domenica 22 ottobre 2017

SAN PANCRAZIO, Martire

VITA DI S. PANCRAZIO MARTIRE 

CON APPENDICE sul Santuario a lui dedicato vicino a Pianezza.


TORINO

INDEX

Avviso importante
Capo I. Patria, educazione di s. Pancrazio. Perde i suoi genitori. Va con suo zio a Roma.
Capo II. S. Pancrazio con suo zio in Roma. - Persecuzione di Diocleziano. - Eglino fanno conoscenza col sommo Pontefice. - Tenera accoglienza loro fatta dal medesimo.
Capo III. Il papa continua ad istruire s. Pancrazio e s. Dionigi nella fede. Loro battesimo. Morte di s. Dionigi.
Capo IV. I Pagani fomentano la persecuzione. S. Pancrazio alla presenza di Diocleziano e suo interrogatorio.
Capo V. Martirio di s. Pancrazio.
Capo VI. Tomba di s. Pancrazio in Roma, chiesa a lui dedicata, maraviglie ivi operate.



Avviso importante


            Mentre, o Lettore cristiano, ti fai a leggere la vita di s. Pancrazio martire, ti nascerà forse in pensiero di sapere ove siano state attinte le notizie contenute in questo libretto; e ciò per calcolare quale fede meriti chi ce le ha conservate e mandate alla posterità. Appago di buon grado questo tuo giusto desiderio.
            Per compilare questo libretto lessi e attentamente considerai quanto i più accreditati leggendari dei santi riferiscono intorno a S. Pancrazio martire. Ho {197 [197]} pure lette le opere del Surio e dei Bollandisti nel giorno 12 di maggio ed appendice pag. 680; del Tillemont: Memorie sopra la Storia Ecclesiastica, tom V. Il P. Giovenale agostiniano scalzo nel libro intitolato: Delle maraviglie di S. Pancraziolibri tre, stampato nel 1655.
            Ho eziandio ricavato alcune notizie dalle Omelie di S. Gregorio Magno, da s. Gregorio vescovo di Tours, nel libro della gloria dei martiri, e da alcuni manoscritti autentici di cui conservasi copia originale. I mentovati scrittori raccolsero da antichi manoscritti quanto avvi di più certo intorno alla vita, martirio e culto di s. Pancrazio martire; e da costoro ho ricavato quanto ivi si espone, limitandomi per lo più a tradurre o a popolarizzare quei concetti che per avventura sarebbero troppo elevati per chi non ha fatto un {4 [198]} corso di studio regolare. Stimo però bene di notare che le maraviglie operate da questo eroe cristiano sono così grandi in numero e strepitose in se stesse, che io ne ho dovuto scegliere solamente alcune per non fare troppo grossi volumi, e fra queste ho pur giudicato bene di trascegliere soltanto quelle che soglionsi dalla divina bontà concedere ai mortali in via ordinaria, ommettendo parecchie cose che o non potrebbero reggere ad una critica ragionevole, oppure potrebbero da qualche indiscreto essere poste in burla.       Del resto, o lettore, quivi avrai un giovinetto che, in via maravigliosacondotto alla fede di Cristo, in tenera età sigillò col proprio sangue la fede da poco tempo abbracciata. La qual cosa è un novello argomento della divinità e santità di nostra religione, poichè {5 [199]} Dio solo può infondere tanto coraggio e tanta costanza in un nobile giovane, ricco, lusingato dall'età, dalle promesse, dagli onori e dai piaceri, il quale tutto abbandona, tutto disprezza, e affrontando l'ira d'un tiranno e i più spietati tormenti, nella sola speranza dell'eterna ricompensa va intrepidamente incontro alla stessa morte per la fede di Cristo.
            Vorrei però, o cattolico Lettore, che tenessi bene a mente, la sola cattolica religione avere veri martiri, e che l'immensa quantità di martiri che l'hanno glorificata, e che ella propone alla venerazione dei fedeli, sono come altrettanti argomenti di verità della medesima religione, che in ogni tempo ed in tanti luoghi la conobbero divina e santa, e col prezzo della lor vita la predicarono e la confermarono. {6 [200]}
            Le altre società, che si vantano eziandio cristiane, non hanno alcun martire che si possa dire morto in conferma delle verità di sua credenza; neppure hanno alcun santo che abbia operato miracolo, nemmeno un santuario ove si possa additare un segno di miracolo operato, o di grazia ricevuta. Ora il non avere tali sette nè martiri, nè santi, nè miracoli, nè santuarii, è cagione che portano con se un'avversione verso i santi, verso le reliquie e verso i santuarii, dove le reliquie, le immagini dei santi sono dai fedeli con ispecial divozione venerati, e dove Iddio ad intercessione dei suoi eletti suole in gran copia concedere i suoi celesti favori. Iddio, che è infinitamente buono e in pari tempo maraviglioso nei suoi santi, inspiri coraggio ai cattolici a seguire la strada di tanti millioni di santi martiri, {7 [201]} confessori, vergini e penitenti che ci hanno preceduto; e a quelli poi che sono fuori della vera Chiesa, a tutti conceda lume per conoscere la verità, forza a scorgere l'errore, coraggio per abbandonarlo, e venire all'ovile di G. Cristo per formare un solo gregge in terra, ed essere di poi con lui un giorno a cantare le sue misericordie eternamente in cielo.

Sac. BOSCO GIO. {8 [202]}


Capo I. Patria, educazione di s. Pancrazio. Perde i suoi genitori. Va con suo zio a Roma.


