lunedì 12 ottobre 2020

Galateo - Giovanni Della Casa



Giovanni Della Casa: la buona
educazione dell’animo e del corpo

Giovanni Della Casa: la buona educazione dell’animo e del corpo 
di Liliane Jessica Tami del 26/03/2018

Il filosofo francese Jean-François Lyotard, nel suo saggio «La condizione postmoderna» affermava che la nuova società libera e post-moderna – sorta dalle
macerie della seconda guerra mondiale -, grazie alla fluidità del capitalismo, alle
nuove tecnologie e all’abbattimento di ogni gerarchia, è estranea alle certezze ed
alla coerenza. Tale posizione, agli antipodi del rigore severo e neoclassico che ha
caratterizzato gli albori della filosofia occidentale e il Rinascimento italiano, ha
creato quella scissione tra forma e sostanza che oggi tanto sembra degradare le
masse.

Jean-François Lyotard (1924 – 1998) è stato un filosofo francese, generalmente
associato al post-strutturalismo e conosciuto soprattutto per la sua teoria della
postmodernità. Fu assistente alla Sorbona, professore all’università di ParisVincennes e insegnò anche in alcuni atenei statunitensi.

Dopo l’epoca triviale medioevale, la buona educazione etico-spirituale dell’uomo è
stata fondamentale per redimerlo dallo stato di caotica bestialità in cui per secoli
s’era inabissato. Nell’epoca post-moderna, in cui il decostruito, l’informe e il
vizioso sono assurti a stati normali dell’essere, la coerenza greca – tale per cui
un’anima buona dovesse dimorare in un corpo bello – sembra essersi smarrita.
Andando a ritroso, il monsignor fiorentino Giovanni della Casa si preoccupò di
redimere gli animi dalla perdizione, stilando l’indice dei libri proibiti, e i corpi
dalla bestialità, pubblicando il celebre libello sul buon costume, Il Galateo.

Paradossalmente oggi il mondo necessiterebbe propriamente di personaggi
influenti in grado di censurare il degrado televisivo-letterario che corrompe gli
animi; così come di un salubre ritorno all’uso delle buone maniere, del ben vestire
e del ben parlare. Come Giovanni della Casa, nel suo fanatismo cattolico, si
impegnò a purificare molti presunti eretici sul rogo e a condannare coloro che si
comportavano da zotici e bifolchi, oggigiorno non dovremmo esitare a «gettare
tra le fiamme» di una pacata censura, tutti coloro che sfruttano e utilizzano i
mass-media propugnando valori immorali e contro-natura.

Dagli scritti di Giovanni della Casa, e in particolare dalle sue Rime, s’evince
ch’egli abbia sempre vissuto idealizzando un’età dell’oro oramai smarrita per
sempre. Da giovane non conobbe mai una donna in grado di farlo innamorare
perché idealizzò eccessivamente la figura femminile, e da anziano visse la
spiritualità in modo estremamente politico e violento perché desideroso di far
coincidere la sua idea di società perfetta con la realtà circostante. Della Casa,
uomo molto rigido, inflessibile e severo, si preoccupò parecchio della buona
educazione dei suoi nipoti e in particolare di Annibale Rucellai, suo favorito.

Traendo spunto dal suo impegno svolto in qualità di zio ed educatore scrisse, in
prosa e nella forma d’un dialogo platonico tra un anziano (sé stesso in versione
analfabeta) ed un giovane a volte un po’ lento a capire il testo intitolato “Trattato
di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d’un vecchio idiota
ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o
schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de’ costumi”.

Giovanni Della Casa, nato il 28 giugno 1503 al Mugello , figlio di Pandolfo e
Lisabetta Giovanfrancesco Tornabuoi, si è sempre definito fiorentino. Fin da
giovane venne introdotto negli ambienti più raffinati della Firenze rinascimentale
e strinse ottimi rapporti, oltre che di parentela, con la famiglia Rucellai, la quale
ebbe un ruolo fondamentale nel finanziare i grandi artisti della pregevole città.

All’età di 21 anni si trasferisce a Bologna per seguirvi gli studi di legge, ma la sua
grande passione resterà per tutta la vita la poesia. Frequentò il circolo letterario
di Girolamo Casio de’Medici si appassionò di greco e latino seguendo le lezioni di
retorica e poetica. Frequentò il sodalizio culturale dei Vignaiuoli, in cui
personaggi illustri, come la sorella di Baldassarre Castiglione, si dilettavano a
vergare verso satirici e divertenti.

