venerdì 9 febbraio 2018

Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica.

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OMELIA DEL 
SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Sagrato della Basilica Vaticana Domenica, 1° maggio 2011

Cari fratelli e sorelle!

Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II. Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell’intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!

Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti voi che, per questa felice circostanza, siete convenuti così numerosi a Roma da ogni parte del mondo, Signori Cardinali, Patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche, Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Delegazioni Ufficiali, Ambasciatori e Autorità, persone consacrate e fedeli laici, e lo estendo a quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione.

Questa Domenica è la Seconda di Pasqua, che il beato Giovanni Paolo II ha intitolato alla Divina Misericordia. Perciò è stata scelta questa data per l’odierna Celebrazione, perché, per un disegno provvidenziale, il mio Predecessore rese lo spirito a Dio proprio la sera della vigilia di questa ricorrenza. Oggi, inoltre, è il primo giorno del mese di maggio, il mese di Maria; ed è anche la memoria di san Giuseppe lavoratore. Questi elementi concorrono ad arricchire la nostra preghiera, aiutano noi che siamo ancora pellegrini nel tempo e nello spazio; mentre in Cielo, ben diversa è la festa tra gli Angeli e i Santi! Eppure, uno solo è Dio, e uno è Cristo Signore, che come un ponte congiunge la terra e il Cielo, e noi in questo momento ci sentiamo più che mai vicini, quasi partecipi della Liturgia celeste.

“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa “Pietro”, la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. 
La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo.

Ma il nostro pensiero va ad un’altra beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre. E’ quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore. A Lei, che ha appena concepito Gesù nel suo grembo, santa Elisabetta dice: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45). 
La beatitudine della fede ha il suo modello in Maria, e tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di Colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro. 

Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque: lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l’intera comunità. In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima Lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19,25); e all’inizio degli Atti degli Apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1,14).

Anche la seconda Lettura odierna ci parla della fede, ed è proprio san Pietro che scrive, pieno di entusiasmo spirituale, indicando ai neo-battezzati le ragioni della loro speranza e della loro gioia. Mi piace osservare che in questo passo, all’inizio della sua Prima Lettera, Pietro non si esprime in modo esortativo, ma indicativo; scrive, infatti: “Siete ricolmi di gioia” – e aggiunge: “Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede: la salvezza delle anime” (1Pt 1,6.8-9). Tutto è all’indicativo, perché c’è una nuova realtà, generata dalla risurrezione di Cristo, una realtà accessibile alla fede. “Questo è stato fatto dal Signore - dice il Salmo (118,23) - una meraviglia ai nostri occhi”, gli occhi della fede.



Cari fratelli e sorelle, oggi risplende ai nostri occhi, nella piena luce spirituale del Cristo risorto, la figura amata e venerata di Giovanni Paolo II. Oggi il suo nome si aggiunge alla schiera di Santi e Beati che egli ha proclamato durante i quasi 27 anni di pontificato, ricordando con forza la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa. Tutti i membri del Popolo di Dio – Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose – siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa. Karol Wojtyła, prima come Vescovo Ausiliare e poi come Arcivescovo di Cracovia, ha partecipato al Concilio Vaticano II e sapeva bene che dedicare a Maria l’ultimo capitolo del Documento sulla Chiesa significava porre la Madre del Redentore quale immagine e modello di santità per ogni cristiano e per la Chiesa intera. 

Questa visione teologica è quella che il beato Giovanni Paolo II ha scoperto da giovane e ha poi conservato e approfondito per tutta la vita. Una visione che si riassume nell’icona biblica di Cristo sulla croce con accanto Maria, sua madre. Un’icona che si trova nel Vangelo di Giovanni (19,25-27) ed è riassunta nello stemma episcopale e poi papale di Karol Wojtyła: una croce d’oro, una “emme” in basso a destra, e il motto “Totus tuus”, che corrisponde alla celebre espressione di san Luigi Maria Grignion de Montfort, nella quale Karol Wojtyła ha trovato un principio fondamentale per la sua vita: “Totus tutus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria – Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo cuore, o Maria” (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, n. 266).

Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: “Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszyński mi disse: «Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio»”. E aggiungeva: “Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. 

Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato”. E qual è questa “causa”? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.

Swoim świadectwem wiary, miłości i odwagi apostolskiej, pełnym ludzkiej wrażliwości, ten znakomity syn Narodu polskiego pomógł chrześcijanom na całym świecie, by nie lękali się być chrześcijanami, należeć do Kościoła, głosić Ewangelię. Jednym słowem: pomógł nam nie lękać się prawdy, gdyż prawda jest gwarancją wolności.
[Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà.]
Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.

Karol Wojtyła salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere” il Servo di Dio Papa Paolo VIGiovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare “soglia della speranza”. Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace.

Vorrei infine rendere grazie a Dio anche per la personale esperienza che mi ha concesso, di collaborare a lungo con il beato Papa Giovanni Paolo II. Già prima avevo avuto modo di conoscerlo e di stimarlo, ma dal 1982, quando mi chiamò a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, per 23 anni ho potuto stargli vicino e venerare sempre più la sua persona. Il mio servizio è stato sostenuto dalla sua profondità spirituale, dalla ricchezza delle sue intuizioni. L’esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una “roccia”, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt’uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nella Chiesa.

Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto in questa Piazza dal Palazzo! Oggi, ti preghiamo: Santo Padre ci benedica! Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana 

Nostra Signora di Guadalupe 
Stella Divina del Pontificato del Beato Giovanni Paolo II

AMDG et DVM

Benedetto XVI, «Maria e il sacerdote»





BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo

Mercoledì, 12 agosto 2009





Benedetto XVI: «Maria e il sacerdote»

Cari fratelli e sorelle,

è imminente la celebrazione della solennità dell’Assunzione della Beata Vergine, sabato prossimo, e siamo nel contesto dell’Anno Sacerdotale; così vorrei parlare del nesso tra la Madonna e il sacerdozio. È un nesso profondamente radicato nel mistero dell’Incarnazione. Quando Dio decise di farsi uomo nel suo Figlio, aveva bisogno del «sì» libero di una sua creatura. Dio non agisce contro la nostra libertà. E succede una cosa veramente straordinaria: Dio si fa dipendente dalla libertà, dal «sì» di una sua creatura; aspetta questo «sì». San Bernardo di Chiaravalle, in una delle sue omelie, ha spiegato in modo drammatico questo momento decisivo della storia universale, dove il cielo, la terra e Dio stesso aspettano cosa dirà questa creatura.


Il «sì» di Maria è quindi la porta attraverso la quale Dio è potuto entrare nel mondo, farsi uomo. Così Maria è realmente e profondamente coinvolta nel mistero dell’Incarnazione, della nostra salvezza. E l’Incarnazione, il farsi uomo del Figlio, era dall’inizio finalizzata al dono di sé; al donarsi con molto amore nella Croce, per farsi pane per la vita del mondo. Così sacrificio, sacerdozio e Incarnazione vanno insieme e Maria sta nel centro di questo mistero.


Andiamo adesso alla Croce. Gesù, prima di morire, vede sotto la Croce la Madre; e vede il figlio diletto e questo figlio diletto certamente è una persona, un individuo molto importante, ma è di più: è un esempio, una prefigurazione di tutti i discepoli amati, di tutte le persone chiamate dal Signore per essere «discepolo amato» e, di conseguenza, in modo particolare anche dei sacerdoti. Gesù dice a Maria: «Madre ecco tuo figlio» (Gv 19, 26). È una specie di testamento: affida sua Madre alla cura del figlio, del discepolo. Ma dice anche al discepolo: «Ecco tua madre» (Gv 19, 27). 