            Mentre governava il romano impero Diocleziano, e sopra la cattedra di San Pietro in Roma sedeva San Eutichiano papa[1], verso l'anno dugento ottanta, nacque san Pancrazio in Sinnada città della Frigia, considerevole provincia dell'Asia minore. Suo padre chiamavasi Cleonio, sua madre Ciriada, i quali appartenevano ad una delle più illustri e ricche famiglie di quei {9 [203]}tempi; ma erano idolatri, epperciò ignoravano le verità del Vangelo. Eglino pertanto in luogo di adorare Iddio creatore del cielo e della terra, adoravano il sole, la luna, le stelle e talvolta adoravano anche immondi animali che camminano sopra la terra. Tale era la credenza dei genitori di Pancrazio, i quali perciò si adoperavano d'istruirlo non già nelle verità del cristianesimo, ma nelle favole ridicole dei pagani. Egli però avendo un cuor buono, e un ingegno perspicace, non tardò ad accorgersi fin d'allora esistervi qualche cosa di più degno d'essere amato che non sono le insensate divinità. Laonde di mano in mano che si avanzava negli studi, si andava ognor più confermando della vanità degli idoli, e viepiù sentivasi vivo desiderio di conoscere l'autore e il creatore di tutte le cose per poterlo amare e servire debitamente.
            Talvolta riflettendo che niuna cosa può farsi da sè, e desiderando di poter conoscere l'autore delle cose che si vedono in questo mondo, andava esclamando: o chiunque siate voi, che dal nulla mi avete fatto esistere; fatevi conoscere; ditemi qual è la vostra legge, onde io la {10 [204]} possa osservare, vi possa servire ed amare. Intanto egli coll'ubbidienza ai genitori, coll'esatto adempimento de' suoi doveri, colla singolare puntualità allo studio formava la delizia dei suoi parenti ed era proposto come modello a' suoi compagni.
            Le preghiere di Pancrazio e la esemplare sua condotta mossero il cuor di Dio, che le trovò degne di ricompensa. Dio adunque voleva illuminare Pancrazio e fargli conoscere le folte tenebre dell'idolatria; ma ciò per mezzo delle tribolazioni. In tenera età, quando si ha maggior bisogno di assistenza e di consiglio, ambidue i suoi genitori passarono da questa vita senza che abbiano potuto avere alcuna istruzione delle verità della fede.
            Quando suo padre era in punto di morte, aveva chiamato presso al letto suo fratello di nome Dionigi, e guidato dai soli principi della ragione naturale gli diresse queste parole: «Io mi trovo al momento di «dovermi andare al numero dei più,«perciò non potrò più oltre assistere il mio «unigenito Pancrazio. Deh! io ti prego «e ti scongiuro per l'onnipotente Iddio, «per la grande virtù di lui, e per «l’amore di tutti gli Dei, di aver cura {11 [205]} «di mio figlio; di conservargli ed «amministrargli da buon, padre i suoi beni «sia quelli che possediamo qui nella «Frigia, sia quelli che possediamo in Roma. «Ma deh! abbi cura della sua educazione, «adoperati in tutto quello che puoi, a fine «di tener lontano i vizi dal suo cuore, nè «mai la turpe voluttà venga a guastare «l'animo suo; ma qual vero fratello fa «di conservarlo giusto e piissimo in ogni «cosa.» V. Boll, die 12 maii.
            Lo zio Dionigi era commosso fino alle lacrime; e promise di aver tutta la cura pel nipote Pancrazio, e ciò promise tanto più di buon grado perchè aveva non dubbii argomenti che in tutte le sue sollecitudini sarebbe stato abbondantemente corrisposto.
            Difatti dopo la morte del padre lo zio Dionigi si diede ogni cura pel nipote Pancrazio e gli fece da tutore e da padre. Ma il dimorare in quei luoghi dove era morto suo fratello gli richiamava il mente troppo dolorose rimembranze, perciò sia per dimorare in luogo remoto da quello, dove era morto Cleonio, sia per procurare a Pancrazio un'educazione più nobile quale si poteva avere nella capitale del {12 [206]} romano impero, sia anche per amministrare i beni temporali che in gran copia avevano in Roma, risolse d'accordo con Pancrazio di recarsi in quella città.
            Eccoli pertanto ambidue in viaggio. Vanno a Roma per amministrare beni temporali, ignari affatto de' grandi disegni della divina provvidenza che loro preparava beni di gran lunga migliori, quali sono le verità del Vangelo, il battesimo, la corona del martirio.


Capo II. S. Pancrazio con suo zio in Roma. - Persecuzione di Diocleziano. - Eglino fanno conoscenza col sommo Pontefice. - Tenera accoglienza loro fatta dal medesimo.