L’opera, il cui lungo titolo è sintetizzato con “Galateo”, venne scritta tra il 1550 e
il 1555, periodo in cui il Della Casa divenne padre di Quirinetto. Probabilmente
desiderava che suo figlio, fatto educare dalla famiglia Quirini, crescesse bene e in
modo morale seguendo le regole ivi descritte, a differenza dei suoi nipoti che a
parer suo sembravano dei bifolchi. Questo libro è nato grazie alle conversazioni
sulla buona educazione avute dall’autore con Galeazzo (in latino Galateo)
Florimonte, vescovo di Sessa. In quegli anni Giovanni Della Casa iniziava a patire
i primi tormenti della gota e si rifugiò presso la badia dei conti di Collalto, a
Nervesa, nel trevigiano, i quali appartenevano a quella raffinata cerchia di nobili
e colti, amanti del buon costume del ben vestire, tanto graditi a Della Casa in
quanto contrapposti alla rozzezza medievale che ancora non s’era riusciti ad
estirpare dalle masse.

Il fatto che ad impartire le lezioni di buon costume al giovane sia un illetterato, è
fondamentale: Giovanni Della Casa intende così mostrare che il buon
comportamento è accessibile a chiunque, a prescindere dalla classe sociale e dalla
ricchezza. Per ottenere un miglioramento dell’intera società non serve avere
pochi nobili eruditi e ben educati, bensì è necessario provvedere alla diffusione
delle buone usanze anche presso gli strati più disagiati della popolazione.

Quest’opera è infatti ben diversa dal libro di Baldassarre Castiglione dal titolo Il
cortigiano, pubblicato nel 1528, in cui offre consigli su come, mediante il ben
parlare, si possa entrare a far parte della cerchia degli amici intimi del principe.
Della Casa non vuole insegnare a sedurre l’interlocutore e compiacere gli astanti
medianti giochi ingegnosi di parole e conversazioni amabili, bensì desidera che il
lettore possa interiorizzare i precetti della buona educazione divenendo un
cittadino, e un uomo, migliore e più buono.
Il libro è suddiviso in 30 piccoli
capitoli, ognuno dei quali tratta di un tema differente, sempre inerente il corretto
comportarsi in società. Mediante una trasposizione delle tesi architettoniche
vitruviane nell’ambito comportamentale, Della Casa asserisce che la bellezza, la
grazia e la proporzione si ritrovano non solo nei corpi e nella natura, ma in ogni
favellare e operare umano. Avendo studiato retorica latina e stilistica poetica,
l’autore ha molto a cuore il ben parlare, sia per ciò che riguarda i toni, che
devono essere dolci e pacati, che ciò che riguarda le parole, che non devono
essere né rozze né sconce.

In seguito a questo periodo giocoso e dionisiaco, in cui produsse le sue prime
opere letterarie, pentito della sua condotta amorosa eccessivamente lasciva,
Giovanni della Casa si avvicinò al clero e, nel 1534, all’età di 31 anni, venne eletto
Chierico della Camera apostolica da papa Paolo III. 
In quegli anni pubblicò anche
un libricino, dal titolo An uxor sit ducenda, in cui s’interroga se s’abbia da
prender moglie o meno. Giunto alla conclusione d’esser nato sfortunato in amore
decise di guadagnarsi, mediante l’impegno religioso e letterario, fortuna sociale.
Ben presto entrò nelle grazie della famiglia Fernese e presto assurse alle
maggiori cariche ecclesiastiche: divenne tesoriere vaticano e, nel 1544, venne
mandato a Venezia in veste di Nunzio pontificio. Iniziò un’assidua lotta contro le
eresie e contro la riforma protestante che stava sconvolgendo l’Europa. Ben
presto il ruolo religioso divenne anche politico, e si impegnò a promuovere
l’alleanza della repubblica di Venezia col Re di Francia contro agli spagnoli e
Carlo V, ma ebbe scarsi successi. 
Di fatto, nelle sue poesie, la spiritualità appare
pagana e neoclassica, ossia in contrapposizione al suo personaggio politico e
sociale. Se ne può evincere che la sua adesione al clero sia stata un atto politico e
razionale anziché una scelta mossa da genuini sentimenti religiosi e irrazionali nei
confronti di dogmi del monoteismo biblico. In quegli anni si inaugurò anche il
concilio di Trento, per arginare l’eresia dilagante, e Della Casa si adoperò per far
mettere sul rogo molti presunti eretici, la cui accusa principale era quella di
nuocere al buon funzionamento della società con le loro teorie. Non li fece
bruciare per la fede che nutrivano nel loro intimo, bensì per lo squilibrio sociale
che andavano creando.

