venerdì 9 novembre 2018

Lettera di Sua Santità Benedetto XVI per sottolineare la fedeltà al testo greco originale del Vangelo nella formula della Consacrazione

Benedetto XVI spiega il “pro multis” nella Consacrazione

Nell’aprile 2012, Benedetto XVI, aveva inviato una Lettera all’Episcopato tedesco con la quale aveva ordinato che l’espressione “per tutti” attualmente presente nel Messale tra le parole della Consacrazione Eucaristica, venisse mutata in  “per molti”, perché, disse il Pontefice, questa è la traduzione esatta del testo greco originale del Vangelo. 
Ma nessuno lo ascoltò, pochi gli obbedirono, ed oggi la confusione regna sovrana. Noi vi proponiamo il testo anche in audio, con una “premessa” tratta da un brillante articolo del teologo domenicano padre Giovanni Cavalcoli.

LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI 
AL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TEDESCA
 
A Sua Eccellenza Reverendissima
Monsignor Robert Zollitsch
Arcivescovo di Freiburg
Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca

Herrenstraße 9
D-79098 FREIBURG
Dal Vaticano, 14 aprile 2012
Eccellenza,Venerato, caro Arcivescovo,
In occasione della Sua visita del 15 marzo 2012, Lei mi ha fatto sapere che per quanto riguarda la traduzione delle parole “pro multis” nelle Preghiere Eucaristiche della Santa Messa ancora non c’è unità tra i Vescovi dell’area di lingua tedesca. Incombe, a quanto pare, il pericolo che per la pubblicazione della nuova edizione del “Gotteslob” [libro dei canti e preghiere], attesa in tempi brevi, alcune parti dell’area di lingua tedesca vogliano mantenere la traduzione “per tutti”, anche qualora la Conferenza Episcopale tedesca convenisse a scrivere “per molti”, così come richiesto dalla Santa Sede. Le avevo promesso che mi sarei espresso per iscritto riguardo a questa importante questione, al fine di prevenire una tale divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. La lettera che qui, per Suo tramite, indirizzo ai membri della Conferenza Episcopale Tedesca, sarà inviata anche agli altri Vescovi dell’area di lingua tedesca.
Anzitutto, mi lasci spendere brevemente una parola sulle origini del problema. Negli anni sessanta, quando bisognava tradurre in tedesco, sotto la responsabilità dei Vescovi, il Messale Romano, esisteva un consenso esegetico sul fatto che la parola “i molti”, “molti” in Isaia 53,11s, fosse una forma di espressione ebraica per indicare la totalità, “tutti”. La parola “molti” nei racconti dell’istituzione di Matteo e di Marco, sarebbe stata quindi un “semitismo” e avrebbe dovuto essere tradotta con “tutti”. Questo concetto si applicò anche al testo latino direttamente da tradurre, in cui il “pro multis” avrebbe rimandato, attraverso i racconti evangelici, a Isaia 53 e perciò sarebbe stato da tradurre con “per tutti”. Questo consenso esegetico, nel frattempo, si è sgretolato; esso non esiste più. Nella traduzione ecumenica tedesca della Sacra Scrittura, nel racconto dell’Ultima Cena, si legge: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (Mc 14,24; cfr Mt 26,28). Con questo si evidenzia una cosa molto importante: la resa di “pro multis” con “per tutti” non era affatto una semplice traduzione, bensì un’interpretazione, che sicuramente era e rimane fondata, ma tuttavia è già un’interpretazione ed è più di una traduzione.
Questa fusione di traduzione e interpretazione appartiene, in un certo senso, ai principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei libri liturgici nelle lingue moderne. Si era consapevoli di quanto la Bibbia ed i testi liturgici fossero lontani dal mondo del parlare e del pensare dell’uomo d’oggi, così che anche tradotti essi sarebbero rimasti ampiamente incomprensibili ai partecipanti alla liturgia. Era un’impresa nuova che i testi sacri fossero resi accessibili, in traduzione, ai partecipanti alla liturgia, pur rimanendo, tuttavia, a una grande distanza dal loro mondo; anzi, in questo modo, i testi sacri apparivano proprio nella loro grande distanza. Così, ci si sentì non solo autorizzati, ma addirittura in obbligo di fondere già nella traduzione l’interpretazione, e di accorciare in questo modo la strada verso gli uomini, il cui cuore ed intelletto si voleva fossero raggiunti appunto da queste parole.
Fino ad un certo punto, il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale del testo di base rimane giustificato. Dal momento che devo recitare le preghiere liturgiche continuamente in lingue diverse, noto che, talora, tra le diverse traduzioni, non è possibile trovare quasi niente in comune e che il testo unico che ne è alla base, spesso è riconoscibile soltanto da lontano. Vi sono state poi delle banalizzazioni che rappresentano delle vere perdite. Così, nel corso degli anni, anche a me personalmente, è diventato sempre più chiaro che il principio della corrispondenza non letterale, ma strutturale, come linea guida nella traduzione, ha i suoi limiti. Seguendo considerazioni di questo genere, l’Istruzione sulle traduzioni Liturgiam authenticam, emanata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti il 28 marzo 2001, ha posto di nuovo in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza ovviamente prescrivere un verbalismo unilaterale. L’acquisizione importante che è alla base di questa Istruzione consiste nella distinzione, a cui ho già accennato all’inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia nei confronti della parola della Scrittura, sia nei confronti dei testi liturgici. Da un lato, la parola sacra deve presentarsi il più possibile come essa è, anche nella sua estraneità e con le domande che porta in sé; dall’altro lato, è alla Chiesa che è affidato il compito dell’interpretazione, affinché – nei limiti della nostra attuale comprensione – ci raggiunga quel messaggio che il Signore ci ha destinato. Neppure la traduzione più accurata può sostituire l’interpretazione: rientra nella struttura della rivelazione il fatto che la Parola di Dio sia letta nella comunità interpretante della Chiesa, e che fedeltà e attualizzazione siano legate reciprocamente. La Parola deve essere presente quale essa è, nella sua propria forma, forse a noi estranea; l’interpretazione deve misurarsi con la fedeltà alla Parola stessa, ma al tempo stesso deve renderla accessibile all’ascoltatore di oggi.
