sabato 26 novembre 2016

Quello che lui era io sono, e quello che egli è io sarò!



San Silvestro Guzzolini Abate
Osimo, 1177 - 26 novembre 1267
Nato nel 1177 da nobile famiglia di Osimo, nelle Marche, Silvestro Guzzolini divenne prete dopo aver studiato Diritto a Bologna e Teologia a Padova. Canonico della cattedrale osimana, a 50 anni si ritirò in una grotta presso Frasassi. Arrivarono parecchi compagni e adottò la regola di san Benedetto. Nacquero così i Benedettini Silvestrini. Nel 1231 Silvestro fondò il monastero di Montefano (Fabriano). Prima di morire, nel 1267, ne fondò altri 11 con 119 monaci. (Avvenire)
Etimologia: Silvestro = abitatore delle selve, uomo dei boschi, selvaggio, dal latino
Martirologio Romano: Presso Fabriano nelle Marche, san Silvestro Gozzolini, abate, che, presa coscienza della grande vanità del mondo davanti al sepolcro aperto di un amico da poco defunto, si ritirò in un eremo e, dopo aver cambiato varie sedi per meglio isolarsi dagli uomini, fondò infine in un luogo appartato presso Montefano la Congregazione dei Silvestrini sotto la regola di san Benedetto.

1177 - S.Silvestro, della nobile famiglia Guzzolini, nacque ad Osimo (AN), da Gislerio, giureconsulto, e da Bianca Ghisleri di Jesi. La famiglia era di simpatie ghibelline, favorevoli all’Imperatore del Sacro Romano Impero.

1197 - A circa vent’anni parte per Bologna, inviatovi dal padre per apprendere il diritto e diventare avvocato. Studia giurisprudenza e vi riesce bene, ma dentro sente il vuoto, perché le leggi umane, dichiara il suo primo biografo, il Venerabile Andrea, non lo accendono per le cose di Dio. Passa all’Università di Padova per lo studio della teologia: non seguiva i vizi dell’età giovanile e non si lasciava andare a discorsi vani, pericolosi o disonesti.

1208 - Ritorna ad Osimo con la Laurea in Teologia piuttosto che in Diritto: il padre monta su tutte le furie e non gli perdona la scelta arbitraria; l’ira del genitore non si placa e gli rifiuta lo sguardo e la parola sperando di vederlo "rinsavire". Resiste Silvestro per diversi anni, e di questo suo stato viene informato il Vescovo di Osimo.

1217 - Viene ordinato Sacerdote dal Vescovo di Osimo e gli viene conferito il beneficio canonico della Cattedrale. Fu nei primi anni del suo sacerdozio, che forte degli studi fatti a Bologna, difese virilmente i diritti della sua Cattedrale, lesi dai signorotti locali.

1227 - A cinquant’anni, meditando sulla vanità delle ambizioni umane presso la tomba di un illustre parente, deceduto poc’anzi, già in preda alla decomposizione del sepolcro, riflette: Io sono quello che lui era: quello che lui è io lo sarò. Gli ritorna in mente il detto evangelico: Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Decide così di ritirarsi dal mondo, desideroso di piacere soltanto a Dio. Il comportamento del suo Vescovo, più militaresco che pastorale, lo confermò nel suo proposito. Si rifugia in una grotta dell’appennino marchigiano, chiamata Grotta Fucile, già covo di briganti, non lontano dalle famose grotte di Frasassi nel comune di Genga.
Qui, attesta il Biografo, Silvestro: si dedicava intensamente ai digiuni e alla preghiera, progredendo ogni giorno nella virtù.

1228 - Due legati pontifici, i domenicani Fra Riccardo e Fra Bonaparte, in visita al clero delle Marche, incontrano il penitente Silvestro e, riscontrandone la forte spiritualità, lo consigliano di cercarsi un compagno per non rimanere solo nell’eremo. Glielo mandano loro stessi: è Filippo, il primo discepolo.
Opta per la Regola di S. Benedetto, come guida per il suo monachesimo e riceve l’abito dell’Abate di un monastero vicino, tal Pietro Magone. Affluiscono altri discepoli, desiderosi di mettersi alla sua scuola di perfezione cristiana. La grotta divenne troppo angusta, il luogo troppo arido per sostentare i Monaci.

1230 - Dopo estesa ricerca di un posto solitario più accogliente, Silvestro approda sul Montefano, vicino Fabriano. Qui lo raggiunge, proveniente da Paterno, località poco distante, il giovane Giovanni, anch’egli reduce dagli studi interrotti a Bologna; verrà soprannominato dal bastone per l’appoggio da lui usato a sostegno della zoppia contratta in quella città. Fu il ritratto della santità del Padre Silvestro. Il suo corpo riposa nella chiesa di San Benedetto in Fabriano, meta di pellegrinaggi.

1231 - Fonda il Monastero di Montefano conglobante Fonte Vebrici che sorgeva in un avvallamento del monte (m.850).
Nel corso di questa costruzione avvennero i miracoli della trave allungata e del masso inamovibile reso leggero e trasportabile. Silvestro era chiamato spessissimo dai canonici di San Venanzo (Fabriano) a proporre al popolo la Parola di Dio. Era egregio predicatore e dottore.

1231-1248 - Cominciò a costruire monasteri, caratterizzati tutti da povertà, solitudine, lectio divina e predicazione al popolo.
27 giugno 1248 - E’ la data del Privilegio di Conferma ottenuto da Papa Innocenzo IV, in risposta a critici malevoli che l’avevano accusato di aver istituito un nuovo ordine ed abito contravvenendo a quanto disposto dal Conc. Lateranense IV (1215). La Bolla Pontificia menziona 4 monasteri: Montefano, Grotta Fucile, S. Marco di Ripalta e S. Bonfilio di Cingoli dove scrisse la vita del santo omonimo, monaco e Vescovo di Foligno, vissuto tra l’XI e il XII secolo: ivi sono contenuti gli ideali monastici del nostro Santo.

1248-1267 - Sono anni si espansione e di fioritura di santità: S. Silvestro fonda 12 monasteri con 119 monaci che egli radunò per il Servizio Divino, non desiderando le relazioni con i secolari, ma scegliendo piuttosto luoghi solitari e disabitati….
Il Santo Uomo – riferisce il biografo – aveva disposto il monastero come un giardino in una terra solitaria ed inaccessibile. Vedendovi riprodotti i fiori dei novizi, piantati gli alberi dei proficienti e ben fondate le piantagioni dei perfetti, godeva dell’abbondanza dei frutti delle virtù e s’immergeva nella contemplazione della divinità… i vecchi dimenticando l’età, partecipavano agli uffici notturni con giovanile prontezza. I giovani, tenendo a freno l’esuberanza giovanile, prendevano parte al culto divino con senile serietà.
A ben 12 discepoli viene riconosciuto il titolo di Beato. Primeggiano, tra questi, il Beato Giovanni dal Bastone e il Beato Ugo degli Atti, di Serra S. Quirico (AN).
26 Novembre 1267 - Si chiude l’operosa esistenza di San Silvestro, dotato di spirito profetico ed operatore di prodigi, pronto ormai per la Patria Beata. Si contano ben 17 miracoli operati durante la sua vita e 10 dopo la sua morte.
Fu adorno di singolarissimo privilegio, unico nell’agiografia cristiana: la Comunione ricevuta per le mani Venerande della Vergine Santissima: O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo di mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che vergine ho concepito, vergine ho dato alla luce e sempre vergine rimasi anche dopo il mirabile parto?

BIOGRAFIA

GIOVANE NOBILE
Nel 1200 aveva 23 anni circa (San Francesco ne aveva solo 13). Egli è nato ad Osimo, una cittadina sulle colline marchigiane, non lontano dal mare Adriatico. Era un giovane elegante, nobile di casato e di sentimenti. Ghislerio, suo padre, era un perito in diritto civile, e sognava un avvenire di gloria umana per suo figlio. Per questo, terminati gli studi ad Osimo, lo mandò a studiare a Bologna e poi a Padova. Solo i figli di papà potevano permettersi tanto, a quei tempi.
Il giovane Silvestro obbedì, ma in seguito, avendo sete dell'acqua della Sapienza di Dio, volle frequentare i corsi di teologia per lo studio della Sacra Scrittura. E nel colloquio intimo con il suo Signore Egli maturò, sempre più, la vocazione allo stato religioso.
Terminati gli studi, tornò a casa e confidò ai suoi il desiderio di consacrarsi a Dio. Ma trovò l'ostacolo insormontabile di suo padre, che, per lunghi 10 anni segregò suo figlio e non gli rivolse più la parola.