Il Vangelo ci dice che da questo momento san Giovanni, il figlio prediletto, prese la madre Maria «nella propria casa». Così è nella traduzione italiana; ma il testo greco è molto più profondo, molto più ricco. Potremmo tradurlo: prese Maria nell’intimo della sua vita, del suo essere, «eis tà ìdia», nella profondità del suo essere. Prendere con sé Maria, significa introdurla nel dinamismo dell’intera propria esistenza – non è una cosa esteriore – e in tutto ciò che costituisce l’orizzonte del proprio apostolato. 

Mi sembra si comprenda pertanto come il peculiare rapporto di maternità esistente tra Maria e i presbiteri costituisca la fonte primaria, il motivo fondamentale della predilezione che nutre per ciascuno di loro. Maria li predilige infatti per due ragioni: perché sono più simili a Gesù, amore supremo del suo cuore, e perché anch’essi, come Lei, sono impegnati nella missione di proclamare, testimoniare e dare Cristo al mondo. Per la propria identificazione e conformazione sacramentale a Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, ogni sacerdote può e deve sentirsi veramente figlio prediletto di questa altissima ed umilissima Madre.


Il Concilio Vaticano II invita i sacerdoti a guardare a Maria come al modello perfetto della propria esistenza, invocandola “Madre del sommo ed eterno Sacerdote, Regina degli Apostoli, Ausilio dei presbiteri nel loro ministero”. E i presbiteri – prosegue il Concilio – “devono quindi venerarla ed amarla con devozione e culto filiale” (cfr. Presbyterorum ordinis, 18). 

Il Santo Curato d’Ars, al quale pensiamo particolarmente in quest’anno, amava ripetere: «Gesù Cristo, dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire la sua Santa Madre» (B. Nodet, Il pensiero e l’anima del Curato d’Ars, Torino 1967, p. 305). Questo vale per ogni cristiano, per tutti noi, ma in modo speciale per i sacerdoti. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché Maria renda tutti i sacerdoti, in tutti i problemi del mondo d’oggi, conformi all’immagine del suo Figlio Gesù, dispensatori del tesoro inestimabile del suo amore di Pastore buono. Maria, Madre dei sacerdoti, prega per noi!



Saluti:

Je suis heureux d’accueillir ce matin les pèlerins francophones. À l’approche de la Solennité de l’Assomption de la Vierge Marie, et en cette année sacerdotale, il nous est bon de regarder Marie comme la Mère de tous les prêtres. Sur la croix, Jésus a proclamé sa maternité spirituelle et universelle. En faisant ainsi le don de sa mère à tous, Jésus a voulu particulièrement la confier à ses disciples, aux prêtres qui plus que tout autre sont appelés à la prendre dans leur maison, c’est-à-dire à l’introduire dans le dynamisme de leur existence et dans l’horizon de leur apostolat. Prions pour que Marie aide les prêtres à se conformer à l’image de son Fils Jésus, dispensateur des trésors inestimables de son amour de Bon Pasteur. Marie, Mère des prêtres, priez pour nous!


I offer a warm welcome to the English-speaking visitors present at today’s Audience, including the Sisters of Saint Anne, the altar servers from Malta, and the pilgrims from Australia and the United States of America. As the Feast of the Assumption of the Blessed Virgin draws near in this Year of the Priest, my catechesis today is centered on Mary the Mother of priests. She looks upon them with special affection as her sons. Indeed, their mission is similar to hers; priests are called to bring forth Christ’s saving love into the world. On the cross, Jesus invites all believers, especially his closest disciples, to love and venerate Mary as their mother. Let us pray that all priests will make a special place for the Blessed Virgin in their lives, and seek her assistance daily as they bear witness to the Gospel of Jesus. Upon you and your families I invoke God’s blessings of joy and peace!


Mit Freude begrüße ich die Pilger und Besucher aus den Ländern deutscher Sprache und unter ihnen besonders die vielen Jugendlichen aus dem Ferienlager in Ostia. Bei seiner Menschwerdung erwählte sich Jesus Christus eine leibliche Mutter, deren Ja zum Willen Gottes ihm überhaupt erst das Menschwerden ermöglichte, Fleisch und Blut eines Menschen gab. Vom Kreuz herab hat der Erlöser uns allen Maria als geistliche Mutter geschenkt, und ihre Fürsorge gilt insbesondere den Priestern, die durch ihre Berufung und Weihe ihrem Sohn in besonderer Weise ähnlich geworden sind und mit ihrem ganzen Leben den Menschen die Liebe Christi erfahren lassen sollen. Das Hochfest der Aufnahme Mariens in den Himmel am kommenden Samstag erinnert uns daran, daß die Gemeinschaft unter uns Christen mit dem Tod nicht endet, sondern sich intensiviert, weil die Heiligen im Himmel noch fester mit Gott verbunden und daher uns noch näher sind und für uns Fürsprache leisten. So begleite uns Maria, unsere himmlische Mutter, mit ihrem Segen. Euch allen wünsche ich erholsame Ferien.


Queridos peregrinos de lengua española. Agradezco vuestra visita y os saludo muy cordialmente, en particular a los jóvenes de la Comunidad Misionera de Villaregia, venidos de Perú y México. Pido al Señor que la estancia en la sede de Pedro sea una ocasión para alentar el compromiso de ser verdaderos testigos del Evangelio en el mundo de hoy, como lo fueron los primeros Apóstoles que nos transmitieron con su palabra y su ejemplo de vida el mensaje salvador de Jesucristo.

Saluto in lingua polacca:
Witam obecnych tu w Castel Gandolfo Polaków, a szczególnie młodzież z Ruchu Światło-Życie, przebywającą na rzymskich rekolekcjach. Zainicjował je trzydzieści lat temu Sługa Boży Jan Paweł II. Niech one umocnią was w waszym charyzmacie. Proszę wszystkich: za wstawiennictwem Matki Kapłanów, wypraszajcie w Roku Kapłańskim potrzebne łaski dla waszych pasterzy. Niech będzie pochwalony Jezus Chrystus.
Traduzione italiana:
Do il mio benvenuto ai Polacchi presenti qui a Castel Gandolfo, e in modo particolare alla gioventù del movimento Luce e Vita che segue a Roma il corso di esercizi spirituali. Essi nacquero sotto l’invito del Servo di Dio Giovanni Paolo II. Il tema di quest’anno vi consolidi nel vostro carisma. Chiedo a tutti voi presenti: implorate le grazie di cui i vostri pastori hanno bisogno per l’intercessione della Madre dei Sacerdoti nell’Anno Sacerdotale. Sia lodato Gesù Cristo.

* * *

Un cordiale saluto rivolgo ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alle Figlie della Madonna del Divino Amore e ai partecipanti alla Fiaccola della Speranza. Nel ringraziarvi per la vostra presenza, sono lieto di invocare su di voi l’abbondanza dei doni dello Spirito per un rinnovato fervore spirituale e apostolico.

Mi rivolgo ora ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Abbiamo celebrato ieri la memoria di Santa Chiara d’Assisi, che ha saputo vivere con coraggio e generosità la sua adesione a Cristo. Imitate il suo esempio particolarmente voi, cari giovani, perché possiate come lei rispondere fedelmente alla chiamata del Signore. 