In più capitoli ribadisce che il parlare debba essere sottoposto a un buon uso,
giacché è inutile sapersi tenere bene a tavola se si adopera il turpiloquio o se ci si
mostra eccessivamente verbosi impedendo agli altri di esprimersi. Gli
interlocutori, infatti, annoverano tra loro i troppo verbosi, i pomposi, i vacui e i
troppo silenziosi. Al fine di evitare questi eccessi, o queste mancanze, è
fondamentale esercitare la virtù del discernimento, che permette di scovare il
giusto mezzo aristotelico, ossia la virtù dell’equilibrio tra le parti. Nel settimo
paragrafo si concentra invece sulla questione del ben vestire, e celebre è l’inizio
che recita “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua
età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente”.

Fondamentale, infatti, è la cura dell’abito, adeguata all’età, al contesto e alla
condizione di chi lo porta, al fine di mostrare rispetto nei confronti del prossimo.
Sia l’eccessivo sfarzo che l’eccessiva trascuratezza vengono infatti condannati,
così come lo spogliarsi in pubblico o l’allacciarsi le calze in mezzo alle altre
persone. 
Nel capitolo 26 il Della Casa dice che gli uomini differiscono dagli
animali proprio per via della loro capacità di riconoscere il bello e la giusta
misura, quindi è proprio affinando il gusto e la sensibilità che l’individuo riesce ad
elevarsi allontanandosi il più possibile dallo stadio bestiale. 

Il trattato si chiude
con le norme per stare a tavola e con la condanna dell’intemperanza nel bere,
divenute poi la base della buona creanza di un’Europa finalmente liberata dallo
stato di rozzezza, disordine, immoralità, eccessiva libertà e diseducazione. Non
resta che augurarsi che anche questa attuale Europa fatiscente, iperconsumistica,
rozza e capitalista possa essere rieducata in fretta!



Per approfondimenti:
_Giovanni della Casa, Rime, Bur edizioni, 1993, Milano;
_Giovanni Della Casa, Galateo, edizioni Einaudi, 2006.
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Le "tre conversioni" di Sant'Agostino nella splendida omelia di Benedett...

Terribili !!

Quali furono le visioni di Santa Veronica Giuliani?

Santa Veronica Giuliani (1660-1727, Urbino) fu accompagnata, nella sua vita, da molte visioni, alcune riguardanti l’Inferno: le più terribili che si siano mai raccontate.
Santa Veronica Giuliani
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La Vergine Maria le aveva detto: “Figlia (…), vi sono cristiani che vivono come le bestie; non vi è più fede nei fedeli, vivono come se Iddio non esistesse; (…) oh, quanti sacerdoti, poi, e quanti religiosi e religiose offendono Dio! Tutti costoro calpestano i Sacramenti, disprezzano il Preziosissimo Sangue di Gesù e lo tengono sotto i loro piedi”.

Santa Veronica Giuliani: la preghiera costante per le anime

Il compito di Santa Veronica sarebbe stato quello di pregare incessantemente, perché queste persone si rendessero conto di dover cambiare rotta, prima che potesse essere troppo tardi.
E, in merito alle visioni del luogo in cui gli infedeli di Cristo sarebbero finiti per l’eternità, ebbe a dire: “Parvemi che il Signore mi facesse vedere un luogo oscurissimo; ma dava incendio come fosse stata una gran fornace. Erano fiamme e fuoco, ma non si vedeva luce; sentivo stridi e rumori, ma non si vedeva niente; usciva un fetore e fumo orrendo, ma non vi è, in questa vita, cosa da poter paragonare”.  E Dio le disse che quel luogo non sarebbe mai scomparso, serviva, infatti, per dare  tormento, per mezzo dei demoni e delle loro torture, a coloro che avevano rinnegato, offeso, disobbedito a Dio.
“Mi parve che il Signore mi facesse capire, che quel luogo era l’Inferno e quelle anime erano morte e, per il peccato, erano divenute come bestie, che, fra esse, vi erano anche dei religiosi”.

