domenica 5 marzo 2023

Un'omelia speciale

 




L'Omelia per san Valentino


16 - 1, ore 6 ant.

   Scrivo alla luce del lumino di cera, e non so come scriverò. Ma non voglio
soffrire quello che ho sofferto ieri. Mentre dicevo il “Veni Sancte Spiritus” mi
si presenta questa visione, ed è così prepotente che capisco l’inutilità di
insistere a pregare. La seguo perciò. E vedendola complessa la scrivo come posso
a questa luce.

   Sono di certo nelle catacombe. In quale? In quale secolo? Non so. Sono in una
chiesa catacombale fatta così: [grafico]. Insomma a rettangolo terminato da una
vasta aula rotonda nel cui centro è l’altare: una tavola rettangolare, staccata
dalla parete, coperta da una vera tovaglia, ossia da un telo di lino ad alti
orli su tutti i quattro lati, ma senza merletti e ricami.

   Sulla parete dell’abside è dipinta una scena evangelica: il Buon Pastore. Non è
certo un capolavoro. Una via di campagna che pare mota gialla; una chiazza
verdastra oltre la via, a sinistra di chi guarda, sarebbe il prato; sette pecore
ammassate tanto da parere un blocco solo, di cui solo delle due prime si vede il
muso mentre le altre paiono fagotti panciuti, camminano sulla via, venendo verso
chi guarda, ai limiti del prato. Il Buon Pastore è al loro fianco, sul fondo,
vestito di bianco e col manto rosso sbiadito. Ha sulle spalle una pecorina che è
tenuta per le zampette da Lui. Il pittore, o mosaicista, ha fatto tutto quello
che ha potuto... ma non si può certo dire che Gesù sia bello. Ha il
caratteristico volto piatto, largo più che lungo perché preso di fronte, dai
capelli stesi e appiccicati, troppo scuri e opachi, dei dipinti e mosaici
cristiani primitivi. Non ha neppure la barba. Però nel suo brutto ha uno sguardo
mesto e amoroso che attira, ed una mossa, sulla bocca, di sorriso doloroso che
fa pensare.

   Nel punto segnato da una crocetta vi è una bassa apertura. Ma tanto bassa che
solo un fanciullo potrebbe passare senza urtarvi il capo. Sopra, una lapide
lunga quanto un uomo segna un loculo. Sulla lapide è scritto il “Pax” che si
usava allora e sotto in latino: “Ossa del beato martire Valente”. Ai lati della
epigrafe sono graffite una ampolla e una foglia di palma.

   In fondo alla chiesa, dove è il segno rotondo, un’altra bassa apertura, e presso
ad essa vedo quattro robusti fossori, armati di pale e picconi. Sono vicini a
due mucchi di arenaria di sterro. Arguisco che si sia in tempo di persecuzioni e
che siano pronti a far franare la parete e ad occultare la chiesa con la frana e
coi mucchi di arenaria già pronti.

   Nella chiesa vi è il solito chiarore giallo-rosso tremolante delle lampadette ad
olio. Verso l’altare la luce è più viva. Nel fondo è appena un chiarore nel
quale si perdono i contorni delle persone vestite per lo più di scuro.
L’altare ha sopra il calice, ancora coperto. Ma la Messa deve essere già
iniziata. All’altare vi è un vegliardo dal volto ascetico, pallidissimo, sembra
scolpito nel vecchio avorio. La tonsura si perde nella calvizie che mette solo
una corona di soffici capelli bianchi intorno al capo sino al disopra delle
orecchie. Il resto è nudo, e la fronte pare immensa. Sotto essa due chiari occhi
cilestrini, miti, tristi, limpidi però come quelli di un bimbo. Naso lungo e
sottile, bocca dalla caratteristica piega dei vecchi, dalle mascelle molto
sdentate. Un viso magro e austero di santo. Lo vedo bene perché è vòlto verso di
me, stando nel rito dall’altra parte dell’altare. Ha la pianeta di allora, ossia
a mantellina, e sopra ha il pallio oltre la stola.