In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale e non insieme già interpretata. Al posto della versione interpretativa “per tutti” deve andare la semplice traduzione “per molti”. Vorrei qui far notare che né in Matteo, né in Marco c’è l’articolo, quindi non “per i molti”, ma “per molti”. Se questa decisione è, come spero, assolutamente comprensibile alla luce della fondamentale correlazione tra traduzione e interpretazione, sono tuttavia consapevole che essa rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa. Infatti, per coloro che abitualmente partecipano alla Santa Messa questo appare quasi inevitabilmente come una rottura proprio nel cuore del Sacro. Essi chiederanno: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può ed è autorizzata a farlo? E’ qui in atto una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio? Per l’esperienza degli ultimi 50 anni, tutti sappiamo quanto profondamente i cambiamenti di forme e testi liturgici colpiscono le persone nell’animo; quanto fortemente possa inquietare le persone una modifica del testo in un punto così centrale. Per questo motivo, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione “molti”, si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto ne so, una tale catechesi finora non è stata fatta nell’area linguistica tedesca. L’intento della mia lettera è chiedere con la più grande urgenza a Voi tutti, cari confratelli, di elaborare ora una tale catechesi, per parlarne poi con i sacerdoti e renderla contemporaneamente accessibile ai fedeli.
In una tale catechesi si dovrà forse, in primo luogo, spiegare brevemente perché nella traduzione del Messale dopo il Concilio, la parola “molti” venne resa con “tutti”: per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l’universalità della salvezza che proviene da Lui. Ma poi sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell’Ultima Cena Egli ha detto “per molti”? E perché allora noi ci atteniamo a queste parole di istituzione di Gesù? A questo punto bisogna anzitutto aggiungere ancora che, secondo Matteo e Marco, Gesù ha detto “per molti”, mentre secondo Luca e Paolo ha detto “per voi”. Così il cerchio, apparentemente, si stringe ancora di più. Invece, proprio partendo da questo si può andare verso la soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù va oltre loro e la loro cerchia; che Egli era venuto per riunire da tutto il mondo i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52). Il “per voi”, rende, però, la missione di Gesù assolutamente concreta per i presenti. Essi non sono degli elementi anonimi qualsiasi di un’enorme totalità, bensì ogni singolo sa che il Signore è morto proprio “per me”, “per noi”. “Per voi” si estende al passato e al futuro, si riferisce a me del tutto personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti ed amati da Gesù in quanto tali. Quindi questo “per voi” non è una restrizione, bensì una concretizzazione, che vale per ogni comunità che celebra l’Eucaristia e che la unisce concretamente all’amore di Gesù. Il Canone Romano ha unito tra loro, nelle parole della consacrazione, le due letture bibliche e, conformemente a ciò, dice: “per voi e per molti”. Questa formula è stata poi ripresa, nella riforma liturgica, in tutte le Preghiere Eucaristiche.
Ma, ancora una volta: perché “per molti”? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, in quanto Figlio di Dio fatto uomo, sia l’uomo per tutti gli uomini, sia il nuovo Adamo, fa parte delle certezze fondamentali della nostra fede. Su questo punto vorrei solamente ricordare tre testi della Scrittura: Dio ha consegnato suo Figlio “per tutti”, afferma Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8,32). “Uno è morto per tutti”, dice nella Seconda Lettera ai Corinzi, parlando della morte di Gesù (2 Cor5,14). Gesù “ha dato se stesso in riscatto per tutti”, è scritto nella Prima Lettera a Timoteo (1 Tm 2,6). Ma allora, a maggior ragione ci si deve chiedere, ancora una volta: se questo è così chiaro, perché nella Preghiera Eucaristica è scritto “per molti”? Ora, la Chiesa ha ripreso questa formulazione dai racconti dell’istituzione nel Nuovo Testamento. Essa dice così per rispetto verso la parola di Gesù, per mantenersi fedele a Lui fin dentro la parola. Il rispetto reverenziale per la parola stessa di Gesù è la ragione della formulazione della Preghiera Eucaristica. Ma allora noi ci chiediamo: perché mai Gesù stesso ha detto così? La ragione vera e propria consiste nel fatto che, con questo, Gesù si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53, ha dimostrato di essere quella figura che la parola del profeta stava aspettando. Rispetto reverenziale della Chiesa per la parola di Gesù, fedeltà di Gesù alla parola della “Scrittura”: questa doppia fedeltà è la ragione concreta della formulazione “per molti”. In questa catena di fedeltà reverenziale, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura.
Come abbiamo visto anteriormente che il “per voi” della traduzione lucano-paolina non restringe, ma concretizza; così ora possiamo riconoscere che la dialettica “molti” – “tutti” ha il suo proprio significato. “Tutti” si muove sul piano ontologico – l’essere ed operare di Gesù comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, Egli giunge solo a “molti”. Allora è possibile riconoscere un triplice significato della correlazione di “molti” e “tutti”. Innanzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, dovrebbe significare sorpresa, gioia e gratitudine perché Egli mi ha chiamato, perché posso stare con Lui e posso conoscerlo. “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa …” [canto religioso “Fest soll mein Taufbund immer stehen”, strofa 1]. Poi, però, in secondo luogo questo significa anche responsabilità. Come il Signore, a modo suo, raggiunga gli altri – “tutti” – resta, alla fine, un mistero suo. Senza dubbio, però, costituisce una responsabilità il fatto di essere chiamato da Lui direttamente alla sua mensa, così che posso udire: “per voi”, “per me”, Egli ha patito. I molti portano responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sul monte, lievito per tutti. Questa è una vocazione che riguarda ciascuno, in modo del tutto personale. I molti, che siamo noi, devono sostenere la responsabilità per il tutto, consapevoli della propria missione. Infine, si può aggiungere un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto “molti”, ma molto pochi – una piccola schiera, che continuamente si riduce. Invece no – noi siamo “molti”: “Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”, dice l’Apocalisse di Giovanni (Ap 7,9). Noi siamo molti e rappresentiamo tutti. Così ambedue le parole “molti” e “tutti” vanno insieme e si relazionano l’una all’altra nella responsabilità e nella promessa.
Eccellenza, cari confratelli nell’Episcopato! Con tutto questo, ho voluto indicare le linee fondamentali di contenuto della catechesi per mezzo della quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati il più presto possibile alla nuova traduzione. Auspico che tutto questo possa servire, allo stesso tempo, ad una più profonda partecipazione alla Santa Eucaristia, inserendosi così nel grande compito che ci aspetta con “l’Anno della fede”. Posso sperare che la catechesi venga presentata presto e diventi così parte di quel rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio si è impegnato fin dalla sua prima sessione.
Con la benedizione e i saluti pasquali,
Mi confermo Suo nel Signore
Benedictus PP. XVI

