Angeli
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"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
Angeli
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Dalla «Lettera a Diogneto»
Giovanni Duns Scoto
Cari fratelli e sorelle,
questa mattina voglio presentarvi un’altra figura
importante nella storia della teologia: si tratta del beato Giovanni Duns
Scoto, vissuto alla fine del secolo XIII. Un’antica iscrizione sulla sua tomba
riassume le coordinate geografiche della sua biografia: “l’Inghilterra lo
accolse; la Francia lo istruì; Colonia, in Germania, ne conserva i resti;
in Scozia egli nacque”. Non possiamo trascurare queste informazioni, anche
perché possediamo ben poche notizie sulla vita di Duns Scoto. Egli nacque probabilmente
nel 1266 in un villaggio, che si chiamava proprio Duns, nei pressi di
Edimburgo. Attratto dal carisma di san Francesco d’Assisi, entrò nella
Famiglia dei Frati minori, e nel 1291, fu ordinato sacerdote. Dotato di
un’intelligenza brillante e portata alla speculazione - quell’intelligenza che
gli meritò dalla tradizione il titolo di Doctor subtilis,
“Dottore sottile”- Duns Scoto fu indirizzato agli studi di filosofia e di
teologia presso le celebri Università di Oxford e di Parigi.
Conclusa con successo la formazione, intraprese l’insegnamento della teologia
nelle Università di Oxford e di Cambridge, e poi di Parigi, iniziando a
commentare, come tutti i Maestri del tempo, le Sentenze di
Pietro Lombardo. Le opere principali di Duns Scoto rappresentano appunto il
frutto maturo di queste lezioni, e prendono il titolo dai luoghi in cui egli
insegnò: Ordinatio (in passato denominata Opus
Oxoniense – Oxford), Reportatio Cantabrigiensis (Cambridge), Reportata
Parisiensia (Parigi). A queste sono da aggiungere almeno i Quodlibeta (o Quaestiones
quodlibetales), opera assai importante formata da 21 questioni su vari temi
teologici. Da Parigi si allontanò quando, scoppiato un grave conflitto tra
il re Filippo IV il Bello e il Papa Bonifacio VIII, Duns Scoto
preferì l’esilio volontario, piuttosto che firmare un documento ostile al
Sommo Pontefice, come il re aveva imposto a tutti i religiosi. Così – per amore
alla Sede di Pietro –, insieme ai Frati francescani, abbandonò il Paese.
Cari fratelli e sorelle, questo fatto ci invita a
ricordare quante volte, nella storia della Chiesa, i credenti hanno incontrato
ostilità e subito perfino persecuzioni a causa della loro fedeltà e della
loro devozione a Cristo, alla Chiesa e al Papa. Noi tutti guardiamo con
ammirazione a questi cristiani, che ci insegnano a custodire come un bene
prezioso la fede in Cristo e la comunione con il Successore di Pietro e con la
Chiesa universale.
Tuttavia, i rapporti fra il re di Francia e il
successore di Bonifacio VIII ritornarono ben presto amichevoli, e nel 1305 Duns
Scoto poté rientrare a Parigi per insegnarvi la teologia con il titolo di Magister
regens. Successivamente, i Superiori lo inviarono a Colonia come professore
dello Studio teologico francescano, ma egli morì l’8 novembre del 1308,
a soli 43 anni di età, lasciando, comunque, un numero rilevante di opere.
A motivo della fama di santità di cui godeva, il
suo culto si diffuse ben presto nell’Ordine francescano e il Venerabile Giovanni Paolo II volle confermarlo solennemente beato il 20 Marzo 1993,
definendolo “cantore del Verbo incarnato e difensore dell’Immacolata
Concezione”. In tale espressione è sintetizzato il grande contributo che
Duns Scoto ha offerto alla storia della teologia.