            Tre anni dopo la morte di suo padre, s. Pancrazio in compagnia di suo zio dalla Frigia si trasferì a Roma e andò a stabilire dimora in un suo podere posto in un aggregato di case dello Cuminiana sopra il monte Celio, proprio vicino a quel sito ove oggi sorge il Palazzo Vaticano. {13 [207]} - Intorno al monte Celio eranvi molte caverne alcune fatte dalla natura, altre a bella posta scavate.
            In questi antri o caverne solevansi nascondere i cristiani in tempo di persecuzione quando erano cercati a morte.
            In quei tempi infieriva la persecuzione di Diocleziano, che si conta la decima delle sanguinose persecuzioni mosse contro ai cristiani nei tre primi secoli della chiesa. Quell’imperatore aveva un odio implacabile verso la religione cristiana, perchè la santità della cristiana religione era una condanna della viziosa di lui condotta, ed anche perchè eragli stato detto che il romano impero non avrebbe avuto pace finchè non fosse interamente distrutto il cristianesimo. Da prima egli studiava ogni mezzo per far patire i cristiani a fine di farli prevaricare. Al vedere poi che più li tribolava e ne faceva morire, più grande diveniva il loro numero, risolse di volere a qualunque costo distruggere interamente il cristianesimo e far rifiorire l'idolatria, persuaso di poter così portare la pace e la prosperità all'impero.
            Sì grande fu in quel tempo il numero dei martiri di ogni età e condizione, sì {14 [208]} atroci e prolungati erano i tormenti con cui facevansi morire, che quel periodo di tempo fu appellato era dei martiri; perchè non avvi tempo nella storia ecclesiastica, in cui si noverino tanti martiri quanto in quell'epoca. Uomini e donne, vecchi e fanciulli, ricchi e poveri, dotti ed ignoranti, e persino di quelli che appartenevano alla famiglia imperiale, si videro abbandonare impieghi, onori, ricchezze, parenti ed amici, tollerare il disprezzo, lasciarsi mandare in esiglio, esporsi ad ogni genere di tormenti e spargere il proprio sangue per la fede.
            In quei calamitosi momenti governava la santa romana chiesa s. Caio succeduto a s. Eutichiano nel 283. Questo zelante pontefice nel desiderio di poter continuare ad istruire i fedeli nella fede, incoraggire quelli che erano condotti al martirio, ed anche mantenere l'unità di fede fra Sacri pastori, si appigliò al consiglio del salvatore, che disse: quando sarete perseguitati in una città fuggite in un'altra; cum persequantur vos in civitate ista fugite in aliam. Perciò andò a nascondersi in una caverna del monte Celio, in un sito appartenente a s. Pancrazio. Da quel nascondigli {15 [209]} o il santo pontefice usciva di quando in quando o per recarsi ad amministrare i santi sacramenti; o per confortare i deboli, incoraggire i giusti a perseverare nella fede ed anche tentare di convertire gli idolatri.
            La moltitudine di miracoli che operava s. Caio[2], le luminose virtù che praticava, giunsero presto a notizia di Pancrazio e {16 [210]} di Dionigi. Commossi da tante maraviglie risolsero di soddisfare ad una innocente curiosità e andare anch'essi a vedere quell'uomo, che era divenuto l'oggetto della comune ammirazione. Vuolsi qui notare che i cuori dello zio e del nipote erano buoni: facevano limosine e pregavano ambidue il Dio del cielo e della terra a voler loro far conoscere la strada della salvezza. E Dio che è sempre buono e misericordioso, siccome aveva già esaudite le preghiere di Cornelio detto centurione, e gli aveva mandato un angelo per fargli conoscere s. Pietro ed essere poscia da lui istrutto nelle verità della fede; così inspirò a Dionigi e a Pancrazio di recarsi dal successore di s. Pietro per acquistare la scienza della salute.
            Corrispondiamo, andavano tra di loro dicendo, corrispondiamo a queste interne inspirazioni del cielo, chi sa che i cristiani non siano giunti a conoscere il vero Dio! Certamente lo splendore delle virtù di cui è singolarmente adorno il loro pontefice non possono avere origine se non dal cielo. Nemmeno può darsi che sì gran numero d'uomini di tanto senno offrano con tanta gioia il loro petto alle spade {17 [211]} dei barbari per una fede che Don conoscessero per vera; non può essere che tanti illustri personaggi siano pronti a cimentare le mille volte al giorno la propria vila per difesa di una fede, che ammettesse sospetto di falsità od ombra di dubbio.
            Così andavano tra di loro ragionando quando si accorsero di trovarsi alla porta dell'abitazione del romano pontefice.
            Al loro picchiare corse il portinaio del papa, di nome Eusebio, uomo da tutti tenuto in fama di gran santità; totius sanctitatis vir[3]. Aperse egli una finestrella che con la sua picciolezza davagli agio di vedere gli altri senza essere veduto, e alla vista dei due cavalieri Pancrazio e Dionigi posti in ginocchioni a pie' della porta, dimandò che cosa chiedessero. Chiediamo, risposero, di essere ammessi alla udienza del pontefice.
            Intesi i loro desideri, Eusebio li assicurò del pronto suo uffizio, e coll'ansietà propria di chi desidera la gloria di Dio e il guadagno delle anime, volò a partecipare l'ambasciata al papa. Beatissimo {18 [212]} padre, egli disse, sono qui alla porta due illustri personaggi, che io non conosco, e dimandano come special favore di essere ammessi alla vostra presenza.
            Il santo pontefice aveva già avuto poco prima rivelazione di due pecore erranti che cercavano salvezza. Perciò alle parole di Eusebio provò grande allegrezza e prostrandosi a terra pregò, dicendo: vi ringrazio, o Signor mio G. C. re dei re, e Signore dei signori, che vi siete degnato di far conoscere me, ultimo vostro servo, a quelle vostre anime da voi elette. Di poi comandò che fossero immediatamente introdotti a lui.
            Giunti alla sua presenza pieni di ammirazione e di stupore si prostrarono ai suoi piedi. Cercò subito di farli rialzare, al che non potendo riuscire, disse loro: che volete adunque? Noi vogliamo, risposero, che voi ci facciate conoscere quel Dio che voi stesso adorate. Allora pieno di contentezza li abbraccia egli stesso e li rialza in piedi stringendoli amorosamente al seno, e assicurandoli che sarebbesi adoperato di far loro conoscere il vero Dio e la santa sua legge: poscia soggiunse: Dio vi benedica e vi sia ognor propizio; {19 [213]} Egli ha ascoltate le vostre suppliche. Ora calmate i vostri affanni, poichè la divina bontà è infinita ed incomprensibile: posso accertarvi che per via del santo battesimo giungerete al possesso della fede cristiana. Vi basti per ora di sapere, che il nostro Dio è tanto buono che non potrete a meno di provare grande rincrescimento d'aver tanto ritardato di venire a lui.
            Per lo spazio d'un mese circa, Dionigi e Pancrazio si recarono regolarmente dal Pontefice per essere istruiti nelle verità della fede.


Capo III. Il papa continua ad istruire s. Pancrazio e s. Dionigi nella fede. Loro battesimo. Morte di s. Dionigi.