NELLA COMUNITA' DEI CANONICI
Alla fine Silvestro, forse appoggiato anche dalla sua mamma, Bianca, la spuntò ed entrò nella Comunità religiosa dei Canonici nella Chiesa di Osimo. Ebbe anche un beneficio dal Vescovo per poter vivere, dato che suo padre lo aveva diseredato. Il giovane canonico ardeva di zelo per il Signore. Egli trovava la sua forza nella preghiera, fatta col cuore, e nella meditazione della Parola di Dio. Predicava con fede ed era radicale nell'osservanza del Santo Vangelo. Per questo era amabile e caro a Dio e al popolo.
Un giorno dovette riprendere il suo Vescovo, che non conduceva una vita proprio esemplare. Il Vescovo non digerì bene la cosa, e Silvestro si ritrovò solo, come quando si trovò prigioniero nella sua casa natale. Ma non si scoraggiò. S'infiammò ancora di più nell'amore di Gesù Cristo. E fu allora che gli nacque in petto il desiderio di lasciare proprio tutto e starsene solo con Dio.

DURANTE UN FUNERALE…

La spinta a fare questo passo ardito l'ebbe un giorno quando, durante un funerale di un nobile, volle guardare dentro la fossa comune. Là dentro vide in faccia lo sfacelo della morte… Silvestro inorridì e poi rifletté: «Quello che lui era io sono, e quello che egli è io sarò». Nel cuore gli risuonavano anche le parole di Gesù: «Chi vuol venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16, 24)».

IN UNA GROTTA, SOLO CON DIO 

Silvestro decise di abbandonare tutto e di ritirarsi in solitudine. Si confidò con Andrea, suo amico, che con il suo cavallo lo accompagnò verso i monti. Poi Silvestro proseguì da solo e fece esperienza eremitica in diverse grotte. Ma, più volte, in visione, Egli vide il luogo, che Dio stesso gli indicava. Allora s'inoltrò fino alla Gola della Rossa, e arrivò a ad una grotta, detta di «Grottafucile». E disse: «Qui sarà il mio riposo, qui abiterò (Sal 131, 14)». Là l'Uomo di Dio iniziò una vita eremitica di stretta osservanza: preghiera, digiuno e penitenza. A volte si cibava di sole erbe crude. Lo Spirito del Signore gli infiammava sempre più il cuore di divino Amore e lo ricolmava anche dei suoi doni carismatici.
Silvestro ormai non viveva più secondo la carne e il mondo. Egli era come rinato, era diventato una 'creatura nuova'. E viveva finalmente appagato dentro l'anima e felice nel compiere la Santa Volontà di Dio. Per tre anni si fermò, solo con il suo Dio, in questo luogo santo. Là «Egli aspirava quotidianamente, con tutto il pensiero e il desiderio, alla dolcezza delle cose del cielo». Venne come trasformato, e non solo dentro l'anima. Egli ormai sembrava un Mosè redivivo sul monte santo di Dio. La bellezza della sua anima rifulgeva anche sul suo volto angelico.

MONACO BENEDETTINO
Un giorno l'Uomo di Dio venne scoperto da alcuni uomini del signore di Castelletta. Da allora la gente, incominciò ad andare a lui per chiedere preghiera e consiglio spirituale. Egli tutti ascoltava e incoraggiava nella via di Dio, come è scritto: «Contemplata, aliis tradere». E cioè: quello che il monaco ottiene dalla Sapienza nella contemplazione delle cose di Dio lo annuncia, per edificazione, ai fratelli.
E c'era anche chi chiedeva, con insistenza, di rimanere in quel luogo di pace per condividere quella magnifica esperienza di vita spirituale. Frate Silvestro dovette ormai decidersi e organizzare una Comunità religiosa. Ma con quale regola, e con quale abito? Pregò molto per questo e, mentre pregava, vennero a lui alcuni Santi dal cielo. Uno dopo l'altro, gentilmente lo invitavano ad accettare la loro Regola e il loro abito. Ma Egli chinava il capo e rimaneva in silenzio.
Allora gli si presentò un venerando Vecchio, attorniato da alcuni monaci, che lo esortò, con insistenza, ad accettare la sua Regola e il suo abito. Era San Benedetto. Silvestro esultò nel suo spirito, e pieno di gioia, rispose: «Ti ringrazio, reverendo Padre, io indegno tuo servo, perché sei venuto a visitarmi proprio quando avevo il cuore in ansia. Farò come Tu mi suggerisci». Poi il Santo Eremita andò da un monaco della zona, di nome Pietro e a da lui fu rivestito dell'abito monastico. Infine, avendo acquistato un libro della Regola monastica, Egli fondò il primo piccolo Eremo, con vita cenobitica, in quel luogo santificato dalla sua presenza, e lo dedicò alla Beata Vergine Maria, che Lui amava chiamare «Regina di Misericordia».
Il Venerabile Andrea, suo biografo, ci ha voluto tramandare anche i lineamenti caratteristici del nostro Santo: «Era di aspetto gradevole, casto di corpo, affabile nel colloquio, conosciuto per la prudenza e la temperanza, ardente di amore, sollecito nella pazienza, saldo nell' umiltà e nella stabilità. In breve, fioriva davanti al Signore con ogni genere di virtù».

SUL MONTE FANO

A Grottafucile si stava bene insieme, nell'amore fraterno, nelle veglie di preghiera, nei digiuni e penitenze. Ma San Silvestro risentiva dentro la nostalgia per la vita eremitica, e perciò, salutati i fratelli, s'incamminò solo, tra i monti, e si diresse verso Fabriano. Salì fin sul monte Fano e si fermò su un piccolo ripiano, vicino al una sorgente. E' la fonte Vembrici. Il posto era incantevole. Là il Santo volle costruirsi una capanna, addossata al monte. Ed era felice con Dio. Tutto immerso nella natura lussureggiante e nella preghiera, fatta col cuore, passava il tempo nella pace della pura contemplazione delle cose di Dio.
Ma ecco che alcune persone, un giorno, Lo scoprirono mentre, seduto accanto alla sorgente, si stava sfamando con un pane d'orzo. Gli faceva compagnia un lupo. Il Santo spiegò loro il fatto, anche perché si erano impauriti: « Da quando mi trovo in questo posto solitario il lupo sorveglia la mia celletta, come custode fedelissimo. In ogni momento mi obbedisce: evita ciò che gli viene proibito e fa puntualmente quanto gli viene comandato». E, all'ordine del Santo, il lupo si allontanò subito docilmente.
«Infatti, prosegue il suo biografo, dal momento che la sua anima era perfettamente soggetta al Creatore, non trascurando nessun comandamento divino, sembrava che avesse ottenuto l'antico dominio, concesso al primo uomo, sopra tutte le creature irragionevoli». Questo è, indubbiamente, un chiaro segno che l'Uomo di Dio aveva raggiunto la grazia dell'innocenza originale.

L'EREMO DI SAN SILVESTRO
Il Santo Uomo »spandeva profumo di umiltà e mansuetudine (Ef 4,2)» e la fama di Lui si era ormai divulgata in tutta la valle dell'Esino ed oltre. Alcuni cittadini di Fabriano, dopo aver toccato con mano il fascino delle sue virtù, decisero di donargli il ripiano intorno alla sorgente di fonte Vembrici, dove lui dimorava nella pace.
E la gente accorreva, sempre più numerosa, da frate Silvestro per chiedere preghiere, benedizione e consigli spirituali. Incominciarono anche a fiorire le vocazioni alla vita monastica e allora Egli decise di costruire anche là un Eremo, dopo quello di Santa Maria in Grotta «Fucile». L'Oratorio lo volle dedicare a San Benedetto.
E l'acqua della sorgente che, da oltre sette secoli, continua a scorrere ancora oggi dall' Oratorio, è un vero segno profetico, secondo come è scritto: «Sgorgheranno da Lui fiumi d'acqua viva (Gv 7,38 )».
Il Venerabile biografo, quasi con stupore, ci tiene a ricalcare ancora, e per noi del terzo millennio, i lineamenti del nostro Santo per tramandarceli intatti: «Egli era di aspetto angelico, pieno di fede, risplendente di sapienza, benevolo nell'ospitalità, generoso nell'aiuto materiale, attento alla predicazione, sollecito nel guardare i fratelli, assiduo nella santa meditazione, pietoso visitatore degli infermi, consolatore degli afflitti». E più avanti: «Egli non accarezzava i vizi dei sudditi…, era paziente con i persecutori, misericordioso con i poveri e i deboli. Nel suo atteggiamento non avresti potuto trovare traccia di arroganza, di superbia o di vanagloria». Certo ormai, assieme a San Paolo Egli poteva, in tutta verità, ripetere: »Non sono più io che vivo, ma è Cristo, che vive in me (Gal 2,20 )». E non c'è male anche per chi vuole seguire sul serio le sue orme. Sono le stesse orme di Gesù Cristo e di San Benedetto.
L'Eremo era piccolo, povero, disadorno e lontano dall'abitato. Era proprio come lo voleva il Santo Abate. Era un chiaro ritorno alla vita monastica originale, come ai tempi di San Benedetto. Era una riforma alla vita benedettina. Frate Silvestro non amava le grandi costruzioni, ma voleva l'essenziale per i suoi monaci in uno spirito di povertà e semplicità evangelica, che è caratteristica propria dei silvestrini, fin dal loro nascere.