   Sul davanti dell’altare vi sono inginocchiati (dove ho messo i tre punti) tre
giovani. I due ai lati hanno la casacchetta dei diaconi, con le maniche larghe e
lunghe oltre i gomiti. Quello di centro ha la veste già a pianeta, con le
maniche fatte da una mantellina che va dalle coste alle scapole, a tracolla ha
la stola. Vedendo la stola, che se bene mi ricordo non vidi nelle prime Messe,
arguisco che non vedo scena dei primi tempi. Penso essere nella fine del II
secolo o agli inizi del III. Però potrei sbagliare, perché questa è riflessione
mia e in fatto di archeologia cristiana e di cerimonie di quei tempi sono
analfabeta.

   Il Pontefice - deve essere tale per il pallio - passa sul davanti dell’altare e
viene a porsi di fronte ai tre giovani inginocchiati. Impone le mani al primo e
al terzo pronunciando preghiere in latino. Poi si porta di fronte a quello di
centro, quello della stola a tracolla, e impone anche a lui le mani sul capo;
poi, servito da uno vestito da diacono, intinge le dita in un vaso d’argento e
unge la fronte e le palme delle mani del giovane, alita a lui in viso, anzi
prima alita poi unge le mani, gliele lega insieme con un lembo della stola che
l’aiutante ha slegata dal corpo di lui, e l’altra parte gliela passa sul collo
come un giogo. Poi lo fa alzare e, tenendolo per le mani legate, lo fa salire
sui tre scalini che conducono all’altare e glielo fa baciare, e baciare quello
che suppongo sia il Vangelo: un voluminoso rotolo tenuto da un nastro rosso. Poi
lo bacia a sua volta e lo conduce con sé dall’altra parte e continua la Messa.

Capisco ora, però, che era da poco iniziata, perché dopo poco (è quasi uguale
alla nostra e anche questo mi fa capire che siamo almeno alla fine del II
secolo) si giunge al Vangelo. Lo canta il nuovo sacerdote (penso sia stata una
ordinazione sacerdotale). Viene di nuovo sul davanti dell’altare, e i due che
erano ancora in ginocchio si alzano, uno prende una lampadetta, l’altro il
rotolo del Vangelo che gli porge quello che già serviva all’altare. Il diacono
svolge il rotolo e lo tiene aperto al punto giusto, stando di fronte al neo
sacerdote che ha al fianco quello della lampada. Il neo sacerdote, che è alto,
bruno, coi capelli piuttosto ondulati, sui trent’anni, dal volto
caratteristicamente romano, canta con bella voce il Vangelo di Gesù e del
giovane che gli chiede che fare per seguire Lui
(Matteo 19, 16-30; Marco 10, 17-27; Luca 18, 18-30.)

Ha una voce sicura e forte, ben tonata. Empie la chiesa.
Canta con canto fermo e con un sorriso luminoso nel
volto, e quando giunge al Vade, quaecumque habes vende et da pauperibus et
habebis thesaurum in coelo et veni sequere Me la sua voce è uno squillo di
gioia e di amore.
Bacia il Vangelo e torna presso il Pontefice che ha ascoltato in piedi il
Vangelo, vòlto verso il popolo e con le mani congiunte in preghiera. Il neo
sacerdote si inginocchia ora.

Il Pontefice [Marcello] invece pronuncia la sua omelia:

«Battezzato nel giorno natale del martire Valente, il nuovo figlio della Chiesa Apostolica e Romana, e fratello nostro, ha voluto assumere il nome del martire beato, ma con quella modifica che l’umiltà attinta dal Vangelo - l’umiltà: una delle radici della santità - gli dettava. E non Valente, ma Valentino volle essere detto.

Oh! ma che in vero Valente egli è. Guardate quanto cammino ha fatto il pagano la cui religione era il vizio e la prepotenza. Voi lo conoscete quale è ora, nel seno della Chiesa. 
Qualcuno fra voi - e specie quelli che padri e madri di vera generazione gli sono stati, per essere quelli che con la parola e l’esempio l’hanno fatto concepire dalla Santa Madre Chiesa e partorire da essa per l’altare e per il Cielo - sanno quello che egli era non come cristiano Valente ma come il pagano di prima, il cui nome egli, e noi con lui, non vogliamo neppur ricordare.
Morto è il pagano. 

