"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
martedì 20 settembre 2022
MISTERIOS DE LA VIRGEN DE GUADALUPE - RICARDO CASTAÑÓN GÓMEZ
domenica 18 settembre 2022
Il volto della Chiesa "cosparso di polvere"...
PROFEZIE DI SANTA ILDEGARDA DI BINGEN…
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giovedì 15 settembre 2022
Gioacchino da Fiore, il profeta di Dio.
La più grande personalità del Medioevo che troviamo nella cittadina di San Giovanni in Fiore è senza ombra di dubbio l’abate Gioacchino da fiore. Egli nacque a Celico dal notaio Mauro e da sua moglie Gemma intorno al 1135 c.a. La sua formazione fu prettamente latina ed egli non ebbe nulla a che fare con i monaci greci, che al suo tempo avevano una posizione predominante nella Calabria meridionale, ma del tutto trascurabile in Val di Crati e nella Cosenza normanna. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza, dove spinto dal padre lavorò presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la Corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, con i Notai Santoro e Pellegrino ed infine presso il Cancelliere di Palermo l’Arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano si allontanò definitivamente dalla Corte Reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta. Nel viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture e rientrato in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero italo-greco posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re, Dio. Visse circa un anno presso l’Abbazia di Santa Maria della Sambucina, a Luzzi, che negli anni 1152-53 passava dai Benedettini ai Cistercensi, da cui si allontanò poi per andare a predicare dall’altra parte della valle vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino Rende. Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove fu ordinato sacerdote. Secondo le fonti, nel 1177 Gioacchino venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri poiché la vera ambizione di Gioacchino non era raggiungere un titolo, ma a studiare la Sacre Scritture e predicarle alla gente. Tuttavia riuscì a convincersi. In qualità di abate compì un viaggio nell’Abbazia di Casamari, nel Lazio tra il 1182 e il 1184. Durante la sua permanenza nell’Abbazia incontrò il papa Lucio III che gli accordò la “licentia scribendi“. Le sue dottrine ed il suo ideale di vita monastica austera e rigorosa, lo misero in urto con il suo Ordine dal quale intorno nel 1188 si staccò poiché non condividevano il suo continuo girovagare così distante. Il Papa Urbano III lo prosciolse così dai doveri abbaziali autorizzandolo a continuare a scrivere. Nel 1194 Gioacchino ebbe in concessione da Enrico IV un vasto tenimento in Sila e ottene privilegi sovrani su tutta la Calabria. Profondamente convinto del suo messaggio e ritenendosi “chiamato” ad una vera e propria funzione profetica, fondò una sua Congregazione Florense alla confluenza dei fiumi Arvo e Neto, in località Fiore, dove edificò un piccolo ospizio. In seguito all’aumentare del numero dei suoi seguaci, iniziò la costruzione di quella che doveva diventare l’Abbazia Madre dell’Ordine Florense. L’Abbazia venne dedicata a S. Giovanni Evangelista, alla Vergine ed allo Spirito Santo. Intorno all’edificio iniziarono a sorgere le abitazioni di allevatori, pastori, cacciatori, raccoglitori di pece e di tutti coloro che si insediavano in Sila per sfruttarne le grandi risorse naturali. Velocemente si formò un borgo che prese il nome del santo a cui era dedicata la chiesa e del posto sul quale la chiesa fu edificata: San Giovanni in Fiore. Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti furono traslati nell’abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L’abate Matteo, successore di Gioacchino, continuò l’opera ampliando le fondazioni florensi, nel periodo del suo abbaziato (1202-1234), l’ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparse in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.
♦ Gioacchino da Fiore fu uno dei più importanti mistici del XII secolo. Il suo insegnamento influì su vari movimenti religiosi come quello dei Gioachimiti, suoi seguaci, sulle sette dei flagellanti, degli spirituali e dei beghini e su scrittori e pensatori del tardo Medioevo, tra i quali lo stesso Dante Alighieri che, nella Commedia, inserisce Gioacchino da Fiore nel paradiso (canto XII, ver. 140-141) tra la schiera dei Beati (1316-1321), accanto a S. Bonaventura, Rabano e San Tommaso d’Aquino.
