"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
venerdì 5 luglio 2019
giovedì 4 luglio 2019
Il grande ideale della nostra generazione
PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA
Perchè rimango nella Chiesa
In queste considerazioni è già data la risposta di principio alla domanda che ci siamo posti: sono nella Chiesa perché credo che, ora come prima e a prescindere da noi, dietro la “nostra Chiesa” vive la “ Sua Chiesa”, e che io non posso stare vicino a Lui se non rimanendo vicino e dentro la Sua Chiesa. Sono nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che nel profondo essa non sia nostra, bensì proprio “Sua”.
In termini molto concreti: malgrado tutte le sue debolezze umane, è la Chiesa che ci dà Gesù Cristo e solo grazie a essa noi possiamo riceverlo come una realtà viva, potente, che mi sfida e mi arricchisce qui e ora. Henri De Lubac ha espresso così questa circostanza: “Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo? […] Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l’efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona? […] “Senza la Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga , disgregarsi, scomparire. E che cosa sarebbe l’umanità se si togliesse Cristo?”. Questa ammissione elementare deve essere posta all’inizio: per quanto ci sia o ci sia stata infedeltà nella Chiesa, per quanto sia vero che essa ha costantemente bisogno di misurarsi su Gesù Cristo, non vi è alcuna contrapposizione definitiva tra Cristo e la Chiesa.
E’ attraverso la Chiesa che egli rimane vivo, superando la distanza della storia, ci parla oggi, ci è oggi vicino come nostro maestro e Signore , come nostro fratello che ci rende fratelli. Soltanto la Chiesa, dandoci Gesù Cristo, rendendolo vivo e presente nel mondo, facendolo rinascere continuamente nella fede e nelle preghiere degli uomini, dà all’umanità una luce, un sostegno e un criterio, senza i quali il mondo non sarebbe più concepibile.
Chi vuole la presenza di Gesù Cristo nell’umanità, non la può trovare contro la Chiesa, ma solo in essa.
In questo modo è chiarito anche il punto successivo. Io sono nella Chiesa per gli stessi motivi per i quali sono cristiano; poiché non si può credere da soli. Si può avere fede solo in comunione con gli altri. La fede è, per sua natura, una forza che unisce. Il suo archetipo è l’evento della Pentecoste, il miracolo di comprensione che accadde tra uomini che per provenienza e storia erano estranei gli uni agli altri. La fede o è ecclesiale o non esiste. Bisogna inoltre aggiungere che, così come non è possibile credere da soli, ma soltanto in comunione con gli altri, nello stesso modo non è possibile credere per propria iniziativa o invenzione, ma solo se vengo reso capace di credere, il che non è in mio potere, non viene dalla mia forza, ma mi precede.
Una fede che fosse un’invenzione personale sarebbe una contraddizione in termini, poiché potrebbe garantirmi e dirmi solo ciò che io già sono oppure so, ma non potrebbe superare i limiti del mio io. Perciò anche una Chiesa, una comunità che si creasse da sola, che si fondasse solo sulla propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità e che sia superiore a me, non una mia creazione, che sia lo strumento dei miei stessi desideri.
Tutto ciò si può formulare anche da un punto di vista più storico: o questo Gesù fu più che un uomo, con un potere assoluto superiore a un prodotto del proprio arbitrio, e quindi fu capace di tramandarsi attraverso i secoli; oppure egli non ebbe tale potere non potè neppure lasciarlo in eredità. In quest’ultimo caso sarei abbandonato alle mie personali ricostruzioni e quindi egli non sarebbe niente di più che una qualsiasi altra grande figura di fondatore, di cui si rinnova la presenza col pensiero. Ma se egli è qualcosa di più, allora non dipende dalle mie ricostruzioni e anche oggi vale il potere che egli ha lasciato in eredità.
Ma torniamo al punto precedente: si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto a essa.
E non temiamo di porci ancora una volta in piena obiettività una domanda alquanto patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli e che conosca gli uomini, e che quindi possa essere conosciuto dall’uomo? Sappiamo molto bene qual è la risposta oggi, se il tentativo di creare un mondo simile viene praticato con tanta accanita ostinazione: un esperimento assurdo, senza criterio. Per quanto il cristianesimo possa aver fallito concretamente nella sua storia (e lo ha fatto sempre in modo sconcertante), i criteri della giustizia e dell’amore sono tuttavia arrivati a noi, persino contro la loro volontà, dal messaggio custodito in esso, contro la Chiesa stessa, eppure mai senza la forza silenziosa di ciò che in essa è depositato.