016 PRO MULTIS 4b

PER “MOLTI” O “PER TUTTI”? IL RICHIAMO DEL SANTO PADRE ALLA GIUSTA INTERPRETAZIONE DEL TESTO EVANGELICO

– di P. Giovanni Cavalcoli, OP

Il Papa ha recentemente inviato una Lettera all’Episcopato tedesco[1] con la quale ordina che l’espressione “per tutti” attualmente presente nel Messale tra le parole della Consacrazione Eucaristica, venga mutata in  “per molti”, perché, dice il Pontefice, questa è la traduzione esatta del testo greco originale del Vangelo.
Sappiamo come per molti secoli la Chiesa abbia usato la cosiddetta “Vulgata” latina, ossia la traduzione di S.Girolamo, la quale ha “pro multis”. Questa espressione, fraintesa, dette occasione all’eresia di Calvino, il quale credeva che Cristo non fosse morto per tutti ma solo per “molti” o addirittura, come lui credeva, per “pochi”, quelli che egli chiamava, abusando di un’espressione biblica, gli “eletti”.
Sappiamo come in Calvino, in ciò precorso da Lutero, esiste una doppia “predestinazione”: alcuni sono da Dio predestinati al paradiso, altri all’inferno. Da Dio viene tanto il bene quanto il male, tanto la grazia quanto il peccato.
Il Concilio di Quierzy dell’853 aveva già affrontato e risolto questo problema della predestinazione insegnando che essa, ben intesa, esiste come volontà salvifica di Dio, per cui Egli manda in paradiso, ma non manda nessuno all’inferno. Ognuno raggiunge quel destino eterno che corrisponde alle proprie opere: chi opera il bene va in paradiso, chi opera il male va all’inferno. Senonchè però, siccome è Cristo che salva con la sua grazia, chi si salva si salva perché il Padre lo salva, ossia lo predestina alla salvezza, mentre chi si danna si danna solo per colpa sua.
Gettando ulteriore luce su questo mistero, il Concilio di Trento dirà contro Lutero che negava i meriti della salvezza: l’uomo può e deve meritare il paradiso con le buone opere, ma questi stessi meriti, che egli si procura vivendo in grazia di Dio, sono a loro volta dono di Dio. Quindi Dio è la causa prima della salvezza. Mentre la dannazione è esclusivamente frutto dei meriti del peccato, atto esclusivo del peccatore, nel quale Dio non c’entra assolutamente nulla.Quindi il dannarsi dipende esclusivamente dal peccatore.
La Chiesa prese occasione dal Concilio di Quierzy per condannare la dottrina, definita “orribile”, di un certo monaco di nome Godescalco (Gottschalk), il quale invece già allora sosteneva che Dio manda anche all’inferno chi vuole che vada all’inferno, per quanto bene questo disgraziato cerchi di fare, perché Dio muove la stessa volontà di questo tale a compiere il peccato.
Purtroppo questa orribile eresia, che è una vera e propria bestemmia contro la bontà e la misericordia di Dio, in nome di un falso concetto della predestinazione, risorse col protestantesimo. Il protestantesimo di oggi invece, a parte alcune sette che conservano questo orientamento, come per esempio i testimoni di Geova, è passato nell’estremo opposto che sostiene che Dio salva tutti e che quindi tutti sono “predestinati”.
Ma è un’eresia anche questa, di segno opposto, messa in giro da Rahner, la quale oggi purtroppo ha molto successo anche tra i cattolici. Si potrebbe chiamare eresia del “buonismo”: siccome Dio è “buono”, anche il “male” in fondo è bene,  tutti sono buoni, tutti sono in buona fede, tutti sono perdonati, tutti per essenza sono in grazia, tutti per essenza tendono a Dio, tutti si salvano. Il peccato non esiste, è solo uno “sbaglio in buona fede”. La Redenzione non è un’“espiazione” o una “riparazione”, ma semplicemente un perfezionamento supremo dell’uomo “già da sempre – come dice Rahner -, in tensione verso Dio”.
Il Concilio Vaticano II ha sviluppato in modo molto consolante e confortante la dottrina della possibilitàche tutti si salvino, perché Cristo ha dato il suo sangue per tutti, offre a tutti la salvezza, offre a tutti i mezzi per salvarsi, anche a chi non Lo conosce, purchè però sia onesto e in buona fede. In questo senso Cristo è il Salvatore dell’intera umanità, come dice il Papa nella sua Lettera: “l’universalità della salvezza proviene da Lui”.
Ma il Concilio non dice per nulla che di fatto tutti si salvano, anzi riporta alcuni passi del Vangelo i quali, con la parola del Cristo stesso, ci fanno capire che alcuni non si salvano, come del resto la Chiesa ha sempre sostenuto, in modo speciale nel suddetto Concilio di Quierzy.
Questo vuol dire che non tutti sono predestinati alla salvezza, ma solo quelli Dio ha “scelto” o “eletto”. Per questo, ancora nel Canone Romano della Messa il sacerdote chiede a Dio insieme con i fedeli presenti di poter esser posto da Dio “nel numero degli eletti”. L’idea di elezione evidentemente implica il prendere una parte da un tutto. Non si sceglie un tutto, ma solo una sua parte. Quindi solo una parte dell’umanità si salva, non tutta.
Questo dà fastidio alle orecchie di molti oggi, eppure questa è la verità di fede, negando la quale si cade nell’eresia. Si tratta semmai di accostarci a questa difficile verità trovando argomenti di convenienza che proporzionino anche qui la fede alla ragione. E del resto è questo il compito della teologia. Ho trattato di queste cose in un mio recente libro[2].
In riferimento a ciò il Papa distingue i “molti” dai “tutti” e dice: “Tutti” si muove sul piano ontologico – l’essere ed operare di Gesù comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, Egli giunge solo a “molti””. In altre parole: Cristo offre la salvezza a tutta l’umanità, ma di fatto Egli giunge solo a molti, ossia solo questi molti si salvano, quindi non tutti.
Tornando alla questione dei “per molti” o “per tutti”, bisogna dire che il Papa ci ricorda un’importante regola ermeneutica, valida sempre e in ogni caso nell’interpretazione della Bibbia, come del resto di qualunque testo letterario: un conto, dice il Pontefice, è tradurre e un conto è interpretare. La traduzione va fatta con fedeltà e precisione, anche se il testo che vien fuori è difficile o indigesto o antipatico. A questo punto ci può soccorrere un’opportuna interpretazione che ce lo rende digeribile ed accettabile, per non dire attraente.
Applicando questo metodo, Benedetto XVI dice con la schiettezza e la sicurezza del Pastore universale della Chiesa (anche se si rivolge solo all’Episcopato tedesco) che si deve riprendere la traduzione “per molti”, perché è quella esatta. Ciò non impedisce, anzi richiede che poi la si interpreti nel senso giusto, non nel senso calvinista. Allora “per molti” vuol dire per tutti”, perché “molti” va inteso nel senso che Cristo si riferiva al fatto che gli uomini, nel loro complesso, sono molti. Ma non intendeva affatto con questi “molti” una parte che si opponesse al tutto.
La traduzione “per tutti”, dice pertanto il Pontefice, non è una vera traduzione, ma è un’interpretazione, per quanto valida, che di fatto si è imposta nel clima del postconcilio, preoccupato di sottolineare la “chiamata universale alla salvezza e alla santità”, che indubbiamente è uno dei grandi temi del Concilio, che sarebbe grave danno minimizzare o dimenticare. Ma occorre anche guardarsi bene dal fraintenderla alla maniera di Rahner e dei buonisti. “Per tutti” non vuol dire che tutti si salvano, ma semplicemente che possono salvarsiNei fatti, come ho detto e come la Chiesa ha sempre sostenuto, alcuni si salvano, altri si dannano, nel senso che ho spiegato sopra.
Accogliamo dunque con gratitudine questo richiamo del Vicario di Cristo che, in un punto così importante della Parola di Dio quali sono le parole della Consacrazione Eucaristica, ci precisa quali sono le parole esatte del testo evangelico, esortando nel contempo alla giusta interpretazione che deve evitare tanto l’eresia di Calvino quanto quella di Rahner.
Bologna, 8 maggio 2012