            Non si può esprimere la consolazione dei due catecumeni nel conoscere le verità della fede cristiana, e l'assurdità dell'idolatria. Provavano la più grande consolazione al conoscere che vi esiste un Dio creatore del cielo e della terra, il quale ci conserva e provvede ai bisogni della {20 [214]} presente vita. Ammiravano l'immensa sua bontà verso gli uomini; perciocchè per la salvezza loro egli era disceso dal cielo in terra, vissuto nella povertà e nei patimenti, operando luminosissimi miracoli, e morendo fra i più atroci dolori per salvare il genere umano. Fin da quel momento cominciavano già a persuadersi che essendo un Dio solo non può esservi che un solo G. C, una sola fede, un solo battesimo e per conseguenza una sola chiesa, il cui capo invisibile era lo stesso G. C, e il capo visibile era il Romano Pontefice, vicario di G. C. sopra la terra. Quando poi il pontefice giunse a spiegare loro come il battesimo era quella grande chiave che chiudeva loro le porte dell'inferno ed apriva quella del paradiso, facendoli veri figli di Dio ed eredi di una felicità infinita, si sentirono ardere del più vivo desiderio di riceverlo.
            Rivolgendo pertanto il loro discorso al papa, «e a che fine, dicevano, prolungate «voi le nostre pene, perchè differite, o «Beato Padre, di aprirci colle vostre chiavi «quel cielo, di cui Iddio vi ha fatto «l’usciere. Perchè non lavar tosto le «macchie delle anime nostre coll'acqua del {21 [215]} «santo battesimo? temete forse che le «persecuzioni debbano far vacillare la «nostra costanza? No, non sarà. Quel «medesimo Iddio onnipotente, che a tanti «cristiani ha già infuso forza e «coraggio da disprezzare onori, ricchezze, «piaceri per amor suo, infonderà la «medesima forza e il medesimo coraggio «a noi, e ci renderà forti e pronti anche «a dare la vita per amore di quel Gesù ce che prima è morto per noi. Ah Dio, ci «sarà gioia e non pena il patire per voi, «sì per voi, amorosissimo Iddio, che per «nostro amore avete tanto patito!»
            Allora il Pontefice non istimò di differire più a lungo il battesimo; ma prima di amministrarlo indirizzò loro queste parole: «miei figli, godo che la grazia di «Dio siasi diffusa nei vostri cuori; godo «che gli occhi vostri siansi aperti per «conoscere le tenebre dell'idolatria, e la «luce della fede. Senza Cristo tutto è «disordine ed oscurità. Egli è la vera «luce, la vita, la verità, e chi vive «lontano da lui vive nelle tenebre, «nell’errore e nelle ombre di morte. Ma «ricordatevi bene, che il nostro Iddio non è «come gli Dei del paganesimo. Egli solo {22 [216]} «è eterno, onnipotente, infinito, e «infinitamente benefico. Egli calca col piede «le stelle; Egli è nella maestà «invariabile, nella gloria inesplicabile, e nei «suoi decreti imperscrutabile. In una «parola Egli è colui che ha creato e «conserva tutte le cose; colui che ha «preparato un bene eterno a chi lo serve, «e minaccia un eterno supplizio a chi «oltraggia la sua santa legge. Questo «Dio di bontà infinita, mosso a «compassione del genere umano, mandò il suo «Divin Figliuolo dal cielo in terra a «patire e morire per nostro amore. A fine «poi di comunicare alle anime nostre i «meriti infiniti della sua passione e morte, «Egli instituì i suoi sacramenti. Tra essi «havvi il battesimo che voi con ragione «sospirate e che tra breve andate a «ricevere. Ravvivate adunque la vostra fede «nel gran pensiero che mentre alcune «goccie d'acqua lavano il corpo, la grazia «di Dio purifica le anime vostre, e le «rende monde da ogni colpa sia «originale, sia attuale.
            «In questa guisa voi diverrete figli del «vero Dio, fratelli di G. C., eredi delle «ricchezze del cielo.» {23 [217]}
            Giunto a questo termine il santo padre si mise indosso i sacri abiti per la santa funzione del battesimo; e assistito da alcuni ministri, che con inni e cantici rendevano grazie a Dio, li battezzò, dicendo a ciascuno: io ti battezzo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.
            Siccome erano già abbastanza istrutti nelle verità della fede, così fu loro amministrato il sacramento della Cresima e il sacramento dell'Eucaristia, che ricevettero con ammirabile divozione e fervore.
            Così quei novelli cristiani partirono dal sommo pontefice pieni di una allegrezza che tale non mai avevano provato in vita loro. Sentivansi ardere il cuore di amore verso Dio che li aveva colmati di tanti favori; e sebbene da poco tempo battezzati, erano già fervorosi al punto di offerirsi pronti a dare la vita per la fede qualora Iddio ne avesse data loro occasione.
            Oh noi mille volte felici, andava dicendo Pancrazio, se ci fosse dato di sacrificare noi medesimi colla morte, per giungere più presto al nostro Dio!
            Noi avventurosi, rispondeva Dionigi, se {24 [218]} fossimo fatti degni di morire per amore di un Dio, che per nostro amore morì crocifisso! Beati noi, replicò Pancrazio, se col perdere questa vita faremo acquisto di una gloriosa eternità.
            Ah noi fortunati, conchiuse Dionigi, se per la fede di Cristo dando questa miserabile vita, potessimo dall'esiglio volare alla patria beata del paradiso. Non sarebbe questo, o caro nipote, un bel cambio? morire per amor di Dio una volta penando, per vivere con Dio eternamente godendo?
            Finalmente dissero ambidue insieme: fate, o grande Iddio, che da noi si provi la soavità di morire per voi, e di noi fate poscia ciò che volete. Iddio però disponeva altrimenti di Dionigi. Col battesimo egli avea acquistato la bella stola della innocenza, e Dio lo voleva chiamare a sè con una morte tranquilla. Diffatti cadde tosto in malattia sì grave, che pochi giorni dopo il battesimo volò a ricevere la ricompensa eterna del cielo.
            Il nipote Pancrazio ne fu dolentissimo perchè rimaneva privo di chi gli aveva fatto da padre, da amico, da fratello. Offerì egli a Dio fervorose preghiere pel {25 [219]} riposo dell'anima di suo zio, e come colui, che nulla più desiderava in questo mondo, pregava Iddio che lo facesse presto degno di poter raggiungere l'amato zio nella patria dei beati.


Capo IV. I Pagani fomentano la persecuzione. S. Pancrazio alla presenza di Diocleziano e suo interrogatorio.