LA GIORNATA DEL MONACO
I monaci, poveri e gioiosi, indossavano una veste ruvida e non conoscevano la varietà di cibo. Si alzavano anche di notte per lodare e benedire il Signore. Più volte al giorno si ritrovavano nel piccolo Oratorio per cantare Salmi e Cantici al Signore e per ascoltare e meditare le divine letture.
«Durante il giorno c'era chi si occupava delle sacre letture, chi era immerso nelle preghiera, c'era chi piangeva i propri peccati e chi gioiva nelle lodi di Dio. Questo vegliava, quello digiunava e quasi ci si contendeva l'un l'altro gli impegni di pietà. Di notte si alzavano per lodare il Creatore. Di sera, al mattino e a mezzogiorno narravano e annunziavano la sua lode e mettevano la massima cura nel culto divino». San Silvestro seguiva con amore i suoi figli spirituali, dando loro testimonianza, nella crescita armoniosa della perfezione cristiana.

I SUOI PRIMI DISCEPOLI
«Un figlio saggio è gloria del padre (Pro 10,1; 15,20)», perciò San Silvestro si compiaceva dei suoi figli spirituali, che vivevano nella stretta osservanza benedettina nei dodici Eremi, che egli volle costruire per loro. Il suo primo discepolo è il Beato Filippo da Recanati e, dopo di lui, vennero altri, prima nel piccolo Eremo di Santa Maria a Grottafucile, poi nell'Eremo sul Monte Fano, e infine, negli altri Eremi.
Tra i suoi discepoli due spiccheranno per fama di santità e prodigi: Il Beato Giovanni dal Bastone, che sarà poi il Padre Confessore della Comunità. La sua tomba è a Fabriano nella Chiesa di san Benedetto e viene festeggiato il 24 marzo. E poi il Beato Ugo Degli Atti, che veniva da Serra San Quirico. Egli era giovane e ardeva di amore e di zelo per il Signore. Anche la su apredicazione era avvalorata da prodigi e, un giorno, fece sorgere, all'istante, acqua fresca per alcuni operai assetati. Da quella sorgente scorre ancora acqua a Sassoferrato dove riposa il suo corpo. Viene festeggiato con grande solennità il 26 luglio.
Un altro monaco, che spiccava in santità e prodigi è il Beato Simone, frate analfabeta, cieco ad un occhio e questuante. L'agiografo racconta che, una volta, San Silvestro, leggendo la Bibbia, s'imbatté in un passo difficile del profeta Geremia. E, non riuscendo a capirlo come desiderava, nella sua umiltà, decise di ricorrere proprio a fra Simone, che stava nel monastero di Ripalta. A fra Simone sembrò quasi che il Santo Fondatore si prendesse gioco di lui e gli disse: «Ma siete voi sacerdoti che dovete insegnare le cose sante e istruire gli altri, non io, che sono mezzo cieco e illetterato!». Il santo gli rispose: «Fra Simone, figlio mio, ti ho chiesto questo non per prendermi gioco di te, ma perché illumini il mio intelletto circa il detto passo della Scrittura». Allora, ammirando la grande umiltà del suo Abate, fra Simone nascose il volto tra le mani, pregò e poi dette la risposta di sapienza nello Spirito Santo.
Un giorno fra Simone, che andava di paese in paese per la questua, lodava e benediceva il Signore, tutto spensierato e felice di contemplare la creazione ed ammirarne l'armonia. Si era a primavera e, passando egli per un viottolo di campagna, scorse un ciliegio in fiore… A tale spettacolo si mise in ginocchio, e con gli occhi rivolti al cielo, pregò con ardore il Signore. Poi, mentre si alzava in piedi, per riprendere il cammino, il ciliegio, tutto carico dei suoi fiori bianchi, abbassò fino a terra, per riverenza, i rami fioriti, fino a toccare i piedi del santo monaco. Egli arrossì, nella sua umiltà, … e sperava proprio di essere solo, invece erano molti quelli che ammirarono un tale fatto straordinario, senza che lui se ne accorgesse, e ne parlarono a tutti. E' proprio vero che quando l'uomo è in armonia con Dio, la natura si rasserena e gioisce perché egli è stato eletto dal Creatore per 'soggiogare e dominare' la terra (Gen 1,28).

IL BRUTTO GUASTAFESTE
Il demonio era furibondo! E tentava senza pietà l'uno o l'altro dei poveri monaci nelle distrazioni durante la preghiera, nella gola a refettorio, nella castità nel letto, nell'ozio. Ma ne riusciva sempre scornato. E, una notte, arrabbiato com'era, incominciò a dar colpi alla porta dell'Eremo, svegliando tutti. Smise solo quando arrivò il Santo, che lo rimproverò aspramente: «Vergognati, perverso spirito, tu che ti innalzavi fino alle stelle (Is 14,13)! Stanco dell'impeto dei tuoi assalti, capisci una buona volta che nell'ultimo giorno rimarrai pienamente sconfitto e privato del Sommo Bene. Ti inganni molto e ti illudi, giacché il genere di armi di cui ti riprometti vittoria, contribuisce alla nostra corona. Ritirati subito, impudente, e affrettati a recarti nel luogo dei tuoi tormenti».
Il maligno si allontanò, facendo un fracasso indiavolato giù per i dirupi del monte, che sembrò scuotersi dalle fondamenta e andare in rovina e distruzione.

Un altro giorno i fratelli volevano portare all'interno dell'Oratorio un masso che servisse da pietra dell'Altare. Accorsero tutti per smuoverlo e vennero anche degli operai per aiutare, ma tutto fu vano perché il diavolo vi si era seduto sopra. Intervenne il Santo e appena tracciò un segno di croce, il sasso divenne leggero.

LA REGINA DELLA MISERICORDIA
Il demonio volle riaffacciarsi per fargliela pagare a quel sant'uomo. E una notte, verso le ore 2,00, mentre il Santo, come sempre, scendeva verso l'Oratorio per la preghiera notturna, il maligno lo fece inciampare ed Egli precipitò con il capo all'ingiù. Era proprio mal ridotto, perdeva sangue e si sentiva morire. Chiamò aiuto, ma nessuno Lo sentì per la violenza del vento e per la pioggia a dirotto. Allora San Silvestro, 'rivolgendosi alla Regina della Misericordia, la Beata Vergine Maria, a cui si era completamente affidato, con insistenti grida interiori, La pregava di non permettere che fosse privato così all'improvviso della vita corporale''. All'improvviso Ella gli si presentò e gli praticò delle salutari unzioni, e le ferite si rimarginarono all'istante. Poi prese il suo corpicciolo tra le sue braccia materne e in un attimo lo trasportò nella sua cella, guarito.

UN PRIVILEGIO TUTTO SPECIALE
Silvestro, crescendo sempre più nella devozione alla Vergine Santissima, si accendeva sempre più intensamente nell'amore vero di Lei. Ed Ella, tutta Misericordiosa, lo volle arricchire di un dono tutto speciale. Una notte, mentre Egli si trovava solo a pregare, in un'estasi improvvisa, si trovò spiritualmente dentro la grotta di Betlemme dove la gloriosa Vergine diede alla luce il Salvatore del mondo. Subito dopo si trovò in una chiesa, davanti all'altare. E mentre là pregava con il cuore, alla destra dell'altare apparve la Regina della Misericordia, il cui splendore superava quello del sole. Ella, con volto lieto e con parole suadenti, gli disse: «O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo del mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che Io Vergine concepii, Vergine diedi alla luce, rimanendo sempre Vergine dopo il mirabile parto?». Il Santo fu colto da immenso stupore e, con grande trepidazione, rispose: «Il mio cuore è pronto, o Signora, il mio cuore è pronto. Si compia la tua volontà in me, benché indegno». Allora Ella, con le verginali sue mani, gli diede la santissima Comunione. In forza di Essa, la sua intelligenza fu illuminata da tanta luce che da allora in poi non incontrò più nulla di difficile o di oscuro nelle divine Scritture.
«O uomo felice al quale è sollecita ad andare incontro la Madre del Salvatore! Ella, che altra volta, lo aveva soccorso, ferito nel corpo, ora lo arricchisce di doni abbondanti». E Silvestro, pieno dello Spirito di Dio, cominciò a predire il futuro e a rifulgere, ancor più, di strepitosi miracoli.