“[…] e lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato […].”
♦ L’opera di Gioacchino da Fiore è basata su una profonda meditazione delle Sacre Scritture tutta volta alla dimostrazione ed all’annuncio profetico dell’avvento di una nuova era all’insegna del trionfo totale dello spiritualismo. La visione teologica della Storia di Gioacchino si basava su una concezione della triade divina come immagine del corso storico della cristianità. Secondo l’abate la trinità divina si riflette in tre distinte età della storia. La prima età, che appartiene al Padre, rappresenta la Creazione ed è l’epoca trascorsa dell’antico testamento. La seconda età, quella del Figlio, rappresenta la Redenzione. É l’era presente ed è prossima alla conclusione. Infine, la terza età, quella futura, rappresentata dallo Spirito Santo, è l’era della profonda spiritualità.
♦ I seguaci di Gioacchino subito dopo la sua morte raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditato ingiustamente a Gioacchino da Fiore. Un secondo tentativo d’avvio della canonizzazione fu compiuto nel 1346 dall’abate Pietro del monastero florense, che si recò ad Avignone per portare al Sommo Pontefice tutta la documentazione relativa alle grazie e dei miracoli ottenuti tramite l’abate Gioacchino, sia durante la sua vita sia dopo la sua morte. È risaputo che i cistercensi proclamarono beato l’abate Gioacchino, elaborandone perfino l’antifona per il 29 maggio. Si ritiene che ciò sia avvenuto dopo il 1570, quando i florensi furono fatti confluire nella Congregazione Cistercense Calabro Lucana. Il 20 luglio 1684 il vescovo di Cosenza denunciò all’Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull’altare vicino al sepolcro dell’abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All’approssimarsi del’VIII centenario della morte dell’Abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l’iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana.
♦ A San Giovanni in Fiore sorge anche il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, un ente culturale che opera dal 1982, ufficialmente riconosciuto dalla Ragione Calabia nel 1989, con l’intento di divulgare il pensiero teologico e profetico dell’abate e punto di coordinamento per gli studi sulla figura del mistico.
♦ Le parole che Dante Alighieri lega all’abate sono riportate sulla sua tomba, nell’Abbazia di San Giovanni in Fiore.
https://www.ottoetrenta.it/in-evidenza/gioacchino-da-fiore-il-profeta-di-dio/
Il Terzo Regno
“Spirito! Io scruto soggiogate tutte le passioni”. Il Terzo Regno nella parola poetica. Da Gioacchino da Fiore a John Keats
Apocalisse. Il termine non evoca un’emozione positiva, intriso ormai di connotazione punitiva, catastrofica e distruttiva. Pensare “apocalitticamente” invece potrebbe essere un approccio vitale molto diverso, per molti versi opposto, e rappresentare una speranza condivisa di felicità. Per raggiungere o penetrare, forse anche solo intravedere o averne una minima consapevolezza, ciò che è il Terzo Regno, è necessaria un’Apocalisse e il suo frutto più succoso, che non è affatto la distruzione, ma la rivelazione, e una costruzione altra.
L’errore ha portato a una serie di rivoluzioni nella modernità, imperi, dittature, ideologie, terrorismi, che hanno solo saputo distruggere, senza che nessuno sia stato mai in grado di compiere mai il vero atto apocalittico: ricostruire.
Il Terzo Regno, la grande ricostruzione, forse l’abbiamo perduto, forse ci ha sfiorato e non l’abbiamo riconosciuto, forse lo stiamo ancora aspettando, sfiniti, da almeno otto secoli, da quando l’abate Gioacchino da Fiore, calabrese e stupefacente rivoluzionario gettato molto presto nel paiolo dell’eresia, ribaltò l’intuizione tolemaica del tempo, introducendo una visione apocalittica, e dunque profetica e infinita, dell’avvento dello Spirito, inteso come terza era, dopo le due ormai trascorse del Padre e del Figlio.