In altre parole: rimango nella Chiesa perché considero la fede, realizzabile solo in essa e comunque mai contro di essa, una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio - e un Dio che tace non è Dio – non c’è più nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo.
E in un mondo senza verità non si può vivere a lungo; là dove si rinuncia alla verità, si continua a vivere in silenzio solo perché essa non si è ancora veramente spenta, così come se si spegnesse il sole, la sua luce rimarrebbe ancora per qualche tempo e potrebbe ingannare sulla notte dei mondi, che in realtà sarebbe già cominciata.
Si può esprimere lo stesso concetto ancora da un altro punto di vista: rimango nella Chiesa perché solo la fede della Chiesa redime l’uomo. Può sembrare un’affermazione molto tradizionale e dogmatica, irreale, ma è intesa in modo del tutto obiettivo e realistico. Nel nostro mondo di costrizioni e frustrazioni il desiderio di redenzione è riemerso con una forza primordiale. Gli sforzi di Freud e di Jung non sono altro che tentativi di dare redenzione agli irredenti. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano a loro modo a cercare e ad annunciare la redenzione.
Sullo sfondo sta Marx e anche il suo è un problema di redenzione. Quanto più l’uomo diventa libero, illuminato, potente, tanto più lo tormenta il desiderio di redenzione, tanto più si ritrova non libero. Agli sforzi di Marx, di Freud e Marcuse è comune la ricerca della redenzione, l’aspirazione a un mondo senza sofferenza, malattia e povertà.
Un mondo libero dalla tirannia, dalla sofferenza, dall’ingiustizia è diventato il grande ideale della nostra generazione; a questa promessa mirano le ribellioni violente dei giovani, mentre il risentimento dei vecchi imperversa perché essa non è ancora realizzata ed esistono ancora la tirannia, l’ingiustizia, la sofferenza.
La lotta contro la sofferenza e l’ingiustizia nel mondo è in realtà un impulso assolutamente cristiano, ma l’idea che si possa creare un mondo senza dolore e il desiderio di ottenerlo subito con le riforme sociali, con l’abolizione del potere e dell’ordinamento giuridico sono un’eresia, una profonda incomprensione della natura dell’uomo. In questo mondo la sofferenza non deriva in verità solo dalla disparità di ricchezza e potere e la sofferenza non è l’unico fastidio di cui l’uomo dovrebbe liberarsi: chi lo pensa deve rifugiarsi nel mondo illusorio della droga, finendo solo per essere ancora più distrutto e in contrasto con la realtà.
L’uomo ritrova se stesso, la propria verità, la propria gioia e felicità soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del proprio egoismo. La crisi della nostra epoca dipende dal fatto che ci si vuole convincere che sia possibile diventare persona senza il dominio di se stessi, senza la pazienza della rinuncia e lo sforzo del superamento; che non è necessario il sacrificio di mantenere gli impegni presi né la fatica per soffrire con pazienza la tensione tra ciò che si dovrebbe essere e quello che si è in realtà.
Un uomo che venga privato della fatica e condotto nel paese della cuccagna dei suoi sogni perde se stesso, smarrisce la sua vera natura. In realtà l’uomo non viene redento se non attraverso la croce, con l’accettazione della sofferenza di se stesso e del mondo, che insieme alla sofferenza di Dio è diventata il luogo del significato che libera. Solo così, in questa accettazione, l’uomo diventa libero.
Tutte le altre offerte, più facili e comode, falliranno e si dimostreranno illusorie. La speranza del cristianesimo, l’occasione della fede dipende in ultima istanza molto semplicemente dal fatto che esso dice la verità.
La chance della fede è la chance della verità, che può essere offuscata e calpestata, ma non può soccombere.
Veniamo all’ultimo punto. Un uomo vede sempre soltanto nella misura in cui egli ama. Certo esiste anche la chiaroveggenza della negazione e dell’odio.
Ma questi possono vedere solo ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Possono così preservare l’amore da una cecità nella quale esso finge di non vedere i propri limiti e pericoli, ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi non si inoltra almeno per un po’ nell’esperimento della fede, chi non accetta di fare esperienza della Chiesa, chi non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell’amore, finisce soltanto per arrabbiarsi.