Anzitutto, egli ha meditato sul Mistero
dell’Incarnazione e, a differenza di molti pensatori cristiani del tempo, ha
sostenuto che il Figlio di Dio si sarebbe fatto uomo anche se l’umanità non
avesse peccato. “Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale opera se Adamo non
avesse peccato, - scrive Duns Scoto - sarebbe del tutto irragionevole! Dico
dunque che la caduta non è stata la causa della predestinazione di Cristo, e
che - anche se nessuno fosse caduto, né l’angelo né l’uomo - in questa ipotesi
Cristo sarebbe stato ancora predestinato nella stessa maniera” (Reportata
Parisiensia, in III Sent., d. 7, 4). Questo pensiero nasce perché per Duns
Scoto l’Incarnazione del Figlio di Dio, progettata sin dall’eternità da parte
di Dio Padre nel suo piano di amore, è il compimento della creazione, e rende
possibile ad ogni creatura, in Cristo e per mezzo di Lui, di essere colmata di
grazia, e dare lode e gloria a Dio nell’eternità. Duns Scoto, pur consapevole
che, in realtà, a causa del peccato originale, Cristo ci ha redenti con la sua
Passione, Morte e Risurrezione, ribadisce che l’Incarnazione è l’opera più
grande e più bella di tutta la storia della salvezza, e che essa non è
condizionata da nessun fatto contingente.
Fedele discepolo di san Francesco, Duns Scoto amava
contemplare e predicare il Mistero della Passione salvifica di Cristo,
espressione della volontà di amore, dell’amore immenso di Dio, il Quale
comunica con grandissima generosità al di fuori di sé i raggi della Sua bontà e
del suo amore (cfr Tractatus de primo principio, c. 4). Questo
amore non si rivela solo sul Calvario, ma anche nella Santissima Eucaristia,
della quale Duns Scoto era devotissimo e che vedeva come il Sacramento della
presenza reale di Gesù e come il Sacramento dell’unità e della comunione che
induce ad amarci gli uni gli altri e ad amare Dio come il Sommo Bene comune
(cfr Reportata Parisiensia, in IV Sent., d. 8, q. 1, n. 3). “E come
quest’amore, questa carità – scrivevo nella Lettera in occasione del Congresso
Internazionale a Colonia per il VII Centenario della morte del beato Duns Scoto,
riportando il pensiero del nostro autore – fu all’inizio di tutto, così anche
nell’amore e nella carità soltanto sarà la nostra beatitudine: «il volere
oppure la volontà amorevole è semplicemente la vita eterna, beata e perfetta»”
(AAS 101 [2009], 5).
Cari fratelli e sorelle, questa visione teologica,
fortemente “cristocentrica”, ci apre alla contemplazione, allo stupore e alla
gratitudine: Cristo è il centro della storia e del cosmo, è Colui che dà senso,
dignità e valore alla nostra vita! Come a Manila il Papa Paolo VI, anch’io oggi vorrei
gridare al mondo: “[Cristo] è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito
di ogni creatura, è il fondamento di ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità,
è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della
storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno
e l’amico della nostra vita... Io non finirei più di parlare di Lui” (Omelia, 29 novembre 1970).
Non solo il ruolo di Cristo nella storia della
salvezza, ma anche quello di Maria è oggetto della riflessione del Doctor
subtilis. Ai tempi di Duns Scoto la maggior parte dei teologi opponeva
un’obiezione, che sembrava insormontabile, alla dottrina secondo cui Maria
Santissima fu esente dal peccato originale sin dal primo istante del suo
concepimento: di fatto, l’universalità della Redenzione operata da Cristo –
evento assolutamente centrale nella storia della salvezza – a prima vista
poteva apparire compromessa da una simile affermazione. Duns Scoto espose
allora un argomento, che verrà poi adottato anche dal beato Papa Pio IX nel 1854,
quando definì solennemente il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Questo
argomento è quello della “Redenzione preventiva”, secondo cui l’Immacolata
Concezione rappresenta il capolavoro della Redenzione operata da Cristo, perché
proprio la potenza del suo amore e della sua mediazione ha ottenuto che la
Madre fosse preservata dal peccato originale. I Francescani accolsero e
diffusero con entusiasmo questa dottrina, e altri teologi – spesso con solenne
giuramento – si impegnarono a difenderla e a perfezionarla.