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L’elaborazione concettuale di Gioacchino, di immensa complessità teologica e psicologica, va ben oltre la sfera del sacro, e si introduce con forza dirompente nella storia, ponendo le basi per tutto il pensiero contemporaneo, in particolare quello laico, e decretando imprescindibili paradigmi della modernità.
Il suo pensiero è stato studiato molto e sotto diversi aspetti, perfino Barack Obama lo cita spesso nella sua tesi di laurea, lo stesso marxismo, sì, quello della morte di Dio, per molti versi è figlio di questa evoluzione storica, intesa come fuga in avanti per l’avvento di una società ideale, e perfino molta parte del costrutto concettuale del Terzo Reich (terzo non a caso). Difficile trarne un’interpretazione comune, impossibile segnarne una conclusione, imprescindibile considerarci figli di elaborazioni infinite di un pensiero che spezzò la concezione primordiale del nostro svolgerci nella storia.
Un’interpretazione cui non ci si è mai riferiti, è sicuramente il legame fra il Terzo Regno e la Poesia, che potrebbe invece, incredibilmente, essere il luogo dove l’utopia si è realizzata.
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La domanda inevitabile è dove questo Terzo Regno si celi e come e quando si rivelerà, e la conclusione facile, consolatoria, è che si tratti della solita illusione necessaria, e della favola della speranza. Nell’accezione gioachimita, il tempo perde la connotazione circolare, propria del concetto ciclico legato al moto degli astri che ritornano sempre al punto di partenza, ma perde anche quella del tempo lineare, estenuante procedere in avanti, che impone al passato la sola funzione di essere accaduto, e si tramuta in una spirale (le spire del serpente) che procedendo affonda, trasformando la circolarità in una discesa nell’abisso che culminerà nell’Apocalisse, vertice e luogo dello Spirito, ed Era dell’agognato Terzo Regno.
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I sette sigilli di Antico e Nuovo Testamento (le persecuzioni subite da ebrei e cristiani), sono interpretati nel loro profetico ripetersi di inevitabile preambolo per il paradiso apocalittico. Il nuovo Adamo non muore, e del pensiero gioachimita si impossesserà soprattutto l’evolversi dell’impero temporale, che proprio in quell’epoca iniziava a togliere alla Chiesa lo strapotere che esercitava sulle istituzioni terrene. Paradossalmente Il Terzo Regno diventerà il sogno di un uomo moderno scevro del religioso, ma infarcito di utopia materiale e lanciata in avanti, sempre avanti, in una visione necessaria di un futuro migliore pena l’abisso della depressione, alla ricerca di qualcosa di sempre più sconosciuto, certamente incomprensibile, inafferrabile, eppure imprescindibile, che si trasforma facilmente in qualsiasi bene materiale dal peso sempre più schiacciante.
Inutile sottolineare come in questa drammatica sconfitta, il primo a perire sia proprio lo Spirito, quasi che il suo legame con la religione del grande potere terreno non si sia mai riuscito a spezzare, facendo sentire l’uomo moderno risolto proprio nell’arroganza della perdita, in un infantile delirio di umana macchina possibile.
La frattura sembra segnare la necessità della feticizzazione dell’uomo impaurito dalle troppe perdite di certezze emotive, senza reali sostituzioni né nel mondo materiale né nelle scoperte interiori che segnano il passo all’utilizzo del medesimo linguaggio, e delle stesse categorie della logica per interpretarsi.
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Riguardo al linguaggio, è evidente in Gioacchino la predilezione per le figure simboliche che nel loro potere visionario, sole potrebbero svelare i segni del Terzo Regno, raffigurando per immagini ciò che il pensiero razionale non può distinguere né fra le ombre dissipare. Parrebbe dunque che anche la stagione della modernità della parola prenda le basi dalla stessa crisi.
In Gioacchino la parola non è un alleato nella rivelazione, o dispiegamento del vero, l’abate addirittura ipotizzava un uomo muto, forte nell’arte del gesto (simbolo) per aprirsi alla profezia. Ma questo uomo che dovrebbe bastare a se stesso, quasi incarnando la quarta essenza della Trinità, diviene un involucro vuoto nell’attesa che non si realizza. Paradossalmente, il conforto che doveva scaturire dalla certezza dell’avvento dello Spirito, diviene la tragedia del nulla che non accade, e dell’uomo che invece di bastarsi, si scarnifica di emotivo, fino alla resa.
