lunedì 9 marzo 2020

Bellissima conferenza sul Santo Rosario

  1. “Le glorie del Rosario” di padre Gabriele Roschini


Padre Gabriele Roschini (1900-1977), sacerdote dell’Ordine dei Servi di Maria, fu uno dei maggiori mariologi del secolo XX. Tenuto in gran conto da Pio XII, fu Consultore del Sant’Offizio e della Congregazione dei Riti. Attivissimo nella proclamazione dommatica della Assunzione, fu ferventissimo sostenitore delle verità mariane della Mediazione e Corredenzione e della loro definizione dogmatica al Vaticano II. Il progetto fu affossato dai modernisti: secondo l’espressione del padre Congar (poi Cardinale wojtyliano) bisognava porre fine alla febbre mariana! Produsse all’incirca 900 opere, tutte caratterizzate da un impianto concisamente tomista, fra le quali hanno particolare rilievo la Mariologia in 4 volumi (1948)e il Dizionario di Mariologia (1961). Tra il 1946 al 1947 tenne per la Radio Vaticana una serie di dotte e al tempo stesso piacevoli Conferenze Mariane, donde è tratto anche il testo che oggi proponiamo ai lettori. Buona Lettura!

È sintomatico ciò che si racconta del celebre letterato incredulo Giovanni Bovio. Un giorno vide fra le mani della sua vecchia madre un Rosario. Con accento pieno di stizza e di disprezzo, “Getta via – le disse – quel rudere superstizioso che hai continuamente fra le mani!”. E così dicendo, con gesto giacobini, le strappò dalle scarne mani il Rosario e lo ridusse in frantumi. La vecchia madre lo fissò sospirando; abbassò gli occhi e poi si chiuse nel cupo silenzio del dolore. Ma da quel giorno in poi la vecchietta non stette più bene. Fu notato che deperiva ogni giorno più, fino a raggiungere uno sfinimento mortale. Il figlio impressionato, le chiese: “Ma che cosa hai, mamma?”. Ed ella: “Mi hai strappato via dalle mani il Rosario e non hai saputo darmi nulla che potesse sostituirlo nel mio continuo sollievo che esso arrecava al mio spirito fra le tante tribolazioni della vita”. Il figlio, che non era poi uno stupido, comprese. Restituì all’agonizzante genitrice l’oggetto prezioso e la vide rifiorire.
In questa vecchia e tribolata donna non è difficile ravvisare l’umanità. Figli snaturati, travolti dall’incredulità e dall’empietà, han cercato e cercavano di toglierle di mano il Rosario, ossia, la fede viva in quei grandiosi misteri di gaudio, di dolore e di gloria meditati nel S. Rosario. E per riuscire nel loro bieco intento si son serviti di ogni mezzo: dall’irrisione e dal sarcasmo alla violenza cieca e brutale. Le conseguenze? L’umanità si è vista in preda a parossismi inauditi e spaventosi, a lunghe e dolorose agonie, ed è giunta fino alla soglia della morte. Volete che si riabbia, che rifiorisca? Mettetele nuovamente in mano il Rosario, fonte inesausta ed inesauribile di vita, perché fonte inesausta ed inesauribile di fede, di speranza, di amore, di ogni bene, di ogni grazia.
Come la rosa è la regina dei fiori, così il Rosario, che da essa si denomina, è la regina di tutte le devozioni. Lo è per più titoli. Il Rosario infatti è la devozione più cara al cuore della Vergine. Ce lo assicura uno dei più grandi santi mariani, S. Alfonso M. de Liguori: “Tra gli omaggi che rendiamo alla Santa Vergine, non ne conosco alcuno che più le piaccia, della recita del Rosario”. Il Rosario, inoltre, è la più perfetta forma di preghiera che si conosca, poiché unisce in se stessa i pregi dell’orazione vocale (con la recita dell’Ave Maria, dei Pater noster e dei Gloria Patri) e quelli dell’orazione mentale (con la meditazione dei 15 misteri, i principali misteri della vita, passione e morte di Cristo, ai quali fu sempre unita intimamente Maria).
L’eccellenza delle preghiere vocali che compongono il Rosario è evidente. Si può forse immaginare preghiera più bella, più perfetta del Pater noster, la preghiera composta e insegnataci da Gesù Cristo? Si può forse immaginare una preghiera più soave dell’Ave Maria, una preghiera composta da tre Santi: S. Gabriele, S. Elisabetta e la S. Chiesa? Si può forse immaginare un inno più breve e più bello alla SS. Trinità, fonte primaria d’ogni bene, di quello è chiamato Gloria Patri?
Né meno eccellente è la preghiera mentale, costituente, con i 15 misteri del Rosario, una vera sintesi sia del dogma che della morale cristiana. Sintesi del dogma perché in essi sono ricordati i principali fatti della vita di Cristo ai quali è così intimamente e indissolubilmente legata Maria, fatti che sono l’oggetto della nostra fede e che servono mirabilmente a ritemprarla e a rinvigorirla. Sintesi della morale cristiana, poiché questi 15 misteri contengono in se stessi gli atti di tutte le virtù cristiane di modo che costituiscono come altrettante lezioni pratiche, persuasive che trascinano, con la forza dell’esempio, sulla via del bene. Non senza ragione il Rosario è stato chiamato “l’anno liturgico in miniatura”, “la sintesi di tutto il Vangelo”, sintesi del dogma e della morale, e perciò norma infallibile di pensiero e di vita. Mettere nelle mani dei fedeli il Rosario, equivale a mettere nelle loro mani la sintesi stessa del Vangelo. Essa – al dire del Monsabré – “è la più grande forza che Iddio abbia posto al servizio della pietà cristiana, dopo il Santo Sacrificio della Messa”.
Per questa la leggenda, la quale – è bene ricordarlo – fiorisce sempre ai margini della storia, vi ha intessuto sopra tanti delicati ricami, l’ha circondato di tante iridescenza divine e l’ha impregnato di celesti fragranze.
Per questo noi lo troviamo nelle mani di tutti gli uomini veramente grandi. Lo troviamo nelle mani gagliarde dei guerrieri. Con questa spada infatti Giacomo I di Aragona, Ferdinando III di Castiglia, Alfonso X e Giovanni XI riportarono sopra i Mori strepitose vittorie. Filippo II di Spagna, in memoria dei prodigi ottenuti, consacrava solennemente l’intero suo regno a Maria, e rivolgeva al figlio quelle parole rimaste celebri nella storia: “Se vuoi ben governare e difendere i tuoi Stati, sii fedele al Rosario. In hoc signo vinces!“.
Al Rosario i Veneziani attribuirono la celebre vittoria di Lepanto contro le trecento formidabili galere turche, di modo che la Repubblica di Venezia, scriveva: “Non virtus, non arma, non duces; sed Maria Rosarii victores nos fecit” . “Non la forza, non le armi, non il talenti dei capitani, ma la Madonna del Rosario ci ha resi vincitori”. E tuttora nel Palazzo Ducale di Venezia si possono leggere queste parole scritte sotto le grandiose tele che rappresentano i punti più salienti della battaglia di Lepanto.