E dall’acqua lustrale è risorto il cristiano. 
Ora egli è il vostro prete. Quanto cammino! Quanto! 
Dalle orgie ai digiuni; 
dai triclini alla chiesa; 
dalla durezza, dall’impurità, dall’avarizia, all’amore, alla castità, alla generosità assoluta.

Egli era il giovane ricco, e un giorno ha incontrato, portato a lui dal cuore dei santi, che anche senza parole illustrano Cristo - perché Egli traluce dal loro animo - ha incontrato Gesù, Signor nostro benedetto. 
Gli occhi dolcissimi del Maestro si sono fissati sul volto del pagano. E il pagano ha provato una seduzione che nessun piacere gli aveva ancor data, una emozione nuova, dal nome sconosciuto, dalla non descrivibile sensazione. 

Un che di soave come carezza di madre, di onesto come odore di pane testé sfornato, di puro come alba di primavera, di sublime come sogno ultraterreno.

Cadete voi larve del mondo e dell’Olimpo pagano quando il Sole Gesù bacia un suo
chiamato. Come nebbie vi dissolvete. Come incubi demoniaci fuggite. Che resta di voi? Di voi che sembravate tanto splendida cosa? Un mucchio lurido di detriti inceneriti malamente e ancor fetidi di corruzione.

“Maestro buono, che devo fare per seguire Te e avere la vita eterna?” ha chiesto. 
E il dolce, divino Maestro, con poche parole gli ha dato l’insegnamento di Vita: 
“Osserva questi comandi”. Oh! non gli poteva dire: “Segui la Legge!”.
Il pagano non la conosceva. Gli disse allora: Non uccidere, non rubare, non spergiurare, 
non essere lussurioso, onora i parenti e ama Dio e prossimo come te stesso
Parole nuove! Méte mai pensate! 
Orizzonti infiniti pieni di luce. Della sua luce.

Il pagano non poteva dare la risposta del giovane ricco. Non poteva. Perché nel paganesimo sono tutti i peccati ed egli tutti li aveva nel cuore. Ma volle poterla dare. 
E venne ad un povero vecchio, al Pontefice perseguitato, e disse:
“Dàmmi la Luce, dàmmi la Scienza, dàmmi la Vita! Un’anima dàmmi, in questo mio corpo di bruto!”, e piangeva.
E il povero vecchio, che io sono, ha preso il Vangelo ed in esso ha trovato la Luce,  la Scienza, la Vita per il mendicante piangente. Ho trovato tutto nel Vangelo di Gesù, nostro Signore, per lui. 

E gli ho potuto dare l’anima. 
L’anima morta evocarla a vita, e dirgli: “Ecco l’anima tua. Custodiscila per la vita eterna”.
Allora, bianco del bagno battesimale, egli si è dato a ricercare il Maestro buono e lo ha trovato ancora e gli ha detto: “Ora posso dirti che faccio ciò che Tu mi hai detto. Che altro manca per seguire Te?”. 
E il Maestro buono ha risposto: 
“Va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri. Allora sarai perfetto e potrai seguire Me”.

Oh! allora Valentino ha superato il giovane di Palestina! Non se ne andò via, incapace di separarsi da tutti i suoi beni. 
Ma questi beni mi ha portato per i poveri di Cristo e, libero dal giogo delle ricchezze, pesante giogo che impedisce 
di seguire Gesù, mi ha chiesto il giogo luminoso, alato, paradisiaco del Sacerdozio.
Eccolo. Lo avete visto sotto quel giogo, con le mani legate, prigioniero di Cristo, salire al suo altare. Ora vi frangerà il Pane eterno e vi disseterà col Vino divino. 

Ma lui, come io, per esser perfetti agli occhi del Maestro buono vogliamo ancora una cosa. Farci noi pane e vino: immolarci, frantumarci,
spremerci sino all’ultima stilla, ridurci a farina per essere ostie. 
Vendere l’ultima, l’unica ricchezza che ci resta: la vita. Io la mia cadente vita di vecchio. 
Egli la fiorente vita di giovane.