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Se per Gioacchino la risposta dell’avvento del Regno, non di quando o come, ma solo dell’opportunità che si manifesti, non si può trovare nella razionalità, è perché bisogna cercare altrove. L’altrove è l’immagine, l’immaginazione, l’imaginalis d’Oriente, che non impone una verità interpretata, ma ne permette una percezione sul futuro. Cercare con la ragione l’irrazionale, o invisibile, se irrazionale dovesse davvero essere solo ciò che non è visibile, e dunque ottusamente il non reale, inevitabilmente dalla ragione verrà negato. Ma ciò che era accaduto fin dal primo sviluppo del pensiero di Gioacchino, ossia che il frantumarsi del legame tra materia e Dio, almeno fino ad oggi, getta la modernità in una crisi irrisolta, e in una profonda rabbia, di proiezione sul futuro nell’attesa di questa rivincita spirituale sempre negata. Ne sono figli le ideologie, i totalitarismi, l’individualismo, il tentativo costante di fare sistema di ciò che sistema non può essere: la spiritualità che ci scappa proprio perché per trovarla non possiamo basarci sulle categorie razionali che ci danno l’unica (falsa) sicurezza moderna. L’errore che si ripete è sempre incredibilmente, o ovviamente, lo stesso. Cercare tramite un sistema logico razionale, l’irrazionalità, e poi sfiniti rinnegarla, bollandola come il nemico.
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La parola, in teoria, non può che avere un ruolo di somiglianza al vero, e con ancora meno precisione, non potrebbe che ruotare intorno all’invisibile, senza trasfigurarlo, e solo l’immagine ci permetterebbe la gestione interpretativa non con la logica, ma col profetico e l’apocalittico.
C’è una ribellione al segno, inteso come conservatore di una visione drastica, per cui tutto è già stato rivelato nella sua mera descrizione materiale, e l’uomo non può che attendere la morte sulla base di una certezza che non può rompere gli schemi dell’evidenza. Ma nella figura, potremmo porci nella speranza di una rivelazione in cui tutte le premonizioni delle spirali dissetino finalmente quei campi aridi che non fanno che bruciare ogni nuova giornata spiritualmente persa, come un insopportabile spreco.
Ma la parola appartiene veramente al raziocinio, o col raziocinio tentiamo di contenere ben altre sue imprevedibili facoltà? E se la sfida della parola non fosse proprio provocare ciò che sempre si è dato per scontato essere il suo limite, ossia svelare l’irrazionale attraverso lo spirito che se ne fa interprete e tutore?
Attraverso la visione letteraria e in particolar modo poetica, si potrebbe dissotterrare un insospettabile potenziale rivoluzionario nella più conservatrice delle categorie razionali?
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William Blake non era indifferente alla filosofia gioachimita, se non altro tramite le letture di Jacob Bohme. In lui si può scorgere un ribaltamento del luogo e tempo di ricerca, che si tramuta in uno spostamento di visione determinante che apre a un’interpretazione nuova dei segreti del Terzo Regno.
Per Blake infatti la parola, non solo non è un simbolo della razionalità, e dunque un ostacolo alla profezia, ma rappresenta l’incarnazione dello Spirito in Terra, del tutto contrapposta alla razionalità sterile e opprimente dello Spettro.
Cosa è accaduto in Blake, nella poetica del ’700, nell’avanguardia di una poesia che decide di rompere non solo con tutti gli schemi classici, ma a quanto pare anche con i maggiori antagonisti degli schemi classici?
Partendo dal presupposto che la diatriba che vuole contrapporre nell’arte realismo e immaginario, o surrealismo, probabilmente è una falsità, dal momento che quando estrapoliamo qualcosa dal suo contesto già lo abbiamo privato della sua verità, se mai esista, per diventare frutto comunque della nostra immaginazione, deviato dalla nostra interiorità, e dalla nostra necessità interpretativa: creare è l’esule necessario della realtà. Blake forse va oltre.