Santa Veronica e il demonio

Ma Santa Veronica parlò anche di molte altre visioni del genere. In più di una, vide addirittura Satana: “Nel fondo dell’abisso vidi un trono mostruoso (…). Satana ci sedeva sopra nel suo indescrivibile orrore e da lì osservava tutti i dannati. (…) Notai che il muto cuscino della sedia erano Giuda ed altre anime disperate come lui”.
Coloro che accompagnavano Giuda erano prelati corrotti, religiosi che avevano mancato i loro voti ed avevano oltraggiato l’altare di Dio, con il loro comportamento equivoco e peccaminoso sulla terra.
In quanto ai castighi inferti alle anime dell’Inferno, dai demoni stessi, Santa Veronica parlò di verghe di fuoco battute sulla loro bocca e sulla testa, di spuntoni acuti nelle orecchie; i fulmini ne inceneriscono alcuni, che ritornano, poi, al loro aspetto iniziale, per essere arsi nuovamente: “Tutte le strade dell’inferno appaiono sparse di rasoi, di coltelli, di mannaie taglienti. E mostri, dovunque mostri. E una voce che grida: “Sarà sempre così. Sempre, sempre, sempre”.”.
Antonella Sanicanti

Pietro celebra l'Eucarestia in una riunione dei primi cristiani.



VOLUME X CAPITOLO 641



DCXLI. Pietro celebra l'Eucarestia in una riunione dei primi cristiani. 

   3 giugno 1944.
 
 1 È una delle primissime riunioni dei cristiani, nei giorni immediatamente seguenti alla Pentecoste.
   I dodici apostoli sono di nuovo dodici, perché Mattia, già eletto in luogo del traditore, è fra essi. E il fatto che vi sono tutti e dodici dimostra che non si erano ancora divisi per andare ad evangelizzare, secondo l'ordine del Maestro. Quindi la Pentecoste deve essere avvenuta da poco, e ancora non devono essere incominciate le persecuzioni del Sinedrio contro i servi di Gesù Cristo. Perché, se così fosse, non celebrerebbero con tanta calma, e senza prendere alcuna precauzione, in una casa sin troppo nota a quelli del Tempio, ossia nella casa del Cenacolo, e precisamente nella stanza dove fu consumata l'ultima Cena, istituita l'Eucarestia e iniziato il tradimento vero e totale, e la Redenzione.

   La vasta stanza ha però subìto una modificazione, necessaria alla sua nuova funzione di chiesa e imposta dal numero dei fedeli. Il tavolone non è più presso la parete della scaletta, ma presso, anzi contro quella di faccia, di modo che anche coloro che non possono entrare nel Cenacolo, già colmo di persone — nel Cenacolo, prima chiesa del mondo cristiano — possono vedere ciò che avviene in esso, pigiandosi, accalcandosi nel corridoio d'ingresso, presso la porticina, aperta completamente, che dà accesso alla stanza.

   Nella stanza vi sono uomini e donne di tutte le età. In un gruppo di donne, presso il tavolone, ma in un angolo, è Maria, la Madre, circondata da Marta e Maria di Lazzaro, da Niche, Elisa, Maria d'Alfeo, Salome, Giovanna di Cusa, insomma da molte delle donne discepole, ebraiche e anche non ebraiche, che Gesù aveva guarite, consolate, evangelizzate, fatte pecorelle del suo gregge. Fra gli uomini vi è Nicodemo, Lazzaro, Giuseppe d'Arimatea, moltissimi discepoli tra i quali sono Stefano, Erma, i pastori, Eliseo, figlio del sinagogo di Engaddi, e moltissimi altri. E vi è anche Longino, non in veste militare, ma come fosse un cittadino qualsiasi, con una lunga e semplice veste bigiognola. Poi altri, che certo sono entrati nel gregge di Cristo dopo la Pentecoste e le prime evangelizzazioni dei Dodici.