[2] L’inferno esiste. la verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
________________________
Il problema della traduzione “per tutti”
Nuovi punti di vista nella discussione sulla formula di consacrazione del calice
di mons. Klaus Gamber
Il problema relativo all’esattezza della traduzione delle parole latine pro vobis et pro multis, appartenenti alla consacrazione del calice, con “per voi e per tutti” – traduzione che si trova in (quasi) tutte le edizioni in lingua volgare del nuovo Messale – non ha ancora trovato una soluzione definitiva. Mentre taluni garantiscono l’assoluta esattezza della traduzione “per tutti”, indicandone in primo luogo i fondamenti filologici, altri vi vedono una falsificazione che compromette direttamente la fede. Si tratterebbe dell’eresia risalente a Origene, secondo cui alla fine tutti gli uomini si salvano. I critici non si fermano qui, ma giungono a sostenere che chi falsifica in modo siffatto le parole del Signore, che debbono compiere la conversione delle offerte sacrificali nella carne e nel sangue di Gesù, ponendo sulle sue labbra un’eresia, renderebbe impossibile la consacrazione e pertanto la Messa sarebbe invalida.
In linea di principio sono da tenere distinte qui due cose: da un lato la volontà di Dio di salvare tutti gli uomini, attestata espressamente da Paolo che scrive in 2Cor 5,15: “Cristo è morto per tutti”, dall’altro il problema se anche di fatto tutti gli uomini si salvino, vale a dire la differenza essenziale che intercorre tra la redenzione offerta da Dio e la personale acquisizione della grazia redentrice di Cristo da parte dell’uomo. In proposito scrive Giovanni Crisostomo nel suo commento alla lettera agli Ebrei (17,2): “(Cristo) è certamente morto per tutti, per salvare tutti per quanto sta in Lui, poiché la sua morte compensa la corruzione di tutti gli uomini. Ma non ha portato via i peccati di tutti perché gli uomini stessi non vollero”.
Dalle due questioni poste in via preliminare, se cioè Gesù sia morto per tutti gli uomini e se anche di fatto tutti raggiungano la salvezza, ne va distinta evidentemente una terza, cioè che cosa si inintende in concreto nella consacrazione del calice del Missale Romanum, con riferimento a Mt 26,28, con le parole: “versato per voi e per molti in remissione dei peccati” (qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum). Soltanto di quest’ultimo aspetto si intende trattare nel presente scritto che riguarda il problema liturgico.
In primo luogo ancora una parola sull’argomento filologico chiamato in causa a favore della traduzione “per tutti”. Si dice che nel citato Mt 26,28 vi sarebbe un modo di dire semitico in base al quale “i molti” potrebbe significare anche “tutti”. Ma nel nostro caso appunto l’articolo determinativo davanti a “molti” manca. E se anche ci fosse, in determinati casi il greco oi polloi significa “i più”, ma non “tutti”, in tal senso la Grammatik des neutestamentlichen Griechisch di Blass-Debrunner (§ 245) che cita in appoggio Mt 24,12: ” … l’amore dei molti (= dei più) si raffredderà”.
Notevole sottolineare come, con riferimento a Mt 26,28, la traduzione “per tutti” non si trova in alcuna antica versione né in alcun racconto dell’Istituzione delle diverse liturgie orientali, e neppure – e ciò è particolarmente significativo – nella nuova traduzione unitaria tedesca della Bibbia [1]. Solo la versione libera apparsa in Die Gute Nachricht (1967) reca: “Das íst mein Blut, das fiir alle Menschen vergossen wird zur Vergebung ihrer Schuld” [= Questo è il mio sangue che è sparso per tutti gli uomini per la remissione della loro colpa] (p. 75). Ecco la vera fonte da cui proviene il “für euch und fiir alle” [ = per voi e per tutti] nel nuovo Messale tedesco! [2].
Dunque dal punto di vista filologico non è possibile dimostrare nulla riguardo alla traduzione “per tutti”. Pertanto dobbiamo sforzarci di scoprire l’effettivo significato delle parole di Gesù. In esse attira l’attenzione il fatto che – e tale osservazione ci sembra importante -, a differenza di Mt (analogamente Mc 14,24): “Questo è il sangue dell’Alleanza, che è versato per molti”, in Lc 22,20 è detto: “Questo calice è la nuova Alleanza nel mio sangue che è versato per voi”. Dunque in Mt. e Mc “per molti”, in Lc “per voi”. Paolo in 1Cor 11,25 omette del tutto la seconda parte della consacrazione del calice con la frase in questione.
Dalle predette forme della consacrazione del calice che si trovano in Mt e Lc, nel rito romano della Messa si è formata col passare del tempo la seguente formulazione: “Questo è il calice del mio sangue, della nuova ed eterna Alleanza (mistero di fede), che è sparso per voi e per molti per la remissione dei peccati”.
La domanda che ci si pone è la seguente: perché in Mt si dice “per molti” e in Lc “per voi”? Che cosa ha detto realmente Gesù all’offerta del calice?