OPERATORE DI MIRACOLI
Il Santo Uomo, ormai ripieno della sapienza di Dio, veniva chiamato spessissimo nella chiesa del Beato Venanzio martire, a Fabriano, a esporre al popolo la Parola di Dio. E, un giorno, passando vicino al cimitero, notò che un tale stava scavando la fossa per un certo Diotisalvi, ammalato molto gravemente e, secondo il giudizio dei medici, senza più alcuna speranza di guarigione. Il Santo disse a quelli che erano con lui: «Ecco in verità un morto che prepara la tomba ad un vivo!». Il malato guarì e l'altro morì e venne sepolto nella tomba che si era scavato.
Un altro giorno gli portarono all'Eremo un cieco nato ed Egli, implorata la divina clemenza, fece un segno di croce verso la sua faccia. La divina Misericordia fece al cieco il dono di una vista chiara, e guari all'istante. E la stessa cosa avvenne anche ad una donna di Fabriano. Nella città di Cagli liberò una donna posseduta dal demonio. Un'altra volta, mentre si era a mensa, fece, come sempre, il segno della croce sul recipiente d'acqua, che divenne ottimo vino. Lo stesso cosa fece anche per gli operai che stavano scavando una cisterna nell'Eremo di Santa Maria di «Grottafucile». Ad Osimo guarì, con un segno di croce, un fratello di nome Filippo da Varano. Egli era così mal ridotto da acerbi dolori che aveva le ginocchia tutte rattrappite. Guarì anche il figlio di una donna di Gualdo, che aveva alla faccia una malattia incurabile. A Fabriano domò un brutto incendio. Lo stesso fece a Serra San Quirico con un semplice segno di croce. E nella stessa città, mentre stava predicando la Parola di Dio, uno zoppo dalla nascita, trascinandosi per terra con le ginocchia e con le mani, arrivò fino alla presenza del Santo. Egli chinò lo sguardo sullo zoppo, e subito il suo cuore fu pervaso da un senso di viva pietà. Si volse tutto alla preghiera dinanzi al Volto della gloria e al cospetto del Signore della maestà. Poi, udito da tutti, disse allo zoppo: «Alzati, figlio; alzati, figlio!». E lo zoppo si alzò in piedi a lode e gloria del Creatore e, tutto contento, se ne tornò a casa sua.
San Silvestro operò innumerevoli guarigioni in vita e anche dopo la sua morte gloriosa.

GLI ANGELI LO PORTARONO IN CIELO
Intorno ai novant'anni San Silvestro si mise a letto con febbre ardente. Esortò i suoi discepoli a perseverare nella vita santa e nelle osservanze monastiche. Ricevuti gli ultimi sacramenti, raccomandò il suo spirito al Signore, e concluse in pace la sua vita, piena di giorni e di opere sante. Era il 26 novembre del 1267.
Fra Giovanni, che viveva nella solitudine sul monte, vide la sua anima bella mentre veniva trasportata festosamente in cielo dagli Angeli, in mezzo ad un meraviglioso chiarore. E fra Giacomo, mentre andava a riposare, dopo una giornata di fatica in un possedimento proprio di fronte al Monastero, sentì chiamarsi per tre volte per nome. Uscì, era ormai notte: vide tutto il sacro Eremo e il monte risplendenti di luci, come di fiaccole accese. In fretta salì verso di esso e trovò che il Santo era volato nella Gloria dei cieli.
Fra Bonaparte, che si trovava nel monastero di Iesi, alla stessa ora, nel sonno, vide una scala, che da Monte Fano arrivava fino a toccare il cielo: su di essa c'erano schiere di angeli che portavano l'anima di San Silvestro in Paradiso.
Venne il chirurgo, maestro Andrea, e aprì il suo corpo per prelevarne le viscere, per il fatto dell'imbalsamazione. La casa si riempì di tanto intenso profumo. Sulla sacra tomba poi avvennero ancora guarigioni e liberazioni straordinarie per intercessione del grande Santo Anacoreta.
Oggi le sacre sue ossa sono custodite in un'urna preziosa nella chiesa a Lui dedicata nel Monastero sul Monte Fano, e c'è chi, ancora oggi, pregando il Santo con fede sincera, beneficia ancora del salutare profumo della sua grande santità.
E noi, suoi monaci, ogni giorno, Lo preghiamo con un'antica melodia in canto gregoriano:
«O Amatissimo Padre, Silvestro Anacoreta,
vieni in soccorso dei tuoi figli, moltiplica il loro numero,
difendili dai nemici infernali, e fa che il loro grido, per i tuoi santi meriti, venga ascoltato dall'Altissimo
».

E oggi, all'inizio del terzo millennio, questo canto antico risuona nelle chiese monastiche silvestrine quì a Roma, a Fabriano, a Bassano Romano, a Giulianova, a Matelica, e poi nello Sri Lanka, in India, negli Stati Uniti d'America, in Australia e ultimamente anche nelle Filippine dove si stà costruendo un nuovo Monastero Silvestrino.

don Armando M. Loffredi o.s.b. silv.

Autore: 
Monaci Benedettini Silvestrini

SINTESI DAL BREVIARIO ROMANO:

Silvestro nacque da famiglia nobile, a Osimo nel Piceno. Ebbe un'infanzia resa piacevole per l'istruzione e per il comportamento. Compiuti i soliti corsi di teologia, fu fatto canonico. Si dedicò alla predicazione popolare. Durante il seppellimento di un defunto nobile, scorse dentro la tomba scoperchiata il cadavere putrefatto di un uomo molto bello e per di più suo parente. Pensò: «Io sono ciò che questi era; io sarò ciò che lui è». Immediatamente si ritirò a far vita solitaria, per desiderio di maggior perfezione: si dedicò alle veglie, alla preghiera e al digiuno. Per sottrarsi ancora di più alla vista degli altri, cambiò spesso dimora, fino ad arrivare a Fano, località che in quel tempo era abbandonata. Vi costruì un tempio in onore di san Benedetto e fondò la congregazione dei Silvestrini. Fu un modello di grande santità per i monaci. Ebbe lo spirito profetico, il dominio sui demoni, e altri doni, che egli conservò sempre con grande umiltà. Morì nel Signore nel 1267.
V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

AMDG et BVM

venerdì 25 novembre 2016

RACCONTO


Dite con parole vostre chi è Dio 
Mancavano cinque minuti alle 16. Trenta bambini, tutti della quinta elementare, quel pomeriggio, erano eccezionalmente irrequieti, agitati, emozionati, chiassosi, rumorosi. Alle ore 16 in punto arrivò la maestra per iniziare l'esame scritto di catechismo: i promossi sarebbero stati ammessi alla prima comunione, esattamente una settimana dopo. Immediatamente un silenzio generale piombó nella sala dove erano seduti i bambini in attesa delle domande.
Prima domanda: "Chi mi sa dire con parole sue chi è Dio?", cominciò a dettare la maestra.
Seconda domanda: "Come fate a sapere che Dio esiste, se nessuno l'ha mai visto?".

Dopo venti minuti, tutti avevano consegnate le risposte. La maestra lesse ad una ad una le prime ventinove; erano piú o meno ripetizione di parole dette e ascoltate molte volte: "Dio è nostro Padre, ha fatto la terra, il mare e tutto ciò che esiste" Le risposte erano esatte, per cui si erano guadagnati la promozione alla Prima Comunione.
Poi chiamò Ernestino, un piccolo vispo bambino biondo, lo fece avvicinare al suo tavolo e gli consegnò il suo foglietto, dicendogli di leggerlo ad alta voce davanti a tutti i suoi compagni. Ernestino, temendo una pesante umiliazione davanti a tutta la classe, con la conseguente bocciatura, cominciò a piangere. La maestra lo rassicurò e lo incoraggiò. Singhiozzando Ernestino lesse:
"Dio è come lo zucchero che la mamma ogni mattina scioglie nel latte per prepararmi la colazione. Io non vedo lo zucchero nella tazza, ma se la mamma non lo mette, ne sento subito la mancanza. Ecco, Dio è così, anche se non lo vediamo. Se lui non c'è la nostra vita è amara, è senza gusto".
Un applauso forte riempì l'aula e la maestra ringraziò Ernestino per la risposta così originale, semplice e vera. Poi completò: "Vedete bambini, ciò che ci fa saggi non è il sapere molte cose, ma l'essere convinti che Dio fa parte della nostra vita".
Se la nostra vita è amara, forse è perché manca lo zucchero...
AMDG et BVM

giovedì 24 novembre 2016

LA STORIA DELL'ASINO NEL POZZO

La storia dell'asino nel pozzo


Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva più uscire. Il povero animale, disperato, continuò a ragliare sonoramente per ore.
Il contadino era straziato dai lamenti dell’asino, voleva salvarlo e cercò in tutti i modi di tirarlo fuori ma dopo inutili tentativi, si rassegnò e prese una decisione crudele. Poiché l’asino era ormai molto vecchio e non serviva più a nulla e poiché il pozzo era ormai secco e in qualche modo bisognava chiuderlo, chiese aiuto agli altri contadini del villaggio per ricoprire di terra il pozzo.
Il povero asino imprigionato, al rumore delle palate e alle zolle di terra che gli piovevano dal cielo capì le intenzioni degli esseri umani e scoppiò in un pianto irrefrenabile. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase quieto.
Passò del tempo, nessuno aveva il coraggio di guardare nel pozzo mentre continuavano a gettare la terra.
Finalmente il contadino guardò nel pozzo e rimase sorpreso per quello che vide. Ad ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l'asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. Man mano che i contadini gettavano le zolle di terra, saliva sempre di più e si avvicinava al bordo del pozzo.
Zolla dopo zolla, gradino dopo gradino l’asino riuscì ad uscire dal pozzo con un balzo e cominciò a trottare felice.