Il rischio dell’amore è il presupposto per giungere alla fede. Chi lo ha osato, non ha bisogno di nascondersi nessuno dei lati oscuri della Chiesa, ma scopre che essa non si riduce di certo solo a questi, perché si accorge che accanto alla storia della Chiesa degli scandali, c’è anche quella della forza liberatrice della fede, che si è mantenuta feconda nei secoli in personaggi meravigliosi come Agostino, Francesco d’Assisi, il domenicano Las Casas con la sua appassionata battaglia per gli indios, Vincenzo De Paoli, Giovanni XXIII.
Chi affronta questo rischio trova che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere ignorato . Anche l’arte che è nata sotto l’impulso del suo messaggio, e che ancora oggi ci si mostra in opere impareggiabili, diventa una testimonianza di verità: ciò che è stato in grado di esprimersi a simili livelli non può essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa, che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità – tutto questo non è a mio avviso una insignificante casualità. La bellezza è lo splendore del vero, ha detto Tommaso d’Aquino, e l’offesa del bello è l’autoironia della verità perduta – si potrebbe aggiungere. Le espressioni nelle quali la fede è stata in grado di tradursi nella storia sono testimonianza della verità che è in essa.
Non vorrei tralasciare un’ulteriore osservazione, anche se può sembrare che indulga molto nel soggettivo. Se si tengono aperti gli occhi, anche oggi è possibile di certo incontrare persone che sono testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana.
E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche grazie a questi uomini che, dandoci esempio di un cristianesimo autentico, con le loro vite lo hanno reso ai nostri occhi degno di amore e di fede. In fin dei conti l’uomo si illude quando vuole fare di sé una sorta di soggetto trascendentale, che considera valido solo ciò che non è casuale. E’ certamente doveroso riflettere su tali esperienze, esaminare il loro grado di responsabilità, parificarle e dal loro un nuovo contenuto.
Ma anche in questo necessario processo di oggettivazione non risulta forse come una prova rilevante a favore del cristianesimo il fatto che esso rende gli uomini più umani, legandoli a Dio? L’elemento più soggettivo non è qui anche un dato del tutto oggettivo, del quale non dobbiamo più vergognarci di fronte a nessuno?
Ancora un’osservazione in chiusura. Quando, come abbiamo fatto qui, si afferma che senza l’amore non si può vedere nulla e che quindi si deve amare anche la Chiesa, per poterla riconoscere, oggi molti diventano inquieti.
L’amore non è forse il contrario della critica? E non è in fondo il pretesto dei potenti che vogliono eliminare la critica e vogliono mantenere lo status quo a loro favore? Si giova di più agli uomini tranquillizzandoli e abbellendo la realtà, oppure intervenendo in loro favore continuamente contro la perdurante ingiustizia e contro l’oppressione delle strutture? Si tratta di questioni molto ampie, che non possono essere indagate qui nello specifico.
Ma una cosa dovrebbe essere ben chiara: il vero amore non è né statico né acritico. L’unica possibilità di cambiare in positivo un altro uomo è quella di amarlo e aiutarlo quindi a cambiare lentamente, da ciò che egli è a ciò che egli può essere.
Lo stesso vale per la Chiesa.
Guardiamo alla storia più recente: nel rinnovamento liturgico e teologico della prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma, che ha portato cambiamenti positivi.
Ciò fu possibile soltanto perché vi furono uomini che amarono la Chiesa in modo vigile, con spirito “critico”, e furono pronti a soffrire per essa.
Se oggi non riusciamo più in nulla, è solo perché tutti siamo troppo preoccupati di affermare solo noi stessi.
Rimanere in una Chiesa che avesse bisogno di essere fatta da noi per diventare degna di essere abitata non ha senso; è una contraddizione in termini. Rimanere nella Chiesa perché essa è in sé degna di rimanere nel mondo, perché essa è in sé degna di essere amata e di un amore che la porti sempre a trasformarsi di nuovo in ciò che deve essere veramente – questo è il cammino che anche oggi viene indicato dalla responsabilità della fede.
Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli
AMDG et DVM
Frate Bernardo e santo Francesco
CAPITOLO TERZO.
Come per mala cogitazione che santo Francesco ebbe contro a frate
Bernardo, comandò al detto frate Bernardo che tre volte gli andasse co' piedi
in sulla gola e in sulla bocca.