Al Rosario, Giovanni Sobieski, più che ai suoi venticinquemila soldati improvvisati coi quali aveva recitato prima della battaglia la devota preghiera, attribuì la vittoria di Vienna, contro i duecentocinquantamila Turchi, e più avventurato di Cesare scrisse: “Venni, vidi, la Madonna del Rosario ha vinto!”.
Col Rosario in mano e con altrettante torce accese Luigi XIII condusse i suoi soldati all’assalto della piazzaforte della Rochelle, tra i sogghigni beffardi dei Calvinisti, i quali esclamavano: “Guardate i bigotti della Madonna! …. Oh! le Ave Maria dei loro Rosari non faranno certo cadere le mura della nostra fortezza!”. Ma le Ave Maria di quei Rosari rasero al suolo la fortezza e i tracotanti vennero tratti a migliaia sulla forca o in fondo alla Bastiglia.
La Madonna del Rosario si identifica con la Madonna delle Vittorie. Dire Rosario è dire Vittoria.
Lo vediamo dunque, il Rosario tra le auguste mani dei re, dei principi e dei nobili. Leopoldo I lo recitava ogni giorno. Amedeo Conte di Savoia, l’anno 1366 istituiva l’Ordine dei Cavalieri di Maria (che da tre secoli ha preso il nome dell’Annunziata) legati col nodo d’amore e dal famoso moto f.e.r.t. (forse fraternitas equestris Rosarium tenentium). I cavalieri erano 15, in memoria dei 15 misteri del Rosario, del quale ciascuno si obbligava a recitare una posta. Il nodo d’amore era costituito da 15 collari d’argento, che i cavalieri cingevano, qual simbolo del Rosario, vero nodo d’amore che li legava perennemente a Maria. Emanuele Filiberto, nel 1570, aggiunse ai Cavalieri il Sovrano, chiamato allora Supremo Maestro, e il Principe Ereditario.
Lo troviamo, il Rosario, tra le mani dei capi di Stato. Così Daniel O’ Connel, l’eloquente ed eroico vindice della libertà irlandese, si preparava ai suoi meravigliosi discorsi in favore della sua cattolica Irlanda recitando liberamente nel Parlamento Inglese il Rosario. I comizi da lui organizzati dovunque per la libertà della fede Romana, li iniziava sempre con la recita in comune del Rosario. Anche Garcia Moreno, l’eroico presidente dell’Equatore, si mostrò sempre attaccatissimo al Rosario.
Lo vediamo il Rosario, tra le mani degli scienziati e dei letterati. Rosmini, Manzoni, Bonghi si riunivano non di rado a bella posta per recitare insieme il Rosario. Alessandro Volta – a cui dobbiamo le meraviglie dell’elettricità – non solo lo recitava divotamente ogni giorno, ma lo faceva recitare ai suoi coloni e all’intera popolazione del suo paese in chiesa, ogni domenica. Augusto Conti l’aveva carissimo, lo recitava ogni giorno e vi scrisse sopra uno dei suoi libri più belli.
Lo vediamo, il Rosario, tra le mani degli artisti. Mozart, dopo il trionfale successo delle sue prime sinfonie, recita in ringraziamento il Rosario, da lui promesso alla Madonna. Anche Haydin si ispira al Rosario. “Quando la mia composizione – scriveva – non vuol continuare, mi metto a passeggiare per l camera col Rosario in mano, ne recito qualche Ave e allora le idee mi si affollano alla mente”. Cose simili si leggono di Gounand e di Gluck.
Lo vediamo soprattutto, il Rosario, tra le mani dei santi, gli uomini più equilibrati della terra. Quale santo non lo aveva quasi di continuo fra le mani?
Lo vediamo, quindi, il Rosario, tra le mani di tutti, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, chierici e laici, giovani e vecchi. Per tutti è fonte di inesauribile di luce, di forza, di conforto, di eroismo.
Per questo la letteratura d’ogni tempo e d’ogni nazione, ricollegandosi al primo poeta della Vergine – l’Arcangelo Gabriele – l’ha cantato con vere ondate di lirismo, mediante strofe riflettenti l’alato splendore del celeste Messaggero. “O corona di rose – diceva Maestro Sigher nel secolo XIII – o intreccio di gioie, le tue lodi causano emozioni sublimi”. Per il letterato Edoardo Hutton, il Rosario “è una corona non di spine ma di vivi gioielli, consistente nelle quindici perle del Padre nostro, dei quindici rubini dei Gloria Patri e dei centocinquanta zaffiri degli Ave, legate nel puro oro dei quindi misteri gloriosi, dolorosi, gaudiosi, della vita e morte di Nostro Signore; il tutto collegato insieme attorno alla croce”.
Per questo l’arte fiorita – si può dire – tra le braccia della Vergine e del suo Fanciullo divino, nell’impeto della sua pienezza emotiva, ha popolato la terra di tele soavi riproducenti la Vergine nell’atto di porgere ai mortali quella Corona di grazie. Basti pensare un istante alle mirabili tele del Ghirlandaio, del Botticelli, del Lippi, del Perugino, del Durer, del Cranach, del Barocci, ecc.
Per questo la Vergine nelle celebri apparizioni di Lourdes e di Fatima si è presentata col Rosario tra le mani ed ha raccomandato tanto questa sua mistica corona di Rose.
Per questo ben 48 Pontefici, con Bolle, decreti, ecc. han sempre accordato a questa santa devozione fin dal suo primo apparire, tanto fervore di consensi, tanto ardore di raccomandazioni. Basti ricordare le 12 Encicliche di Leone XIII sul Rosario e l’Enciclica “Ingravescentibus malis” di Pio XI, l’utlima dell’immortale Pontefice. Pio XII, gloriosamente regnante, teneva sul Rosario uno dei suoi più geniali discorsi.
Quale divino poema dunque il Rosario! …
Ho incominciato questa mia conferenza con un poeta incredulo, Giovanni Bovio; terminerò con un poeta credente, Arrigo Boito. Nei mirabili versi della “Gioconda”, rivestiti di melodie celestiali dal Ponchielli, Arrigo Boito ha ritratto una toccante scena di pietà mariana: la cieca madre della Gioconda la quale regala a Laura la propria corona del Rosario dicendole: “A te questo Rosario – che le preghiere aduna – Io te lo porgo; accettalo – ti porterà fortuna!”.
Altrettanto, un’altra madre, la madre di tutti, la Chiesa, par che ripeta domani *, festa del Rosario, a tutti i suoi figli: A te questo Rosario! … Esso è un dono preziosissimo, poiché è un compendio del Vangelo, una corona di mistiche rose che profumerà la tua mente e il tuo cuore … Accettalo … Recitalo quotidianamente! … Porgi ogni giorno a Maria questa mistica corona di rose! … Ti porterà fortuna! Poiché ti riempirà di ogni bene; ti preserverà da ogni male; ti difenderà contro tutti i tuoi spirituali nemici che compiono tutti gli sforzi per allontanarti dal bene e per spingerti al male.
Esso è la sola arma sulla quale si legge scritta la magica scritta: “Vittoria”.