Questa semplice storiella, facilmente reperibile sul web, ci da degli importanti spunti di riflessione: il contadino è la vita, il pozzo rappresenta le difficoltà della vita che tutti, chi più chi meno, dobbiamo affrontare... e l'asino rappresenta noi stessi.
Tutti noi, presto o tardi, finiamo col finire dentro a un pozzo, ovvero ci troviamo ad affrontare le difficoltà della vita che, talvolta, ci possono sembrare persino superiori alle nostre possibilità. Queste poi, spesso e volentieri, non ci risparmiano affatto "badilate di terra" addosso, non di rado anche dalle persone più care.
Ma questa semplice storia ci insegna che queste difficoltà, che le prove della vita, possono essere per noi un motivo di crescita, di "elevazione", come lo sono state per l'asinello che, badilata dopo badilata, si è sempre più innalzato fino a giungere fuori dal pozzo in cui era caduto. Le difficoltà insomma non devono sempre essere viste come una disgrazia, ma bensì come una prova, come un opportunità per crescere in noi stessi.
Del resto la vita è proprio questo: una corsa ad ostacoli dove ogni ostacolo, se affrontato col piglio giusto, costituisce un motivo di crescita, di maturazione personale, fino a quella completezza umana e spirituale che il Signore chiede ad ognuno di noi.
Crediamolo fermamente.

Marco

«Signore, patire ed essere disprezzato per amor tuo!»





San Giovanni della Croce nacque in Spagna a Fontiveros, da genitori molto religiosi. Fin da piccolo apparve evidente come sarebbe stato caro alla vergine Madre di Dio: infatti, a 5 anni, cadde in un pozzo, e si salvò perché la Madonna ve lo estrasse con le proprie mani. 

Da giovane si offrì come servo nell'ospedale dei poveri a Medina del Campo. Poi entrò nell'ordine dei Carmelitani e dovette sottomettersi all'obbedienza ed essere consacrato sacerdote. Osservò l'antica regola dell'Ordine. 

Per il suo amore di una regola monastica più severa, fu dato come collaboratore, per disegno di Dio, a santa Teresa, che lo stimava come una delle persone più buone e più nobili che la Chiesa di Dio avesse in quei tempi; così poté propagare tra i frati l'osservanza della regola primitiva. 

Poiché aveva tanto lavorato e sofferto per questa riforma, Cristo gli chiese quale premio desiderava per tanta fatica; egli rispose: «Signore, patire ed essere disprezzato per amor tuo!». Scrisse opere di mistica, piene di sapienza celeste. 

Alla fine, dopo aver sopportato coraggiosamente una malattia molto dolorosa, morì a Ubeda, nel 1591, a 49 anni di età. Pio XI, su indicazione della Congregazione dei Riti, lo dichiarò dottore della Chiesa universale.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