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Con la sua intuizione poetica, frutto di un’inesorabile processo storico/culturale culminato nel ’700, si propone l’inaccettabile, sfida l’impossibile, osando andare a scovare il Terzo Regno proprio nel posto più impensabile: nella parola poetica, che può farsi visione e profezia. Le parole sono i confini del Terzo Regno, e la forza spirituale che da essa scaturisce sono ciò che ce li fa superare: oltre l’eterno ritorno e la linea retta, oltre la prima soglia della razionalità e la seconda soglia della logica, la certezza dell’oppressione e l’ossessione del dogma, per sfondare le porte.
Potrebbe allora darsi che l’attesa, la pergamena da disvelare, si compia in una spirale che affonda incredibilmente dentro di noi, e appartiene alla storia in quanto elemento in cui noi fluttuiamo, in cui noi rappresentiamo l’elemento che consacra la concordia in una verità eterna che benché da noi scaturisca, proprio a noi facilmente sfugga.
Cosa questo possa rappresentare in termini di rivoluzione, quella prospettata dal pensiero gioachimita, è talmente semplice da farsi irraggiungibile.
L’età assoluta, regno della libertà e della possibilità, e soprattutto della speranza, che rotolando come una pallina si impregna di tutte le profezie rivelate, e del senso di ogni accadimento come eternamente vero, potrebbe celarsi dentro di noi e essere colto attraverso la parola professata dal visionario, necessariamente poeta, e semplicemente relegato al folle, nell’inutile tentativo di esorcizzare la visione.
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Se le immagini rompono il continuum del tempo, le parole possono rompere il continuum della necessità logica per trovare le risposte, e scovare il senso della verità profetica. Quell’attimo di un accaduto che dispiega il suo senso nell’eterno, che non sappiamo spiegare, potrebbe essere identificato in una sollecitazione ambigua, onnipresente e incompresa, probabilmente incomprensibile. Dalla secolarizzazione dunque, dal divorzio per eccellenza, quello fra cielo e terra, potrebbe essere esploso un nuovo matrimonio, mai celebrato, fuori da qualsiasi accettabile dogma: tra parola e spirito, tra poesia e paradiso, nella visione che cela il luogo della gioia.
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L’Apocalisse potrebbe dunque avvenire in noi attraverso la parola, ma cosa rappresenterebbe? Quale sarebbe la rivoluzione che ci permetterebbe di non utilizzare più le parole della ragione ma quelle dello spirito?
Da sempre l’uomo finge l’accettazione, ma profondamente rifugge, la normalità intesa come adattamento a un insieme di norme, o mancanza di follia, ossia frattura sul cemento di superficie che copre le fibrillazioni interne del quadro.
La frattura, la tendenza a slabbrare, tagliare, distruggere, massacrare, è insita in noi come istinto primordiale e ineluttabile. Droghe, emozioni estreme, le più moderne o classiche addiction, il gusto per la piccola meschinità e il grandioso eroismo, l’imprescindibile tendenza al suicidio, che sia in vita o prospetti la morte sociale o il martirio interiore, sempre comunque collegato a un salto nel vuoto; sono le spinte che evidenziano un’incapacità insuperabile dell’essere umano a reggere l’assoluto normato, che lo indurrà sempre a nuove lacerazioni. Se la spaccatura è legata, come quasi sempre è legata, a un eccessivo senso di colpa, o a un terrore, che reprime il salto spirituale, inevitabile è l’automatizzazione, lo sfinimento e la banale infelicità. Se la società dunque non è rabbiosa e depressa per caso, potrebbe darsi che lo scontato ritenere il possesso come l’unico elemento dirimente i soddisfatti dai falliti, sia il più grande errore ci ritroviamo a condividere e dare per scontato, con la pigrizia mentale che notoriamente ci contraddistingue.