 2 Pietro parla anche ora, evangelizzando e istruendo i presenti. Parla ancora una volta dell'ultima Cena. Ancora, perché si capisce dalle sue parole che già altre volte ne ha parlato.
   Dice: «Vi dico ancora una volta», e marca molto queste parole, «di questa Cena in cui, prima di essere immolato dagli uomini, Gesù Nazareno, come era detto, Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore nostro, come va detto e creduto con tutto il nostro cuore e la nostra mente, perché in questo credere è la salvezza nostra, si immolò di sua spontanea volontà e per eccesso d'amore, dandosi in Cibo e Bevanda agli uomini e dicendo a noi, suoi servi e continuatori: "Fate questo in memoria di Me". E questo noi facciamo. Ma, o uomini, come noi, suoi testimoni, crediamo essere nel Pane e nel Vino, offerti e benedetti, come Egli fece, in sua memoria e per obbedienza al suo divino comando, il suo Corpo Ss. ed il suo Ss. Sangue, quel Corpo e quel Sangue che sono di un Dio, Figlio di Dio altissimo, e che sono stati sparsi e crocifissi per amore e vita degli uomini, così voi pure, voi tutti, entrati a far parte della vera, nuova, immortale Chiesa, predetta dai profeti e fondata dal Cristo, lo dovete credere. Credete e benedite il Signore che a noi — suoi, se non materiali, certo morali e spirituali crocefissori per la nostra debolezza nel servirlo, per la nostra ottusità nel capirlo, per la nostra viltà nell'abbandonarlo fuggendo nella sua ora suprema, nel nostro, no, nel mio personale tradimento di uomo pauroso e vile al punto di rinnegarlo, e negarlo, e negarmi suo discepolo, il primo anzi tra i suoi servi (e grosse lacrime scendono a rigare il volto di Pietro), poco avanti l'ora di prima, là, nel cortile del Tempio — credete e benedite, dicevo, il Signore, che a noi lascia questo eterno segno di perdono. Credete e benedite il Signore che, a coloro che non lo conobbero quando era il Nazareno, permette che lo conoscano ora che è il Verbo Incarnato ricongiunto al Padre. Venite e prendete. Egli lo ha detto: "Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue avrà la Vita eterna". E noi allora non capimmo (e Pietro piange di nuovo). Non capimmo perché eravamo tardi d'intelletto. Ma ora lo Spirito Santo ha acceso la nostra intelligenza, fortificato la nostra fede, infuso la carità, e noi comprendiamo. E nel Nome del Dio altissimo, del Dio di Abramo, di Giacobbe, di Mosè, nel Nome altissimo del Dio che parlò ad Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele e agli altri profeti, vi giuriamo che questa è verità e vi scongiuriamo di credere per poter avere la Vita eterna».

   Pietro è pieno di maestà nel parlare. Non ha più nulla del pescatore alquanto rozzo di solo poco tempo prima. È salito su uno sgabello per parlare e per essere visto e sentito meglio, perché, bassotto come è, se fosse rimasto coi piedi sul suolo della stanza non avrebbe potuto essere visto dai più lontani, ed egli vuole invece dominare la folla. Parla misurato, con voce giusta e gesti da vero oratore. I suoi occhi, sempre espressivi, sono ora più parlanti che mai. Amore, fede, imperio, contrizione, tutto traspare da quel suo sguardo e anticipa e rinforza le sue parole.

 3 Ha finito ormai di parlare. Scende dallo sgabello e passa dietro al tavolone nello spazio tra il muro e la tavola, e attende.
   Giacomo e Giuda, ossia i due figli di Alfeo e cugini del Cristo, stendono ora sulla tavola una candida tovaglia. Per fare questo sollevano il cofano largo e basso, che è posto al centro del tavolo, e anche sulla copertura di esso stendono un lino finissimo.

   L'apostolo Giovanni va ora da Maria e le chiede qualcosa. Maria si sfila dal collo una specie di chiavetta e la dà a Giovanni. Giovanni la prende, torna al cofano, lo apre ribaltando la parte che sta davanti, che viene appoggiata sulla tovaglia e ricoperta da un terzo lino.

   Nell'interno del cofano vi è una sezione orizzontale che lo divide in due piani. Nel piano più basso vi è un calice e un piatto di metallo. Nel piano più alto, al centro, il calice usato da Gesù nell'ultima Cena e per la prima Eucarestia, i resti del pane spezzato da Lui, deposti su un piattello prezioso come il calice. Ai lati del calice e del piattello posato su esso, da un lato è la corona di spine, i chiodi e la spugna. Dall'altro lato una delle sindoni, arrotolata, il velo con cui Niche asciugò il Volto di Gesù, e quello che Maria diede al Figlio perché se ne fasciasse i lombi. In fondo vi sono altre cose ma, dato che restano piuttosto nascoste e che nessuno ne parla e nessuno le mostra, non si sa cosa siano. Le altre, invece, e che sono visibili, vengono mostrate ai presenti da Giovanni e Giuda d'Alfeo, e la folla si inginocchia davanti ad esse. Però non vengono toccati e mostrati né il calice né il piattello del pane, e non viene spiegata tutta la sindone, ma solo mostrato il rotolo dicendo ciò che esso è. Forse Giovanni e Giuda non la dispiegano per non risvegliare in Maria il ricordo doloroso delle atroci sevizie subite dal Figlio.
   Finita questa parte della cerimonia, gli apostoli, in coro, intonano delle preghiere, direi dei salmi, perché sono cantati come usavano gli ebrei nelle loro sinagoghe o nei loro pellegrinaggi a Gerusalemme per le solennità prescritte dalla Legge. La folla si unisce al coro degli apostoli, che diviene in tal modo sempre più imponente.