San Giovanni della Croce

Quando S. Giovanni della Croce morì, il fratello Francesco, anima eletta. ebbe una visione e lo vide in Paradiso accanto alla Madonna, circondato da Angeli.
Così lo vide, nella gloria dei cieli. E così è bello cominciare a guardarlo, per vedere la continuità della sua vita mariana sulla terra e in Paradiso.
La Madonna fu particolarmente accanto a S. Giovanni della Croce sulla terra, e il Santo si ritrova anche nel Regno dei cieli accanto alla sua amatissima Madre e Regina.
Nascita e fanciullezza
S. Giovanni della Croce nacque nel 1549, probabilmente il 24 giugno, festa di S. Giovanni Battista, di cui ebbe il nome nel Battesimo ricevuto poche ore dopo la nascita.
Nacque a Hontiberos, un piccolo centro fra Salamanca e Medina del Campo, nella Diocesi di Avila.
Quando il santo nasceva, nella vicina Avila S. Te.. resa, ventisettenne, stava portando a maturazione quella sua radicale dedizione a Dio, che poi la spingerà a riformare il Carmelo.
La famiglia di S, Giovanni della Croce era molto modesta, famiglia di poveri tessitori, anche se di nobili origini, dal casato degli Jepes, il papà, degli Alvarez, I la mamma.
Dopo la nascita di Giovanni, terzo figlio, il papà morì, lasciando la giovane vedova a lottare con la povertà per nutrire e allevare i tre figli.
La mamma di S. Giovanni della Croce era un modello di mamma cristiana, dal grande spirito di fede e di abnegazione. Lavoro, preghiera, educazione dei figli, riempirono tutta la sua vita. Il santo timor di Dio, la conoscenza del Vangelo, l’amore del cielo, il disprezzo del mondo, il fervore della preghiera: queste cose ella inculcava con cura materna nei cuori dei suoi figli, tra i quali Giovannino cresceva con il candore di un angelo, la prudenza di un adulto, il fare sempre modesto, un’obbedienza non comune.
In particolare, la mamma inculcò nei figli una tenerissima devozione alla Madonna, tanto che Giovannino, più dei fratelli, non lasciava passare giorno senza rivolgerle speciali preghiere. Come era bello vederlo con le manine giunte e gli occhi fissi nell’immagine della Madonna! Già da allora poteva lasciar presagire · che sarebbe diventato il cavaliere della Regina del Carmelo.
La manina sporca
Indubbiamente la Madonna dovette avere molto caro questo figliolo, se gli apparirà immancabilmente vicina nei momenti più tragici.
Fin da piccolo, un giorno, mentre Giovannino giocava con alcuni compagni vicino a un laghetto, scivolò e cadde nel laghetto. I compagni non seppero fare altro che spaventarsi e scappare. Giovannino stava ormai per affogare, quando ecco apparirgli la Madonna che gli porge la sua mano materna.
Il bambino però non le dà la sua manina. Perché? Perché la vede sporca, mentre la mano della Madonna è purissima. È un particolare delicatissimo. La Madonna lo prende lo stesso e lo sostiene a fior d’acqua, finché qualcuno lo tira a riva sano e salvo.
Alcuni anni dopo, lo stesso, Giovanni lavora da infermiere in un ospedale. Una volta va a caricare acqua al pozzo, ma scivola e precipita nel pozzo. Tutti lo danno per morto. Ma quando si affacciano a guardare nel pozzo, lo vedono placido e sereno a fior d’acqua. Come mai? Appena tirato su, egli dice che di nuovo, mentre stava affogando, la Madonna gli è apparsa e lo ha sostenuto con la testa fuori dell’acqua.
Qualcuno ha scritto che il demonio assaliva S. Giovanni della Croce con questi pericoli di morte, perché non riusciva ‘a fargli commettere un peccato mortale per rovinargli l’anima piena di innocenza e difesa dalla mortificazione. Ma la Madonna vegliò materna e immancabile su questo figliolo prediletto, destinato a una grande missione per la Sua gloria.
« Tu mi servirai »
Dopo le prime scuole, a 13 anni, questo figliuolo prediletto di Maria, a cui piace moltissimo pregare, leggere, studiare, deve invece impegnarsi in un mestiere per aiuare la povera famigliola, portata avanti da mamma Caterina con tanti stenti.
Giovanni cominciò a cercare di imparare prima un lavoro nelle officine; ma non gli riuscì. Tentò di fare il legnaiuolo; ma fallì lo stesso. Cercò allora di imparare qualunque altro mestiere: il sarto, l’intagliato-re, il pittore… Ma gli fallivano tutti fra le mani! Come fare? Che cosa fare? C’era proprio da avvilirsi.
Ma la Madonna vegliava, e al momento giusto gli fece incontrare un signore che rimase subito colpito dall’intelligenza e dalla bontà di questo ragazzo. Seppe della penosa situazione familiare. Pensò di aiutarlo nel lavoro e negli studi, ottenendogli un posto di infermiere nell’ospedale di Medina, con la possibilità di studiare nelle ore libere presso i Gesuiti. Fu una grazia immensa per Giovanni. Si apriva una strada, quella degli · studi, su cui gli riusciva di correre agile e instancabile.
Cosi, portò avanti sempre brillantemente gli studi, imponendosi all’ammirazione dei Padri Gesuiti, che 10 sollecitavano a una scelta per la vita religiosa.
Giovanni aveva 20 anni. Si rendeva conto dell’ora di scegliere la sua strada. Pregò molto la B. Vergine. E durante la preghiera, la Madonna gli fece udire queste precise parole: « Tu mi servirai in una religione . in cui ristabilirai la primitiva osservanza ».
Da lei attendeva l’indicazione giusta, secondo Dio.
Con l’abito della Madonna
L’anno seguente, a 21 anni, Giovanni chiese di entrare fra i Carmelitani di Medina. E prese l’abito il 24 febbraio 1563, festa di S. Mattia apostolo, con il nome di Fra’ Giovanni di S. Mattia.
B significativo che nella cerimonia della vestizione dell’abito, quando il Superiore gli domandava che cosa voleva, Giovanni rispondeva che chiedeva di essere ammesso nell’Ordine della B. Vergine. In tal modo egli diventava membro di un Ordine tutto mariano, che ha cantato nei secoli le glorie della Celeste Regina, e che ora accoglieva nel suo grembo chi avrebbe rinnovato gli splendori della più alta santità carmelitana, a gloria della Regina decoro del Carmelo.
Intanto, S. Teresa d’Avila da 6 mesi aveva iniziato la riforma delle Carmelitane con l’osservanza perfetta della Regola primitiva.
Come mai questa Riforma? Le ragioni sono storiche.
L’Ordine Carmelitano vanta le sue origini dal Profeta Elia, sul monte Carmelo. Ebbe la sua regola da S. Alberto, approvata dai Pontefici Onorio III (l226) e Innocenzo IV (1248). Fu fecondo di Santi e Sante in misura invidiabile.
In seguito, però, a causa di situazioni storiche particolari, si fu nella necessità di mitigare alquanto la Regola primitiva; e la Regola così mitigata fu approvata da Papa Eugenio IV nel 1432.
S. Teresa, però, dopo più di un secolo, avvertì il tempo adatto a riproporre l’osservanza fedele della Regola primitiva nella sua integrità. E si accinse all’opera per le Suore.
Incontro con S. Teresa
Con l’abito della Madonna addosso, il novello novizio ha un ardore senza pari nel santificarsi. Vuole per sé i lavori più umili. È disposto a fare la volontà di tutti, eccetto la propria. Trascorre ore intere davanti al Tabernacolo. Ama particolarmente la cella, anche perché ha una finestrella che dà nella Chiesa. Porta constantemente una catenella a punte ai fianchi.
Dopo il Noviziato, viene mandato a Salamanca per gli studi, e deve accettare per obbedienza di prepararsi anche al Sacerdozio. Egli ne è sgomento. Si ritiene assolutamente indegno. Proprio lui, di cui S. Teresa dirà un giorno che « era una delle anime più pure e sante che Dio contava nella sua Chiesa ».
Mn dopo il Sacerdozio egli avverte non meno acuto il bisogno di una vita più austera e soprannaturale, più solitaria ed elevata. Perciò pensa a una Certosa in cui nascondersi. E fa i primi passi per abbracciare la : vita certosina.
Ma viene invitato a incontrarsi con S. Teresa di Gesù ad Avila. L’incontro di queste due anime eccezionali è mirabile per elevatezza di contenuti e per fecondità di propositi.
Appena S. Teresa sente dirsi da Fra’ Giovanni che sta per entrare in una Certosa, con fare materno dolcissimo e persuasivo gli chiede di aspettare almeno un po’, perché, dice, « a me sembra cosa molto santa che voi procuriate la vostra perfezione, anche a costo di lasciar la religione in cui avete professato; ma pure se in questa religione vi si presentasse il mezzo di soddisfare il vostro fervore, non mi negherete che ciò sarebbe assai più conforme al consiglio di S. Paolo, che ci esorta a perseverare nella propria vocazione.
Iniziare una Riforma è aprire la strada della salute ad innumerevoli anime che seguiranno il vostro esempio, è servizio maggiore di quello che potreste rendere a Dio, ritirandovi in una Certosa: perché l’utilità comune precede il l bene di uno solo. Non fate caso delle difficoltà, che noi, tardi di cuore a credere, esageriamo sempre. Non vedete con quanta facilità si stanno fondando i monasteri di religiose? È il Signore che lo fa.
Se noi siamo i figli dei nostri veri fondatori, i santi profeti Elia ed Eliseo e i loro discepoli; se la corte del nostro gran Re e della Vergine Sua Madre, Signora e Patrona nostra, I è popolata di figli di questa religione che intercedono per la sua santità e per la sua duratura posterità, perchè noi dobbiamo perdere la speranza? ».
Queste parole ardenti e materne della Santa fanno riecheggiare potentemente e chiaramente nel cuore di Fra’ Giovanni la voce misteriosa della Madonna che gli aveva detto un giorno: « Tu mi servirai in una religione, in cui ristabilirai la primitiva osservanza·. Fra’ Giovanni vede chiaro dentro di sè. Non solo non si tira indietro, ma dice con generosa esultanza il suo Fiat. .
Così iniziò il cammino della Riforma dei Carmelitani.
I primi grandi fervori
Il 30 settembre 1568 Fra’ Giovanni era a Durvelo, leI primo nido della riforma, consacrato a Nostra Signora del Monte Carmelo. È la prima pietra angolare iella riforma. Non per niente porta il nome della Regina del Carmelo.
Per due mesi S. Giovanni inaugurò da solo questo eremo scelto e preparato con cura da S. Teresa. Una Cappellina, due celluzze, una stanzina per cucina e refettorio. Tanta povertà e austerità. Tanto silenzio e solitudine.
Fra’ Giovanni esultò per tale luogo e per tale vita; . e all’arrivo del primo compagno, trovato anch’esso da S. Teresa, il P. Antonio, tutti e due fecero, ai piedi della Madonna, la rinuncia alla Regola mitigata, giurando di osservare fino alla morte la Regola primitiva. Si misero a piedi scalzi. Indossarono il nuovo abito confezionato da S. Teresa. Si chiamarono da allora in poi Fra’ Giovanni della Croce e P. Antonio di Gesù.
P. Giovanni della Croce assunse il compito di maestro dei novizi per i nuovi candidati che cominciarono ad arrivare molto presto. E il fervore della novella vita religiosa era così grande che S. Giovanni potè esclamare: « lo prego sua Divina Maestà che in avvenire conservi sempre, come adesso, il grande fervore del nostro Ordine per il suo santo servizio ».
Meno di due anni dopo erano già in dieci. Impossibile stare in quel bugigattolo. Si trasferirono a Mancera, dove un benefattore donava loro un convento e una Cappella, in cui si venerava una meravigliosa immagine della Madonna.
Il cammino era iniziato, e proseguiva spedito. Da Mancera ad Alcalà. Da maestro dei novizi a direttore dei giovani. S. Giovanni della Croce è in piena attività di vita religiosa e di formazione delle anime. Diviene anche confessore delle Carmelitane scalze, e sarà fino alla morte un maestro di perfezione come pochi ne ha mai avuto la Chiesa, che un giorno lo innalzerà al grado sommo di Dottore mistico.
U n figlio prediletto della Madonna diviene il più grande maestro della perfezione. Non poteva esse diversamente, perché la Madonna è la « Sede della Sapienza» e la « Madre della Grazia », In tutto il cammino della perfezione, dice S. Giovanni della Croce, la Madonna è il modello supremo della Fede, Speranza e ‘ i Carità, ed è la sorgente della Grazia che ci dona ogni , vita, e santità.
Tempesta e prigione…
Le opere di Dio vengono tutte passate al vaglio. Quest’opera della riforma, carissima a Dio e a Maria, ebbe anch’essa la sua lunga ora di tempesta e di travaglio.
Quando i Carmelitani mitigati videro l’avanzarsi della riforma e il moltiplicarsi dei nuovi conventi riformati, cominciarono ad alzare la voce, seriamente preoccupati. Essi non ritenevano adatti i tempi per una riforma, non riconoscevano in S. Teresa e in S. Giovanni della Croce due santi, e ci tenevano a difendere soprattutto l’unità dell’Ordine.
Intervennero perciò contro gli scalzi per fermarli; ma questi cercarono di difendersi.
Le cose si imbrogliarono sempre di più, e drammaticamente, perché nella questione intervenivano troppe persone variamente interessate. Protettori di ogni tipo da una parte e dall’altra, gerarchie, autorità religiose e civili, soprattutto il Re Filippo II (difensore della riforma), amici e dotti studiosi: tutti entrarono a interessarsi e a complicare le cose, e si arrivò a un punto tale che gli scalzi non sapevano più a chi dovessero obbedire senza disobbedire a qualcuno!