È naturale ritenere che il Signore in concreto intendesse riferirsi soltanto agli apostoli, e che pertanto abbia detto: “… che è versato per voi“. Ciò inoltre corrisponderebbe alla consacrazione del pane in Lc 22,19 (cfr. 1Cor 11,23): “Questo è il mio corpo (offerto in sacrificio) per voi“. Quindi i due passi sarebbero nel senso che Gesù qui e ora, vale a dire in quel momento nel cenacolo, offrì il suo corpo (come sacrificio) e versò il suo sangue “per la remissione dei peccati”. Possiamo andare oltre e dire: come Gesù in quel momento con le parole “versato per voi” ha inteso riferirsi in concreto agli apostoli, così il corrispondente riferimento è ai “molti” comunicanti che nelle epoche successive si accosteranno al calice eucaristico “per la remissione dei peccati” e aí quali verrà in tal modo donata la grazia della redenzione.
Dato però che il Signore ha effuso il suo sangue non solo per gli apostoli ovvero per í comunicanti, bensì, come è detto nella consacrazione del giovedì santo, “per la salvezza di tutti” (pro omnium salute), la frase “offerto per voi” alla consacrazione del pane, al pari di “versato per voi” a quella del calice, non può di conseguenza riferirsi direttamente alla morte in Croce. Il sangue di Cristo contenuto nel calice che gli apostoli quella sera bevvero è di per sé quello stesso sangue che il giorno seguente sarà “sparso” sulla Croce (anche se trasfigurato): esso però già da questo momento è dato loro nel sacramento, per loro “versato per la remissione dei peccati”. Analogamente il suo corpo sacrificato sul Golgota (e trasfigurato dalla risurrezione) è “dato” ovvero “spezzato”, come attestano la maggior parte dei manoscritti di 1Cor 11,24, per loro nel pane eucaristico come cibo spirituale.
In questo contesto bisogna osservare che la morte in Croce di Gesù è il sacrificio dell’Uomo-Dio offerto una volta per tutte “nella pienezza dei tempi” (Eph. 1,10), ma questo sacrificio è sempre davanti a Dio – poiché in Lui “non vi è cambiamento né ombra di variazione” (Gc 1,17), e quindi non vi è neppure tempo poiché tutto per Lui è presente – come atto eterno della dedizione del Figlio di Dio al Padre. Cristo è dunque l’Agnello, come dice 1Petr. 1, 19s., destinato al sacrificio “prima della creazione del mondo”. Perciò quando durante l’ultima Cena Gesù invitò i suoi apostoli a bere sacramentalmente il suo sangue, poté riferirsi al sacrificio della Croce anche se esso, nel tempo, sarebbe avvenuto soltanto il giorno seguente. “Nostro Signore”, come dice Afrahat il Siro, nel cenacolo “ha dato con le sue proprie mani la sua carne come cibo e, (ancor) prima di essere crocifisso, il suo sangue come bevanda”.
Una delle ragioni per cui la consacrazione del calice ha assunto solo un significato relativo all’economia della salvezza e non in primo luogo sacramentale si trova nel fatto che non la si è guardata in connessione con la consacrazione del pane, ove è detto “dato” ovvero “spezzato per voi”. In ciò i testi liturgici più antichi avevano una visione molto più chiara. Così nel celebre papiro di Der Balaisa, che ci tramanda ampi stralci di una preghiera eucaristica (forse risalente al sec. III/IV), le due parti del racconto dell’Istituzione, in contrasto con la tradizione biblica, sono formulate in modo pienamente simmetrico: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi per la remissione dei peccati” – “Prendete, bevetene tutti: questo è il mio sangue versato per voi per la remissione dei peccati” (cfr. Hänngi-Pahl, p. 126). Qualcosa di simile si ha nella maggior parte delle anafore orientali, come dimostra con tutta evidenza lo studio di Fr. Hamm, Die liturgischen Einsetzungsberichte (1928): soltanto in età successiva ebbero luogo ampliamenti.
Possiamo ritenere che l’espressione “per molti”, che compare in Mt e Mc nelle preghiere eucaristiche tarde orientali e occidentali in luogo del corrispondente “per voi” di Lc, che è con tutta probabilità originario, come può constatarsi ancora nel papiro di Der Balaisa, risalga alla recitazione delle parole del Signore nella frazione del pane eucaristico che avveniva presso le comunità primitive. Si tratta di un adattamento liturgico il cui risalente impiego nelle celebrazioni delle varie comunità è reso evidente pure dalla formulazione linguistica delle versioni del racconto dell’Istituzione che si trovano nel Nuovo Testamento. Con l’espressione “per molti” invece di “per voi” si doveva fare riferimento ai “molti” partecipanti i quali, come un tempo gli apostoli cui Gesù si era in origine rivolto, bevono tutti al calice eucaristico.
Anche Paolo, 1Cor 10,17, parla dei “molti” in relazione al fatto di ricevere il pane eucaristico: infatti egli dice che “noi, i molti” (cioè coloro che lo riceviamo) in Cristo “formiamo un solo corpo”. Anche qui si tratta dell’azione della grazia per coloro che ricevono il corpo di Cristo, e solo indirettamente della redenzione sulla Croce.