Il devotissimo servo del Crocifisso messer
santo Francesco, per l'asprezza della penitenza e continuo piagnere, era
diventato quasi cieco e poco vedea. Una volta tra l'altre si partì del luogo
dov'egli era e andò ad un luogo dov'era frate Bernardo, per parlare con lui
delle cose divine; e giungendo al luogo, trovò ch'egli era nella selva in
orazione tutto elevato e congiunto con Dio. Allora santo Francesco andò nella
selva e chiamollo: "Vieni - disse - e parla a questo cieco". E frate
Bernardo non gli rispuose niente imperò che essendo uomo di grande
contemplazione avea la mente sospesa e levata a Dio; e però ch'egli avea
singolare grazia in parlare di Dio, siccome santo Francesco più volte avea
provato e pertanto desiderava di parlare con lui. Fatto alcuno intervallo, sì
lo chiamò la seconda e la terza volta in quello medesimo modo: e nessuna volta
frate Bernardo l'udì, e però non gli rispuose, né andò a lui. Di che santo
Francesco si partì un poco isconsolato e maravigliandosi e rammaricandosi in se
medesimo, che Frate Bernardo, chiamato tre volte, non era andato a lui.
Partendosi con questo pensiero, santo Francesco, quando fu un poco dilungato,
disse al suo compagno: "Aspettami qui"; ed egli se ne andò ivi presso
in uno luogo solitario, e gittossi in orazione pregando Iddio che gli rivelasse
il perché frate Bernardo non gli rispuose. E stando così. gli venne una voce da
Dio che disse così: "O povero omicciuolo, di che se' tu turbato? debbe
l'uomo lasciare Iddio per la creatura? Frate Bernardo, quando tu lo chiamavi,
era congiunto meco; e però non potea venire a te, né risponderti. Adunque non
ti maravigliare, se non ti poté rispondere; però ch'egli era lì fuori di sé,
che delle tue parole non udiva nulla". Avendo santo Francesco questa
risposta da Dio, immantanente con grande fretta ritornò inverso frate Bernardo,
per accusarglisi umilmente del pensiero ch'egli avea avuto inverso di lui. E
veggendolo venire inverso di sé, frate Bernardo gli si fece incontro e gittoglisi
a piedi; e allora santo Francesco li fece levare suso e narrogli con grande
umiltà il pensiero e la turbazione ch'avea avuto inverso di lui, e come di ciò
Iddio gli avea risposto. Onde conchiuse così: · lo ti comando per santa
ubbidienza, che tu faccia ciò ch'io ti comanderò". Temendo frate Bernardo
che santo Francesco non gli comandasse qualche cosa eccessiva, come solea fare,
volle onestamente ischifare a quella obbidienza, ond'egli rispuose così:
"Io sono apparecchiato di fare la vostra ubbidienza, se voi mi promettete
di fare quello ch'io comanderò a voi". E promettendoglielo santo
Francesco, frate Bernardo disse: "Or dite, padre quello che voi volete
ch'io faccia". Allora disse santo Francesco: "Io ti comando per santa
ubbidienza che, per punire la mia prosunzione e l'ardire del mio cuore, ora
ch'io mi gitterò in terra supino, mi ponga l'uno piede in sulla gola e l'altro
in sulla bocca, e così mi passi tre volte e dall'uno lato all'altro, dicendomi
vergogna e vitupero, e specialmente mi di': "Giaci, villano figliuolo di
Pietro Bernardoni, onde ti viene tanta superbia, che se' vilissima
creatura?". Udendo questo frate Bernardo, e benché molto gli fusse duro a
farlo, pure per la ubbidienza santa, quanto poté il più cortesemente, adempié
quello che santo Francesco gli aveva comandato. E fatto cotesto, disse santo
Francesco: "Ora comanda tu a me ciò che tu vuoi ch'io ti faccia, però
ch'io t'ho promesso obbidienza". Disse frate Bernardo: "lo ti comando
per santa obbidienza ch'ogni volta che noi siamo insieme, tu mi riprenda e
corregga de' miei difetti aspramente". Di che santo Francesco forte si
maravigliò, però che frate Bernardo era di tanta santità, ch'egli l'avea in
grande reverenza e non lo riputava riprensibile di cosa veruna. E però d'allora
innanzi santo Francesco si guardava di stare molto con lui, per la detta
obbidienza, acciò che non gli venisse detto alcuna parola di correzione verso
di lui, il qual egli conoscea di tanta santità; ma quando avea voglia di
vederlo ovvero di udirlo parlare di Dio, il più tosto che poteva si spacciava
da lui e partivasi. Ed era una grandissima divozione a vedere con quanta
carità, riverenza e umiltà santo Francesco padre si usava e parlava con frate
Bernardo figliuolo primogenito. A laude e gloria di Gesù Cristo e del poverello
Francesco. Amen.