La tensione crebbe burrascosa. I mitigati pensarono di ricorrere anche a metodi violenti, e fecero rapire incarcerare S. Giovanni della Croce, che venne rinchiuso in una fetida prigione del convento di Toledo. Per nove mesi, il coraggioso e pacifico santo soffrì pene terribili e dolori disumani con inalterabile mitezza, ritenendosi sempre meritevole di castighi maggiori per i suoi peccati.
La sofferenza più cruda fu la privazione della S. Messa e della Comunione. Ma, in compenso, i ebbe le ispirazioni più alte a scrivere i due supremi ‘I cantici dell’esperienza mistica: «Il cantico spirituale » e «La fiamma d’amore viva ». Nè dovettero mancargli l consolazioni celesti con rapimenti e visioni ineffabili I del Signore e della B. Vergine, come appariva dagli I splendori che a volte inondavano 1’angusta prigione, i irradiandosi fuori dalle fessure della porta.
« Uscirai da questa prigione »
Il 14 agosto 1578, dopo circa nove mesi di carcere, S. Giovanni supplicò il Priore del Convento di volergli concedere di celebrare la S. Messa in onore della dolce Regina del Cielo. Ma non gli fu accordata neppure questa grazia. Umile e mite, il santo accettò anche questo doloroso rifiuto.
Ma la notte stessa del 15 agosto gli apparve la B. Vergine e gli disse: «Figlio mio, abbi ancora pazienza, presto finiranno i tuoi travagli, uscirai da questa prigione, dirai la. S. Messa e sarai consolato ».
Dopo qualche giorno, di nuovo gli apparve la Madonna con Gesù, e questa volta gli ingiunse di fuggire. Per dove? S. Giovanni si sentì spinto ad accostarsi a una finestra, nei brevi momenti di sosta fuori prigione; si affacciò, era molto alta la finestra, e dava sul fiume Tago. A sera egli allentò le viti della porta della prigione, e in piena notte, dopo aver tagliato le coperte a grandi liste per fare una corda, si accostò silenzioso alla finestra e cominciò la discesa attaccato a quella specie di corda. Ma a metà discesa la corda finì. Egli si affidò alla Madonna, e si lasciò andare giù.
Cadde incolume. Scavalcò miracolosamente un muro di cinta, e si trovò su una piazzetta. Si riposò un po’ in un cortile, e poi si recò al monastero delle Carmelitane scalze. Qui successe un delirio di gioia, appena le monache si resero conto che si trattava del P. Giovanni della Croce; e siccome c’era una monaca in agonia, bisognosa dei Sacramenti, S. Giovanni entrò subito nel Monastero per assistere quella monaca, e si trovò anche al sicuro dalla caccia furiosa che subito gli fecero i carmelitani calzati.
Raggiunse presto, poi, una dimora sicura nel convento di Almodovar, e di là continuò a partecipare alle dolorose vicende di lotta fra calzati e scalzi, mentre I lavorava intensamente alla formazione spirituale dei nuovi candidati alla vita carmelitana, quasi tutti da lui I preparati e curati con somma maestria.
Intanto, arrivò la tanto sospirata alba di pace, il 22 giugno 1580. Il Papa Gregorio XIII, dopo aver esaminato attentamente la grave questione, decise la separazione netta fra scalzi e calzati, per donare a tutti la possibilità di vivere secondo la Regola primitiva o la Regola mitigata.
Grande fu il giubilo dei carmelitani scalzi, che si strinsero attorno alla loro Regina per far rifiorire il suo Ordine, nella fedeltà pura ed eroica alla Regola primitiva.
Più grande di tutti, però, dovette essere il giubilo di S. Giovanni della Croce, che vedeva finalmente realizzate in pieno le parole profetiche della Celeste Regina: « Tu mi servirai in una religione, in cui ristabilirai la primitiva osservanza ».
Mia è la Madre di Dio
Il nostro Santo non ha scritto molto sulla Madonna, ma quel che ha scritto è più che sufficiente per gettare tanta luce nelle anime sul mistero dolcissimo di Maria.
È lui che afferma della Madonna la perfezione altissima nello stato di unione trasformante fin dal suo immacolato concepimento: « Essendo fin dal principio della sua vita innalzata a questo sublime stato, non ebbe mai impressa nell’anima forma d’alcuna creatura, nè fu mossa da essa; ma fu sempre mossa dallo Spirito Santo ».
Il consenso dato dalla Madonna all’Incarnazione I del Verbo nel suo seno verginale, S. Giovanni della Croce lo tratta più volte in termini di alta poesia e pensiero. L’adorazione, lo stupore, l’arcano amore della B. Vergine di fronte al mistero del Verbo che si incarna in lei, suscita sentimenti di incanto verso la Divina Maternità di Maria.
Ci parla anche del culto dovuto alle immagini della Madonna, del contenuto dei titoli di Maria, delle locuzioni e apparizioni della Madonna, dei santuari mariani, dei pellegrinaggi, delle feste, e soprattutto della vera devozione che fa amare e imitare in Maria il modello sublime dell’anima perfetta.
Come ogni vero amante, S. Giovanni della Croce fa puntare l’anima alla vita d’unione, al possesso d’amore della Madonna.
La devozione e il culto che non conducano a questa meta, sono sterili. Il vero amore alla Madonna deve portare al grido di gioia: Mia è la Madre di Dio!
Questo grido di gioia noi troviamo nell’orazione dell’anima innamorata, in cui S. Giovanni esclama con esultanza incontenibile: « Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli Angeli sono miei e la Madre di Dio è mia… ».
La Madonna lo salva ancora
Ancora due volte la Madonna interviene a salvare da sicura morte S. Giovanni della Croce.
Una volta egli si trova a Cordova per portare a termine una nuova fondazione. Alcuni operai stanno ab)attendo un vecchio muro. Ma il muro crolla all’improvviso e precipita nella cella in cui si trova S. Giovanni della Croce. Tutti accorrono temendolo schiacciato dal crollo. E invece, egli appare sereno e illeso fra le macerie. Spiega la cosa dicendo che la Madonna nel momento del crollo lo ha coperto con il suo manto salvandolo da sicura morte.
Qualche tempo dopo, in viaggio per un’altra fondazione, di fronte a un fiume in piena, egli fa fermare’ i compagni, e si inoltra solo, inspiegabilmente, sull’asinello. A metà guado, però, viene travolto dalla corrente del fiume con l’asinello. I compagni gridano atterriti. Ma poco dopo vedono S. Giovanni della Croce aldilà del fiume; la sua Divina Protettrice e Madre l’ha trasportato incolume sull’altra riva.
Ma perché tanta fretta di attraversare il fiume? Pareva fretta inspiegabile. E invece, aldilà del fiume, S. Giovanni della Croce si imbatte in un infelice pugnalato e ridotto già in fin di vita. Il Santo comprende I allora la fretta che l’ha spinto ad attraversare il fiume e la protezione della Madonna nel salvarlo dalle acque perché assistesse questo moribondo. Si accosta al povero infelice,ne ascolta la confessione e lo assiste nel passaggio al mondo di là.
S. Giovanni della Croce intanto è il primo definitore della Provincia. Lavora instancabilmente alla fondazione di nuovi conventi, tanto che alla sua morte la Riforma ha già 78 conventi. Egli fa il maestro delle nuove leve da formare e rivestire dell’abito della Madonna. È modello di virtù.Ha il dono dei miracoli. È confessore e direttore di più monasteri delle Carmelitane scalze. Completa i suoi mirabili scritti di teologia mistica. Quale portento, questo santo mite e ardente!
Ma ormai si avvicina anche per lui la meta del Regno de Cieli. lo avverte, e per prepararsi meglio egli vuole chiedere al Signore tre grazie: 1. morire da semplice e umile suddito; 2. soffrire per amor suo; 3. morire in un convento dove non fosse conosciuto.
Il Signore lo esaudì molto presto.
Ancora una tempesta
Frutto delle debolezze umane, anche fra i Carmelitani scalzi si scatenò una brutta tempesta di lotte che venne a colpire pure S. Giovanni della Croce a causa di gravi calunnie, architettate soprattutto da qualche frate risentito nei suoi confronti.
Nel Capitolo Generale del 1591, infatti, il Santo venne messo in un cantuccio senza più cariche, proprio come egli aveva chiesto al Signore per prepararsi a morire. Ottenne per sé il convento del deserto della Penuela.
E qui egli si beava delle lunghe ore di solitudine fra le balze pietrose, i dirupi, nelle grotte. Se c’era chi sbalordiva a quel suo amore alla solitudine, egli diceva: « Non vi stupite, perché quando tratto con i sassi trovo meno di che confessarmi, che conversando con gli uomini ».
Pochi mesi dopo S. Giovanni della Croce fu assalito da violenta febbre per una grave infiammazione nella gamba sinistra.
I frati cercarono con ogni premura di farlo curare. Ma il Priore disse al P. Provinciale che in quel convento il Santo non avrebbe potuto ricevere mai tutte le cure necessarie per la guarigione.
Il P. Provinciale comunicò subito di fare scegliere a S. Giovanni della Croce uno dei due Conventi, quello di Ubeda o quello di Baeza, dove andarsi a curare. S. Giovanni della Croce scelse il convento di Ubeda. Perché? Solo perché questo convento era povero e piccolo, i e perché vi era come superiore il P. Francesco Crisostomo, uno di quei frati che nutriva risentimenti personali contro S. Giovanni della Croce: nelle mani di questo superiore egli si metteva per arricchirsi di dolori e di meriti in preparazione alla morte.
Il puro cavaliere di Maria non teme gli eroismi. Al contrario, li cerca, li sceglie, li fa suoi con coraggio. Così fece S. Giovanni della Croce scegliendo questo convento per gli ultimi due mesi di vita.
Arrivò a Ubeda più morto che vivo per gli strapazzi del viaggio. Ma il Priore lo accolse con il volto gelido e seccato, che contrastava tanto con il volto sofferente ma sorridente di S. Giovanni della Croce.
Messo su un giaciglio, in una celletta, cominciarono davvero per S. Giovanni della Croce i due mesi di preparazione alla morte fra dolori lancinanti e strazianti. Il dottore, sperando di guarirlo, interveniva con cauteri e tagli che straziarono la gamba al collo del piede fino a scoprire le ossa. I frati della comunità gli volevano bene e cercavano di alleviargli un po’ di pene.
Ma il Priore non faceva che rimproverare i frati per le premure verso l’infermo; arrivò a imprecare contro le sofferenze del santo, proibì persino di fargli lavare le bende per le fasciature, e infine gli tolse anche il frate infermiere.
Povero S. Giovanni della Croce! Solo e derelitto nelle sua pace e crocifissione!
Ma qualche frate scrisse al P. Provinciale sull’ignobile trattamento riservato al santo dal Priore. Il Provinciale, P. Antonio di Gesù, primo compagno i S. Giovanni della Croce, accorse subito alletto dell’infermo; riprese severamente il Priore tanto crudele quanto incosciente nel non rendersi conto del tesoro che aveva in casa; diede ordini precisi di garantire la massima ‘ assistenza all’augusto infermo, e assistette lui personalmente il santo finché poté restare lì.
Ma ormai il santo era in prossimità della meta.
Un sabato per il Cielo
Il 7 dicembre, vigilia della festa dell’Immacolata, i medici e i superiori decisero di far portare il Viatico al Santo. Era di sabato. Il Santo aveva detto che sarebbe morto di sabato, ma non era quello il sabato dell’entrata in Paradiso.
Il viatico egli lo ricevette in onore dell’Immacolata concezione. Fu un pensiero filiale tanto nobile e dolce!
Perché morire di sabato? Per una grazia di predilezione della Madonna. « Penso – diceva il Santo – alla grandezza del beneficio che fa Maria Vergine ai religiosi del suo Ordine, che portano degnamente il suo scapolare ». E quando si arrivò al venerdì successiva, 13 dicembre, dal tramonto in poi il Santo chiedeva ogni tanto: « Che ora è? perché io andrò a cantare il Mattutino in Cielo ».
Qualche ora dopo udì la campanella di un monastero vicino. Chiese perché suonava. Gli risposero che chiamava quella comunità alla recita anticipata del Mattutino. E il Santo esclamò: « Oh. io pure andrò a cantarlo in cielo con la Vergine! ». Sembrava che non avesse altro pensiero che questo: trovarsi fra poco in Paradiso con la Madonna. E poco dopo con voce piena di gratitudine aggiunse: « Grazie, grazie, o Regina e Signora mia, per il favore che mi fate di chiamarmi a voi nel giorno vostro! ».
Deve essere davvero una grande grazia morire di sabato o in altro giorno dedicato alla Madonna. S. Giovanni della Croce, il sommo mistico, ce lo assicura con la sua morte e con la speciale gratitudine che esprime alla Madonna per questa predilezione, Del resto, è naturale che la Madonna venga a prendersi questo figliolo da lei custodito premurosamente e salvato più volte da sicura morte; ed è anche giusto che chi ha glorificato la Madonna rinnovando il Carmelo, che è l’Ordine mariano per eccellenza, sia accolto in cielo in un giorno mariano a cantare lassù le glorie di Maria.