Incoraggio voi, cari malati, ad unirvi a Gesù sofferente nel portare con fede la vostra croce. E voi, cari sposi novelli, siate nella vostra famiglia apostoli del Vangelo dell’amore.
Il mio pensiero va, infine, alle numerose popolazioni che nei giorni scorsi sono state colpite dalla violenza del tifone nelle Filippine, a Taiwan, in alcune province sud-orientali della Repubblica Popolare Cinese e in Giappone, Paese, quest’ultimo, provato anche da un forte terremoto. Desidero manifestare la mia vicinanza spirituale a quanti si sono venuti a trovare in condizioni di grave disagio e invito tutti a pregare per loro e per quanti hanno perso la vita. Mi auguro che non manchino il sollievo della solidarietà e l’aiuto dei soccorsi materiali.
  

AMDG et DVM

giovedì 8 febbraio 2018

TERESA NEUMANN (2)

Le visioni

Dal momento in cui ricevette le stigmate fino alla morte, Teresa Neumann ebbe numerosissime visioni in cui vedeva Gesù, i vari episodi della sua vita, i suoi miracoli, le sue prediche, la morte in croce, la risurrezione, l'ascensione al cielo. Vedeva anche la vita della Madonna, degli apostoli e dei santi, fatti biblici, episodi narrati negli Atti degli Apostoli.
Durante le visioni Teresa era completamente staccata dal mondo circostante e non reagiva a nessuno stimolo: era totalmente immersa in quello che vedeva, che si rifletteva con grande espressività sul suo volto. Le fotografie che le sono state scattate dal fratello Ferdinand mentre davanti al suo occhio interiore passavano le visioni documentano con estrema chiarezza i diversi stati d'animo: gioia, dolore, preoccupazione, sofferenza, stupore e così via.
Teresa non assisteva ai fatti biblici soltanto con lo sguardo, ma con tutta se stessa: udiva quello che veniva detto (come vedremo, sentiva ed era in grado di ripetere anche parole e frasi in lingue che allo stato normale non conosceva), percepiva gli odori (per esempio quelli dei balsami), avvertiva sensazioni di caldo e di freddo, soffriva nel corpo le sofferenze di Gesù. Subito dopo la visione, e anche tra una visione e l'altra, Teresa entrava in uno stato che fu definito di «quiete soprannaturale», durante il quale si sentiva gioiosamente unita al Salvatore. Raramente Teresa Neumann parlava di Dio o di Gesù Cristo: per lei c'era soltanto il Salvatore, col quale per tutta la vita ebbe un rapporto di totale fiducia e confidenza. Durante lo stato di «quiete soprannaturale », Teresa poteva essere interrogata su quanto aveva visto e lo riferiva dettagliatamente; e anche su problemi religiosi e filosofici e su questioni personali riguardanti i presenti.
Le risposte e le spiegazioni che dava mentre si trovava in questa condizione superavano di gran lunga le sue conoscenze abituali; inoltre si esprimeva in tedesco corretto invece che in dialetto e dava prova di abilità chiaroveggenti e di uno straordinario potere di penetrazione nell'animo altrui. Capitava quindi sovente che rispondesse a qualche domanda prima che la persona interessata la formulasse e che accennasse, senza mai esprimere alcun biasimo o critica, a episodi della vita passata di chi le stava davanti, allo scopo di sollecitarne la confidenza. Tornata allo stato normale, Teresa non ricordava nulla di quanto aveva detto. Conosciamo ogni cosa perché padre Naber, Fritz Gerlich e altri hanno preso accuratamente nota di tutto; inoltre il fratello Ferdinand riuscì fin dagli anni Trenta a registrare su disco quanto Teresa diceva a proposito di ciò che vedeva in stato di estasi.
Le visioni più famose e impressionanti sono quelle della passione e morte di Gesù, che si ripetevano ogni venerdì ad eccezione dei tempi liturgici gaudiosi o di particolari feste religiose che cadevano di venerdì; in questi casi, abbastanza rari, a Teresa erano risparmiate le abituali sofferenze. Le visioni del venerdì si distinguevano infatti dalle altre anche perché Teresa soffriva moltissimo nel fisico e nello spirito: riviveva nel corpo e nell'anima l'ultimo giorno di Gesù. E’ stato calcolato che questo avvenne almeno settecento volte. Per quello che riguarda invece le altre visioni, quelle relative alla vita della Madonna e dei santi e agli episodi biblici, esse coglievano Teresa improvvisamente, in qualunque momento della giornata. Di colpo ella veniva colta dalla visione e trasportata altrove: ciò poteva capitare mentre stava cucendo, quando era in giardino, durante un colloquio con i familiari o i visitatori, in macchina col fratello Ferdinand. Teresa diventava allora del tutto insensibile agli stimoli esterni, non si accorgeva più di quanto avveniva intorno a lei, che era completamente concentrata su quanto le veniva mostrato.
Concentriamoci ora sulle visioni del venerdì, che erano del tutto particolari. Ogni volta Teresa vedeva più o meno la stessa cosa, cioè le veniva mostrata in quarantacinque quadri la passione del Redentore, dalla preghiera nell'orto degli ulivi al Golgota. Le visioni cominciavano la notte fra il giovedì e il venerdì e terminavano il venerdì, nell'ora della morte di Gesù. Come teologi, orientalisti ed esperti ebbero modo di constatare, queste visioni corrispondevano alla realtà storica, anche nei suoi aspetti meno noti. Quando Teresa Neumann cominciò ad avere le visioni, era una giovane contadina con ben poche letture al suo attivo. Ci si sarebbe dovuti di conseguenza aspettare che fosse influenzata per esempio dai quadri della Via Crucis della chiesa parrocchiale del paese, le uniche raffigurazioni di questo evento che conoscesse; invece ciò non avvenne affatto, né per l'ambiente, né per l'abbigliamento, né per il modo di agire dei personaggi coinvolti. Al dottor Fritz Gerlich che una volta le chiese se ci fosse somiglianza tra ciò che vedeva e i quadri che erano in chiesa, lei rispose subito: « Oh, no, dottore, non, c’è niente di simile! ». Ciò che le veniva mostrato nello stato visionario corrispondeva invece perfettamente al paesaggio di Gerusalemme, che Teresa non aveva mai visto, agli arredamenti e agli abiti dell'epoca, su cui certamente non aveva fatto alcuno studio storico.
Appena aveva inizio la contemplazione di Gesù nell'orto degli ulivi, Teresa cominciava a sanguinare dalle stigmate del costato, delle mani, dei piedi e della fronte; lacrime di sangue le sgorgavano inoltre dagli occhi. Mentre assisteva al trasporto della croce, la spalla le si gonfiava e si tumefaceva. « Chi ha potuto assistere a questa visione, ne ha riportato l'immagine di un martire perfetto e impressionante, ma pur sempre nobile, commovente e composto », scrive nel suo libro Johannes Steiner, che segui Teresa per quarant'anni. « Si vedevano le mani muoversi intorno alla fronte, come per allontanare le spine, le dita delle mani contrarsi nello spasimo doloroso dei chiodi della crocifissione, la lingua che cercava di umettare le labbra riarse...». Le varie scene duravano ognuna da due a cinque minuti e venivano interrotte dallo stato di quiete in cui Teresa raccontava ciò che aveva visto. Diceva anche che in quei momenti il Signore le ridava forza. Le visioni si interrompevano verso le due di notte, l'ora in cui Gesù fu messo in prigione prima di comparire davanti a Pilato, e riprendevano la mattina dopo. Particolarmente impressionante era la visione della flagellazione, durante la quale le si aprivano ferite sul petto e sulla schiena. Racconta il fratello Ferdinand: « Teresa ogni volta assisteva alle visioni come se fosse stata una persona dell'epoca che partecipa a qualcosa di terribile e crudele, continuando a sperare fino alla fine che Gesù in qualche modo venisse liberato. Per esempio quando assisteva al bacio di Giuda, credeva davvero che fosse amichevole e sorrideva; soltanto in un secondo momento la sua espressione si tramutava in orrore. Ogni volta la visione rappresentava quindi per lei una terribile angoscia sia fisica che morale. A queste passioni hanno assistito migliaia di persone, che venivano da tutte le parti della Germania e anche dall'estero e sfilavano in silenzio davanti al letto di Teresa che soffriva e sanguinava. Qualcuno di noi fratelli era sempre presente: abbiamo assistito a scene di estrema commozione, a conversioni, a sfoghi di pianto. Io sono stato presente decine di volte, ma non mi ci sono mai abituato: era veramente uno spettacolo che strappava il cuore! ».