A questo riguardo, vorrei mettere in evidenza un dato,
che mi pare importante. Teologi di valore, come Duns Scoto circa la dottrina
sull’Immacolata Concezione, hanno arricchito con il loro specifico contributo
di pensiero ciò che il popolo di Dio credeva già spontaneamente sulla Beata
Vergine, e manifestava negli atti di pietà, nelle espressioni dell’arte e, in
genere, nel vissuto cristiano. Tutto questo grazie a quel soprannaturale sensus
fidei, cioè a quella capacità infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad
abbracciare le realtà della fede, con l’umiltà del cuore e della mente. Possano
sempre i teologi mettersi in ascolto di questa sorgente e conservare l’umiltà e
la semplicità dei piccoli! Lo ricordavo qualche mese fa: “Ci sono grandi dotti,
grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato
molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia
della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo...
L’essenziale è rimasto nascosto! Invece, ci sono anche nel nostro tempo i
piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette
Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova
lettura della Bibbia ‘non scientifica’, ma che entra nel cuore della Sacra
Scrittura” (Omelia. S. Messa con i
membri della Commissione Teologica Internazionale, 1 dicembre 2009).
Infine, Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la
modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo
rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la
libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione che
valorizza maggiormente quest'ultima. Purtroppo, in autori successivi al nostro,
tale linea di pensiero si sviluppò in un volontarismo in contrasto con il
cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino la
libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto
della collaborazione della volontà e dell’intelletto. Un’idea della libertà
innata e assoluta – come si evolse, appunto, successivamente a Duns Scoto –
collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo,
rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non è legato neppure alla
verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta trascendenza e diversità
di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà,
non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio “logos”, che ha
agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente l’amore supera la
conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’amore
del Dio “logos” (cfr Benedetto XVI, Discorso a Regensburg, Insegnamenti di
Benedetto XVI, II [2006], p. 261). Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta,
collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la
stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato.
Comunque, la visione scotista non cade in questi estremismi: per Duns Scoto un
atto libero risulta dal concorso di intelletto e volontà e se egli parla di un
“primato” della volontà, lo argomenta proprio perché la volontà segue sempre
l’intelletto.
Parlando ai seminaristi romani, ricordavo che “la
libertà in tutti i tempi è stata il grande sogno dell'umanità, sin dagli inizi,
ma particolarmente nell'epoca moderna” (Discorso al Pontificio
Seminario Romano Maggiore, 20 febbraio 2009). Però, proprio la
storia moderna, oltre alla nostra esperienza quotidiana, ci insegna che la
libertà è autentica, e aiuta alla costruzione di una civiltà veramente umana,
solo quando è riconciliata con la verità. Se è sganciata dalla verità, la
libertà diventa tragicamente principio di distruzione dell’armonia interiore
della persona umana, fonte di prevaricazione dei più forti e dei violenti, e
causa di sofferenze e di lutti. La libertà, come tutte le facoltà di cui l’uomo
è dotato, cresce e si perfeziona, afferma Duns Scoto, quando l’uomo si apre a
Dio, valorizzando la disposizione all’ascolto della Sua voce: quando noi ci
mettiamo in ascolto della Rivelazione divina, della Parola di Dio, per
accoglierla, allora siamo raggiunti da un messaggio che riempie di luce e di
speranza la nostra vita e siamo veramente liberi.
Cari fratelli e sorelle, il beato Duns Scoto ci
insegna che nella nostra vita l’essenziale è credere che Dio ci è vicino e ci ama
in Cristo Gesù, e coltivare, quindi, un profondo amore a Lui e alla sua Chiesa.
Di questo amore noi siamo i testimoni su questa terra. Maria Santissima ci
aiuti a ricevere questo infinito amore di Dio di cui godremo pienamente in
eterno nel Cielo, quando finalmente la nostra anima sarà unita per sempre a
Dio, nella comunione dei santi.