(Padre Gabriele Maria Roschini dei Servi di Maria, Conferenze Mariane trasmesse dalla Radio Vaticana, Rovigo, 1952, pp. 73-81)
*La conferenza fu trasmessa la sera del 6 ottobre 1947
AMDG et DVM

ECCO L'IMMACOLATA

“L’Immacolata” 

di padre Gabriele Roschini



Padre Gabriele Roschini (1900-1977), sacerdote dell’Ordine dei Servi di Maria, fu uno dei maggiori mariologi del secolo XX. Tenuto in gran conto da Pio XII, fu Consultore del Sant’Offizio e della Congregazione dei Riti. Attivissimo nella proclamazione dommatica della Assunzione, fu ferventissimo sostenitore delle verità mariane della Mediazione e Corredenzione e della loro definizione dogmatica al Vaticano II. ... Produsse all’incirca 900 opere, tutte caratterizzate da un impianto concisamente tomista, fra le quali hanno particolare rilievo la Mariologia in 4 volumi (1948) e il Dizionario di Mariologia (1961). Tra il 1946 al 1947 tenne per la Radio Vaticana una serie di dotte e al tempo stesso piacevoli Conferenze Mariane.Questa conferenza sull’Immacolata che proponiamo alla meditazione dei nostri lettori fu trasmessa la sera del 6 dicembre 1946. Buona Lettura!