Il contenuto delle visioni della passione era sempre uguale, come è stato detto; talora le varie fasi si allungavano o si accorciavano, però le scene che venivano viste erano sempre le seguenti: 1) Il Salvatore è in strada con dieci apostoli; mancano Pietro e Giovanni che sono stati mandati avanti. Sono le dieci e mezzo di sera. 2) Il Salvatore viene introdotto da « un uomo buono » in una bella e grande sala dove è imbandita un'a tavola. Gli apostoli sono ora dodici, ci sono anche Pietro e Giovanni. 3) Si finisce di preparare la sala e la mensa. Non ci sono sedie, ma sedili a schienale obliquo, piatti scuri, niente forchette ma certi strumenti simili a ganci. Il Salvatore ha un grosso coltello. Il fuoco è acceso. Entra un uomo che porta frasche verdi e un agnello pasquale allo spiedo. Il Salvatore segna la porta col sangue dell'agnello e ne getta anche nel fuoco. 4) Visione breve, con l'inizio della cena. 5) Il Salvatore si muove per la sala con gli apostoli. Tutti cantano, anche il Salvatore canta « con voce chiara ». Quando le chiedono se abbia sentito qualcosa, Teresa dice che le parole del canto erano « Alleluja, Eloim, Adonai ». 6) Il Salvatore lava i piedi agli apostoli. Pietro non vorrebbe farseli lavare, ma il Salvatore lo convince. 7) Il Salvatore benedice il pane e il vino. Teresa assume un'espressione di rispetto e rivolge lo sguardo verso l'alto. Gesù parla dicendo « qualcosa di grande » e dà a ognuno un pezzo di pane. Dice poi una cosa che fa alzare e uscire in fretta « quello con i capelli rossi ».
Gesù parla ancora e dà il vino agli apostoli. 8) Gli apostoli parlano tra loro. Il Salvatore si alza e prega. Quando si siede di nuovo, Giovanni gli appoggia la testa sulla spalla sinistra. Alcuni degli apostoli sono ora seduti, altri in piedi. Poi il Salvatore esce dalla porta. 9) Il Salvatore e gli apostoli si dirigono verso il monte degli ulivi. Teresa li segue con lo sguardo. 10) Il Salvatore attraversa un piccolo ponte e va verso un orto. Qui c'è una casa piccola e una più grande. Otto degli apostoli si fermano qui. Gesù prosegue con gli altri tre. 11) Il Salvatore prega inginocchiato nell'orto e poi torna verso i tre (prima preghiera). Teresa ha le lacrime agli occhi. 12) Seconda preghiera del Salvatore. Di nuovo va dai tre e li trova addormentati. Dagli occhi di Teresa escono le prime gocce di sangue. 13) Il Salvatore prega per la terza volta e suda sangue. Viene un angelo e lo consola. Gesù torna dai tre e li sveglia. Essi erano « il giovane, uno più vecchio e un altro più vecchio ». Teresa ha ormai strisce di sangue sulle guance, le gocce cominciano a cadere sulla camicia da notte; la ferita al cuore inizia a sanguinare. 14) Arrivano uomini con fiaccole. Davanti a tutti è quello che « era scappato quando il Salvatore gli aveva dato il pane ». 15) Scontro fra gli apostoli e Giuda. Gli apostoli gridano: « Machada, machada » (cosa succede?); poi riconoscono Giuda e urlano: « Ganapa, magera » (mascalzone, una spada!). Pietro estrae la spada e colpisce. (Da questo momento ella chiamerà Pietro « il mozzaorecchi » 3) Gli uomini gridano che vogliono Gesù di Nazareth, e il Salvatore risponde: « Ana » (Sono io). 16) Teresa sorride: ha scambiato il bacio di Giuda per un segno di amicizia. Subito dopo però la sua espressione diviene di orrore. Comincia a lamentare dolori alle mani. Il Salvatore risana l'orecchio del ferito (Malco) e subito dopo viene legato. La stigmata della mano sinistra di Teresa comincia a sanguinare. 17) Il Salvatore viene condotto via. E’ stanco e assetato.
Gli uomini hanno tentato di catturare Marco, ma lui è fuggito lasciando loro la sua tunica. 18) « Hanno gettato il Salvatore nell'acqua, lui ha bevuto l'acqua sporca » (del torrente Cedron). Anche la stigmata della mano destra e quelle dei piedi cominciano a sanguinare. 19) Il corteo passa per un sobborgo di poveri, che hanno pietà del Salvatore, si inginocchiano sulla strada e lo invocano. Poi vorrebbero seguire il corteo, ma vengono respinti. Il Salvatore, che è scalzo, viene condotto al centro della città, per strade sassose, fino a una grande casa con cortile interno, dove è acceso un fuoco. 20) Giovanni e Pietro osservano i fatti da una certa distanza. Arriva un uomo anziano con una lungà barba (Anna). 21) Il Salvatore è davanti a quest'uomo, ma da principio non gli parla. Infine gli dà una risposta orgogliosa. Allora uno gli dà uno schiaffo. Teresa geme per il dolore alla ferita al cuore. 22) Il Salvatore viene deriso. Le stigmate alle mani sanguinano di nuovo. Anna scrive qualcosa su un rotolo, lo infila nella cintura del Salvatore e lo fa portar via. 23) Il Salvatore viene condotto davanti a un altro uomo dalla veste scintillante, « qualcosa sulla testa che assomiglia a piccoli corni e una strana cosa sul petto». Teresa indica con le mani strisce che scendono obliquamente verso il petto. Si tratta dello stemma (ephod) del pontefice, su cui sono indicati i nomi delle dodici tribù di Israele. 24) Fuoco nel cortile. Il «mozzaorecchi» viene interrogato, ma nega di conoscere il Salvatore.
Teresa sente cantare il gallo. 25) « L'uomo con i cornetti», cioè il sommo pontefice, si strappa la veste. La taglia con un coltello e poi la strappa. Caifa si strappa la veste in segno di condanna. Alcuni si sono espressi contro la condanna, « ma non è servito a niente ». Il Salvatore viene di nuovo deriso. Gli mettono un mantello bruno, in testa una corona di paglia e da tutte le parti gli sputano addosso. Pietro, interrogato da una donna, nega ancora di conoscere Gesù. Di nuovo canta il gallo. In quello stesso momento il Salvatore gli passa davanti, lo guarda « addolorato ma buono », e poi si allontana piangendo. 26) Il Salvatore viene condotto in un « buco scuro, freddo », a cui si arriva attraverso un corridoio stretto e basso, che bisogna percorrere piegati. Il carcere è una cella stretta in cui possono stare al massimo due persone. Lì resta fino al mattino dopo. La gente se ne va, anche Giovanni raggiunge la Madre e le altre donne. «Che sofferenza per la Madre!».
Ella viene poi condotta in una casa nelle vicinanze. A questo punto, verso le due di notte, le visioni si interrompevano. Il tutto era durato circa due ore. Durante le visioni Teresa stava seduta diritta sul letto. Nelle pause tra una visione e l'altra si appoggiava al guanciale e dava spiegazioni su quanto aveva visto. Dopo l'ultima visione subentrava uno stato di pace, durante il quale diceva che il Salvatore le ridava forza. Fino al mattino dopo Teresa riposava. Nel momento in cui riprendevano le visioni, il sangue che era uscito dagli occhi e dalle stigmate era secco. 27) Al mattino i sacerdoti e il loro seguito portano Gesù davanti a Pilato. Si fermano davanti alla scalinata del palazzo, Pilato esce e si fa portare una specie di canapè, su cui si mette a sedere. Teresa sente che Pilato non prova odio per Gesù, ma vorrebbe essere giusto.
