare gli uomini e giudicarli. Questo mio tempo è tempo di scelta, di elezione e di selezione. Io sono venuto perché i puri di cuore e d'intenzione, gli umili, i man­sueti, gli amanti della giustizia, della misericordia, della pace, coloro che piangono e quelli che sanno dare alle diverse ric­chezze il loro reale valore e preferire quelle spirituali alle ric­chezze materiali, trovino ciò che il loro spirito anela, e quelli che erano ciechi, perché gli uomini hanno alzato muraglie spesse ad interdire la luce, ossia la conoscenza di Dio, vedano, e quelli che si credono veggenti divengano ciechi... ».


 «Allora Tu odii molta parte degli uomini e non sei buono come dici di essere. Se lo fossi, cercheresti che tutti vedessero, e chi già vede non divenisse cieco», interrompono alcuni fari­sei sopraggiunti dalla via principale e avvicinatisi con altri, cautamente, alle spalle del gruppo apostolico.
   Gesù si volge e li guarda. Non è certo più trasfigurato in dolce bellezza, ora! È un Gesù ben severo quello che fissa sui suoi persecutori i suoi sguardi di zaffiro, e la sua voce non ha più la nota d'oro della letizia, ma è bronzea, e come suono di bronzo è incisiva e severa mentre risponde: «Non sono Io quel­lo che voglio che non vedano la verità coloro che al presente la combattono. Ma sono essi stessi che alzano delle lastre davanti alle loro pupille per non vedere. E si fanno ciechi di loro libera volontà. E il Padre mi ha mandato perché la divisione avvenga e siano veramente noti i figli della Luce e quelli delle Tenebre, coloro che vogliono vedere e coloro che vogliono farsi ciechi».
   «Siamo forse anche noi fra questi ciechi?».
   «Se lo foste e cercaste di vedere, non ne avreste colpa. Ma è perché dite: "Noi ci vediamo", e poi non volete vedere, che peccate. Il vostro peccato rimane perché non cercate di vedere pur essendo dei ciechi».
   «E cosa dobbiamo vedere?».
   «La Via, la Verità, la Vita. Un cieco nato, come era costui, col suo bastoncello può sempre trovare la porta della sua casa e girare in essa, perché conosce la sua casa. Ma, se fosse porta­to in altri luoghi, non potrebbe en-trare dalla porta della nuova casa, perché non saprebbe dove si trova e darebbe di cozzo contro le muraglie.


 Il tempo della nuova Legge è venuto. Tutto si rinnova e un mondo nuovo, un nuovo popolo, un nuovo regno sorgono. Ora quelli del tempo passato non conoscono tutto questo. Essi co­noscono il loro tempo. Sono come dei ciechi portati in un nuo­vo paese dove è la casa regale del Padre, ma della quale non conoscono l'ubicazione. 
   Io sono venuto per condurli ed intro­durli in essa e perché vedano. Ma sono Io stesso la Porta per la quale si accede nella casa paterna, nel Regno di Dio, nella Lu­ce, nella Via, nella Verità, nella Vita. E sono anche Colui che è venuto a radunare il gregge rimasto senza guida e a condurlo in un unico ovile: in quello del Padre. Io so la porta dell'Ovile, perché sono insieme Porta e Pastore. E vi entro e vi esco come e quando voglio. E vi entro liberamente, e dalla porta, perché sono il vero Pastore.
   Quando uno viene a dare alle pecore di Dio altre indicazio­ni, o cerca traviarle portandole ad altre dimore e ad altre vie, non è il buon Pastore, ma è un pastore idolo. E così, chi non entra dalla porta dell'ovile, ma cerca di entrarvi da un'altra parte scavalcando il recinto, non è il pastore ma un ladro e un assassino che vi entra con intento di rubare e di uccidere, per­ché gli agnelli predati non abbiano voce di lamento e non ri­chiamino l'attenzione dei guardiani e del pastore. Anche fra le pecore del gregge d'Israele cercano di insinuarsi dei falsi pa­stori per traviarle fuori dai pascoli, lontane dal Pastore vero. E vi entrano disposti anche a strapparle dal gregge con la violen­za, e all'occorrenza sono anche disposti ad ucciderle e colpirle in tante maniere, perché non parlino dicendo al Pastore le astuzie dei falsi pastori né gridino a Dio di proteggerle contro i loro avversari e gli avversari del Pastore.
   Io sono il buon Pastore e le mie pecore mi conoscono, e mi conoscono coloro che sono in eterno i portinai del vero Ovile. Essi hanno conosciuto Me e il mio Nome e lo hanno detto per­ché fosse noto ad Israele, e mi hanno descritto e preparato le mie vie, e quando la mia voce si è udita, ecco che l'ultimo di es­si mi ha aperto la porta, dicendo al gregge in attesa del vero Pastore, al gregge stretto intorno al suo bastone: "Ecco! Questo è Colui di cui ho detto che viene dietro di me. Uno che mi pre­cede perché esisteva prima di me ed io non lo conoscevo. Ma per questo, perché siate pronti a riceverlo, sono venuto a bat­tezzare con l'acqua, affinché fosse manifestato in Israele". E le pecore buone hanno sentito la mia voce e, quando le ho chia­mate per nome, esse sono accorse e le ho condotte meco, così come fa un vero pastore noto alle pecore che lo riconoscono al­la voce e lo seguono dovunque egli vada. E quando le ha fatte uscire tutte, cammina davanti ad esse, ed esse gli vanno dietro perché amano la voce del pastore. Mentre non vanno dietro ad uno straniero, ma anzi fuggono lontano da lui perché non lo co­noscono e lo temono. Io pure cammino davanti alle mie pecore per segnare loro la via ed affrontare per primo i pericoli e se­gnalarli al gregge, che voglio condurre in salvo nel mio Regno».