L’opinione prevalente secondo cui con le parole “remissione dei peccati” si intende direttamente la redenzione avvenuta sulla Croce – per cui oggi la modifica “per tutti” è ritenuta necessaria – non la grazia che si consegue nel ricevere il santissimo sangue, è stata non da ultimo riaffermata in base alla considerazione che il greco ekchynnómenon (“versato”) nella maggior parte dei manoscritti della Vulgata – a differenza che nella maggioranza dei codici della Vetus Latina – viene reso con il futuro effundetur (“sarà versato”) in luogo di effunditur (“è versato”). In tal modo viene indicato chiaramente il sacrificio della Croce, mentre il riferimento alla grazia ricevuta con il bere il sangue eucaristico “per la remissione dei peccati” si indebolisce. E la forma effundetur, che non è fondata sull’originario testo greco, è entrata anche nel Missale Romanum, donde ha avuto origine l’intera problematica.
Ma già J. Pascher, in Liturgisches Jahrbuch 10 (1960), p. 99ss., aveva richiamato l’attenzione sul fatto che il greco ekchynnómenon non significa “effondere” [vergiessen] , vale a dire l’ “emissione del sangue dalla ferita”, bensì “versare” [ausgiessen], come già noi abbiamo tradotto. Nella celebrazione dell’eucaristia il prezioso sangue del Signore viene “versato” dal calice nella bocca dei (molti) fedeli, come anche nel Vecchio Testamento il sacrificio del sangue era da considerarsi compiuto soltanto “mediante l’atto di versare dai vasi”.
In relazione a ciò è da ricordare una espressione che compare nei sermoni De sacramentis (IV, 28): “Tutte le volte che il sangue (di Cristo) è versato (effunditur), è sparso (funditur) per la remissione dei peccati”. Anche Gregorio Magno riferisce le appendici della consacrazione del pane e del vino direttamente a quanto avviene nella celebrazione eucaristica, scrivendo in Dial. IV, 58: “Se Egli (Cristo) essendo risorto dai morti più non muore – la morte non ha più alcun potere su di Lui – tuttavia, pur vivendo immortale e incorruttibile, viene nuovamente immolato per noi in questo mistero del santo Sacrificio (pro nobis iterum… immolatur)”.
Ma in che cosa consiste secondo Gregorio questa “immolazione” del Signore? Sicuramente non, come si potrebbe intendere a una prima lettura, propriamente in una “rinnovazione” del sacrificio della Croce, infatti il testo prosegue: “Qui il suo corpo viene mangiato, la sua carne viene divisa (partitur) per la salvezza del popolo; il suo sangue è versato non più sulla mani degli infedeli, ma nella bocca dei fedeli”.
Secondo Gregorio quindi la “immolazione” di Cristo si compie sacramentalmente con la “divisione” del pane consacrato e col “versare” il vino consacrato nella bocca dei fedeli. Così in una antica forma del canone romano della Messa, citata alla lettera nei ricordati sermoni De sacramentis, la consacrazione del pane recita (IV, 21): “Questo è il mio corpo che è spezzato per voi (confringetur)”.
Pertanto nella consacrazione del pane e del vino si tratta in primo luogo del ricevere – qui e ora – le specie eucaristiche e delle grazie che ne derivano per coloro che le ricevono, e non direttamente della redenzione sulla Croce. Nel termine confringetur (che viene spezzato) non è possibile individuare un riferimento alla morte dí Gesù in Croce già solamente in quanto nel Vangelo di Giovanni (19,32-33) è affermato in maniera espressa che i soldati non avevano spezzato le ossa al Signore, a differenza degli altri due crocifissi con Lui. L’espressione confringetur quindi può riferirsi soltanto allo spezzare il pane eucaristico, anche se ciò, al pari del versare il calice nella bocca dei comunicanti, è al tempo stesso simbolo della morte cruenta di Gesù sulla Croce.
Da quanto detto consegue che in base a considerazioni di carattere teologico, biblico, filologico e storico-liturgico la traduzione di pro vobis et pro multis con “per voi e per tutti” nella consacrazione del calice, facente parte del racconto liturgico dell’Istituzione, è da rifiutare. Nelle parole pronunziate da Gesù sul calice non vi è alcuna dichiarazione riguardante la volontà di salvezza di Dio. Con “versato per molti” si intende l’azione della grazia del sangue di Cristo per coloro che lo ricevono. Questa è donata loro, come dice Giovanni Damasceno nel suo Sulla fede ortodossa (IV, 13), se “la ricevono degnamente nella fede, per la remissione dei peccati e per la vita eterna”.
Analogamente l’autore dei sermoni De sacramentis: “Tutte le volte che tu bevi (di questo calice) ricevi la remissione dei peccati e sei ripieno di Spirito Santo” (V, 17). Nella (antica) formula di oblazione del Missale Romanum manca il riferimento alla “remissione dei peccati”: c’è solamente l’augurio in vitam aeternam (per la vita eterna), che compare come aggiunta nella formula bizantina.
(da UVK 16, 1986, 333-338; titolo originale: Die Problematik der Übersetzung “für alle” – Neue Gesichtspunkte im Streit um die Fassung des Kelchwortes. Traduzione italiana di Fabio Marino).
[1] Cosi è pure per la versione italiana della Bibbia: cfr. La Bibbia concordata, Milano 1982 (Mondadori), vol. III, p. 76 (n.d.r.).
[2] Anche i nuovi Messali italiani hanno sempre ” per voi e per tutti ” (n.d.r.).
da “Una Voce Notiziario” n° 81-82, 1987, pp. 8-12
DOCUMENTI
AMDG et DVM