Dice però che « dovette cedere al volere della gente ». Pilato, saputo che Gesù è della Galilea, lo manda da Erode, che è a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Prima però lo fa lavare, perché è pieno di sangue e di sputi. Davanti a Erode il Salvatore si comporta con molto orgoglio e non risponde alle sue domande. Tuttavia Erode, anche se irato, non fa niente contro di lui, ma lo rimanda a Pilato. 28) Gesù viene ricondotto da Pilato. Teresa intanto vede la moglie di Pilato mandare al marito un messaggio che lo invita a non « impicciarsi di quel giusto ». Pilato è molto inquieto. 29) Il Salvatore e il corteo che lo accompagna arrivano da Pilato, il quale non è affatto contento di rivederli. Di nuovo interroga Gesù, e Teresa nota che Pilato « è l'unico al quale il Salvatore risponde ». Pilato cerca nuovamente di salvarlo, ma la folla che si è riunita continua a gridare: «Schelappo» (crocifiggilo). Allora Pilato manda a prendere il brigante Barabba e grida qualcosa alla folla. Tutti gridano: «Barabba». Pilato allora dà un ordine e Gesù viene condotto via. 30) Teresa guarda terrorizzata e volge il capo a destra e a sinistra: assiste alla flagellazione. Il Salvatore viene spogliato, le mani gli vengono legate e la corda fissata alla colonna. Il Salvatore ha il volto verso la colonna e le braccia così tirate verso l’alto che tocca terra appena con le dita dei piedi. Poi tre gruppi composti ognuno da due uomini ubriachi cominciano a flagellarlo.
Quando vedono che tutte le parti raggiungibili del corpo sono gonfie e tumefatte, lo voltano e lo flagellano anteriormente. Durante la flagellazione sul petto e sulle spalle di Teresa si aprono delle ferite che macchiano di sangue la camicia. Finita la flagellazione, il Salvatore è così sfinito che non riesce neppure a chinarsi per raccogliere le proprie vesti. Per scherno il ragazzetto gliele fa volare lontano con un calcio. Teresa è furiosa contro questo ragazzo ed esprime vivacemente la sua collera. 31) La corona di spine. Questa corona non consiste, come abitualmente si pensa, in semplici rami spinosi intrecciati, ma è simile alle corone orientali, che sono chiuse nella parte superiore: i copricapo dei patriarchi della Chiesa ortodossa hanno tuttora questa forma. Teresa la descriveva come « una specie di cesto, con molte spine lunghe e appuntite, che i servitori conficcavano in testa a Gesù aiutandosi anche con bastoni per non ferirsi ». (Interessante notare che recenti studi sulla Sindone hanno portato a scoprire che la corona di spine era in realtà una specie di mitra fatta di un intreccio di rovi) 32) Pilato si fa condurre il Salvatore, che ha la corona di spine sulla testa, un lacero mantello rosso sulle spalle, sta curvo e trema. Pilato lo guarda con evidente pietà. Tra la folla Teresa vede anche la Madre e Giovanni. La folla continua a gridare: «Schelappo». 33) Pilato si fa portare una ciotola e si fa versare acqua sulle mani. Viene pronunciata la condanna a morte di Gesù. Le proteste vengono soffocate dalle grida della folla.
Vengono portati i legni per la croce: Teresa in un primo momento crede che sia legna da costruzione. Due pezzi corti e uno più lungo: la croce non è ancora stata montata e i legni sono legati insieme. Teresa nota che devono essere stati squadrati da tempo, infatti gli angoli sono smussati per le intemperie. I legni vengono gettati sulle spalle del Salvatore, che cominciano a sanguinare. Anche la spalla destra di Teresa comincia a macchiarsi di sangue. 34) Gesù cammina verso il Calvario. Cade sotto la croce e viene rialzato violentemente. 35) Lungo il cammino Gesù vede sua madre insieme a Giovanni e ad alcune donne. Teresa lo sente chiamare «Immi» (mia madre). Uno dei ragazzacci che accompagnano i carnefici, accorgendosi che si tratta della madre di Gesù, per scherno le mostra due chiodi di crocifissione. Maria sviene e viene sorretta da Giovanni. 36) Uno straniero viene sollecitato a portare la croce di Gesù. Teresa gli fa cenno con la mano sinistra, come a sollecitarlo ad aiutare il Salvatore. 37) Quest'uomo è un greco, si chiama Simone di Cirene. Ha un bastone sotto il braccio ed è in compagnia di due ragazzi, uno più grande e uno più piccolo. Si erano avvicinati per vedere cosa stava succedendo. Quando gli ordinano di portare la croce, l'uomo si ribella e rifiuta di farlo. Dato che gli aguzzini vogliono costringerlo, lui protesta energicamente e così facendo provoca la seconda caduta del Salvatore, il quale rialzandosi si volta verso di lui e lo guarda con uno sguardo divino che tronca ogni sua resistenza. Simone afferra la croce, sollevando completamente del suo peso il Salvatore.
Teresa assiste a tutto questo camminando accanto a Gesù. 38) Si avvicina una donna con una fanciulla che porta una brocca d'acqua. Resì la riconosce: è la stessa che un tempo si era avvicinata di nascosto al Salvatore e gli aveva toccato la veste, guarendo dalla sua emorragia. Commossa, vedendo il volto coperto di sudore e di sangue del Salvatore, gli porge il suo scialle e lui se lo preme contro il viso, la cui impronta vi resta impressa. 39) Il corteo arriva alla porta della città. 40) Donne e bambini sostano sulla strada e guardano piangendo il passaggio del Salvatore. I soldati li respingono. 41) Il Salvatore inciampa e cade. 42) Gli aguzzini gridano: « Kum » (alzati), e afferrano il Salvatore per le spalle per farlo rialzare: temono che muoia prima di venir crocifisso. 43) Il corteo arriva al luogo della crocifissione sul monte Calvario. Qui si ferma. Il Salvatore viene condotto in una vecchia tomba mezza diroccata. 44) I tre pezzi della croce vengono messi insieme. 45) Il Salvatore viene disteso per prova sulla croce: vengono segnate le posizioni della testa, delle mani, dei piedi e della vita. Poi lo fanno alzare (Teresa dice che da solo non ci sarebbe mai riuscito) e lo riportano nella tomba. Teresa lo vede seduto, ancora vestito e tremante: in stato normale Teresa osservò che era logico che tremasse, visto che la stagione era ancora indietro e lui aveva la febbre per le molte ferite. Dopo questa visione, che avveniva in genere verso le undici del mattino, c'era sempre una pausa di circa un’ora, durante la quale Teresa giaceva in posizione di abbandono e riprendeva forza.
In varie occasioni ebbe a dire che durante quell'ora i carnefici preparavano la croce. Verso le dodici Teresa si mette di colpo a sedere sul letto, con le mani tese in avanti: per tre quarti d'ora assisterà alla crocifissione. Il Salvatore viene condotto accanto alla croce; gli strappano i vestiti appiccicati al corpo dal sangue, così che tutte le ferite si riaprono e ricominciano a sanguinare. Resta nudo, e ha il volto pieno di tristezza per l'affronto. Presa da pietà, una donna gli porge uno scialle e lui se lo avvolge con gratitudine intorno alla vita. Gli aguzzini lo spingono sulla croce e lo legano alla cintola. Poi gli legano anche le braccia alla croce e infilano i chiodi, attraverso la mano, nel foro già praticato in precedenza nel legno. Siccome a sinistra il foro è troppo distante, con una corda tirano il braccio fino a slogare la spalla. Teresa sussulta a ogni colpo di martello e dalle stigmate esce sangue fresco. Si procede poi all'inchiodatura dei piedi: anche le gambe vengono legate alla croce, i piedi sovrapposti e inchiodati con un lungo chiodo. Viene quindi attaccata la scritta col nome e poi la croce viene innalzata e conficcata in una fossa, già preparata. Teresa sussulta per lo spasimo e vede il Salvatore piegare il capo e svenire per qualche momento. Siccome la fossa non risulta sufficientemente profonda, i carnefici tolgono la croce, scavano ancora un po' e poi la rimettono a posto, meno violentemente di prima. Per tener salda la croce, riempiono la fossa di terra, pietre e cunei di legno. Teresa, su richiesta, ebbe occasione di precisare che il Salvatore era stato crocifisso con le spalle alla città; le croci dei due ladroni erano un po' più avanti, disposte obliquamente. Teresa tiene ora costantemente lo sguardo rivolto verso l'alto, sente le parole di perdono di Gesù, le grida di scherno della folla. Il suo sguardo si posa con grande pietà anche sulla Madre, che sta ai piedi della croce sorretta da Giovanni. Accanto a lei Maria Maddalena, con le vesti imbrattate di sangue. Il cielo si oscura e il Salvatore si sente abbandonato. Mormora: « Ebi, Ebi, lamà sabaktani » (Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?). E’ il momento più difficile della sua esistenza. Ferdinand Neumann ha registrato queste parole della sorella: «Al Salvatore pareva che il Padre non ne volesse più sapere di lui, e per me è stato come se il Salvatore non ne volesse più sapere di me».