P.P.Benedetto XVI
ALFONSO RATISBONNE
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Alfonso Ratisbonne, nato a Strasburgo nel 1814 da una famiglia di ricchi banchieri ebrei (il padre era presidente del Concistoro ebraico di Strasburgo), era cresciuto in un clima di odio anticristiano, acuito dalla conversione al cattolicesimo del fratello maggiore Teodoro (6). Fidanzato con una cugina, per migliorare il suo malfermo stato di salute aveva deciso di intraprendere un lungo viaggio che dalla Francia, attraverso la Costa Azzurra, l’Italia, Malta, l’Egeo, avrebbe dovuto condurlo a Costantinopoli. Capitò a Roma, per un breve soggiorno fuori programma, il giorno dell’Epifania del 1842. Tra le persone che vi incontrò fu un amico d’infanzia, il barone Gustavo de Buissières, protestante pietista. Il fratello di questi, Teodoro, nel corso di un’animata discussione religiosa, sfidò Ratisbonne a portare una medaglia con l’effigie dell’Immacolata, come era apparsa quattro anni prima a santa Caterina Labouré, e a recitare, o almeno a trascrivere il «Memorare, o piissima Virgo Maria… », l’antica preghiera mariana tradizionalmente attribuita a san Bernardo. Ratisbonne, per mostrare la sua superiorità sulle «superstizioni» cattoliche, accettò ridendo la sfida. «Ora eccomi cattolico, apostolico, romano», commentò sarcasticamente, mentre cingeva al collo la medaglietta. Nei giorni successivi, mentre l’ebreo alsaziano continuava la sua vita di scettico gaudente, il Buissières si diede a pregare intensamente per la sua conversione, raccomandandolo inoltre alle orazioni di alcuni amici. Tra questi era il conte Augusto de La Ferronays, già ministro di Carlo X, che morì però improvvisamente il 17 gennaio. Un imprevisto aveva intanto costretto il Ratisbonne a rinviare la sua partenza da Roma. Si giunse così al 20 gennaio 1842, una giornata di cui vale la pena seguire la descrizione lasciataci dallo stesso Ratisbonne (7).
IL 20 GENNAIO 1842
«Il giovedì 20 gennaio, dopo aver fatto colazione all’albergo e aver imbucato le mie lettere alla posta, mi recai a casa del mio amico Gustavo, il pietista, che era tornato dalla caccia, escursione che lo aveva tenuto lontano per alcuni giorni.
«Si stupiva molto di ritrovarmi a Roma. Gliene spiegai il motivo: avevo voglia di vedere il papa. “Ma andrò via senza vederlo, – gli dissi, – giacché non ha assistito alle cerimonie della Cattedra di San Pietro, dove mi avevano fatto sperare che ci sarebbe stato”.
«Gustavo mi consolò ironicamente, parlandomi di un’altra cerimonia davvero curiosa che doveva svolgersi, credo, a Santa Maria Maggiore. Si trattava della benedizione degli animali. E su tutto questo, gara di freddure e lazzi del tipo che si può immaginare tra un ebreo e un protestante.
«Parlammo di caccia, di piaceri, dei divertimenti del carnevale, della brillante serata che il duca Torlonia aveva dato il giorno prima. Né ci si poteva dimenticare delle feste del mio matrimonio: invitai de Lotzbeck, che mi promise di partecipare.
«Se in quell’istante (era mezzogiorno) un terzo interlocutore mi si fosse avvicinato, e mi avesse detto: “Alfonso, fra un quarto d’ora adorerai Gesù Cristo, tuo Dio e tuo Salvatore, sarai prosternato in una povera chiesa, ti batterai il petto dinanzi a un sacerdote, in un convento di Gesuiti dove trascorrerai il carnevale per prepararti al battesimo, pronto ad immolarti per la fede cattolica; e rinuncerai al mondo, alle sue pompe, ai suoi piaceri, alla tua fortuna, alle tue speranze, al tuo avvenire; e, se sarà necessario, rinuncerai anche alla tua fidanzata, all’affetto della tua famiglia, alla stima dei tuoi amici, all’attaccamento degli ebrei … e non aspirerai più che a seguire Gesù Cristo e a portare la sua croce fino alla morte!…”. Dico che se qualche profeta mi avesse fatto una predizione simile, avrei giudicato solo un uomo più insensato di lui: l’uomo che avesse creduto possibile una simile follia! Eppure, èproprio questa follia che costituisce oggi la mia sapienza e la mia felicità.