mercoledì 7 novembre 2018

IL MISTERO

Risultati immagini per sacerdoti che celebrano la santa messa

ORA PRO NOBIS...


AMDG et DVM

La vera immortalità alla quale aspiriamo non è un’idea

I Martiri nelle Catacombe(1855) - Jules Eugene Lenepveu (1819+-1898) 

DE  - EN  - ES  - FR  - IT  - PT ]

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica VaticanaAltare della Cattedra
Sabato, 3 novembre 2012

Venerati Fratelli,


cari fratelli e sorelle!



Nei nostri cuori è presente e vivo il clima della comunione dei Santi e della commemorazione dei fedeli defunti, che la liturgia ci ha fatto vivere in modo intenso nelle celebrazioni dei  giorni scorsi. 
In particolare, la visita ai cimiteri ci ha permesso di rinnovare il legame con le persone care che ci hanno lasciato; la morte, paradossalmente, conserva ciò che la vita non può trattenere.     Come i nostri defunti hanno vissuto, che cosa hanno amato, temuto e sperato, che cosa hanno rifiutato, lo scopriamo, infatti, in modo singolare proprio dalle tombe, che sono rimaste quasi come uno specchio della loro esistenza, del loro mondo: esse ci interpellano e ci inducono a riannodare un dialogo che la morte ha messo in crisi. 
Così, i luoghi della sepoltura costituiscono come una sorta di assemblea, nella quale i vivi incontrano i propri defunti e con loro rinsaldano i vincoli di una comunione che la morte non ha potuto interrompere. E qui a Roma, in quei cimiteri peculiari che sono le catacombe, avvertiamo, come in nessun altro luogo, i legami profondi con la cristianità antica, che sentiamo così vicina. 

Quando ci inoltriamo nei corridoi delle catacombe romane - come pure in quelli dei cimiteri delle nostre città e dei nostri paesi -, è come se noi varcassimo una soglia immateriale ed entrassimo in comunicazione con coloro che lì custodiscono il loro passato, fatto di gioie e di dolori, di sconfitte e di speranze. Ciò avviene, perché la morte riguarda l’uomo di oggi esattamente come quello di allora; e anche se tante cose dei tempi passati ci sono diventate estranee, la morte è rimasta la stessa.

Di fronte a questa realtà, l’essere umano di ogni epoca cerca uno spiraglio di luce che faccia sperare, che parli ancora di vita, e anche la visita alle tombe esprime questo desiderio. Ma come rispondiamo noi cristiani alla questione della morte? Rispondiamo con la fede in Dio, con uno sguardo di solida speranza che si fonda sulla Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Allora la morte apre alla vita, a quella eterna, che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo. 

La fede ci dice che la vera immortalità alla quale aspiriamo non è un’idea, un concetto, ma una relazione di comunione piena con il Dio vivente: è lo stare nelle sue mani, nel suo amore, e diventare in Lui una cosa sola con tutti i fratelli e le sorelle che Egli ha creato e redento, con l’intera creazione. 

La nostra speranza allora riposa sull’amore di Dio che risplende nella Croce di Cristo e che fa risuonare nel cuore le parole di Gesù al buon ladrone: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Questa è la vita giunta alla sua pienezza: quella in Dio; una vita che noi ora possiamo soltanto intravedere come si scorge il cielo sereno attraverso la nebbia.

In questo clima di fede e di preghiera, cari Fratelli, siamo raccolti attorno all’altare per offrire il Sacrificio eucaristico in suffragio dei Cardinali, degli Arcivescovi e dei Vescovi che, durante l’anno trascorso, hanno terminato la loro esistenza terrena. In modo particolare ricordiamo i compianti Fratelli Cardinali John Patrick Foley, Anthony Bevilacqua, José Sánchez, Ignace Moussa Daoud, Luis Aponte Martínez, Rodolfo Quezada Toruňo, Eugênio de Araújo Sales, Paul Shan Kuo-hsi, Carlo Maria Martini, Fortunato Baldelli. Estendiamo il nostro affettuoso ricordo anche a tutti gli Arcivescovi e Vescovi defunti, chiedendo al Signore, pietoso, giusto e misericordioso (cfr Sal 114), di voler loro concedere il premio eterno promesso ai fedeli servitori del Vangelo.