Una donna completamente investita dai raggi del sole, anzi tutta «rivestita di sole» (quale fu veduta dal «rapito in Patmo Evangelista»): ecco l’Immacolata! … Se è vero che la luce è opposta alle tenebre; se è vero che nell’ordine spirituale – come insegna l’Angelico – la grazia è luce e le tenebre sono peccato, dev’essere anche vero che Colei la quale ci si presenta tutta investita dalla luce della grazia, ci presenti del tutto come del tutto immune dalle tenebre della colpa, ossia Immacolata.

Immacolata! Non si pensa e non si può pensare in modo diverso Colei dal seno della quale, come dal seno dell’alba, sorse il sole di giustizia, Gesù. Non si pensa e non si può pensare in modo diverso Colei che è il Cielo sopra la terra, Colei che doveva essere «la degna abitazione di Dio», l’arbitra dei destini del mondo, il capolavoro della potenza, della sapienza e della bontà Divina. E tale – Immacolata – l’ha concepita sempre la più genuina tradizione cristiana, costantemente suffragata dal pio senso dei fedeli, che superò, non di rado, l’intuizione, o meglio, il ragionamento dei più grandi Teologi.

Ci è fisicamente impossibile percorrere, attraverso i venti secoli cristiani, le varie testimonianze relative al dogma dell’Immacolata. Non voglio tuttavia passare sotto silenzio due testimonianze davvero singolari e – diciamolo pure – poco conosciute: quella di Maometto e quella di Lutero, di cui ricorre quest’anno l’infausto centenario della sua morte [l’eretico Sassone morì il 18 febbraio 1546, ndr].

Maometto e Lutero: i due più fanatici capovolgitori dei più sacri valori religiosi e morali, non hanno trovato difficoltà a chinare il capo superbo dinnanzi all’Immacolata. Singolare omaggio di fede – si tratta di un mistero in senso stretto – da parte di due traviati e traviatori di enormi masse popolari. Segni evidente che è quasi impossibile pensare alla Vergine Madre di Dio senza immaginarsela tutta pura, tutta candida, tutta bella: in una parola Immacolata. È lo stesso buon senso che lo reclama. Così è avvenuto in Maometto e in Lutero.

Nelle Sure o Capitoli III, IV, V, XIX, XX, e XXXIII del suo Corano Maometto (571-632) attribuisce a Maria, con qualche alterazione, quegli stessi privilegi di maternità divina, di verginità e di santità che le vengono attribuiti dal cristianesimo. Né diverso è il suo atteggiamento nei riguardi dell’Immacolata Concezione.
Nella Sura III, egli mette sulle labbra di Anna, Madre di Maria, queste parole: «Io l’ho chiamata Maria, e a te (o Signore) io raccomando essa e la sua posterità; perché tu la preservi da Satana il Lapidato». In queste parole, non pochi dottori Moslemi, interpreti del Corano, vedono indicata la preservazione di Maria dalla colpa originale.

Così il celebre commentatore turco Cottada scrive: «Ogni uomo che nasce da Adamo è ferito nel fianco pel tocco di Satana, quando egli viene nel mondo, all’infuori di Gesù e di sua Madre; poiché Iddio pose fra loro e Satana un velo, di modo che il toccamento di Satana si affermò nel velo e non giunse fino ad essi in nessuna parte. Oltre di che fu a noi raccontato che né l’uno né l’altra commise mai alcun peccato, come invece fanno gli altri figlioli di Adamo». In termini equivalenti si esprimono Gelal, Ahmed, Abuhercira, Naui ed altri dottori Moslemi. La testimonianza resa da Maometto all’Immacolata è tra le più antiche, ed è tratta di peso dalla tradizione cristiana del secolo VI.

Lutero è ancora più esplicito di Maometto. Nel 1516 egli credeva fermamente all’Immacolato Concepimento di Maria. «Ella – diceva – è la sola goccia d’acqua (Stilla Maris) veramente pura nel vasto oceano della massa perditionis». E ne indicava la ragione dicendo: «Era al sommo conveniente e giusto che la persona della Santa Vergine fosse preservata dal peccato originale. Non doveva forse Essa dare a Cristo la carne che avrebbe trionfato di ogni peccato?» (Verke, Weimar, t. I, p. 107). Nel 1517 riteneva ancora una tale verità (Werke, Erlange, t. 15, p. 38). 
Dopo il 1528, in una nuova edizione del suo Discorso sopra l’Immacolata Concezione, fece togliere il passo relativo all’Immacolata, poiché «Maria – diceva – è nata da parenti peccatori e nel peccato come tutti noi» (l. c. f. VI, p. 433). Ciò nonostante, nelle Enarrationes seu postillae Martini Lutheri maiores, stampate a Basilea precisamente quattro secoli fa, nel 1546 (l’anno stesso della morte di Lutero) il buon senso ebbe di nuovo il sopravvento e a pagina 375 si legge: «L’Angelo Gabriele diceva a Maria: “Tu sei benedetta fra le donne”. Orbene, egli non avrebbe potuto dire “tu sei benedetta”, se per qualche istante fosse stata soggetta alla maledizione. D’altra parte era conveniente, era giusto che fosse preservata dal peccato originale Colei nel cui seno doveva incarnarsi Cristo per espiare i peccati di tutti. Beato infatti propriamente si dice colui che è fornito del dono della grazia divina, cioè, che è senza peccato».
Il giornale l’Espérance di Nancy , ci fa sapere che nel 1855, allorché i Protestanti si sollevarono contro il nuovo dogma definito da Pio IX, i cattolici della Germania e della Francia per ridurli al silenzio si appellarono al suddetto testo di Lutero. Sono queste – direbbe Tertulliano – «testimonianze dell’anima naturalmente cristiana» e aggiungiamo noi, di conseguenza, «naturalmente mariana».
L’Immacolata è un astro di prima grandezza acceso dalla mano stessa di Dio sul mistico orizzonte dell’umanità, non solo per adornarlo, ma anche per illuminarlo e salvarlo.
      Mi tornano alla mente i robusti versi di Giovanni Papini all’Immacolata: «Tu che calpesti il serpente e la morte – cambia del mondo la faccia e la sorte!». L’Immacolata ha tutta la forza per farlo.
Ed infatti quale e quanta pioggia di luce candida e fecondatrice Ella fa discendere sull’individuo e sulla società!
L’Immacolata diffonde nuova candida luce sull’individuo facendogli sempre meglio conoscere qual è il suo vero male, la radice di tutti gli altri mali che han desolato e che vanno ancora desolando la terra: il peccato. L’ineffabile odio di Dio per il peccato, fonte di tutti gli altri mali, è tale – come osserva Pio X nell’Enciclica “Ad diem illum” – da sentirsi spinto a far sì che la sua futura Madre del suo divin Figlio non solo fosse esente da qualsiasi colpa attuale come anche da quella che tutti i figli di Adamo, per funesta eredità, contraggono per necessità di natura. 
Era più che conveniente infatti che il torrente limaccioso del peccato originale, il quale ha invaso e continua ad invadere tutta la terra, deviasse, per improvviso cenno della destra di Dio, davanti a quella elettissima pianta che avrebbe dovuto produrre il mirabile frutto risanatore dell’inferma umanità. Cosa singolare, eccezionale. Ma che cosa non è singolare, eccezionale in Maria? … Non è essa, per dirla con Pio IX nella Bolla “Ineffabilis”, l’ineffabile prodigio di Dio, anzi il vertice di tutti i prodigi, nel triplice ordine della natura, della grazia e della gloria? … Cosa degna di tutta la nostra riflessione: Dio non ha voluto preservare la Madre sua dalla povertà, dall’umiliazione, dal dolore più straziante. L’ha preservata invece dalla colpa. In tal mondo Egli ha voluto far comprendere all’uomo che la colpa è un male incomparabile più grande di qualsiasi altro male. Ma se il peccato è l’unico vero male, fonte di tutti i mali, la grazia è l’unico vero bene, fonte di tutti i beni.
Iddio infatti non ha voluto concedere alla sua dilettissima Madre né ricchezze, né gioie, né onori terreni. Le ha dato, invece, fin dal primo istante della sua esistenza, la grazia, anzi la pienezza della grazia. In tal modo Egli ha voluto far comprendere all’uomo che la grazia è un bene incomparabilmente più prezioso di qualsiasi altro bene. Fuga dal peccato e ricerca della grazia sono i due grandi ammaestramenti dell’Immacolata all’individuo. Ecco la candida luce ch’Ella fa piovere così abbondantemente sulla sua mente e sul suo cuore. Ad Essa – all’Immacolata – più che Dante a Beatrice, deve rivolgere lo sguardo ogni cristiano per elevarsi e trasformarsi.
L’Immacolata inoltre ha fatto e continua a far piovere la sua candida luce sopra la società civile. Le frenetiche convulsioni alle quali è in preda la società da due secoli, affondano le loro radici in qual naturalismo che, dopo aver innalzato l’uomo oltre le stelle, l’ha sprofondato negli abissi. L’uomo-angelo, ossia l’uomo naturalmente buono di Rousseau; l’uomo-bestia, ossia l’uomo naturalmente cattivo di Machiavelli, sono due miti, due opposte mostruose creazioni sorte dal naturalismo negatore dell’ordine soprannaturale, vale a dire, della elevazione dell’uomo al fine soprannaturale (la visione di Dio a faccia a faccia) mediante la grazia santificante, della perdita di questa grazia santificante, della perdita di questa grazia santificante a causa del peccato dei nostri progenitori e della trasmissione di questo peccato a tutti i loro naturali discendenti, eccezion fatta per la Vergine alla quale venne applicata preventivamente la redenzione di Cristo.
Orbene, il dogma dell’Immacolata proclamato dal Pontefice Romano in un epoca di pieno naturalismo ha in se stesso la forza per soppiantare questo mostruoso errore che sta alla base di tutte le deviazione delle società moderne. L’Immacolata infatti ci dice che esiste un peccato originale che ha inquinato la nostra natura e che esiste una redenzione ordinata a risanare le ferite dell’umanità prodotte dal peccato. Colpa e Redenzione. 
Col primo dogma l’uomo viene a conoscere intimamente se stesso; col secondo invece viene a conoscere intimamente Cristo. 
Col primo viene a trovare una piena ed esauriente spiegazione del tremendo mistero del dolore che dal primo peccato in poi non ha cessato di torturare, per punirlo, tutto il genere umano; col secondo viene invece a vedere la mirabile fecondità del dolore divinizzato, in un certo senso, nell’adorabile persona di Cristo e da Lui stesso elevato a strumento di redenzione e di vita. 
Col primo l’uomo viene a comprendere il doloroso perché di quella lotta continua che sperimenta in se stesso fra l’appetito sensitivo e l’appetito razionale, tra il male che ci abbassa e il bene che ci eleva, lotta che si riflette anche fuori di lui suscitando odi, dissensi, guerre, distruzioni; col secondo invece l’uomo impara che la forza per riuscire vincitori nella lotta tremenda che sconvolge individui e nazioni ci può venire solo da Colui che si è fatto nostro Redentore, dalla grazia che Egli ci ha riconquistato e che diffonde sulle anime attraverso quei sette canali da Lui istruiti. 
Tutto questo ha insegnato e insegna alla sconvolta società moderna il radioso dogma della Immacolata. Il giorno in cui essa comprenderà queste sublimi e pratiche lezioni coinciderà col giorno della sua resurrezione e della sua salvezza.
https://www.radiospada.org/2018/12/limmacolata-di-padre-gabriele-roschini/
a cura di Giuliano Zoroddu
AVE MARIA PURISSIMA!