«Uscendo dal caffè, mi imbatto nella carrozza di Teodoro de Buissières. Si ferma, e sono invitato a salire per un tratto di passeggiata. Il tempo era splendido, e accettai con piacere. Ma de Buissières mi chiese la cortesia di fermarsi pochi minuti alla chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, che si trovava quasi di fianco a noi, per un affare che doveva sbrigare; mi suggerì di aspettarlo in carrozza; io preferii scendere, per vedere la chiesa. Vi si facevano dei preparativi per un funerale e mi informai del defunto che doveva ricevere le estreme onoranze. De Buissières mi rispose: È un mio amico, il conte de La Ferronays; la sua morte improvvisa – aggiunse – è la causa di quella tristezza che avrete notata in me da due giorni”.
«Non conoscevo de La Ferronays; non lo avevo mai visto, e non provavo altra impressione che quella d’una pena alquanto vaga che sempre si prova alla notizia d’una morte improvvisa. De Buissières mi lasciò per andare a prenotare una tribuna destinata alla famiglia del defunto. “Non vi impazientite, – mi disse entrando nel chiostro, – sarà questione di due minuti …”.
«CADDE EBREO SI RIALZÒ CRISTIANO»
«La chiesa di Sant’Andrea è piccola, povera e deserta; … credo di essere stato quasi solo; … nessuna opera d’arte attirava la mia attenzione. Camminavo, meccanicamente, con lo sguardo in giro, senza soffermarmi su nessun pensiero; mi ricordo soltanto di un cane nero che saltellava e balzava dinanzi a me… Non appena scomparso il cane, la chiesa intera disparve, non vidi più nulla … o piuttosto, Dio mio, vidi una sola cosa!
«Come potrei parlarne? Oh! no, la parola umana non deve tentare d’esprimere l’inesprimibile; ogni descrizione, per quanto sublime possa essere, non sarebbe che una profanazione dell’ineffabile verità. Ero là, prosternato, bagnato nelle mie lacrime, col cuore fuori di me stesso, quando de Buissières mi richiamò alla vita.
«Non potevo rispondere alle sue domande precipitose; ma presi la medaglia che avevo al petto e baciai con effusione l’immagine della Vergine, raggiante di grazia … Oh!, era davvero Lei!
«Non sapevo dove mi trovavo; non sapevo se ero Alfonso o un altro; sentivo un così totale mutamento, che mi credevo un altro me stesso … Tentavo di ritrovarmi e non mi ritrovavo … La gioia più ardente si sprigionava dal fondo della mia anima; non potei parlare; non volli rivelare nulla; sentivo in me qualcosa di solenne e di sacro che mi fece chiamare un sacerdote … Vi fui condotto, e solo dopo avuto l’ordine positivo ne parlai, per quanto mi era possibile, in ginocchio e col cuore tremante.
«Le mie prime parole furono di riconoscenza per de La Ferronays e per l’Arciconfraternita della Madonna delle Vittorie. Sapevo con certezza che de La Ferronays aveva pregato per me; ma non saprei dire come lo seppi, così come non potrei fare un resoconto delle verità di cui avevo acquisito la fede e la conoscenza. Tutto ciò che posso dire è che al momento del fatto la benda mi cadde dagli occhi; non una sola, ma tutta la moltitudine di bende che mi avevano avvolto, scomparvero una dopo l’altra rapidamente, come la neve e il fango e il ghiaccio sotto l’azione di un sole cocente.
«Uscivo da una tomba, da un abisso di tenebre, ed ero vivo, perfettamente vivo … Ma piangevo! Vedevo nel fondo dell’abisso le miserie estreme dalle quali ero stato strappato da una misericordia infinita; rabbrividivo alla vista di tutte le mie iniquità, ed ero stupito, intenerito, sprofondato in ammirazione e riconoscenza … Pensavo a mio fratello con una indicibile gioia; ma alle lacrime d’amore si univano lacrime di compassione. Oh! quanti discendono tranquillamente in questo abisso con gli occhi chiusi dall’orgoglio o dalla spensieratezza! Vi discendono, s’inabissano vivi nelle orribili tenebre! E la mia famiglia, la mia fidanzata, le mie povere sorelle! Oh! straziante ansietà! Penso a voi, voi che io amo! A voi dono le prime preghiere … Non alzerete voi gli occhi verso il Salvatore del mondo, il cui sangue ha cancellato il peccato originale? Oh, che l’impronta di questa macchia è orribile! Rende completamente irriconoscibile la creatura fatta a immagine di Dio.