            Come abbiamo sopra accennato, infieriva in quei dì la crudele persecuzione di Diocleziano contro ai cristiani. I pagani vedendo, che col dilatarsi del vangelo i loro templi divenivano deserti ed i loro idoli abbandonati, e che più cristiani uccidevano, più grande ne diveniva il numero, risolvettero di dare un terribile assalto al cristianesimo.
            Nel loro furore mandarono una deputazione all'imperatore Diocleziano e Massimiano con queste parole: degnissimi e piissimi imperatori, allontanate da questa città i cristiani che sono altrettanti maghi {26 [220]} infami e crudeli, essi ingannano tutto il mondo, e mettono in rivolta il vostro regno.
            Era questa una calunnia atroce. Quegli imperatori non già erano pii, ma feroci. La loro vita privata era piena di turpitudini, e provavano il più gran piacere a spargere il sangue de' loro sudditi. I cristiani poi non erano nè maghi, nè crudeli. Erano sudditi fedeli, disposti a dare la vita pel bene del prossimo; la loro crudeltà consisteva nell'intrepidezza, con cui si mostravano pronti a dare onori, ricchezze e vita, piuttostochè fare cosa alcuna contraria alla santa legge di Dio. Nemmeno i cristiani cercavano di ingannare il mondo: anzi facevano ogni sforzo per far conoscere l'errore, e insinuare nel cuore di tutti le verità della fede; la qual cosa facevano predicando il vangelo a fronte dei più gravi pericoli, spesso in mezzo ai più spietati tormenti. È parimenti calunnioso, che i cristiani mettessero lo impero romano in rivolta, imperciocchè essi furono sempre mai i più fedeli soldati, e la storia ci fa conoscere come nei più gravi pericoli i soldati cristiani si sono sempre segnalati nella fedeltà e coraggio. {27 [221]}
            Tuttavia Diocleziano o per far cosa grata agli idolatri, o che credesse alle mentovate calunnie, montò in collera, e nel suo furore decretò con legge che qualunque cristiano venisse scoperto nel suo impero fosse immediatamente punito senza essere ascoltato in giudizio.
            Fu allora che un gran numero di persecutori, alcuni mossi dalla mercede che era data agli scopritori di qualche cristiano, altri eccitati da odio contro alla fede, si diedero a ricercare e perseguitare i cristiani da tutte parti. Non vi fu genere di tormento che non fosse usato per maltrattare e fare morire i seguaci di G. Cristo. Onde Diocleziano non solo in Roma, ma nelle più remote parti del suo impero aveva aperto pubbliche carnificine di sangue cristiano. I piombi liquefatti, le caldaie bollenti, i pettini e gli uncini acuti, l'eculeo, i lori arroventati, le botti di acuti chiodi ripiene, i teatri pieni di bestie affamate, i patiboti infami, le mannaie infuocate, i pali, i coltelli, le spade erano gli strumenti di morte, famigliari al barbaro Diocleziano.
            Provò questa crudeltà, prima delle altre, Artemia sua figliuola, che per comando {28 [222]} di lui fu dal proprio fratello sacrificata all'ira del padre, solo perchè era cristiana. Altro suo stretto parente di nome Claudio, colla propria moglie e con due figliuoli, fu trucidato per ordine del barbaro imperatore. E per non andar troppo a lungo, ci basti il sapere che un'intiera città della Frigia, patria fortunata del nostro glorioso s. Pancrazio, fu circondata dai soldati, quindi la città ed i cittadini furono consegnati alle fiamme.
            Il giovane Pancrazio dopo la morte di Dionigi non incontrava più oggetto alcuno, che potesse allegrare il suo cuore. Il suo conforto era il pensiero di presto poter raggiungere l'amato zio. E siccome sperava che tal momento potesse essergli accelerato per mezzo del martirio, così Pancrazio era quasi sempre travagliato dal desiderio di conseguire la gloriosa palma dei Confessori di G. C.
            Un giorno mentre era assorto in questi pensieri accadde che una turba di birri scorrazzando per le vie di Roma andavano in cerca di cristiani, e avuta notizia che Pancrazio apparteneva al numero di quelli, si portarono immediatamente a casa di lui per condurlo in prigione. {29 [223]}
            Pancrazio significò loro con franchezza che egli era veramente cristiano e adoratore di Gesù Crocifìsso, e senza opporre alcuna difficoltà si diede nelle loro mani. Quegli esecutori di barbarie stimavano di aver fatta ricca preda scoprendo un nobile e dovizioso cristiano. Ma quando vennero a sapere che Diocleziano era stato intimo amico di Cleonio, padre del nostro giovine, vollero usargli un tratto di particolare bontà col renderne partecipe lo imperatore prima di dargli la morte.
            Diocleziano era estremamente desideroso di vederlo, e mandò tosto alcuni cavalieri affinchè lo accompagnassero, e sciolto da ogni catena lo conducessero al palazzo imperiale. Pancrazio vi andò con indicibile intrepidezza, e come giunse al cospetto dell'imperatore fu interrogato così:
            Diocleziano. Chi sei tu?
            Pancrazio. Io son cristiano.
            L'imperatore ammirò una risposta così pronta e precisa, e stupito del coraggio grande che ravvisava in quel piccolo corpo, rimirando la rara bellezza che nel gesto, nella persona e nel volto di Pancrazio si manifestava, sforzossi di temperare la sua ferocia, per indurlo ad adorare gli idoli, {30 [224]} allettandolo colle lusinghe e colle promesse.
            Onde rasserenato con un sogghigno l'aria tenebrosa, fìngendo compassione e nascondendo il veleno del suo cuore prese a dire:
            Diocleziano. Giovinetto, credi alle parole di chi t'ama, e non voler dimostrarti ostinato a troncare il filo de' tuoi giorni con una morte dolorosa. Compatisco la tua giovinezza facile ad essere delusa. So che tu sei figlio del mio carissimo Cleonio, perciò ti amo assai! procura pertanto di sbandir da te ogni strana idea di cristiano. Rinunzia a Cristo ed alla sua fede. Ed io ti prometto onori, dignità, ricchezze, e ti avrò qual mio carissimo figlio, e come tale sarai onorato, e chi sa che un giorno la fortuna non ti porti a succedermi nell'impero!
            Pancrazio. Bel cambio, o imperatore, volete che io faccia! lasciare il regno celeste, che è certo, per l'impero del mondo che è incerto! E poi quand'anche mi collocaste sul vostro trono, vestito della vostra porpora, incoronato del vostro diadema, attorniato dai vostri cavalieri, io vi assicuro che per tali motivi non mi {31 [225]} lascierò giammai indurre ad abbandonare il mio Gesù che ho promesso di amare e servire fino alla morte.
            Voleva parlare di più l'infervorato giovine, ma la rabbia del tiranno non gli permise di andare più oltre, e dalle lusinghe passando alle minacce prese a dire così:
            Diocleziano. Fanciullo presuntuoso ed arrogante, con chi tu credi di parlare? Non t'avvedi, che se la mia bontà ti apre la strada all'insolenza, con questo ti rendi maggiormente colpevole? io saprò vincere la tua ostinatezza coi più atroci tormenti. Risolvi adunque: o sacrificare vivo al Dio Giove, o sarai tu stesso sacrificato alla giustizia di Diocleziano. Che se tu rifiuti di approfittare della mia clemenza, comanderò che tu sii immediatamente ucciso, ed il tuo corpo consegnato alle flamme.
            Di tali minacce niente affatto sbigottito Pancrazio, pieno di confidenza in Dio, e confortato dalla grazia di G. C. si volse al tiranno e così parlò: «Non vi persuadere, o Cesare, che le vostre minacce siano per intimorirmi. Inutilmente voi tentate di spaventarmi col farmi perdere la vita; la morte ha nulla di spaventoso pei cristiani; per essi è una gran fortuna il {32 [226]} poter dare il proprio sangue per G. C.; i vostri supplizi acquistano loro un'eterna felicità; e lo spirare fra i tormenti è per loro una gloriosa vittoria. Deliberate pure adunque sulla mia persona, fate di me quel che volete: io vi assicuro che mi farete un gran favore facendomi morire fra i tormenti.»
            Parve frenarsi alquanto Diocleziano, e ciò fu solo per fare l'ultima prova. «Orsù, gli disse, fin qui non c'è grande male, con un'adorazione a Giove, offerendo un po' d'incenso agli altri dei, tu puoi rimediare al passato. Che dici, che rispondi? sei tu pronto a farlo? Da questa risposta dipende o la tua morte o la tua vita.»
            Pancrazio, che era sempre lieto ogni qualvolta, tacendo il tiranno, aveva campo a parlare, fatto più sereno in volto, prese a parlare così: «A che tante instanze? Pare di essermi abbastanza spiegato. Invano tentate di indurmi ad adorare i vostri dei. Quegli dei, cui mi esortate ad offerire incenso, sono adulteri ed ingannatori, che non risparmiano ad alcuna empietà. Ed io mi stupisco che voi non abbiate rossore di adorare quegli Dei, mentre sono {33 [227]} certo che se voi conosceste avere dei servi loro somiglianti, o li caccereste da voi, o li fareste uccidere.»
            Diocleziano confuso, ma non convinto dalle parole mentovate, diede in eccesso di furore. «Orsù, disse: presto mi si tolga davanti questo temerario garzone e se gli tronchi quel capo in cui siede tanta baldanza. E voi, miei ministri, sotto pena della mia disgrazia, non mi parlate di favore; voglio che l'esempio di costui sia di terrore agli altri, e che il suo sangue sconti la pena della sua temerità.»