Dopo Lourdes...

Dopo Lourdes chiude pure la Basilica della Natività a Betlemme

Dopo Lourdes chiude pure la Basilica della Natività a Betlemme
A darne notizia è Avvenire: L’emergenza coronavirus continua ad allargarsi. Le autorità palestinesi, su indicazione del ministero della Sanità locale, hanno stabilito dopo la scoperta di 4 sospetti casi di coronavirus in un albergo nella zona di Betlemme la chiusura di tutte le chiese e le moschee per i prossimi 14 giorni nel governatorato di […]

REGINA IN COELUM ASSUMPTA

“L’Assunzione e la vita spirituale”. 


Un articolo del padre Roschini

Padre Gabriele Roschini (1900-1977), sacerdote dell’Ordine dei Servi di Maria, fu uno dei maggiori mariologi del secolo XX. Tenuto in gran conto da Pio XII, fu Consultore del Sant’Offizio e della Congregazione dei Riti. Attivissimo nella proclamazione dommatica della Assunzione, fu ferventissimo sostenitore delle verità mariane della Mediazione e Corredenzione e della loro definizione dogmatica al Vaticano II. Il progetto fu affossato dai modernisti: secondo l’espressione del padre Congar (poi Cardinale wojtyliano) bisognava porre fine alla febbre mariana! Produsse all’incirca 900 opere, tutte caratterizzate da un impianto concisamente tomista, fra le quali hanno particolare rilievo la Mariologia in 4 volumi (1948)e il Dizionario di Mariologia (1961). Il suo articolo che oggi andiamo a riprendere e a porgere alla lettura e meditazione dei nostri Lettori comparve poco dopo la proclamazione dommatica dell’Assunzione (1° novembre 1950) su Rivista di vita spirituale, 5, (1, 1951), 13-26.
L’Assunzione, il nuovo astro acceso fin dall’eternità dalla mano di Dio e che il 1° novembre 1950, alle ore 9,44, ha incominciato a brillare, in tutta la pienezza del suo fulgore, sul mistico orizzonte della Chiesa, diffonde su tutta la vita spirituale una luce talmente viva da potersi dire un vivo riflesso di quella «luce intellettual piena d’amore – amor di vero ben pien di letizia – letizia che trascende ogni dolzore»[1]. Che cosa è infatti la vita spirituale, ossia, la vita della grazia sopra la terra se non un germe, un felice inizio della vita della gloria nel cielo? Ciò posto, come la vita di gloria nel cielo, così la vita di grazia sulla terra, può essere sintetizzata da tre grandi parole: luce, amore, letizia: luce intellettual piena d’amore; amor di vero ben pien di letizia; letizia che trascende ogni dolzore. Sia la vita della grazia che la vita della gloria (la quale sboccia dalla vita della grazia) è vera vita spirituale: imperfetta quella della grazia, perfetta quella della gloria. Luce di visione «facie ad faciem» quella della vita della gloria; luce di chi vede «per speculum in aenigmate» quella della vita della grazia. Amore beatifico, quello del possesso di Dio, sommo bene, quello della vita di gloria; amore mescolato di sacrificio (perché costretto a sacrificare tutto ciò che ad esso si oppone) quello della vita di grazia.
Letizia piena, perfetta, quella della vita di gloria; letizia imperfetta, quantunque verace, quella della vita di grazia. Pallido riflesso, dunque, della luce della vita del cielo, la luce che diffonde l’Astro dell’Assunzione sulla vita spirituale, della terra: luce che illumina, riscalda, letifica: illumina la mente, riscalda il cuore, letifica tutta la vita spirituale.
“Luce intellettual piena d’amore”
Tale, innanzi tutto, è la luce diffusa sulla vita spirituale dall’astro della Assunzione: luce che illumina la mente. La illumina intorno a vari dogmi che sono, per se stessi, generatori della pietà, alimento sostanzioso, soprannaturale della vita spirituale. 
Basta dare un rapido sguardo alla formula stessa con la quale il Supremo Pastore ha definito, come «dogma rivelato da Dio», l’Assunzione corporea di Maria SS.: «l’Immacolata Madre di Dio sempre Vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo»
In questa formula vengono enumerate le tre verità mariane definite già come dogma di fede: l’Immacolata Concezione (definita l’8 dicembre 1854), la maternità divina (definita il 22 giugno 431 nel Concilio di Efeso) e la perpetua verginità di Maria (definita in varii Concilii). A questi tre dogmi già definiti, se ne aggiunge un quarto: l’Assunzione di Maria SS. in anima e corpo alla gloria celeste. Si noti l’ordine con cui i tre precedenti dogmi mariani — base solidissima dei quarto — vengono enunciati: l’Immacoláta Concezione, la Maternità Divina e la perpetua verginità di Maria
Il primo dogma — l’Immacolata — è come la radice prossima dell’Assunzione e perciò viene menzionato per primo. L’immunità dalla colpa originale, infatti, esige l’immunità dalla pena della colpa originale: la morte. Per questo, nella Costituzione Apostolica «Munificentissimus Deus» si dichiara espressamente che il privilegio dell’Immacolata Concezione e quello della Assunzione sono uniti in modo strettissimo: «Arctissime enim haec duo privilegia inter se conectuntur». Assunta, dunque, perché Immacolata. Chi aveva iniziato la sua vita (fin dal primo istante) negli splendori della grazia non poteva non terminarla (fin dall’ultimo istante) nei fulgori della gloria. La gloria è sempre proporzionata alla grazia. Alla «pienezza di grazia» del primo istante, non poteva non corrispondere una «pienezza di gloria» nell’ultimo istante della vita terrena, e la «pienezza di gloria» è inconcepibile senza la glorificazione di tutto il composto umano, vale a dire, sia dell’anima che del corpo. — Il secondo dogma mariano — la divina maternità — è, si può dire, la ragione remota dell’Assunzione, in quanto cioè la maternità divina è la radice dell’Immacolata Concezione (che è, a sua volta, radice prossima dell’Assunzione), come lo è di tutti i singolari privilegi profusi dalla sapienza, dalla potenza e dalla bontà di Dio in Colei che doveva essere il suo Capolavoro. I vincoli, infatti, di ordine fisico, morale e dinamico che legano indissolubilmente la Madre divina al suo Figlio divino, esigono sia l’Immacolata Concezione che l’Assunzione: logicamente prima però l’Immacolata Concezione (l’immunità dalla colpa) e poi l’Assunzione (l’immunità dalla pena, ossia, il trionfo sopra la morte). — Il terzo dogma mariano — la perpetua verginità di Maria — può dirsi ragione remotissima dell’Assunzione, in quanto appare inconcepibile che quella integrità verginale, richiesta dalla maternità divina, miracolosamente rispettata nel concepimento e nella nascita del Figlio di Dio, sia poi stata profanata dallo sfacelo della morte e dalla corruzione della tomba. I tre dogmi precedenti perciò ci appariscono come le tre ragioni, le tre basi del quarto: Assunta perché Immacolata, perché Madre di Dio, perché Vergine perpetua.
Ma se la connessione dei tre primi dogmi mariani col quarto fa risplendere di nuova luce verità già definite, astri che già da tempo brillano, in tutto il loro fulgore, sul mistico firmamento della Chiesa, il quarto dogma mariano, la Assunzione, illumina in modo tutto particolare la trascendente ed affascinante personalità di Maria al termine della sua vita terrena. Basta esaminare, anche qui, i termini della definizione per intuirne la singolare virtualità dogmatica in essi racchiusa. Si tratta, infatti, di una celeste glorificazione non solo dell’anima — come per tutti gli altri Santi al termine della loro vita terrena — ma anche del corpo. Questa «gloria celeste» sia dell’anima che del corpo, secondo la fede e la Teologia, importa: 1) per l’anima della Vergine una singolarissima intensità della visione di Dio a faccia a faccia, proporzionata ai suoi singolarissimi meriti; e un singolarissimo amore coronato da un singolarissimo gaudio beatifico, proporzionato alla singolarissima intensità della visione; 2) per il corpopoi, l’Assunzione importa tutte le qualità di un corpo glorioso, descritte splendidamente da San Paolo[2], qualità che i Teologi riducono a quattro: l’impassibilità, la sottigliezza, l’agilità e lo splendore[3]. In tal modo il corpo verginale di Maria — come il corpo di tutti i Santi dopo la Resurrezione, alla fine dei tempi — risente e riflette la suprema bellezza e l’ineffabile gaudio dell’anima.