 «Che Israele non è più forse il regno di Dio?».
   «Israele è il luogo da dove il popolo di Dio deve assurgere alla vera Gerusalemme e al Regno di Dio».
   «E il Messia promesso, allora? Quel Messia che Tu asserisci di essere, non deve dunque rendere trionfante Israele, glorioso, padrone del mondo, assoggettando al suo scettro tutti i popoli e vendicandosi, oh!, vendicandosi ferocemente di tutti coloro che lo hanno assoggettato da quando è popolo? Non è vero nul­la di questo, allora? Tu neghi i profeti? Tu dici stolti i rabbi no­stri? Tu... ».
   «Il Regno del Messia non è di questo mondo. Esso è il Regno di Dio, fondato sull'amore. Non altro è. E il Messia non è re di popoli e milizie, ma re di spiriti. Dal popolo eletto verrà il Messia, dalla stirpe regale, e soprattutto da Dio che lo ha gene­rato e mandato. Dal popolo di Israele si è iniziata la fondazio­ne del Regno di Dio, la promulgazione della Legge d'amore, l'annuncio della buona Novella della quale parla il profeta (Isaia 61, 1). Ma il Messia sarà Re del mondo, Re dei re, e il suo Regno non avrà limite e confine, né nel tempo né nello spazio. Aprite gli occhi ed accettate la verità».
  
 «Non abbiamo capito niente del tuo farneticare. Dici parole senza nesso. Parla e rispondi senza parabole. Sei o non sei il Messia?».

   «E non avete ancora capito? Vi ho detto che sono Porta e Pastore per questo. Finora nessuno ha potuto entrare nel Re­gno di Dio perché esso era murato e senza uscite. Ma ora Io so­no venuto e la porta per entrare in esso è fatta».

   «Oh! Altri hanno detto di essere il Messia, e sono poi stati riconosciuti per dei ladroni e dei ribelli, e la giustizia umana ha punito la loro ribaldine. Chi ci assicura che Tu non sei come essi? Siamo stanchi di soffrire e di far soffrire al popolo il rigo­re di Roma, in grazia di mentitori che si dicono re e fanno al­zare il popolo a sommossa! ».

   «No. Non è esatta la vostra frase. Voi non volete soffrire, ciò è vero. Ma che il popolo soffra non ve ne duole. Tanto è vero che al rigore di chi ci domina unite il vostro rigore, opprimen­do con le decime esose e molte altre cose il popolo minuto. Chi vi assicura che Io non sia un malandrino? Le mie azioni. Non sarò Io quello che fa pesante la mano di Roma. Ma anzi, se mai, Io la alleggerisco consigliando a dominatori e dominati pazienza e umanità. Almeno queste».

   Molta gente - perché ormai molta se ne è aggruppata e sempre cresce, tanto che ne è ingombro il traffico sulla via grande e perciò rifluiscono tutti nel vicoletto, sotto le volte del quale le voci rimbombano - approva dicendo: «Ben detto per le decime! È vero! Egli consiglia a noi sommissione e ai romani pietà».


 7 I farisei, come sempre, si inveleniscono per le approvazioni della folla e divengono ancor più mordenti nel tono con cui si rivolgono al Cristo. «Rispondi senza tante parole e dimostra che sei il Messia».