Oh! non deluderci, Pontefice eterno. Concedici il beato martirio! Col sangue vogliamo scrivere il tuo Nome: Gesù Salvatore nostro. Un altro battesimo vogliamo, per la nostra stola che l’imperfezione umana sempre corrompe: quello del sangue. 
Per salire a Te con stole immacolate e seguirti, o Agnello di Dio che levi i peccati del mondo, che li hai levati col tuo Sangue! 

Beato martire Valente, nella cui chiesa siamo, al tuo Pontefice Marcello e per il tuo fratello sacerdote chiedi dal Pontefice eterno la stessa tua palma e corona.»

E non c’è altro.

Fonte: Scritti di Maria Valtorta



AVE MARIA PURISSIMA 
SENZA PECCATO ORIGINALE CONCEPITA

venerdì 3 marzo 2023

PAX VOBIS


PAX VOBIS


 Anima mia benedici il Signore, il gran sovrano: †Gerusalemme sarà ricostruita * come città della sua residenza per sempre.

Tu che ci hai resi partecipi della missione profetica del Cristo,

 fa’ che annunziamo con le parole e le opere le meraviglie del tuo amore. 



"AVE  VIRGO,  MATER  DEI,
NUNC  ET  SEMPER  MEMENTO  MEI"

Maria Valtorta in lingua spagnola

i
Ave Maria!

¿TIENES OTRA COSA QUE ENSEÑARME, MARIA?

 

Anna por unos momentos no dice palabra alguna, después con su voz de anciana conmovida: "¿Tienes otra cosa que enseñarme, María?"

María se sorprende. Tal vez ha creído a causa de su humildad, que su maestra la reprende y dice: "¡Oh, perdóname! Tú eres maestra, yo no soy nada. Pero estas voces me salen del corazón. Bien que las cuido para no permitir que salgan. Como río que bajo la fuerza de las ondas rompe los diques, así me toma y así me veo sacar fuera de cauce. No tangas en cuenta mis palabras, y castiga mi presunción. Las palabras arcanas deberían estar en el arca secreta del corazón, que Dios favorece en su bondad. Lo sé, pero es tan dulce esta invisible Presencia que me siento ebria de ella... ¡Anna, perdona a tu pequeña sierva!"

Anna la estrecha contra sí. Su cara arrugada tiembla y una lágrima se asoma a sus ojos, que se resbala por sus arrugas como el agua por un terreno quebrado. La vieja maestra no provoca a risa. Su llanto provoca al más grande respeto.

María está entre sus brazos. Su carita contra el pecho de la vieja maestra. Y todo termina de este modo.



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http://www.virgendegarabandal.net/MISTRABAJOS/HOMBRE%20DIOS%20W/10055.htm


AMDG et DVM

DISCESE AGLI INFERI

 


 “JR-BENEDETTO XVI L’ INFERNO È SOLITUDINE : ECCO L’ ABISSO DELL’ UOMO

L’articolo della discesa agli inferi del Signore ci ricorda che della rivelazione cristiana fa parte non solo il parlare di Dio, bensì anche il suo tacere.

Dio non è solo la parola comprensibile, che si avvicina a noi, egli è anche la causa taciuta e inaccessibile, incompresa e incomprensibile che ci sfugge.

Certamente, nel cristianesimo c’è un primato del logos, della parola rispetto al silenzio: Dio ha parlato, Dio è la parola. Ma oltre a ciò noi non dovremmo dimenticare la verità del duraturo nascondimento di Dio. Solo quando lo abbiamo conosciuto come silenzio, possiamo sperare di sentire anche il suo parlare, che emana dal suo silenzio. 