Ripensando alla testimonianza di questi nostri venerati Fratelli, possiamo riconoscere in essi quei discepoli «miti», «misericordiosi», «puri di cuore», «operatori di pace» di cui ci ha parlato la pericope evangelica (Mt 5,1-12): amici del Signore che, fidandosi della sua promessa, nelle difficoltà e anche nelle persecuzioni hanno conservato la gioia della fede, ed ora abitano per sempre la casa del Padre e godono della ricompensa celeste, ricolmi di felicità e di grazia. I Pastori che oggi ricordiamo hanno, infatti, servito la Chiesa con fedeltà e amore, affrontando talvolta prove onerose, pur di assicurare al gregge loro affidato attenzione e cura. Nella varietà delle rispettive doti e mansioni, hanno dato esempio di solerte vigilanza, di saggia e zelante dedizione al Regno di Dio, offrendo un prezioso contributo alla stagione post-conciliare, tempo di rinnovamento in tutta la Chiesa.

La Mensa eucaristica, alla quale si sono accostati, dapprima come fedeli e poi, quotidianamente, come ministri, anticipa nel modo più eloquente quanto il Signore ha promesso nel «discorso della montagna»: il possesso del Regno dei cieli, il prendere parte alla mensa della Gerusalemme celeste. Preghiamo perché ciò si compia per tutti. La nostra preghiera è alimentata da questa ferma speranza che «non delude» (Rm 5,5), perché garantita da Cristo che ha voluto vivere nella carne l’esperienza della morte per trionfare su di essa con il prodigioso avvenimento della Risurrezione. 

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5-6). Questo annuncio degli angeli, proclamato la mattina di Pasqua presso il sepolcro vuoto, è giunto attraverso i secoli fino a noi, e ci propone, anche in questa assemblea liturgica, il motivo essenziale della nostra speranza. Infatti, «se siamo morti con Cristo – ricorda san Paolo alludendo a ciò che è avvenuto nel Battesimo, – crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 6,8). È lo stesso Spirito Santo, per mezzo del quale l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, a far sì che la nostra speranza non sia vana (cfr Rm 5,5). Dio Padre, ricco di misericordia, che ha dato alla morte il suo Figlio unigenito quando eravamo ancora peccatori, come non ci donerà la salvezza ora che siamo giustificati per il sangue di Lui (cfr Rm 5,6-11)? 

La nostra giustizia si basa sulla fede in Cristo. È Lui il «Giusto», preannunciato in tutte le Scritture; è grazie al suo Mistero pasquale che, varcando la soglia della morte, i nostri occhi potranno vedere Dio, contemplare il suo volto (cfr Gb 19,27a).

Alla singolare esistenza umana del Figlio di Dio si affianca quella della sua Madre Santissima, che, sola tra tutte le creature, veneriamo Immacolata e piena di grazia. I nostri Fratelli Cardinali e Vescovi, di cui oggi facciamo memoria, sono stati amati con predilezione dalla Vergine Maria e hanno ricambiato il suo amore con devozione filiale. Alla sua materna intercessione vogliamo oggi affidare le loro anime, affinché siano da Lei introdotti nel Regno eterno del Padre, attorniati da tanti loro fedeli per i quali hanno speso la vita. Col suo sguardo premuroso vegli Maria su di essi, che ora dormono il sonno della pace in attesa della beata risurrezione. E noi eleviamo a Dio per loro la nostra preghiera, sorretti dalla speranza di ritrovarci tutti un giorno, uniti per sempre in Paradiso. Amen.

Immagine correlata

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

martedì 6 novembre 2018

Pillole VANGELO DI SAN TOMMASO

La perdita del Vangelo secondo Tommaso.
 Nel 367 Atanasio, il vescovo di Alessandria, la capitale dell’Egitto, fece un elenco dei libri riconosciuti come canonici. Tra questi [PURTROPPO! E chissà perché?! Ma c'è da immaginarselo] non venne incluso il Vangelo secondo Tommaso. I libri esclusi furono destinati alla distruzione. Probabilmente i monaci del monastero di San Pacomio ubbidirono all’ingiunzione, ma non se la sentirono di distruggere i testi della loro biblioteca. Pertanto li inserirono in una giara e la seppellirono nel deserto. Le ottimali condizioni climatiche consentirono ai codici di passare indenni oltre milleseicento anni prima della loro accidentale riscoperta.

Queste sono le parole segrete che Gesù il Vivente ha detto e Didimo Giuda Tommaso ha trascritto.

1. E lui disse, "Chiunque trova l'interpretazione di queste parole non conoscerà la morte".


2. Gesù disse, "Coloro che cercano cerchino finché troveranno. Quando troveranno, resteranno turbati. Quando saranno turbati si stupiranno, e regneranno su tutto."

3. Gesù disse, "Se i vostri capi vi diranno, 'Vedete, il Regno è nei cieli', allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno, 'È nei mari', allora i pesci vi precederanno. Invece, il Regno è dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete sarete riconosciuti, e comprenderete di essere figli del Padre vivente. Ma se non vi conoscerete, allora vivrete in miseria, e sarete la miseria stessa."

4. Gesù disse, "L'uomo di età avanzata non esiterà a chiedere a un bambino di sette giorni dov'è il luogo della vita, e quell'uomo vivrà. Perché molti dei primi saranno ultimi, e diventeranno tutt'uno."

5. Gesù disse, "Sappiate cosa vi sta davanti agli occhi, e quello che vi è nascosto vi sarà rivelato. Perché nulla di quanto è nascosto non sarà rivelato."
http://web.tiscalinet.it/Agrapha/Vangeli/Vangelo%20Tommaso.html

AMDG et DVM