Quanta «luce intellettuale» non diffonde dunque sulla mente del cristiano il dogma dell’Assunzione!… Ma questa luce — è bene rilevarlo — è una luce «piena d’amore» poiché in essa si riflette nel modo più vivo l’amore singolare di Dio per Maria, ossia, Dio stesso, chiamato giustamente dall’Alighieri «il Primo Amore». Tutto, infatti, in Maria, come del resto in tutti gli altri esseri, è effetto dell’amore divino. Poiché l’amore di Dio — come osserva acutamente S. Tommaso[4] — differisce radicalmente dall’amore dell’uomo. Mentre l’amore dell’uomo suppone (non pone) la bontà della cosa amata, l’amore di Dio invece pone (non suppone) la bontà delle cose ch’Egli ama, vale a dire, causa nelle persone e nelle cose amate quella bontà stessa per cui le ama. In tutto ciò che esiste, quindi, si vede riflesso l’amore di Dio. Ma è facile intendere come quest’amore di Dio si rifletta in modo tutto singolare in Colei in cui «s’aduna — quantunque in creatura è di bontade»[5]. Con ragione perciò la singolare luce che diffonde l’astro dell’Assunzione sulle menti di tutti i cristiani può essere chiamata «luce intellettual piena d’amore». Tutti questi dogmi, irradiati così bene dal nuovo dogma dell’Assunzione, non possono non generare nell’anima del cristiano una soda vita spirituale, se è vero — come è verissimo — che i dogmi generano ed alimentano la pietà, che la soda pietà fiorisce solamente sul robusto tronco del dogma.
“Amor di vero ben, pien di letizia”
La luce intellettuale emanante dall’astro dell’Assunzione e nella quale si riflette così vivamente il singolare amore di Dio per Maria, mentre illumina la mente non può non riscaldare il cuore dei cristiani, spingendoli così ad una vita spirituale sempre più intensa compendiata nell’«amor di vero ben», ossia, nell’amore del Bene supremo, Iddio, e di tutti gli altri beni per Iddio.
L’Assunzione, infatti, non è altro che il termine felicissimo della vita terrena di Maria e l’inizio felicissimo della sua vita celeste, nella gloria dell’anima e del corpo, nella pienissima unione col Sommo Bene. È quindi, per se stessa, un invito materno ad un distacco generoso, col cuore, dalla terra e dalle vane cose terrene, ossia, dal falso bene; è un invito ad uno slancio vigoroso verso il cielo e le cose celesti, ossia verso il vero bene; è un invito ad un’intima unione con Dio, vero bene. «Assumpta est ut assumat»: è stata «Assunta per assumere», disse con frase lapidaria Pietro Abelardo[6].
Le tre classiche, vie o età della vita spirituale (purgativa, illuminativa ed unitiva) si concretizzano in quelle tre cose alle quali ci richiama di continuo l’Assunzione, vale a dire: il distacco della terra (via purgativa), lo slancio verso il cielo (via illuminativa) e l’unione perfetta con Dio, sommo Bene (vita unitiva). Che cosa è infatti, in concreto, – l’Assunzione, se non un distacco completo dalla terra, uno slancio verso il cielo, una pienissima unione con Dio?
1.- Distacco dal falso bene. ossia, dalle creature
Il primo richiamo dell’Assunzione è precisamente quello del distacco (via purgativa). La Vergine SS. che lascia la terra e le varie cose terrene, alle quali non era mai stata minimamente attaccata durante tutta la sua vita terrena, invita maternamente tutti i suoi figli a compiere generosamente questo distacco del cuore da tutto ciò che non è Dio, vero e infinito, e che perciò non ci può rendere pienamente felici, non può appagare le nostre tormentose aspirazioni ad un vero e ad un Bene infinito. È infatti l’attaccamento alla terra e alle vane cose terrene che ci distacca da Dio Sommo Bene. Ossia: è l’attaccamento ad una parvenza di felicità (ricchezza, onori e piaceri) che ci distacca dalla realtà della felicità (Dio). I disordinati appetiti che ci trascinano verso la terra e le cose terrene, sono veri carnefici mascherati, da amici, promettitori di felicità e datori d’infelicità. Tutti gli appetiti disordinati — insegna S. Giovanili della Croce — oltre a privare l’anima dello spirito di Dio, le arrecano cinque danni: la stancano, la tormentano, l’accecano, la macchiano e la indeboliscono. La stancano: «Tutte le creature — Egli dice — sono come briciole dalla mensa di Dio cadute; e quindi è giustamente chiamato cane chi va pascendosi delle creature. Che perciò con ogni ragione, a guisa de’ cani, sono sempre famelici; perché i bricioli servono più ad attizzare l’appetito che a soddisfare la fame». La tormentano: «Come chi tira un carro all’insù, così cammina verso Dio l’anima che non iscuote da sé il pensiero delle cose del mondo, e non nega i suoi appetiti». La accecano: «Siccome i vapori oscurano l’aria, e non lasciano risplendere il sole, non altrimenti l’anima presa dagli appetiti rimane ottenebrata secondo l’intelletto, e non dà luogo, onde il sole della ragione naturale e della sapienza divina soprannaturale la investano, ed illustrino di splendore». La macchiano: «Doppiamente fatica l’uccello avvischiato, cioè in distaccarsi e in ripulirsi; come in due maniere pena chi il suo appetito compiace, vale a dire in distaccarsi, e, dopo d’essersi sciolto, in purgarsi da ciò che gli rimane attaccato. In quella «guisa che comparirebbero i tratti di fuligine sopra un viso molto bello e perfetto, medesimamente gli appetiti disordinati lordano e macchiano l’anima, la quale è in sé una bellissima compiuta immagine di Dio. Chi toccherà la pece, dice lo Spirito Santo, ne sarà intriso: ed allora tocca uno la pece, quando soddisfa in qualche creatura l’appetito della sua volontà». La indeboliscono: «Gli appetiti sono come i germogli, che intorno l’albero nascono, e gli tolgono il vigore, perché non metta tanti frutti. Non vi è tristo umore che tanto grave renda ad un infermo il camminare e tanto odioso il cibo, quanto l’appetito delle creature rende l’anima lenta e svogliata nel seguir la virtù. Molte anime non sentono desiderio d’esercitare le virtù, perché hanno gli appetiti men puri e da Dio alieni»[7].
S’impone perciò una lotta continua, decisa contro questi appetiti, contro queste potenti spinte verso la terra e verso tutte le vane cose terrene. Per riuscire vittoriosi in questa lotta purificatrice è necessario seguire fedelmente l’aureo consiglio di S. Giovanni della Croce: «Vivi in questo mondo come se altri non vi fosse quaggiù che Dio e l’anima tua, acciocché non possa il tuo cuore da veruna cosa umana essere trattenuto»[8]. È la via regia percorsa sempre, durante tutta la sua vita terrena da Maria SS. Assunta. Per Lei esisteva una sola grande realtà: DIO. Tutte le altre cose per Lei erano come se non esistessero; meglio: esistevano solo in quanto dicevano ordine a Dio, loro primo principio e loro ultimo fine. Viveva quindi in un continuo, completo distacco dalla terra e dalle vane cose terrene. In Lei perciò non vi fu mai nulla da purgare, nulla da purificare, poiché immune dagli appetiti disordinati e perciò mai inclinata, mai spinta, mai macchiata dalle vane cose terrene. Sforzarsi di raggiungere, nel nostro lavoro di purificazione, ossia, di distacco dalla terra, questo sublime ideale è come incominciare a sentirsi assunto dall’Assunta.
2.- Slancio verso il vero bene, ossia, verso il Creatore
Il secondo richiamo dell’Assunta, è lo slancio verso il cielo e verso le cose celesti, dietro l’esempio di Lei e di una vera legione di anime che, in ogni tempo, l’hanno fedelmente seguita (via illuminativa). Come il distacco dalla terra e dalle cose terrene allontana l’anima dalla terra, così lo slancio verso il cielo e le cose celesti, dietro l’esempio dell’Assunta, avvicina a Dio e all’intima unione con Lui. Anche la Vergine Assunta, perciò, può ripetere con Cristo: «Qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitae»[9]. In tal modo al lato negativo delle virtù (distacco dalla terra), si aggiunge il lato positivo delle medesime: lo slancio verso il cielo, seguendo la via tracciata da Maria SS., la quale è «la faccia che a Cristo più si assomiglia»[10] non solo nei lineamenti fisici ma anche, e sopratutto, nei suoi lineamenti morali, nell’esercizio delle virtù. Per ciò fare, è necessario che Maria, dopo Cristo — di cui è il più fedele ritratto — diventi come il centro della nostra vita, ossia, è necessario che i nostri pensieri, i nostri affetti e le nostre azioni vengano come a polarizzarsi intorno a Maria e, per mezzo di Maria, intorno a Cristo. «Dacchè conobbi Gesù Cristo — diceva Lacordaire — nulla mi parve più abbastanza bello da guardarlo con concupiscenza»[11]. Altrettanto, fatte le debite proporzioni, si può dire di Maria. Quando si è giunti a conoscerLa in tutta la sua affascinante bellezza, non si può non pensare di continuo a Lei, amare Lei, operare con Lei e per  Lei. La sua trascendente bellezza eclissa tutte le altre bellezze  create. Il suo corpo glorificato, nel giorno dell’Assunzione, non può non strappare, all’anima che la contempla, quel grido di ammirazione amorosa uscito dal petto dei tre Apostoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) dinanzi al Corpo trasfigurato di Cristo sul Tabor: «Bonum est nos hic esse»[12]. Maria SS., insieme a Cristo, divenuta centro di tutta la nostra vita, sarà come la molla più potente che ci spingerà ad imitare Colei che è il prototipo dì tutte le virtù, sia teologali che morali. Poiché la sua vita, da sola — come asserì S. Ambrogio — è il modello di tutte le vite: «cuius unius vita omnium sit disciplina»[13].