«Mi si domanda come appresi queste verità, poiché è accertato che non ho mai aperto un libro di religione, non ho mai letto una pagina della Bibbia, e che il dogma del peccato originale, totalmente dimenticato o negato dagli Ebrei dei nostri giorni, non aveva mai occupato un istante il mio pensiero; dubito anche di averne sentito il nome. Come sono arrivato dunque a questa conoscenza? Non saprei dirlo.
«Tutto ciò che so, è che entrando in chiesa ignoravo tutto; uscendone, vedevo chiaro. Non posso spiegare questo cambiamento che con l’immagine di un uomo il quale si risvegliasse da un sonno profondo, o con quella di un cieco nato che vedesse la luce tutto d’un colpo; vede, ma non può definire la luce che lo illumina e nella quale contempla gli oggetti della sua ammirazione».
L’APOSTOLATO TRA GLI EBREI
Avuta notizia del miracolo, Papa Gregorio XVI ordinò al suo cardinale vicario Costantino Patrizi di istruire immediatamente un processo canonico. Questo si svolse in 17 sessioni, dal 17 febbraio al 1º aprile dello stesso anno 1842, con la severa procedura propria dei tribunali ecclesiastici. Al termine deliberò «che constava pienamente la verità dell’insigne miracolo operato da D.O.M. per intercessione della B. Maria Vergine, cioè l’istantanea e perfetta conversione di Alfonso Maria Ratisbonne dall’Ebraismo».
Lo stesso cardinale Patrizi aveva solennemente battezzato Ratisbonne, col nuovo nome di Alfonso Maria, il 31 gennaio 1842 nella chiesa del Gesù. Sacerdote nel 1847, Ratisbonne appartenne per qualche tempo alla Compagnia di Gesù che lasciò, con il permesso di Pio IX, per entrare nella Congregazione delle Figlie e dei Missionari di Nostra Signora di Sion fondata dal fratello. Come il fratello Teodoro, anche Alfonso Maria Ratisbonne volle infatti dedicare la propria vita all’apostolato tra gli ebrei. Nel 1855 partì per Gerusalemme, dove riuscì ad acquistare le rovine del Pretorio di Pilato, su cui fondò il Santuario dell’«Ecce Homo». A Gerusalemme rimase fino alla morte, il 6 maggio del 1884 (8).
La notizia del miracolo si sparse intanto rapidamente in tutta la Cristianità. Essa infiammò la pietà popolare nei confronti della Medaglia miracolosa di Rue du Bac e contribuì ad affrettare la proclamazione del dogma dell’Immacolata.
Tra i santi e i servi di Dio che pregarono nella cappella dell’apparizione, basti ricordare i nomi di san Giovanni Bosco, santa Teresa di Lisieux, il beato Massimiliano Kolbe. Fu il 20 gennaio 1917, 75esimo anniversario dell’apparizione, che quest’ultimo, nell’ascoltare la rievocazione della conversione di Ratisbonne, concepì l’istituzione della sua Milizia dell’Immacolata, col fine di «cercare la conversione dei peccatori, eretici, scismatici, giudei. ecc. e specialmente dei massoni; e la santificazione di tutti sotto il patrocinio ex e mediante la B.V.M. Immacolata» (9).
VERSO IL REGNO DI MARIA
A Rue du Bac, a La Salette, a Lourdes, a Fátima, la Madonna scelse anime innocenti per trasmettere i suoi messaggi al mondo. A Roma la Madonna apparve a un peccatore, a un cuore indurito dall’orgoglio, a un nemico della Chiesa. Ebreo di origine, rivoluzionario di mentalità, Ratisbonne sembra prefigurare il mondo moderno, incredulo, duro di cuore, ostinato nei suoi errori. Eppure basta l’apparizione della Madonna, un suo gesto, perché Ratisbonne cada in ginocchio e comprenda istantaneamente, secondo quanto egli stesso dichiarò, nella sua esposizione al processo canonico, «l’orrore del suo stato, la deformità del peccato, la bellezza della Religione Cattolica». La sua conversione è perfetta e istantanea come quella di san Paolo: le tenebre dell’incredulità e del giudaismo sono improvvisamente squarciate, dal fulgore della verità. La Madonna «viva, grande, maestosa, bellissima, misericordiosa» manifesta i suoi attributi tradizionali di Regina e di Madre: la potenza e la misericordia. Ma la Madonna esige, per intervenire, la collaborazione degli uomini: la Medaglia miracolosa, il Memorare, le preghiere insistenti del barone de Buissières e del conte de La Ferronays, forse per un impercettibile gesto di buona volontà da parte di Ratisbonne, sono gli elementi da non trascurare nel grande quadro di questa conversione.