Nella febbre e nell'arsura Teresa sente il Salvatore pronunciare la parola « As-che » (ho sete), termine insolito di cui si dirà in seguito, alla fine di questo capitolo. Al Salvatore viene allungata la spugna con acqua e aceto, lui ne beve, poi esclama: « Salem kulechi » (tutto è compiuto). E poco dopo: « Abba, bejadach afkedh ruchi » (Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito). La terra trema, la rupe si spacca, il Salvatore china la testa e spira. In quello stesso momento Teresa si abbandona riversa sui guanciali. La bocca le resta semichiusa, il volto è cereo: a giudizio dei numerosissimi testimoni, sembra veramente una morta. Le visioni della passione erano quasi sempre queste. Il venerdì santo e in qualche altra rara occasione Teresa vedeva però anche altre cose: la morte dei ladroni, la deposizione dalla croce, la sepoltura del Salvatore. Johannes Steiner riferisce che nel 1947, mentre era nello stato normale, Teresa spiegò che i due bracci della croce non erano paralleli a terra, bensì piantati obliquamente nel palo centrale. Steiner allora fece uno schizzo (quello qui riportato) che Teresa giudicò più o meno esatto. Disse però che la croce era molto più bassa, tanto che la Madre e Giovanni, che stavano accanto alla croce, arrivavano con la testa quasi all'altezza del petto del Salvatore. Dopo la visione della passione, Teresa cadeva in un sonno profondo.
Il sabato solitamente si era del tutto rimessa. Soltanto il sabato santo continuava a dormire, e a fatica i parenti riuscivano a muoverla per lavarla. Si riprendeva la mattina di Pasqua, di buon'ora, con la visione della risurrezione. Appariva allora felicissima, piena di gioia e non si stancava di ripetere a padre Naber, che era sempre presente, di non dimenticare di dire alla gente, nel suo sermone pasquale, che « il Salvatore è buono ». Vediamo ora qualche altro elemento di grande interesse. È stato osservato più volte che, durante le visioni, le stigmate di Teresa Neumann si aprivano e cominciavano a sanguinare. A queste sanguinazioni ebbero modo di assistere, in più occasioni, dei medici, tra cui il professor G. Ewald, docente a Erlangen; dopo aver analizzato le piaghe insieme ad alcuni colleghi, egli scrisse: «La prima apparizione delle lacrime di sangue all'inizio dell'estasi fu osservata anche dal collega Seidì e dal medico legale Molitori. Furono fatti immediati prelievi, che furono analizzati al microscopio: la presenza di sangue fu constatata senz'ombra di dubbio... Una simile sanguinazione non potrebbe essere provocata artificialmente, in quanto rimarrebbero cicatrici evidenti alle congiuntive. Ogni ferita provocata si chiuderebbe da sola prima di poter provocare una tale sanguinazione, anche se si trattasse di ferite ampie, che però non potrebbero mai passare inosservate. Lo stesso vale anche per la ferita nella regione del cuore e per il sangue che esce dalla testa. L'inizio spontaneo delle sanguinazioni è stato osservato con certezza da parecchi medici, anche con la lente d'ingrandimento».
Nessun dubbio quindi sull'autenticità delle stigmate e delle sanguinazioni spontanee durante le visioni. Un altro elemento notevole è rappresentato dal fatto che durante le visioni Teresa Neumann parlava in lingue che allo stato normale non conosceva: si parla in questo caso di xenoglossia, cioè della capacità di parlare, in uno stato alterato di coscienza, lingue straniere non apprese. Teresa pronunciò frasi in latino quando ripeteva le frasi dei soldati romani, in portoghese quando assisteva a scene della vita di sant'Antonio di Padova, in francese per Bernadette di Lourdes, in aramaico per quello che riguarda la vita di Gesù. Superfluo ripetere che Teresa Neumann conosceva soltanto il tedesco, anzi abitualmente si espflmeva nel dialetto del suo paese. Alle sue visioni ebbero modo di assistere eminenti orientalisti, fra cui il professor Wutz di Eichstàtt, docente di esegesi biblica, il professor Wesseley di Vienna e il professor Johannes Bauer, docente di teologia semitica all'Università di Halle. Le frasi in aramaico pronunciate dalla Neumann durante le estasi furono molto numerose.
Alcune le abbiamo già citate in precedenza, altre sono per esempio queste: Johudaje: giudei; Schiama Rabbuni: io ti saluto, o Maestro (parole pronunciate da Giuda nell'orto degli ulivi); Abba, shobok la'hon: Padre, perdona loro (parole di Gesù sulla croce); Amen Amarna lach bjani atte emmi b'padesa: in verità ti dico che oggi sarai con me in paradiso (parole di Gesù al buon ladrone). È stato osservato che queste espressioni esistono già stampate in libri e dizionari, e quindi potrebbe essere ipotizzabile che Teresa Neumann, che possedeva facoltà chiaroveggenti, in qualche modo le captasse. Il fenomeno della « lettura in libri chiusi » è noto in parapsicologia e certi sensitivi hanno dimostrato di esserne capaci. Oppure si potrebbe anche ipotizzare che Teresa Neumann captasse tali conoscenze direttamente dalla mente degli orientalisti presenti. Va notato però che in certi casi le parole pronunciate in aramaico stupivano gli stessi esperti, che se ne sarebbero attese altre.
Per esempio una volta, mentre aveva la visione di Gesù in croce, Teresa pronunciò la parola «as-che!», che significa « ho sete ». Tutti gli esperti presenti furono d'accordo nel ritenere che il vocabolo da usarsi per esprimere tale necessità sarebbe dovuto essere « sachena! ». Il dottor Punder ebbe anzi a dire: « Ma da dove, dunque, Teresa avrà rilevato l'inattesa quanto corretta parola as-che? E’ questo un enigma che nessuna forma di suggestione può risolvere » Un altro orientalista presente, il professor Wesseley, rimase anch'egli sorpreso da questa parola e da un'altra frase pronunciata da Teresa e ignorata dagli esperti presenti: « Rimane inesplicabile », affermò, « come mai Teresa abbia potuto pronunciare una sentenza fino ad ora non conosciuta dagli orientalisti che l'ascoltavano, e che essa abbia potuto usare una parola aramaica inattesa da loro stessi, per quanto assolutamente corretta. Il presumere che la fanciulla abbia potuto leggere un pensiero che non si concretizzò mai nel cervello del professor Wutz e di tutti gli altri, risulta pura insulsaggine ». In un'altra occasione il professor Wutz stava trascrivendo quanto Teresa diceva, quando, non comprendendo una frase, interruppe la veggente dicendole: « Teresa, ciò non e possibile. Le parole che dite non sono in aramaico ». La Neumann rispose: « Ho ripetuto le parole che mi hanno detto ». Il professor Wutz rimase nella convinzione che la frase fosse sbagliata, e tornato a casa consultò diversi testi in aramaico, fino a quando in uno dei più antichi dizionari di questa lingua trovò la stessa frase che Teresa aveva pronunciato. C'è anche da rilevare che le parole in aramaico non si leggono come sono scritte, e di conseguenza anche se Teresa fosse riuscita a « leggerle » in libri lontani, come avrebbe potuto pronunciarle in maniera esatta? L'ipotesi più logica è quindi che durante lo stato mistico Teresa avesse la possibilità di superare le barriere spaziali e temporali, trasferendosi indietro nel tempo e percependo quanto effettivamente si era verificato quasi duemila anni prima. (Continua) 
Agnello mistico