Ma vi è un mistero, nella vita di Maria, che, più di qualsiasi altro, invita alla pratica della fede, della speranza e della carità, le tre virtù teologali che sono come l’anima, il perno della vita spirituale: l’Assunzione. Questo mistero, infatti, spinge ad una vita di fede nell’esistenza di una vita ultraterrena dopo il tramonto della vita presente; spinge ad una vita di speranza nel premio eterno, nella futura glorificazione, sia dell’anima che del corpo; spinge ad una vita di amore verso Dio, «vero e Sommo Bene» e verso il prossimo onde assicurarci, al termine della vita terrena, un premio così grande ed una glorificazione così sublime.
3.- Unione col vero bene, ossia, col Creatore
Il terzo richiamo dell’Assunzione, è un invito alla piena unione con Dio. Distaccata l’anima dalla terra, slanciata verso il Cielo mediante l’imitazione della vita di Cristo e di Maria, diventa matura per una vita d’intima e abituale unione con Dio, per mezzo di Cristo e di Maria: di Cristo, nostro Capo e di Maria, collo che unisce tutti i vari membri del mistico corpo al suo Capo. Questa unione si effettua con l’amore, giunto però a tale grado da far sì che gli atti di tutte le altre virtù non siano che atti di amore. Un tale amore spinge l’anima a compiere di continuo tutto e solo ciò che piace all’Amato, e a ripetere quindi con Cristo: «Quae placita sunt ei facio semper»[14]. È il nulla unito al tutto, il nulla nel pieno, abituale possesso del tutto. Nessuno, meglio di S. Giovanni della Croce, ha saputo darci un’idea così viva e luminosa del tutto del Creatore e del nulla delle creature e dell’unione intima della creatura col suo Creatore mediante la cosiddetta notte dei sensi e delle facoltà dell’anima. La salita del Carmelo e la notte oscura dell’anima ci si presentano come due opere indispensabili per penetrare, nell’intimità dell’unione divina e nella cognizione dei mezzi che ad essa conducono. Nella Salita del Carmelo, il S. Dottore osserva che, allorché l’anima si attacca, mediante l’amore, alle cose create, non solo diventa simile ad esse, ma diventa inferiore ad esse, poiché incatenato da esse, schiavo di esse e perciò minore di esse. Per comprendere il nulla di tutte queste cose create è necessario comprendere il tutto di Dio. La bellezza e bontà delle cose create si offuscano e scompariscono dinanzi alla infinita bellezza e bontà di Dio. Solo quando e perché Iddio si comunica alla creatura, questa diventa qualcuno, qualche cosa. ossia, bella, buona, per cui il nulla acquista tratti di somiglianza col tutto, che è Dio. Ciò che impedisce al nulla delle creature di unirsi al tutto, non è il nulla stesso delle creature, poiché il nulla, per se stesso, appunto perché nulla, non presenta e non può presentare resistenza alcuna. Ciò che impedisce l’unione del nulla col tutto è costituito dal fatto che la creatura ama qualche cosa che non è Dio, per cui trasferisce al nulla di una creatura l’omaggio dovuto solamente al tutto del Creatore. In tal modo la creatura diventa men che nulla, peggiore del nulla, poiché oppone il suo affetto sregolato per le creature all’affetto che Dio ha per Lei ed a quello ch’essa dovrebbe avere per Lui. Questo disordine, distruggendo nell’uomo il regno del tutto, impedisce l’unione dell’anima con Lui, con Dio. Perché la creatura possa unirsi al Creatore è necessario ch’essa riconosca il suo nulla, o meglio, si riduca al nulla, e riduca tutte le altre cose al loro nulla, tenendo sempre dinanzi al suo sguardo il tutto, l’unico tutto di Dio, distaccando il cuore da tutte le cose create, mortificando le proprie passioni disordinate che lo inclinano verso le creature, onde evitare di tributar loro quell’omaggio che è dovuto unicamente al Creatore.
Questa unione del nulla col tutto non è altro — secondo il Dottore mistico — che «la rassomiglianza che la volontà dell’uomo contrae con la volontà di Dio, di modo che l’anima dell’uomo voglia tutto ciò che Iddio vuole, e non già tutto ciò che non è conforme alla volontà di Dio». Questa unione quindi — com’è evidente — viene formata, conservata e sviluppata dall’amore. Risultano perciò vari gradi di unione secondo i vari gradi di amore, i quali, a loro volta, dipendono dal vario grado di grazia e dal vario grado di corrispondere alla grazia, ossia, dal vario grado di sforzo che l’anima fa per distaccarsi dal nulla delle creature per unirsi al tutto del Creatore. Il supremo grado di unione — la trasformazione dell’anima in Dio — è corrispondente al supremo grado di amore, poiché l’amore trasforma l’amante nella persona amata, in modo tale da accontentare tutti i gusti della persona amata, per la quale soltanto sente di vivere e di operare. Ed era precisamente questa l’unione — un’unione trasformante — quella che ebbe la Vergine SS. con Dio, col suo tutto, fin dal primo istante della sua personale esistenza, e che andò sempre crescendo, col crescere dell’amore, fino all’ultimo istante della sua vita terrena, nel momento dell’Assunzione, allorché la sua unione con Dio, mediante la visione beatifica, divenne perfetta e perenne. Distaccata completamente da se stessa e dal nulla delle creature, Ella fu sempre, in modo sempre più stretto, attaccata, unita al Creatore (al suo tutto). A differenza della Vergine SS., tutti gli altri, per giungere alla più intima unione con Dio, debbono passare attraverso la cosiddetta notte dei sensi, dello spirito, della memoria e della volontà. Notte dei sensi, innanzi tutto, ossia, delle passioni o inclinazioni disordinate (eccitate dai sensi esteriori) che si riferiscono ad essi, mediante la mortificazione la quale uccide in noi l’uomo vecchio. In che modo? Dandosi «sempre alle cose, non più facili, ma più difficili; non più saporose, ma più insipide; non più aggradevoli, ma più disaggradevoli; non a quelle che  consolano, ma a quelle che affliggono; non a quelle che danno del riposo, ma a quelle che recano della pena; non alle più grandi, ma alle più piccole; non alle più sublimi e alle più preziose, ma alle più basse e alle più spregevoli. Finalmente vuolsi desiderare e cercare ciò che vi ha di peggiore, non ciò che di migliore, affin di mettersi per amore di Gesù Cristo nella privazione di tutte le cose del mondo, ed entrare nello spirito di una nudità perfetta»[15]. In tal modo i sensi vengono immersi nella notte più profonda, senza riflessi di falsa luce; e su questa notte profonda risplende fulgida la luce di Dio. Notte dello spirito, ossia dell’intelletto, della parte più luminosa dell’anima, non già distruggendola, ma richiamandola con i lumi soprannaturali della fede che ha per oggetto Dio non proprio come esistente, ma come esistente per la nostra vera felicità. per gradire i nostri omaggi e per darcene la meritati ricompensa. Notte della memoria, liberandola dal ricordo delle vane e pericolose cose create per presentarla libera a Dio e alle cose divine. Notte della volontà, che è la parte più preziosa di noi, mortificando le sue sregolate affezioni (la gioia, la speranza, il dolore, il timore) onde portare l’amore verso Dio e la conseguente unione con Lui al più alto grado possibile. Si cambia così il nulla delle creature col tutto del Creatore. La via dunque per raggiungere il più alto grado di unione con Dio, è l’«amore di vero bene», nel suo più alto grado. Ed è a questo, sopratutto, che c’invita l’Assunta.
Ma questo «amor di vero bene», appunto perché di «vero bene», non può non essere «pieno di letizia», di vera, autentica letizia. La letizia, infatti, la gioia, risulta dal possesso di un bene: se questo bene è vero, la letizia è vera; se poi questo bene è falso, la letizia è falsa. L’unico vero bene, il bene Sommo, è Dio. Egli è il tutto; il resto è nulla. Solo quindi nel possesso di Dio — imperfetto in questa via, perfetto nell’altra — si può trovare la vera letizia.
“Letizia che trascende ogni dolore”
La letizia che si prova nel cielo, nel perfetto «amore di vero bene» è incomparabilmente superiore a quella che si prova sulla terra nell’imperfetto «amore dì vero bene». Questa letizia, tuttavia, supera incomparabilmente qualsiasi altra letizia che si possa gustare sopra la terra. Solo chi l’esperimenta può rendersene pienamente conto. Essa è un saggio di quella perfetta letizia che provano i Santi nel regno della gloria di qui[16] il grande monito e il sapiente paradosso del Dottore mistico: «Per gustar tutto, non abbi gusto per cosa alcuna».
La funzione particolare di questa letizia nella vita spirituale è della massima importanza. È essa, infatti, quella che dilata il cuore, questo centro motore, e ci permette di percorrere col maggiore slancio la via stretta, spinosa che conduce alla meta. È essa che ci dà il coraggio per affrontare e risolvere situazioni difficili, per superare gli ostacoli. È essa che suscita e moltiplica le energie spirituali per combattere e vincere. «Romam petentibus — diceva Annibale ai suoi soldati diretti alla conquista dell’Urbe — nil arduum esse potest». Con maggiore ragione l’Assunta, la Madre universale, può ripetere a tutti i suoi figli: «A coloro che tendono alla conquista di una letizia che trascende ogni dolore, non vi può essere nulla di difficile».
Vivere il mistero dell’Assunzione equivale a vivere la vita spirituale.
Poste, dunque, le molteplici e fondamentali relazioni che intercorrono fra l’Assunzione e la vita spirituale, ne consegue che vivere il mistero dell’Assunzione equivalga a vivere la vita spirituale. Quanto più si vivrà il mistero dell’Assunzione, tanto più si vivrà la stessa vita spirituale.