Nulla è impossibile alla Madonna, regale dispensatrice di grazie, quando essa è pregata da cuori ardenti e devoti. «Quando gli uomini decidono di collaborare con la grazia di Dio, allora nella storia accadono cose meravigliose: la conversione dell’Impero romano, la formazione del Medio evo, la riconquista della Spagna a partire da Covadonga, sono tutti avvenimenti di questo tipo, che accadono come frutto delle grandi resurrezioni dell’anima, di cui anche i popoli sono suscettibili» (10).
Di fronte al flagello del comunismo ateo che minaccia oggi l’umanità, preghiamo dunque la Madonna perché voglia manifestare ancora una volta la sua potenza e la sua misericordia: allo stesso modo in cui convertì l’ebreo Ratisbonne e regnò nel suo cuore, conceda ai nostri giorni la conversione del mondo, l’instaurazione del Suo regno, il trionfo della Chiesa sulla Rivoluzione.
ROBERTO DE MATTEI
Note: ...
(6) Théodore-Marie Ratisbonne (Strasburgo 1802-Parigi 1884) era stato battezzato nel 1827 e collaborava con mons. Dufriche-Desgenettes presso la chiesa parigina di Nostra Signora delle Vittorie, uno dei più vivi centri spirituali di Parigi.
(7) Si tratta di una lettera che Alfonso Ratisbonne scrisse dal collegio di Juilly, il 20 gennaio 1842, a mons. Dufriche-Desgenettes. Abbiamo parzialmente attinto, integrandole, alla traduzione italiana riportata nell’opuscolo La Madonna del miracolo, a cura della Postulazione Generale dei Minimi, Roma 1971 e al testo riportato in JEAN GUITTON, La Vergine a Rue du Bac, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1977.
Charles-Eléonore Dufriche-Desgenettes (Almson 1778-Parigi 1860), fondatore dell’Arciconfraternita di Nostra Signora delle Vittorie, aveva fatto della sua chiesa il centro propulsore della diffusione della Medaglia miracolosa. Nel 1825 era stato tra coloro che più si erano battuti per la consacrazione a Reims di Carlo X (cfr. MARC BLOCH, I re taumaturghi, tr. it., Einaudi 1973, p. 313).
(8) «Si inginocchiò su quelle rovine e pregò; gli pareva di udire ancora l’eco di quella condanna, e del grido esecrando dei padri suoi: “Crucifige Eum!”. “Non ho mai dimenticato – diceva – ciò che provai davanti alle rovine del tribunale di Ponzio Pilato”. Colà era risuonato il grido: “Il Sangue di Lui cada su di noi e sui nostri figli”. “Cada, sì, – pensava Alfonso – ma cada non in maledizione, bensì in rigenerazione, come era caduto su di lui il 20 gennaio in S. Andrea delle Fratte». Cfr. p. ANTONIO BELLANTONIO, op. cit., p. 153.
(9) Fu all’altare dell’apparizione che il 29 aprile 1918 Massimiliano Kolbe volle celebrare la sua prima messa. Padre Ricciardi ha trascritto, nella traduzione italiana, questo particolare, dal registro personale delle intenzioni: «Altare del miracolo, Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte: per la conversione di p. Petkow [Gran Maestro della Massoneria polacca], degli scismatici, degli acattolici, dei massoni ecc. » Cfr. p. ANTONIO RICCIARDI, Beato Massimiliano Maria Kolbe OFM, Edizioni agiografiche, a cura della Postulazione generale dell’Ordine dei Frati Minori conventuali, Roma 1971, p. 57.
(10) PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it., Cristianità, Piacenza 1977, p. 152.
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