   «In verità, in verità Io vi dico che lo sono. Io, Io soltanto so­no la Porta dell'ovile dei Cieli. Chi non passa da Me non può entrare. È vero. Ci sono stati altri falsi Messia, e altri ancora ce ne saranno. Ma l'unico e vero Messia sono Io. Quanti sin qui sono venuti, dicendosi tali, non lo erano, ma erano soltanto la­dri e briganti. E non solo quelli che si facevano chiamare Mes­sia da pochi del loro stesso animo, ma anche altri ancora che, senza darsi quel nome, esigono però un'adorazione che neppu­re al vero Messia viene data. Chi ha orecchie per intendere in­tenda. Però osservate. Né ai falsi Messia né ai falsi pastori e maestri le pecore hanno dato ascolto, perché il loro spirito sen­tiva la falsità della loro voce che voleva mostrarsi dolce ed era crudele. Soltanto dei caproni li hanno seguiti per essere loro compagni nelle ribalderie. Caproni selvatici, indomiti, che non vogliono entrare nell'Ovile di Dio, sotto lo scettro del vero Re e Pastore. Perché questo, ora, si ha in Israele. Che Colui che è il Re dei re diviene il Pastore del gregge, mentre un tempo colui ché era pastore di greggi divenne re, e l'Uno e l'altro vengono da un'unica radice, da quella di Isai, come è detto nelle pro­messe e profezie. (Isaia 11, 1.10; Geremia 23, 5-6)

I falsi pastori non hanno avuto parole sincere né atti di conforto. Essi hanno disperso e torturato il gregge, o lo hanno abbandonato ai lupi, o lo hanno ucciso per trarne profitto ven­dendolo per assicurarsi la vita, o gli hanno sottratto i pascoli per fare di essi dimore di piacere e boschetti per gli idoli. Sa­pete quali sono i lupi? Sono le male passioni, i vizi che gli stes­si falsi pastori hanno insegnato al gregge, praticandoli essi per primi. E sapete quali sono i boschetti degli idoli? Sono i propri egoismi davanti ai quali troppi bruciano incensi. Le altre due cose non hanno bisogno di essere spiegate perché è fin troppo chiaro il sermone. Ma che i falsi pastori così facciano è logico. Non sono che ladri che vengono per rubare, uccidere e distrug­gere, per portare fuori dall'ovile in pascoli infidi, o condurre a falsi ovili che non sono che macelli. Ma quelli che passano da Me sono al sicuro e potranno uscire per andare ai miei pascoli, o rientrare per venire ai miei riposi, e farsi robusti e pingui di succhi santi e sani. Perché Io sono venuto per questo. Perché il mio popolo, le mie pecorelle, sin qui magre e afflitte, abbiano la vita, e vita abbondante, e di pace e letizia. E tanto voglio questo che sono venuto a dar la mia vita perché le mie pecore abbiano la Vita piena e abbondante dei figli di Dio.


 Io sono il Pastore buono. E un pastore quando è buono dà la vita per difendere il suo gregge dai lupi e dai ladroni, men­tre il mercenario, che non ama le pecore ma il denaro che rica­va dal condurle ai pascoli, non si preoccupa che di salvare se stesso e il gruzzolo che ha in seno e, quando vede venire il lupo o il ladrone, fugge, salvo poi tornare a prendere qualche pecora lasciata malviva dal lupo, o dispersa dal ladrone, e uccidere la prima per mangiarla, o vendere come sua la seconda, aumen­tando il gruzzolo e dicendo poi al padrone, con bugiarde lacri­me, che neppure una delle pecore si è salvata. Che importa al mercenario se il lupo azzanna e disperde le pecore, e il ladrone ne fa razzia per portarle al beccaio? Ha forse vegliato su esse mentre crescevano, e faticato per farle robuste? Ma colui che è padrone e sa quanto costi una pecora, quante ore di fatica, quante veglie, quanti sacrifici, le ama ed ha cura di esse che sono il suo bene. Ma Io sono più che un padrone. Io sono il Sal­vatore del mio gregge e so quanto mi costi anche la salvezza di un'anima sola, e perciò sono pronto a tutto pur di salvare un'anima. Essa mi è stata affidata dal Padre mio. Tutte le ani­me mi sono state affidate col comando che Io ne salvi un nu­mero stragrande. Quante più ne riuscirò a strappare alla morte dello spirito, e tanto più il Padre mio avrà gloria. E perciò Io lotto per liberarle da tutti i loro nemici, ossia dal loro io, dal mondo, dalla carne, dal demonio, e dai miei avversari che me le contendono per darmi dolore. Io faccio questo perché cono­sco il pensiero del Padre mio. E il Padre mio mi ha mandato a fare questo perché conosce il mio amore per Lui e per le anime. E anche le pecore del mio gregge conoscono Me e il mio amore, e sentono che Io sono pronto a dare la mia vita per dare ad esse la gioia.
   E ho altre pecorelle. Ma non sono di questo Ovile. Perciò non mi conoscono per ciò che Io sono, e molte ignorano che Io sia e chi Io sia. Pecorelle che a molti fra noi paiono peggio di capre selvagge e riputate indegne di conoscere la Verità e di avere la Vita e il Regno. Eppure non è così. Il Padre vuole an­che queste, e perciò devo avvicinare anche queste, farmi cono­scere, fare conoscere la buona Novella, condurle ai pascoli miei, radunarle. Ed esse pure daranno ascolto alla mia voce perché finiranno ad amarla. E si avrà un solo Ovile sotto un solo Pastore, e il Regno di Dio sarà composto sulla Terra, pron­to ad essere trasportato e accolto nei Cieli, sotto il mio scettro e il mio segno e il mio vero Nome. Il mio vero Nome! È noto a Me soltanto! Ma quando il nu­mero degli eletti sarà completo, e fra inni di tripudio si asside­ranno alla grande cena di nozze dello Sposo con la Sposa, allo­ra il mio Nome sarà conosciuto dai miei eletti che per fedeltà ad Esso si saranno santificati, pur senza conoscere tutta l'estensione e la profondità di ciò che è essere segnati dal mio Nome e premiati per il loro amore ad Esso, né quale sia il pre­mio... Questo Io voglio dare alle mie pecore fedeli. Ciò che è la mia stessa gioia... ».