[1] Par. XXX, 41-3.
[2] 1 Cor 15.
[3] Cfr. Sum. C. G., IV, 80-85; Sum. Theol., Suppl., qq. 75-86.
[4] Sum. Theol., I, q. 20, a. 2.
[5] Par. XXXIII, 17-8.
[6] Serm. 26, PL. 178, 545 D.
[7] Cfr. S. Giovanni della Croce, Opere complete, Vol. II; p. 411-413, Genova, 1859. Nell’ultima edizione della «Libreria Fiorentina», vedasi la dottrina esposta in Salita del Monte Carmelo, L. 1, cc. 7-10.
[8] L. c. p. 436.
[9] Gv 8, 12.
[10] Par., XXXIII, 85.
[11] Cfr. CHOCARNE, Vìta del P. Lacordaire, t. II, Firenze.
[12] Mt 18, 4.
[13] De Virginibus, 1, 2, C, 2, n. 15, PL. 16, 221.
[14] Gv 8, 29.
[15] Salita del Carmelo, l. 1, cap. 13.
[16] L. c.
AMDG et DVM

domenica 8 marzo 2020

AVETE VOI LA DEVOZIONE AL SANTISSIMO NOME DI GESU'?

“Fate tutto nel Nome di Gesù”. Un’infuocata predica di San Leonardo da Porto Maurizio

La devozione al Santissimo Nome di Gesù, antica invero quanto la Chiesa, è tuttavia legata alla predicazione dei Francescani del Quattrocento, in modo particolare a San Bernardino. Per questo offriamo alla meditazione dei Lettori uno stralcio di un’infuocata predica di un altro francescano, San Leonardo di Porto Maurizio (1676-1751), attorno al Divin Nome e all’importanza di esserne devoti.
La cosa che bramo da voi è una tenerissima devozione verso il Santissimo e soavissimo Nome di Gesù. Questo è quel gran Nome, conforme udiste, sopra ogni nome, in cui nos oportet salvos fieri, e senza di cui non vi è salute. Oh Nome Sacratissimo, Nome di pace, Balsamo di vita, che fu il centro di tutti i sospiri dei più ferventi amanti di Gesù. Il segno di chi ama veramente Gesù è di portar Gesù impresso nel cuore e nominare spesso e con devozioni il Santissimo Nome di Gesù. S. Paolo Apostolo l’aveva sì impresso nell’anima, che a tutte le ore l’aveva ancora sulla lingua e sulla penna, e ben cinquecento volte nomina nelle sue Epistole il Santissimo Nome di Gesù. 
Oh che bel linguaggio! Ignazio Martire lo portava impresso a lettere d’oro in mezzo del cuore. Oh che bel ricamo! Il B. Enrico Susone se l’improntò nel petto con un temperino a caratteri di sangue. Oh che bell’intaglio! Il mio Bernardino da Siena fu il primo, che l’esponesse in cifra a pubblica venerazione e col Santissimo Nome di Gesù in mano ammollì i cuori più duri, convertì i peccatori più ostinati, e riformò quasi che l’Italia tutta, e dappertutto voleva veder scolpita quella cifra amorosa del Santissimo Nome di Gesù sulle porte delle case, a capo del letto, sul frontespizio delle Chiese,  dappertutto voleva veder scolpito e dipinto il Santissimo Nome di Gesù. 
Questo per appunto è quel che bramo da voi, miei dilettissimi ascoltanti, che tutti tutti facciate scolpire o dipingere sulle porte delle vostre case il Nome Santissimo di Gesù. Ed ecco che ve ne mostro il modello … Deh non mi negate questa grazia, che tutta ridonderà in vostro bene. Predicando il nostro glorioso S. Bernardino nella città di Ferrara assalita da una fiera pestilenza, esortò tutti alla devozione e venerazione del Santissimo Nome di Gesù, e tutti quei cittadini si accesero talmente di sì bella Devozione che posero il Santissimo Nome di Gesù sulle porte delle loro case, e con ciò restarono liberi dal mal contagioso. 
L’istessa grazia ottennero quei di Padova, che a persuasione del Santo abbracciarono sì santa Devozione; e in Camaiore, terra della Repubblica di Lucca, promise il Santo, che se avessero scolpito, e dipinto il Santissimo Nome di Gesù sulle porte delle loro case mai sarebbero stati assaliti dalla peste e, conforme promise, così è successo, benché in vari tempi tutti i luoghi circonvicini siano stati desolati da simil flagello. 
Che dite, dilettissimi? avrete voi ripugnanza a questo poco d’incomodo? Ma ponderate di grazia il gran bene che ne proverrà a tutte le vostre case, siate pur certi , che in quelle case, sulle porte delle quali si vedrà dipinto o scolpito il Santissimo Nome di Gesù, non vi sarà più che temere, né di streghe, né di malìe, né d’infortuni di sorte veruna. Oh da quanti fulmini, da quanti disastri andranno libere le vostre case! Cento dunque, cento, e mille volte benedette quelle case, che porteranno in fronte il Santissimo Nome di Gesù, e guai a quelle case, dove non si vedrà Gesù! sarà un nido del demoni, e sarà soggetta a mille disgrazie. 
Via su fate a gara a chi lo fa dipinger più bello, né vi perdete tempo, sin da domani spiegate una sì bella Livrea del Santissimo Nome di Gesù. Oh che luogo benedetto sarà questo; veder tutte le case abbellite e santificate da questo Santissimo e Soavissimo Nome! E perché mi pare di vedervi tutti disposti, tutti infiammati di amore e devozione verso il Santissimo Nome di Gesù, prendo animo a concluder la Predica con quel bel sentimento dell’Apostolo. 
Omne quodcumque facitis in verbo, aut in opere, omnia in nomine Domini Nostri Jesu Christi facite. Sì sì tutto quello, che fate, tutto fatelo ad onore e gloria di Gesù, e nel Nome Santissimo di Gesù. Se uscite di casa, uscite con Gesù vostro domestico; se camminate per le vie, camminate con Gesù vostro compagno; se entrate in Chiesa, entrate con Gesù vostro Avvocato. Gesù sia con voi nei vostri lavori, Gesù sia tra voi nei vostri discorsi, Gesù sia per voi ne vostri riposi . 
Mai spunti il Sole, che non vi trovi con Gesù, né mai il sol tramonti, che non vi lasci con Gesù. Il Nome di Gesù sia il primo, che sul mattino vi apra la bocca, e il Nome di Gesù sia l’ultimo che su la sera ve la sigilli; acciocché Gesù sia quello, che raccolga l’anima vostra tra le sue braccia, quando darete l’ultimo respiro, morendo con Gesù sugli occhi, con Gesù in bocca, con Gesù nel cuore; e spero che vi riuscirà se sarete Fratelli della Congregazione dei veri amanti di Gesù e se farete dipingere o scolpire sull’uscio delle vostre case il Santissimo Nome di Gesù. Via su, in segno che volete ubbidire, che volete far tutto dite tutti tre volte ad alta voce: VIVA GESÙ, VIVA GESÙ, VIVA GESÙ!

(Prediche quaresimali del B. Leonardo da Porto Maurizio Minore Riformato e Missionario Apostolico del Ritiro di San Bonaventura in Roma, Vol. III, Assisi, 1806, pp. 325-328)