La cristologia oltrepassa la croce, il momento della tangibilità dell’ amore divino, sin nella morte, nel silenzio e nell’ oscuramento. Se si tiene conto di ciò, si risolve da solo il problema della «prova scritta»; perlomeno nel grido di morte di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) il segreto della discesa agli inferi di Gesù diventa visibile come un lampo accecante in una notte buia. A questo riguardo non dimentichiamo che questa frase del Crocifisso è il versetto iniziale di una preghiera di Israele, nella quale si riassume in modo sconvolgente il bisogno e la speranza di questo popolo eletto da Dio, e in apparenza profondamente abbandonato da lui. Questa preghiera che sale come richiesta nel momento dell’ oscurità di Dio finisce con una esaltazione della grandezza di Dio. Anche questa è assente nel grido in punto di morte di Gesù, che Ernst Käsemann ha di recente definito una preghiera dagli inferi, come l’ istituzione della prima preghiera nel deserto dell’ apparente assenza di Dio: «Il Figlio mantiene ancora la fede, quando la fede sembra essere diventata insensata e la realtà terrena rivela il Dio assente, di cui parlano non a caso il primo ladrone e la folla che schernisce. Il suo grido non è indirizzato al vivere e sopravvivere, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido è contro la realtà del mondo intero».
Tentiamo un’ ulteriore riflessione per penetrare in questo complesso mistero, che non può essere chiarito a partire da un solo lato.

Innanzitutto prendiamo atto ancora una volta di un’ osservazione esegetica. Ci viene detto che nel nostro articolo di fede il termine «inferno» sarebbe solo una traduzione errata di scheol (in greco: hádes), con il quale l’ ebreo definiva quella condizione al di là della morte, che si immaginava in modo molto vago come una specie di esistenza nell’ ombra, più un non esserci che un esserci. Perciò la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù è entrato nello scheol, ovvero che è morto. 

Ora, questo può senz’ altro essere vero. Ma rimane la questione se la cosa con ciò sia diventata più facile e chiara.

Penso che la domanda si ponga ora più che mai: cos’è veramente la morte e cosa accade dopo, quando qualcuno muore ed entra quindi nel destino della morte? Tutti noi dovremo ammettere il nostro imbarazzo di fronte a questa domanda. 

Ma forse possiamo tentare un avvicinamento partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, trovando espresso il nucleo di ciò che significa discesa di Gesù, partecipazione al destino di morte dell’ uomo. In quest’ ultima preghiera di Gesù, come nella scena del monte degli ulivi, sembra che il nucleo più profondo della sua passione non sia un qualsivoglia dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. In questo punto, però, appare infine veramente l’ abisso della solitudine dell’uomo come tale, dell’ uomo che nell’ intimo è solo. Questa solitudine, che certo è perlopiù coperta in vario modo, ma è comunque la vera condizione dell’ uomo, significa nel contempo la più profonda contraddizione all’ essenza dell’ uomo, che non può stare da solo, ma ha bisogno di essere in comunione.

Perciò la solitudine è la sfera della paura, che si basa sul venire a mancare dell’ essenza: essenza che deve essere e che tuttavia è stata esiliata in uno spazio che le è impossibile. Cerchiamo di chiarircelo con un esempio. Se un bambino deve camminare da solo attraverso la foresta nella notte buia, ha paura, anche se gli si è dimostrato in maniera convincente che non vi è nulla da temere. 

Nel momento in cui è solo nell’ oscurità e sente la solitudine in maniera così radicale, sorge la paura, la vera paura dell’ uomo, che non è paura di qualcosa, bensì paura in sé. La paura di qualcosa di determinato è in fin dei conti innocua, può essere esorcizzata allontanando l’ oggetto in questione. Se qualcuno per esempio ha paura di un cane che morde, la faccenda si può sistemare velocemente legando il cane alla catena. Qui ci imbattiamo in qualcosa di molto più profondo: nel fatto che l’ uomo, quando finisce nella solitudine definitiva, non ha paura di qualcosa di determinato, che si potrebbe mostrare lontano; egli prova piuttosto la paura della solitudine, dell’ inquietudine e della sospensione della propria essenza, che non può essere superata razionalmente.