Capo V. Martirio di s. Pancrazio.


            Nel coraggio e nelle risposte di Pancrazio noi vediamo avverate due promesse del Salvatore colle quali predisse che egli avrebbe in ogni tempo assistito i suoi fedeli, e che in mezzo ai più grandi pericoli sarebbero stati come agnelli in mezzo ai lupi, ma che egli avrebbe loro dato coraggio e sapienza tale, cui niuno avrebbe {34 [228]} potuto resistere. Di più dobbiamo ammirare nel coraggio di questo giovanetto quella viva fede, quella ferma speranza, quella infiammata carità, per cui niun pericolo della vita, nemmeno la morte più spietata, può separarlo da quella carità che trovasi nei veri seguaci di Gesù C.
            Appena pronunziata la fatal sentenza, tosto una turba di manigoldi assalgono Pancrazio, lo legano strettamente con funi e catene per condurlo al supplizio. Come mansueto agnello Pancrazio si abbandonò nelle loro mani. Rimirando poi le catene che lo stringevano esclamò: «Oh fortunate catene, a me è più prezioso il vostro ferro che ogni tesoro del mondo! Di quanto sono a voi obbligato, poichè per mezzo vostro comincio ad essere simile al mio Gesù!»
            Rivolgendosi poi ai ministri di giustizia, «voi, o ministri, riferite pure allo imperatore, che non poteva offerirmi un dono più prezioso di queste catene, le quali a me sono più care di tutti i diamanti della terra. Che cosa mai io potrò più oltre desiderare se non finire la vita con un colpo di scimitarra, e così liberare l'anima mia dalle carceri del corpo {35 [229]} e volare al cielo? Ma dove andiamo, o fratelli? deh non indugiate più, conducetemi presto al luogo dove io dovrò essere colpito dal vostro ferro!»
            A questi generosi sentimenti gli astanti ed i medesimi idolatri erano fuori di sè per maraviglia e compassione. Alcuni andavano dicendo: «peccato che un sì bel giovanetto vada alla morte. È possibile che un garzoncello il quale ha ancora le labbra bagnate di latte abbia di già commesso un errore degno di essere punito col proprio sangue?»
            «E no, rispondevano altri: è più colpevole chi l'ha condannato, che non è egli medesimo, poichè quantunque egli fosse un scellerato, pure dovrebbesi avere qualche riguardo alla sua tenera età. Chi sa che col tempo non avesse cangiato proposito, chi sa che non si fosse di poi guadagnato a Giove!
            «O questo no, altri rispose, disingannatevi pure, non vedete con qual coraggio va incontro alla morte? Ciò è chiaro segno che vi ha un cuor grande in quel corpo di fanciullo.»
            Tra la numerosa turba che accompagnava il generoso confessore di Cristo, {36 [230]} ritrovaronsi due occulti cristiani, che maravigliati della costanza del tenero fanciullo andavano l'un l'altro dicendo: «in questo nobile garzoncello io miro rinnovarsi il nobilissimo esempio di Isacco. Egli è questi come quell'innocentissimo agnello prossimo ad essere sacrificato al grande Iddio; ma con quanta diversità! Quello era mesto pel dubbio di morire, lieto è questi per la certezza e pel desiderio della morte; quello aveva il pianto sugli occhi; questi ha la gioia sulle labbra; quello interrogava: dove è la vittima? questi se fosse interrogato, arditamente risponderebbe: io sono la vittima. Ah quanto adunque egli è glorioso e fortunato! Egli fra alcuni istanti comincierà a godere e godrà per tutta un'eternità quel G. C. di cui Isacco ne era figura, e di cui Pancrazio ne è seguace.»
            Intanto Pancrazio giunse al bramato luogo del supplizio. Assorto egli nei più sublimi affetti verso Dio; pieno della santa gioia che provano quelli, che sono vicini a conseguire il più gran bene del mondo, si prostrò ginocchioni e baciò il terreno dicendo: «o fortunato Campidoglio, tale era il nome del luogo del martirio di Pancrazio, {37 [231]} o fortunato Campidoglio! Eccomi finalmente giunto a godere in te la gloria del trionfo. Gli antichi guerrieri erano quivi condotti in trionfo dopo di avere vinto i nemici della patria, ed erano accolti fra gli applausi de' cittadini; io spero di riportare compiuta vittoria dei nemici di Dio per essere accolto da Gesù e dai santi in cielo.» Alzati poi gli occhi al cielo, e incrocicchiate le braccia al seno, tutto elevato in pensieri verso Dio, favellò così: «Dio onnipotente, Dio pietoso, avvalorate le deboli mie forze, degnatevi di assistermi in questo ultimo mio combattimento. Voi mi chiamaste alla vera fede e con un tratto di special bontà ora mi concedete di dare la vita in testimonio di questa fede medesima. Grazie, o grande Iddio, grazie vi rendo che mi fate degno di morire per voi. Spiacemi solo di non potere, come vorrei, non una volta ma mille volte mor ... (voleva dir morire). E in quel momento gli fu vibrato un colpo di scimitarra, che troncandogli le parole sulle labbra gli spiccò il capo dal busto, e l'anima sua innocente e piena di meriti volò al cielo.        Il corpo di lui rimase insepolto lungo {38 [232]} il giorno; fattasi notte una pia matrona romana, di nome Ottavilla, andò di nascosto a prenderlo e ungendolo di odoriferi aromi, lo avviluppò in pannilini e rispettosamente lo seppellì in un sepolcro nuovo fatto per lui preparare.
            Il maraviglioso coraggio di Pancrazio serva a noi d'esempio ad essere fermi nella fede. L'insolito fervore con cui piange e sospira il battesimo c'inviti a piangere i nostri peccati nella presente vita per non piangerli inutilmente nell'inferno.
            Dal coraggio poi con cui andò incontro alla morte impariamo come non si possa venire a Dio senza morire al mondo; e che quelli i quali attaccano i loro affetti ai beni della terra, difficilmente potranno giungere a possedere i beni del cielo.
            Finalmente che non possiamo essere partecipi della gloria del cielo senza essere seguaci di Gesù Cristo non di nome ma di fatti; cioè col patire per suo amore, o se fa bisogno anche dare la vita piuttosto che fare la minima cosa contraria alla santa legge di Dio. Chi vuole godere un giorno con G. C. bisogna che patisca con G. C., dice S. Paolo: qui vult gaudere cum Christo, oportet pati cum Christo; {39 [233]} e niuno è coronato di gloria in cielo se non combatterà da valoroso cristiano sopra la terra: non coronabitur nisi qui legitime certaverit.