AMDG et DVM

mercoledì 7 febbraio 2018

La Madre Moretta

GIUSEPPINA BAKHITA (1869-1947)  vergine dell'Istituto delle Figlie della carità Canossiane



  
Giuseppina M. Bakhita nacque nel Sudan nel 1869 e morì a Schio (Vicenza) nel 1947.
Fiore africano, che conobbe le angosce del rapimento e della schiavitù, si aprì mirabilmente alla grazia in Italia, accanto alle Figlie di S. Maddalena di Canossa.

La Madre Moretta

A Schio (Vicenza), dove visse per molti anni, tutti la chiamano ancora «la nostra Madre Moretta».
Il processo per la causa di Canonizzazione iniziò dodici anni dopo la sua morte e il 1 dicembre 1978 la Chiesa emanò il decreto sull'eroicità delle sue virtù.
La divina Provvidenza che «ha cura dei fiori del campo e degli uccelli dell'aria», ha guidato questa schiava sudanese, attraverso innumerevoli e indicibili sofferenze, alla libertà umana e a quella della fede, fino alla consacrazione di tutta la propria vita a Dio per l'avvento del regno.

In schiavitù

Bakhita non è il nome ricevuto dai genitori alla sua nascita. La terribile esperienza le aveva fatto dimenticare anche il suo nome.
Bakhita, che significa «fortunata», è il nome datole dai suoi rapitori.
Venduta e rivenduta più volte sui mercati di El Obeid e di Khartoum conobbe le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù.

Verso la libertà

Nella capitale del Sudan, Bakhita venne comperata da un Console italiano, il signor Callisto Legnani. Per la prima volta dal giorno del suo rapimento si accorse, con piacevole sorpresa, che nessuno, nel darle comandi, usava più lo staffile; anzi la si trattava con maniere affabili e cordiali. Nella casa del Console, Bakhita conobbe la serenità, l'affetto e momenti di gioia, anche se sempre velati dalla nostalgia di una famiglia propria, perduta forse, per sempre.
Situazioni politiche costrinsero il Console a partire per l'Italia. Bakhita chiese ed ottenne di partire con lui e con un suo amico, un certo signor Augusto Michieli.

In Italia

Giunti a Genova, il Signor Legnani, su insistente richiesta della moglie del Michieli, accettò che Bakhita rimanesse con loro. Ella seguì la nuova «famiglia» nell'abitazione di Zianigo (frazione di Mirano Veneto) e, quando nacque la figlia Mimmina, Bakhita ne divenne la bambinaia e l'amica.
L'acquisto e la gestione di un grande hotel a Suakin, sul Mar Rosso, costrinsero la signora Michieli a trasferirsi in quella località per aiutare il marito. Nel frattempo, dietro avviso del loro amministratore, Illuminato Checchini, Mimmina e Bakhita vennero affidate alle Suore Canossiane dell'Istituto dei Catecumeni di Venezia. Ed è qui che Bakhita chiese ed ottenne di conoscere quel Dio che fin da bambina «sentiva in cuore senza sapere chi fosse».
«Vedendo il sole, la luna e le stelle, dicevo tra me: Chi è mai il Padrone di queste belle cose? E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo e di prestargli omaggio».

Figlia di Dio

Dopo alcuni mesi di catecumenato Bakhita ricevette i Sacramenti dell'Iniziazione cristiana e quindi il nome nuovo di Giuseppina. Era il 9 gennaio 1890. Quel giorno non sapeva come esprimere la sua gioia. I suoi occhi grandi ed espressivi sfavillavano, rivelando un'intensa commozione. In seguito la si vide spesso baciare il fonte battesimale e dire: «Qui sono diventata figlia di Dio!».
Ogni giorno nuovo la rendeva sempre più consapevole di come quel Dio, che ora conosceva ed amava, l'aveva condotta a sé per vie misteriose, tenendola per mano.
Quando la signora Michieli ritornò dall'Africa per riprendersi la figlia e Bakhita, quest'ultima, con decisione e coraggio insoliti, manifestò la sua volontà di rimanere con le Madri Canossiane e servire quel Dio che le aveva dato tante prove del suo amore.
La giovane africana, ormai maggiorenne, godeva della libertà di azione che la legge italiana le assicurava.

Figlia di Maddalena

Bakhita rimase nel catecumenato ove si chiarì in lei la chiamata a farsi religiosa, a donare tutta se stessa al Signore nell'Istituto di S. Maddalena di Canossa.
L'8 dicembre 1896 Giuseppina Bakhita si consacrava per sempre al suo Dio che lei chiamava, con espressione dolce, «el me Paron».
Per oltre cinquant'anni questa umile Figlia della Carità, vera testimone dell'amore di Dio, visse prestandosi in diverse occupazioni nella casa di Schio: fu infatti cuciniera, guardarobiera, ricamatrice, portinaia.
Quando si dedicò a quest'ultimo servizio, le sue mani si posavano dolci e carezzevoli sulle teste dei bambini che ogni giorno frequentavano le scuole dell'Istituto. La sua voce amabile, che aveva l'inflessione delle nenie e dei canti della sua terra, giungeva gradita ai piccoli, confortevole ai poveri e ai sofferenti, incoraggiante a quanti bussavano alla porta dell'Istituto.