Aggiungiamo ancora un esempio: quando qualcuno deve stare sveglio di notte da solo con un morto in una camera, troverà sempre la sua situazione in qualche modo inquietante, anche se non vuole confessarselo ed è in grado di rendere comprensibile razionalmente l’ infondatezza della sua sensazione. Egli sa bene che il morto non gli può fare nulla e che la sua situazione sarebbe forse molto più pericolosa se la persona in questione fosse ancora viva. Quello che nasce qui è una paura di tutt’ altro tipo, non paura di qualcosa, bensì nell’ essere soli con la morte, la sinistra sensazione della solitudine in sé, la sospensione dell’ esistenza. 

Ma, dobbiamo chiederci ora, come può essere superata una tale paura, se la prova dell’ infondatezza cade nel vuoto? Ora, il bambino perderà la sua paura nel momento in cui vi sarà lì una mano che lo prende e lo conduce. E anche colui che è solo con il morto sentirà sparire l’ impulso della paura se qualcuno è con lui. In questo superamento della paura si svela nel contempo ancora una volta la sua essenza: che essa è la paura della solitudine, la paura di un essere che può vivere soltanto nell’ essere in comunione. 

Dobbiamo spingere ancora oltre la nostra domanda. Se esistesse una solitudine nella quale nessuna parola di un altro potesse più arrivare e avere effetto trasformante; se sopraggiungesse una sospensione dell’ esistenza tanto grave che in quel luogo non potrebbe più giungere alcun tu, allora sarebbe data quella vera e totale solitudine e terribilità che il teologo chiama «inferno».

Cosa significhi questa parola possiamo definirlo precisamente in base a ciò: essa indica una solitudine nella quale non penetra più la parola dell’ amore e significa quindi la vera sospensione dell’ esistenza. 

In questo contesto, è immediato ricordare che i poeti e i filosofi della nostra epoca sono convinti che tutti gli incontri tra gli uomini rimangano in sostanza alla superficie; nessun uomo avrebbe accesso alla vera profondità dell’ altro. Nessuno perciò può giungere alla vera profondità dell’altro; ogni incontro, per quanto possa sembrare bello, in fin dei conti non fa altro che narcotizzare l’ insanabile ferita della solitudine. Nell’ intimo più profondo dell’esistenza di noi tutti abiterebbe quindi l’ inferno, la disperazione – la solitudine, che è tanto indefinibile quanto terribile. Sartre ha notoriamente costruito la sua antropologia su quest’idea. Infatti, una cosa è certa: c’ è una notte nel cui abbandono non arriva alcuna voce; vi è una porta attraverso la quale noi possiamo passare solamente in solitudine: la porta della morte. Tutta la paura del mondo è in ultima analisi paura di questa solitudine. Da questo si può capire perché l’ Antico Testamento abbia solo una parola per l’ inferno e la morte, il termine scheol: in fin dei conti le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma quella solitudine nella quale l’ amore non può più penetrare è l’ inferno. Con questo siamo giunti di nuovo al nostro punto di partenza.

In base a ciò, questa frase significa che Cristo ha attraversato la porta della nostra ultima solitudine, che egli nella sua passione è entrato in questo abisso del nostro essere abbandonati. Dove nessuna voce può raggiungerci, egli è lì. In questo modo l’ inferno è superato, o meglio: la morte, che prima era l’ inferno, non lo è più. Entrambe le cose non sono più le stesse, poiché nel cuore della morte c’ è la vita, poiché l’ amore abita nel cuore di essa. L’ inferno è ora solo una chiusura volontaria di sé o, come afferma la Bibbia, la seconda morte.

Tratto dal libro : Perché siamo ancora nella Chiesa . Di JR-Benedetto XVI

giovedì 2 marzo 2023

IESU...

  << GESU' CHE ORA VENERO SOTTO I VELI SACRAMENTALI,

CONCEDIMI CIO' CHE ARDENTEMENTE BRAMO: 

DI CONTEMPLARTI A VOLTO SVELATO

NELLA FELICITA' DELLA TUA GLORIA. AMEN >>



< JESU, QUEM VELATUM NUNC ASPICIO, 

ORO, FIAT ILLUD QUOD TAM SITIO:

UT TE REVELATA CERNENS FACIE,

VISU SIM BEATUS TUAE GLORIAE. AMEN >

Nos cum prole pia benedicat Virgo Maria

RESPICE  STELLAM  VOCA  MARIAM