Capo VI. Tomba di s. Pancrazio in Roma, chiesa a lui dedicata, maraviglie ivi operate.


            L'anima fortunata di s. Pancrazio gode e godrà per tutti i secoli la gloria dei beati in cielo colla fronte cinta delle due corone, dell'innocenza e del martirio. Ma le sue reliquie furono e sono tuttora l'oggetto di tenera divozione presso ai cristiani, come sorgente feconda di grazie e di benedizioni verso chi le venera. Noi cominceremo a parlare della tomba di s. Pancrazio a Roma, di poi parleremo del suo culto e delle sue reliquie venerate in altri paesi della cristianità.
            Uscendo di Roma per la porta Aurelia della anche Janiculense ed oggidì detta porta di s. Pancrazio in onore del nostro santo, in distanza di circa mezzo miglio {40 [234]} dalla città si giunge all'ingresso del cimitero di Calepodio. È questo uno de' più famosi cimiteri di Roma, così appellato, o perchè s. Calepodio lo abbia ristorato od ampliato, oppure perchè egli stesso sia stato ivi sepolto. Molti martiri ebbero ivi la loro sepoltura e fra gli altri san Pancrazio. La pia Ottavilla, come si è detto, appena potè avere a sua disposizione il corpo di s. Pancrazio di notte tempo lo portò segretamente nel cimitero di s. Calepodio nel luogo per lui preparato.
            Cose maravigliose, grandi miracoli cominciarono ad operarsi alla tomba di s. Pancrazio. Appena cessate le persecuzioni, sopra il suo sepolcro fu edificata una chiesa che sussiste ancora oggidì, e il sepolcro di s. Pancrazio fin dai primi tempi divenne una specie di santuario. - Il sommo pontefice s. Simmaco commosso dal gran concorso di fedeli che in folla correvano a quel sepolcro; e vie più commosso dalle grazie che si ottenevano, e dai luminosi miracoli che alla tomba di lui si operavano; cento anni dopo il martirio del santo (398) fece ristorare ed abbellire quella chiesa. - Per dare poi un pubblico segno {41 [235]} della sua grande pietà e divozione verso s. Pancrazio, quel pontefice fece fare un arco sopra l'altare di quella chiesa con ornati che pesavano oltre a quindici libbre di argento. - Cosa assai considerevole, avuto riguardo alla scarsezza d'oro e di argento in cui trovavansi in quei tempi i nostri paesi.
            La cosa poi che mirabilmente servì a dilatare il culto verso le reliquie del nostro santo, fu la maniera sensibile con cui gli spergiuri erano puniti. Ecco quello che dice a tal proposito S. Gregorio vescovo di Tours città di Francia: «S. Pancrazio martire, egli dice, è terribile vendicatore contro a quelli che giurano il falso. Se taluno giunge alla pazzia di proferire uno spergiuro, e che di poi abbia l'ardimento di recarsi al sepolcro del santo, prima che giunga ai cancelli che ne circondano la urna, dove sogliono stare i sacerdoti mentre cantano le lodi di Dio, viene immediatamente assalito dal demonio o cade morto sull'istante. Da ciò avvenne che chiunque voglia far prova se uno abbia della la verità o no intorno a qualche cosa, non fa altro che condursi alla basilica del santo, e tosto l'innocente è riconosciuto e il colpevole {42 [236]} prova il severo giudizio del santo.» (Greg. Turonensis de miraculis, cap. 39).
            Il medesimo vescovo di Tours fra altri fatti racconta quello che segue: «Era nata contesa tra due uomini, che da qualche tempo litigavano con arte la più accanita. Il giudice sapeva benissimo discernere il reo dall'innocente, tuttavia per zelo di giustizia costrinse il colpevole a provare con giuramento la pretesa sua innocenza. Giunti perciò al sepolcro di s. Pancrazio, e il presuntuoso reo avendo di nuovo giurato il falso, gli rimase inaridita la temeraria mano con cui affermava quanto diceva, e poco dopo cadde a terra e spirò.»
            Nel secolo VI s. Gregorio Magno, anche prima del suo pontificato, soleva spesso recarsi alla chiesa di s. Pancrazio. Divenuto papa ne promosse il culto con grande zelo e sollecitudine. Osservando che coloro i quali erano destinati a mantenere il decoro in quella chiesa trascuravano i propri doveri, egli ne tolse loro la direzione e la diede ad alcuni menaci affinchè la custodissero. Scrivendo a tal proposito allo abate di quei monaci, di nome Mauro, gli indirizzava queste affettuose parole: io vi raccomando soprattutto di aver gran cura {43 [237]} che ogni giorno sia celebrato il santo sacrifizio della messa vicino al santo corpo del beato Pancrazio.
            Lo stesso pontefice si recava soventi volte a visitare quella chiesa, che fin da quei tempi per la sua magnificenza cominciò a chiamarsi basilica, e ne faceva talvolta le sacre funzioni. Un anno recitò nel giorno della festa del santo martire un discorso al popolo, che è la vigesima tra le sue omelie, il quale egli conchiude colle seguenti parole: «noi stiamo avanti alla tomba del santo martire Pancrazio, il quale sappiamo con quale morte sia pervenuto al regno de' cieli. Se a noi non è dato di esporre la vita del corpo per amore di Gesù Cristo, come egli fece, almeno adoperiamoci di vincere le passioni dell'animo. È questo eziandio un grande sacrifizio gradevole al Signore, il quale approva, e nella sua bontà ricompensata vittoria che noi riportiamo di noi medesimi, specialmente per conservare la pace col nostro prossimo. Egli mira benignamente dal cielo il combattimento che si fa nei nostri cuori per vincere le ripugnanze delle nostre passioni contrarie alla sua santa legge. Egli rimira dal cielo chi {44 [238]} combatte, per rimunerare i vincitori, i quali aiuta e conforta colla sua grazia, acciocchè riportino vittoria.» (Greg. Mag. Om. XX.)
            Ventidue anni dopo di s. Gregorio, Onorio papa si adoperò eziandio per abbellire la chiesa di s. Pancrazio. Aggiunse egli pure novelli ornamenti a quella chiesa e fra le altre cose fece ornare il suo sepolcro con parecchi lavori d'argento, il cui peso eccedeva libbre dugento ottantatre.