Testimone dell'amore

La sua umiltà, la sua semplicità ed il suo costante sorriso conquistarono il cuore di tutti i cittadini scledensi. Le consorelle la stimavano per la sua dolcezza inalterabile, la sua squisita bontà e il suo profondo desiderio di far conoscere il Signore.
«Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio!».
Venne la vecchiaia, venne la malattia lunga e dolorosa, ma M. Bakhita continuò ad offrire testimonianza di fede, di bontà e di speranza cristiana. A chi la visitava e le chiedeva come stesse, rispondeva sorridendo: «Come vol el Paron».

L'ultima prova

Nell'agonia rivisse i terribili giorni della sua schiavitù e più volte supplicò l'infermiera che l'assisteva: «Mi allarghi le catene...pesano!».
Fu Maria Santissima a liberarla da ogni pena. Le sue ultime parole furono: «La Madonna! La Madonna!», mentre il suo ultimo sorriso testimoniava l'incontro con la Madre del Signore.
M. Bakhita si spense l'8 febbraio 1947 nella casa di Schio, circondata dalla comunità in pianto e in preghiera. Una folla si riversò ben presto nella casa dell'Istituto per vedere un'ultima volta la sua «Santa Madre Moretta» e chiederne la protezione dal cielo. La fama di santità si è ormai diffusa in tutti i continenti.

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Santa Giuseppina Bakhita Vergine
8 febbraio - Memoria Facoltativa
Oglassa, Darfur, Sudan, 1868 - Schio, Vicenza, 8 febbraio 1947
Nasce nel Sudan nel 1869, rapita all'età di sette anni, venduta più volte, conosce sofferenze fisiche e morali, che la lasciano senza un'identità. Sono i suoi rapitori a darle il nome di Bakhita («fortunata»). Nel 1882 viene comprata a Kartum dal console Italiano Calisto Legnani. Nel 1885 segue quest'ultimo in Italia dove, a Genova, viene affidata alla famiglia di Augusto Michieli e diventa la bambinaia della figlia. Quando la famiglia Michieli si sposta sul Mar Rosso, Bakhita resta con la loro bambina presso le Suore Canossiane di Venezia. Qui ha la possibilità di conoscere la fede cristiana e, il 9 gennaio 1890, chiede il battesimo prendendo il nome di Giuseppina. Nel 1893, dopo un intenso cammino, decide di farsi suora canossiana per servire Dio che le aveva dato tante prove del suo amore. Divenuta suora, nel 1896 è trasferita a Schio (Vicenza) dove muore l'8 febbraio del 1947. Per cinquant'anni ha ricoperto compiti umili e semplici offerti con generosità e semplicità. (Avv.)

Martirologio Romano: Santa Giuseppina Bakhita, vergine, che, nata nella regione del Darfur in Sudan, fu rapita bambina e, venduta più volte nei mercati africani di schiavi, patì una crudele schiavitù; resa, infine, libera, a Venezia divenne cristiana e religiosa presso le Figlie della Carità e passò il resto della sua vita in Cristo nella città di Schio nel territorio di Vicenza prodigandosi per tutti. 

Esiste un manoscritto, redatto in italiano e custodito nell’archivio storico della Curia generalizia delle suore Canossiane di Roma, che raccoglie l’autobiografia di santa Bakhita, canonizzata in piazza San Pietro il 1° 2000 fra danze e ritmati canti africani. In questo manoscritto sono racchiuse le brutture a cui fu sottoposta Bakhita nei suoi tragici anni di schiavitù, la sua riacquistata libertà e infine la conversione al cattolicesimo.

“La mia famiglia abitava proprio nel centro dell’Africa, in un subborgo del Darfur, detto Olgrossa, vicino al monte Agilerei... Vivevo pienamente felice…

Avevo nove anni circa, quando un mattino…andai… a passeggio nei nostri campi… Ad un tratto [sbucano] da una siepe due brutti stranieri armati… Uno… estrae un grosso coltello dalla cintura, me lo punta sul fianco e con una voce imperiosa, “Se gridi, sei morta, avanti seguici!””.

Venduta a mercanti di schiavi, iniziò per Bakhita un’esistenza di privazioni, di frustate e di passaggi di padrone in padrone. Poi venne tatuata con rito crudele e tribale: 114 tagli di coltello lungo il corpo: “Mi pareva di morire ad ogni momento… Immersa in un lago di sangue, fui portata sul giaciglio, ove per più ore non seppi nulla di me… Per più di un mese [distesa] sulla stuoia… senza una pezzuola con cui asciugare l’acqua che continuamente usciva dalle piaghe semiaperte per il sale”.

Giunse finalmente la quinta ed ultima compra-vendita della giovane schiava sudanese. La acquistò un agente consolare italiano, Callisto Legnami.  Dieci anni di orrori e umiliazioni si chiudevano. E, per la prima volta, Bakhita indossa un vestito.

“Fui davvero fortunata; perché il nuovo padrone era assai buono e prese a volermi bene tanto”. Trascorrono più di due anni. L’incalzante rivoluzione mahdista fa decidere il funzionario italiano di lasciare Khartoum e tornare in patria. Allora “osai pregarlo di condurmi in Italia con sé”. Bakhita raggiunge la sconosciuta Italia, dove il console la regalerà ad una coppia di amici di Mirano Veneto e per tre anni diventerà la bambinaia di loro figlia, Alice.

Ed ecco l’incontro con Cristo. La mamma di Alice, Maria Turina Michieli, decide di mandare figlia e bambinaia in collegio dovendo raggiungere l’Africa per un certo periodo di tempo. La giovane viene ospitata nel Catecumenato diretto dalle Suore Canossiane di Venezia (1888). “Circa nove mesi dopo, la signora Turina venne a reclamare i suoi diritti su di me. Io mi rifiutai di seguirla in Africa… Ella montò sulle furie”. Nella questione intervennero il patriarca di Venezia Domenico Agostini e il procuratore del re, il quale  “mandò a dire che, essendo io in Italia, dove non si fa mercato di schiavi, restavo… libera”.

Il 9 gennaio 1890 riceve dal Patriarca di Venezia il battesimo, la cresima e la comunione e le viene imposto il nome di Giuseppina, Margherita, Fortunata, che in arabo si traduce Bakhita.

Nel 1893 entra nel noviziato delle Canossiane. “Pronunciate i santi voti senza timori. Gesù vi vuole, Gesù vi ama. Voi amatelo e servitelo sempre così”, le dirà il cardinal Giuseppe Sarto, nuovo Patriarca e futuro Pio X. Nel 1896 pronuncia i voti e si avvia ad un cammino di santità. Cuoca, sacrestana e portinaia saranno le sue umili mansioni, descritte e testimoniate dal recente e ben riuscito video prodotto dalla Nova-T, dal titolo “Le due valigie, S. Giuseppina Bakhita”, con la regia di Paolo Damosso, la fotografia di Antonio Moirabito e la recitazione di  Franco Giacobini e Angela Goodwin. Il titolo si rifà alle parole che Bakhita disse prima di morire: “Me ne vado, adagio adagio, verso l’eternità… Me ne vado con due valigie: una, contiene i miei peccati, l’altra, ben più pesante, i meriti infiniti di Gesù Cristo”.

Donna di preghiera e di misericordia, conquistò la gente di Schio, dove rimase per ben 45 anni. La suora di “cioccolato”,  che i bambini provavano a mangiare, catturava per la sua bontà, la sua gioia, la sua fede. Già in vita la chiamano santa e alla sua morte (8 febbraio 1947),  sopraggiunta a causa di una polmonite, Schio si vestì a lutto.

Aveva detto: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa…”.


La Chiesa la ricorda l'8 febbraio mentre nella diocesi di Milano la sua memoria si celebra il 9 febbraio.



Autore: Cristina Siccardi


AMDG et DVM