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Più la società si comprime in un maggiore appiattimento di visioni alternative, intendendo il surplus normativo soprattutto interiore, più è fluida l’assimilabilità della norma come dovere e quindi come valutatore di successo e di accettazione: più lo scompenso si fa profondo, più sprofonda la possibilità di individuare il nostro Terzo Regno. L’Apocalisse sembrerebbe quindi la frattura necessaria per liberarsi della zavorra della normalità, ma l’acquisizione condivisa del concetto di rivoluzione come distruzione, la lega inesorabilmente a un farci del male che è ormai ben più di un allarme individuale, e quasi un paradigma sociale. Quasi che il cemento paralizzante, sia anche la struttura che tiene in piedi.
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Pensiero e immaginazione, poesia e parola: la visione acceca la ragione e trasforma la parola in poesia. Sprofondare nei tre gradi dell’uomo, o della coscienza, per produrre poesia, valicando gli altri regni, per sconfinare nella più stupefacente demolizione del normale.
Antico Testamento, o Padre, ma anche ratio, Nuovo Testamento, o Figlio, e anche uomo caduto, disvelamento o Spirito, e finalmente, parola poetica.
Il Paradiso in terra si dovrebbe quindi orientare più che a un tempo futuro, a uno stato più profondo della spirale. E il passaggio si compie dalla verità come illuminazione alla verità come azione o compimento. Tutto ciò che è stato tende a un punto, tutto ciò che siamo tende a un punto. L’utopia che ha eliminato la trascendenza divenendo slancio verso un futuro che non si riesce mai a cogliere, potrebbe realizzarsi in una tensione interiore, una verticalizzazione che scopre il futuro oltre l’abisso del vuoto che corona ogni ragione. Il possibile, scomparso intorno a noi, si riaffaccerebbe dentro.
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L’eredità di Gioacchino si è trasformata nella morte di Dio, e successivamente nella morte dell’assassino, e nella crisi stessa della parola che non potrebbe più esprimere tutto ciò che siamo, per questo la frattura resta necessaria, ma bisogna rompere nel punto giusto, la gabbia giusta, per liberare il futuro nella sua evidente risposta nel passato. È il pensiero stesso che pensa la propria frattura, e dunque dichiara in partenza la propria insufficienza. Cartesio separò la doppia natura umana: ma se l’uomo è carne, necessariamente da qualche parte il doppio della sua meccanica si nasconde. Siamo lucidi o stolti a raccontarci che sia impossibile trovarlo, siamo illusi a pensare che prima o poi in qualche modo accadrà? Forse, ma il nascondiglio è illuminato dalla poesia.
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Come si svela dunque tutto attraverso la poesia nei meandri della sua spinta poetica? L’evidenza della circolarità della sua scrittura è fin troppo banale. Che si possa leggere in un punto qualsiasi, dalla fine o dall’inizio, commuove ma non svela. Che si possa rileggere sulla base di un’intuizione qualsiasi, forse è molto più intrigante. Che lo Spirito si trovi analizzando l’impossibile, o trascinando il vero nell’irrazionale, e quindi sia vero solo nella sua affermazione di eterno è probabilmente un’indescrivibile, quindi possibile, chiave di lettura.
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I passi poetici da analizzare secondo questa visione sarebbero infiniti. Uno è Spirit here that reignest di John Keats.
Spirito che qui regni
Spirito che qui regni!
Spirito che qui ti tormenti!
Spirito che qui bruci!
Spirito che qui sei in lutto!
Spirito! Inchino la mia fronte
resa limpida nelle tue piume!
Spirito! Io scruto,
soggiogate tutte le passioni
fra i tuoi tenui domini
Spirito che qui ridi!
Spirito che qui tracanni!
Spirito che qui danzi!
Spirito che qui balzi!
Spirito! A te
io mi unisco nella gioia, mentre do colpetti al gomito di Momus!
Spirito! Io arrossisco
di quel rossore dovuto a Bacco,
appena rigenerato dal banchetto di Comus!
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In questa poesia si può scorgere un momento interiore dell’Apocalisse di Keats. Una intuizione che coglie in una visione dell’attimo, trascorso, un’evidenza futura che si rende eterna.