            Finalmente Innocenzo X nel desiderio di promuovere sempre più il culto verso di questo Santo, ne affidò l'amministrazione ad un cardinale, che ancora oggidì ne porta il titolo, ed ha speciale incumbenza di adoperarsi a promuovere colla massima sollecitudine il decoro di quella chiesa e il culto di questo santo.
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Giovanni Paolo II è beato! : “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”

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OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Sagrato della Basilica Vaticana Domenica, 1° maggio 2011

Cari fratelli e sorelle!
Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II. Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell’intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!

Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti voi che, per questa felice circostanza, siete convenuti così numerosi a Roma da ogni parte del mondo, Signori Cardinali, Patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche, Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Delegazioni Ufficiali, Ambasciatori e Autorità, persone consacrate e fedeli laici, e lo estendo a quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione.

Questa Domenica è la Seconda di Pasqua, che il beato Giovanni Paolo II ha intitolato alla Divina Misericordia. Perciò è stata scelta questa data per l’odierna Celebrazione, perché, per un disegno provvidenziale, il mio Predecessore rese lo spirito a Dio proprio la sera della vigilia di questa ricorrenza. Oggi, inoltre, è il primo giorno del mese di maggio, il mese di Maria; ed è anche la memoria di san Giuseppe lavoratore. Questi elementi concorrono ad arricchire la nostra preghiera, aiutano noi che siamo ancora pellegrini nel tempo e nello spazio; mentre in Cielo, ben diversa è la festa tra gli Angeli e i Santi! Eppure, uno solo è Dio, e uno è Cristo Signore, che come un ponte congiunge la terra e il Cielo, e noi in questo momento ci sentiamo più che mai vicini, quasi partecipi della Liturgia celeste.

“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. 
E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa “Pietro”, la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo.

Ma il nostro pensiero va ad un’altra beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre. E’ quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore. A Lei, che ha appena concepito Gesù nel suo grembo, santa Elisabetta dice: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45). 

La beatitudine della fede ha il suo modello in Maria, e tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di Colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro. Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque: lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l’intera comunità. In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima Lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19,25); e all’inizio degli Atti degli Apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1,14).

Anche la seconda Lettura odierna ci parla della fede, ed è proprio san Pietro che scrive, pieno di entusiasmo spirituale, indicando ai neo-battezzati le ragioni della loro speranza e della loro gioia. Mi piace osservare che in questo passo, all’inizio della sua Prima Lettera, Pietro non si esprime in modo esortativo, ma indicativo; scrive, infatti: “Siete ricolmi di gioia” – e aggiunge: “Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede: la salvezza delle anime” (1Pt 1,6.8-9). Tutto è all’indicativo, perché c’è una nuova realtà, generata dalla risurrezione di Cristo, una realtà accessibile alla fede. “Questo è stato fatto dal Signore - dice il Salmo (118,23) - una meraviglia ai nostri occhi”, gli occhi della fede.

Cari fratelli e sorelle, oggi risplende ai nostri occhi, nella piena luce spirituale del Cristo risorto, la figura amata e venerata di Giovanni Paolo II. Oggi il suo nome si aggiunge alla schiera di Santi e Beati che egli ha proclamato durante i quasi 27 anni di pontificato, ricordando con forza la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa. Tutti i membri del Popolo di Dio – Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose – siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa. Karol Wojtyła, prima come Vescovo Ausiliare e poi come Arcivescovo di Cracovia, ha partecipato al Concilio Vaticano II e sapeva bene che dedicare a Maria l’ultimo capitolo del Documento sulla Chiesa significava porre la Madre del Redentore quale immagine e modello di santità per ogni cristiano e per la Chiesa intera. 

Questa visione teologica è quella che il beato Giovanni Paolo II ha scoperto da giovane e ha poi conservato e approfondito per tutta la vita. Una visione che si riassume nell’icona biblica di Cristo sulla croce con accanto Maria, sua madre. 
Un’icona che si trova nel Vangelo di Giovanni (19,25-27) ed è riassunta nello stemma episcopale e poi papale di Karol Wojtyła: una croce d’oro, una “emme” in basso a destra, e il motto “Totus tuus”, che corrisponde alla celebre espressione di san Luigi Maria Grignion de Montfort, nella quale Karol Wojtyła ha trovato un principio fondamentale per la sua vita: “Totus tutus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria – Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo cuore, o Maria” (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, n. 266).

Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: “Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszyński mi disse: «Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio»”. E aggiungeva: “Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. 

Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato”. E qual è questa “causa”? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.

Swoim świadectwem wiary, miłości i odwagi apostolskiej, pełnym ludzkiej wrażliwości, ten znakomity syn Narodu polskiego pomógł chrześcijanom na całym świecie, by nie lękali się być chrześcijanami, należeć do Kościoła, głosić Ewangelię. Jednym słowem: pomógł nam nie lękać się prawdy, gdyż prawda jest gwarancją wolności.
[Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà.]
Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.

Karol Wojtyła salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere” il Servo di Dio Papa Paolo VIGiovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare “soglia della speranza”. Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace.

Vorrei infine rendere grazie a Dio anche per la personale esperienza che mi ha concesso, di collaborare a lungo con il beato Papa Giovanni Paolo II. Già prima avevo avuto modo di conoscerlo e di stimarlo, ma dal 1982, quando mi chiamò a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, per 23 anni ho potuto stargli vicino e venerare sempre più la sua persona. Il mio servizio è stato sostenuto dalla sua profondità spirituale, dalla ricchezza delle sue intuizioni. L’esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una “roccia”, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt’uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nella Chiesa.

Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto in questa Piazza dal Palazzo! Oggi, ti preghiamo: Santo Padre ci benedica! Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana 

AMDG et BVM

giovedì 19 ottobre 2017

Cattolici ed ebrei in Vaticano

San PEDRO DE ALCÁNTARA

  • San PEDRO DE ALCÁNTARA
    TRATTATO DELLA PREGHIERA E MEDITAZIONE
Vuoi una grazia? 
Chiedila a san Pedro de Alcàntara!
AMDG et BVM