 Gesù gira uno sguardo lucido di un pianto estatico sui visi rivolti a Lui, e un sorriso gli tremula sul labbro, un sorriso tal­mente spiritualizzato nel volto spiritualizzato che un brivido scuote la folla, che intuisce il rapimento del Cristo in una vi­sione beatifica e il suo desiderio d'amore di vederla compita. Si riprende. Chiude un istante gli occhi, celando il mistero che la sua mente vede e che l'occhio potrebbe troppo tradire, e riprende:
   «Per questo mi ama il Padre, o mio popolo, o mio gregge! Perché per te, per il tuo bene eterno Io do la vita. Poi la ripren­derò. Ma prima la darò perché tu abbia la vita e il tuo Salvato­re a vita di te stesso. E la darò in modo che tu te ne pasca, mu­tandomi da Pastore in pascolo e fonte che daranno cibo e be­vanda, non per quaranta anni come per gli ebrei nel deserto (Esodo 16, 35), ma per tutto il tempo di esilio per i deserti della Terra. Nessu­no, in realtà, mi toglie la vita. Né coloro che amandomi con tutti loro stessi meritano che Io la immoli per loro, né coloro che me la levano per odio smisurato e paura stolta. Nessuno me la potrebbe levare se da Me Io non consentissi a darla e se il Padre non lo permettesse, presi ambedue da un delirio d'amore per l'Umanità colpevole. Da Me stesso Io la dono. E ho il pote­re di riprenderla quando voglio, non essendo conveniente che la Morte possa prevalere sulla Vita. Perciò il Padre mi ha dato questo potere, ed anzi il Padre questo mi ha comandato di fare. E per la mia vita, offerta e consumata, i popoli diverranno un unico popolo: il mio, il Popolo celeste dei figli di Dio, separan­dosi nei popoli le pecore dai caproni e seguendo le pecore il lo­ro Pastore nel Regno della Vita eterna».


10E Gesù, che ha fino allora parlato forte, si volge sottovoce a Sidonia detto Bartolmai, rimasto sempre davanti a Lui con il suo cestone di mele fragranti ai piedi, e gli dice: «Tu hai di­menticato tutto per Me. Ora sarai certamente punito e perderai il posto. Lo vedi? Io ti porto sempre dolore. Per Me hai perduto la sinagoga e ora perderai il padrone... ».
   «E che me ne faccio di tutto ciò, se ho Te? Tu solo hai valore per me. E lascio tutto per seguirti, sol che Tu me lo concedi. Lascia soltanto che porti queste frutta a chi le ha comperate e poi sono con Te».
   «Andiamo insieme. Poi andremo da tuo padre. Perché tu hai un padre e devi onorarlo col chiedergli la sua benedizione».
   «Sì, Signore. Tutto ciò che vuoi. Però insegnami molto per­ché io non so nulla, proprio nulla, neppur leggere e scrivere, perché ero cieco».
   «Non preoccuparti di ciò. La buona volontà ti farà scuola».

   E si avvia per tornare sulla via principale, mentre la folla commenta, discute, litiga anche, incerta fra i diversi pareri che sono sempre i soliti: è Gesù di Nazaret un ossesso o un santo? La folla, discorde, disputa mentre Gesù si allontana.
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AMDG et DVM