AMDG et DVM
mercoledì 3 luglio 2019
martedì 2 luglio 2019
San Gaspare del Bufalo
“Gloria tutta splendente del clero romano”
Parliamo di un giovane prete romano, di nome Gaspare del Bufalo. Il Sinedrio con il quale dovette confrontarsi non fu quello di Gerusalemme, ma quello iniquo che si impose sul Campidoglio nel 1809, composto da soldati francesi desiderosi di demolire il potere temporale della Chiesa e di sradicare il Cristianesimo dalla società europea. Fu anche grazie alla resistenza di uomini come San Gaspare del Bufalo che il loro intento non si realizzò.
Nato il 6 gennaio 1786 da una famiglia di umili origini residente nei pressi della parrocchia di Santa Prassede, tra i rioni Monti ed Esquilino, Gaspare all’età di un anno e mezzo si ammalò di vaiolo, una malattia che in quegli anni costituiva una seria minaccia di morte. Malgrado un peggioramento delle sue condizioni di salute, gli effetti del morbo si ritirarono velocemente dopo che la madre invocò l’intercessione di San Francesco Saverio, il cui braccio si conserva nella chiesa del Gesù.
L’episodio segnò la vita del piccolo Gaspare. Durante l’infanzia si distinse per il tempo dedicato alla preghiera e alla penitenza, nonché alle opere di carità. Sotto le finestre del Palazzo Altieri, dove la famiglia si trasferì quando il padre cuoco trovò lavoro nella cucina della nobile famiglia romana, lo attendevano ogni giorno, nelle ore dei pasti, frotte di poveri. Essi avevano scoperto la disponibilità di Gaspare a fornirgli il cibo, sovente privandosi lui stesso del pasto.
I primi studi li fece presso il Collegio Romano, allora guidato da sacerdoti secolari per via della soppressione della Compagnia di Gesù. Indossata la talare nel 1798, si dedicò con instancabile dedizione all’assistenza spirituale e materiale nei confronti dei tanti bisognosi che affollavano la Roma di quel tempo. Gaspare divenne presto un volto conosciuto tra i “barozzari”, i carrettieri della campagna che avevano i loro depositi di fieno nel Foro Romano, chiamato allora “Campo Vaccino”. In molti si riavvicinarono ai Sacramenti grazie alle catechesi di Gaspare, che inoltre si prodigò per la rinascita dell’Opera di Santa Galla, della quale fu eletto direttore nel 1806.
Due anni più tardi, il 31 luglio, fu ordinato sacerdote e proseguì la sua missione, fondando nella chiesina di Santa Maria in Pincis, presso la Rupe Tarpea, un fiorente oratorio e centro di pietà. Quello che si sarebbe manifestato di lì a poco fu tuttavia un periodo infelice per il Papa e per la Chiesa. Già nel 1807 Napoleone, dopo aver minacciato e offeso Pio VII, invase i territori dello Stato Pontificio. Il 2 febbraio 1808 un corpo di fanteria francese entrò finanche a Roma, occupando Castel Sant’Angelo e il Quirinale, residenza del Papa.
San Gaspare visse quei momenti intensificando la preghiera e l’attività benefica e pastorale. L’8 dicembre 1808 fondò l’Arciconfraternita del Preziosissimo Sangue in San Nicola in Carcere. Presso questa chiesa, infatti, si venerava un’insigne reliquia del Sangue di Gesù, che consisteva in un pezzo di clamide di un antico soldato romano appartenente alla famiglia dei Savelli. Secondo la tradizione, questo soldato era presente sul Golgota durante la crocifissione di Gesù, e uno spruzzo del Sangue di Cristo colpì la sua clamide.
Appena qualche mese più tardi, il 17 maggio 1809, Napoleone dichiarò cessato il potere temporale dei Papi. Per tutta risposta, Pio VII fece affiggere in città la bolla di scomunica. Gesto che provocò una decisa reazione napoleonica: il Papa fu imprigionato e deportato in Francia e tutti i dignitari pontifici furono rimossi. Un decreto, inoltre, ordinò che i cardinali, i vescovi, i parroci e i canonici prestassero giuramento di fedeltà all’Imperatore, pena l’esilio e il carcere per chi rifiutasse.