 4 Infine vengono portati dei pani e vengono posti sul piattello di metallo che era nel piano inferiore del cofano, e anche delle piccole anfore pure di metallo.
   Pietro riceve da Giovanni, che è inginocchiato al di là della tavola — mentre Pietro è sempre tra il tavolo e il muro, rivolto però verso la folla — il vassoio coi pani, lo alza e lo offre. Poi lo benedice e lo posa sul cofano.
   Giuda d'Alfeo, stando anche lui inginocchiato a fianco di Giovanni, porge a sua volta a Pietro il calice del piano inferiore e le due anfore che erano prima presso il piattello dei pani, e Pietro mesce il contenuto di esse nel calice, che poi alza e offre come già fece col pane. Benedice anche il calice e lo posa sul cofano a fianco dei pani.

   Pregano ancora. Pietro spezza i pani in molti bocconi, mentre la folla si prostra più ancora, e dice: «Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di Me».
   Esce da dietro il tavolo, portando seco il vassoio carico dei bocconi dei pani, e per prima cosa va da Maria e le dà un boccone. Poi passa sul davanti del tavolo e distribuisce il Pane consacrato a quanti gli si avvicinano per averlo. Ne avanzano pochi bocconi, che vengono, sempre sul loro vassoio, deposti sul cofano.
   Ora prende il calice e lo offre, sempre cominciando da Maria, ai presenti. Giovanni e Giuda lo seguono con le anforette e aggiungono i liquidi quando il calice è vuoto, mentre Pietro ripete l'elevazione, l'offerta e la benedizione per consacrare il liquido.
   Quando tutti coloro che chiedevano di cibarsi dell'Eucarestia sono accontentati, gli apostoli consumano il Pane e il Vino rimasti. Indi cantano un altro salmo o inno, e dopo di questo Pietro benedice la folla, che, dopo la sua benedizione, se ne va poco a poco.

 5 Maria, la Madre, che è sempre rimasta in ginocchio durante tutta la cerimonia della consacrazione e della distribuzione delle specie del Pane e del Vino, si alza in piedi e va al cofano. Si curva attraverso al tavolone e tocca con la fronte il piano del cofano, dove è deposto il calice e il piattello usato da Gesù nell'ultima Cena, e depone un bacio sull'orlo di essi. Un bacio che è anche per tutte le reliquie lì raccolte.
   Poi Giovanni chiude il cofano e rende la chiave a Maria, che se la ripone al collo.

AMDG et DVM

4 stagioni

 

Si legge nel secondo libro dei Maccabei: «Venne il tempo in cui il sole, che prima era nascosto dalle nuvole, cominciò a risplendere, e si accese un gran fuoco con grande meraviglia di tutti» (2Mac 1,22).

    Considera che nell'anno ci sono quattro stagioni, cioè l'inverno, la primavera, l'estate e l'autunno. 

L'inverno consuma, la primavera pianta e semina, l'estate miete e trebbia, l'autunno vendemmia. 

L'inverno durò da Adamo fino Mosè, e in quel tempo tutto fu consumato, distrutto. Dice infatti l'Apostolo: «Da Adamo fino a Mosè regnò la morte» (Rm 5,14). 

La primavera durò da Mosè fino a Cristo, e in quel tempo la Legge fu per così dire seminata e impiantata, ed essa produsse soltanto i fiori, come promessa del frutto. 

L'incarnazione di Cristo portò l'estate, e fu il tempo nel quale il sole, che prima era coperto di nubi, era cioè nel seno del Padre, incominciò a splendere su di noi: e in quel tempo ci fu la mietitura e la trebbiatura. «Ecco, dice Gesù, io vi dico: Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano di messi. E chi miete riceve il salario e raccoglie il frutto per la vita eterna» (Gv 4,35-36). 

E poi ci sarà l'autunno, nel quale gli acini e le vinacce saranno gettate nello sterquilinio dell'inferno, e il vino raffinato sarà riposto nelle cantine del regno dei cieli.