Momus, divino figlio della Notte, è il titolo di un libro di Leon Battista Alberti, scritto negli anni quaranta del XV secolo. Momus, nella mitologia greca, era la personificazione della satira, della malignità e della censura. Alberti, personaggio eclettico e fuori dagli schemi, lo utilizzerà in un’opera satirica in cui vuole evidenziare la sordida duplicità dell’uomo, ma anche l’incapacità degli Dei dell’Olimpo di comprenderlo e accoglierlo, dopo averlo creato.
Nel testo, quando Giove crea l’uomo, gli indica la strada per raggiungere l’agiatezza, ma nel percorso in molti perdono la propria identità e diventano mostri, ossia rivelano la parte nascosta della propria natura, e la normalità esacerbata si rivela per quello che in sé nasconde: la deformazione e la mostruosità. Momus è l’unico Dio che non offre nulla alla nuova creatura, e, cacciato per questo dall’Olimpo, pieno di rabbia riempie il mondo di insetti schifosi e allontana gli uomini dalla fede. Lui stesso se ne allontana e benché tenti di farsi accettare nuovamente da Giove indossando la maschera dell’umiltà, come sanno fare bene gli uomini, capisce che l’unico senso della vita sta nel vagabondaggio, che lo ha portato a essere libero perché nessuno si interessava più alla sua esistenza, e non aspirando più a nulla non era nemmeno più vittima della menzogna e della vanità, cui gli uomini sono costretti per sopravvivere.
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Comus era una figura semidivina che personificava l’euforia alcolica: questa divinità non compare mai negli scritti di greci e latini, ma è stata soltanto dipinta in affreschi di cui si ha testimonianza verbale, in cui pare fosse raffigurata come un bel giovane ubriaco, dotato di ali. Comus è però anche un ballo teatrale in maschera scritto da Milton: due fratelli e una sorella si perdono nel bosco, si separano per varie vicissitudini, e la ragazza viene irretita proprio da Comus, che riesce a portarla a casa sua per cercare di sedurla con la negromanzia e immagini spettacolari dei piaceri dei sensi, disegnate su dei piatti. Lei resiste e non si lascia irretire. Ma il messaggio è meno banalmente morale di quanto potrebbe apparire, perché ancora una volta, i due protagonisti non rappresentano un uomo perverso e una donna casta, ma la duplicità dell’essere umano. L’anima e la carne, il materialismo e lo Spirito, che non casualmente, prende anche le forme di un angelo, o meglio di un pastore, e si presenta ai due fratelli per condurli a salvare la sorella, ossia il loro stesso buono Spirito. È l’apoteosi della virtù contro il male, ma nella profondità di Milton, è facile scorgere la profondità degli abissi umani, la spirale che affonda, trema, devia, rischia di soccombere ogni istante fino all’incontro con una rivelazione, di qualsiasi tipo essa sia, che ancora una volta, non può che nascere da una scelta interiore.
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Ma cosa c’entra tutto questo con la poesia di Keats, il Keats che apre le porte dello Spirito accogliendolo con un baccanale? E dove stanno la frattura e la visione del poeta? Keats è ubriaco, e non lo nasconde. Ma non è l’alcol che gli permette di lacerare la membrana, non se ne farebbe niente Keats, conosce già i meandri di uno spirito devastato. La membrana è resa trapassabile da un’intuizione, repentina quanto fuggevole, che lo porta a festeggiare: dando di gomito a Momus perché finalmente legge la doppiezza, anche propria, e comprende come sconfiggerla, e accompagnandosi allo Spirito che per un istante ha rivelato in lui la gioia, al punto che è con lui che vuole brindare al banchetto di Comus.
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Keats si libera, in quel momento imperscrutabile eppure limpidissimo, e rapito dalla poesia, di ogni distrazione, sovrastruttura, armatura e corsa in avanti: si ferma, così improvvisamente libero, e si perde in altri domini, che però sono tenui, perché abitabili con la parte più leggera di noi. È affondato Keats, e non può che tentare di preservare questo luogo della gioia per sempre, ci prova a modo suo, forse era troppo solo per comprendere dove fosse arrivato, ma sicuramente aveva la compagnia della divinità della parola, che gli ha permesso di condividere in eterno quella illuminata risposta, altrove irrimediabilmente perduta.
Francesca Ricchi
(continua)