Il 13 giugno 1810 anche Gaspare fu convocato presso un posto di polizia. Alla richiesta di giurare fedeltà a Napoleone, giunse sferzante la risposta determinata e vigorosa del giovane prete “romano de Roma”, come amava definirsi: “Non posso, non debbo, non voglio”. Una frase che rimarrà celebre, giacché successivamente utilizzata anche da Pio IX durante la “questione romana”.
Il coraggio costò caro a don Gaspare. Insieme ad altri preti riluttanti, dovette subire l’allontanamento dagli affetti, l’impedimento della predicazione e l’asprezza di una dura detenzione. Fu incarcerato per circa quattro anni senza sapere se ne sarebbe mai uscito vivo, conobbe le celle a Piacenza, poi a Bologna, a Imola e infine nella medievale Rocca di Lugo.
Tornò a Roma agli inizi del 1814, subito dopo la caduta di Napoleone. Immediatamente si dedicò di nuovo al suo ministero, occupandosi di poveri, malati, carcerati e ragazze a rischio. Pio VII apprezzò il suo carisma e lo destinò alle missioni popolari per la restaurazione religiosa e morale. Gaspare decise di compiere questo ministero fuori dalla città, dove si fece conoscere per il suo straordinario talento, tanto che vennero coniati per lui gli appellativi di “terremoto spirituale” e “angelo di pace”. In molti affermarono di aver assistito a manifestazioni soprannaturali nel corso delle sue predicazioni.
Nel maggio 1814 fondò la congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue, e vent’anni più tardi, nel 1834, diede vita all’Istituto delle Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue, coadiuvato da Santa Maria De Mattias, conosciuta durante una sua missione nel Basso Lazio.
Il suo zelo apostolico non si arrese neanche dinnanzi alle minacce e agli attentati alla sua stessa vita di cui fu fatto oggetto. Nonostante la restaurazione del potere temporale della Chiesa, infatti, sacche d’insofferenza penetrarono e si radicarono un po’ ovunque in Italia. Le società segrete, soprattutto la massoneria, divennero così cospicue fucine di velenoso astio anti-cristiano. Esse attecchirono molto tra le classi facoltose, ove più forte era il desiderio di affrancarsi dal potere della Chiesa e il vezzo di dedicarsi a dottrine esoteriche. Gaspare predicò apertamente contro tali sette, riuscendo a convertire intere logge massoniche e mettendo sempre in guardia il popolo contro la propaganda satanica. Così, durante le sue missioni, Gaspare convinceva i fedeli a bruciare strumenti di peccato e deviazione come armi, libri e stampe oscene.
La sua predicazione schietta prese piede tra le persone più semplici, persino presso quei margini della società in cui si diffuse il fenomeno del brigantaggio. Inviato a predicare in mezzo ai briganti che infestavano lo Stato Pontificio da papa Leone XII, Gaspare riuscì a ridurre la terribile piaga nei dintorni di Roma brandendo il crocifisso e testimoniando la misericordia evangelica. Grazie a lui molti banditi abbandonarono la via del malaffare per tornare alla famiglia e all’amore cristiano.
Il 28 dicembre 1837, con lo sguardo rivolto al presepe donatogli dalle suore di Sant’Urbano, Gaspare morì sul suo letto, nel Palazzo Orsini sopra il Teatro di Marcello. Il suo culto si estese rapidamente, a Roma e anche in Francia, dopo la guarigione della nipote di Joseph De Maistre.
Canonizzato da Pio XII il 12 giugno 1954, fu definito da Giovanni XIII nel 1960 “gloria tutta splendente del clero romano, che fu il vero e più grande apostolo della devozione al Preziosissimo Sangue di Gesù nel mondo”.
Il suo corpo riposa a Roma, nella chiesa di Santa Maria in Trivio, ove la sua tomba è esposta alla preghiera dei tanti fedeli che trovano in San Gaspare del Bufalo un degno erede, in quanto a coraggio e zelo apostolico, del protomartire Santo Stefano. La Chiesa lo ricorda il 28 dicembre.
http://www.devozioni.altervista.org/testi/gesu/varie/il-preziosissimo-sangue-di-gesu.pdf
http://www.devozioni.altervista.org/testi/gesu/varie/il-preziosissimo-sangue-di-gesu.pdf
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