martedì 22 novembre 2016

SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

Santa Cecilia Vergine e martire
22 novembre
sec. II-III
Al momento della revisione del calendario dei santi tra i titolari delle basiliche romane solo la memoria di santa Cecilia è rimasta alla data tradizionale. Degli altri molti sono stati soppressi perché mancavano dati o anche indizi storici riguardo il loro culto. Anche riguardo a Cecilia, venerata come martire e onorata come patrona dei musicisti, è difficile reperire dati storici completi ma a sostenerne l'importanza è la certezza storica dell'antichità del suo culto. Due i fatti accertati: il «titolo» basilicale di Cecilia è antichissimo, sicuramente anteriore all'anno 313, cioè all'età di Costantino; la festa della santa veniva già celebrata, nella sua basilica di Trastevere, nell'anno 545. Sembra inoltre che Cecilia venne sepolta nelle Catacombe di San Callisto, in un posto d'onore, accanto alla cosiddetta «Cripta dei Papi», trasferita poi da Pasquale I nella cripta della basilica trasteverina. La famosa «Passio», un testo più letterario che storico, attribuisce a Cecilia una serie di drammatiche avventure, terminate con le più crudeli torture e conclusesi con il taglio della testa. 
Patronato: Musicisti, Cantanti
Etimologia: Cecilia = dal nome di famiglia romana
Emblema: Giglio, Organo, Liuto, Palma
Martirologio Romano: Memoria di santa Cecilia, vergine e martire, che si tramanda abbia conseguito la sua duplice palma per amore di Cristo nel cimitero di Callisto sulla via Appia. Il suo nome è fin dall’antichità nel titolo di una chiesa di Roma a Trastevere. 

Nel mosaico dell’XI secolo dell’abside della Basilica di Santa Cecilia a Roma oltre a Cristo benidecente, affiancato dai santi Pietro e Paolo, alla sua destra è rappresentata santa Cecilia, posta accanto a papa Pasquale I, che reca in mano proprio questa chiesa da lui fatta edificare nel rione Trastevere: l’aureola quadrata del Pontefice indica che egli era ancora vivo quando venne eseguita l’opera.
A sinistra di Cristo, invece, san Valeriano, sposo di santa Cecilia. La fondazione del titulus Caeciliae risale al III secolo. Il Liber pontificalis narra che nell’anno 545, durante le persecuzioni cristiane, il segretario imperiale Antimo andò ad arrestare papa Vigilio e lo trovò nella chiesa di Santa Cecilia, a dieci giorni dalle calende di dicembre, ovvero il 22 novembre, ritenuto dies natalis della santa. Tuttavia altre fonti storiche (come il Martirologio geronimiano del V secolo) ritengono che questa non sia la data della morte o della sepoltura, ma della dedicazione della sua chiesa.
La Nobildonna romana, benefattrice dei Pontefici e fondatrice di una delle prime chiese di Roma, visse fra il II e III secolo. Venne iscritta al canone della Messa all’inizio del VI secolo, secolo in cui sorse il suo culto. Nel III secolo papa Callisto, uomo d’azione ed eccellente amministratore, fece seppellire il suo predecessore Zeferino accanto alla sala funeraria della famiglia dei Caecilii. In seguito aprì, accanto alla martire, la “Cripta dei Papi”, nella quale furono deposti tutti gli altri pontefici di quello stesso secolo.
Cecilia sposò il nobile Valeriano. Nella sua Passio si narra che il giorno delle nozze la santa cantava nel suo cuore: «conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa». Da questo particolare è stata denominata patrona dei musicisti. Confidato allo sposo il suo voto di castità, egli si convertì al Cristianesimo e la prima notte di nozze ricevette il Battesimo da papa Urbano I. Cecilia aveva un dono particolare: riusciva ad essere convincente e convertiva. Le autorità romane catturarono san Valeriano, che venne torturato e decapitato; per Cecilia venne ordinato di bruciarla, ma, dopo un giorno e una notte, il fuoco non la molestò; si decise, quindi, di decapitarla: fu colpita tre volte, ma non morì subito e agonizzò tre giorni: molti cristiani che lei aveva convertito andarono ad intingere dei lini nel suo sangue, mentre Cecilia non desisteva dal fortificarli nella Fede. Quando la martire morì, papa Urbano I, sua guida spirituale, con i suoi diaconi, prese di notte il corpo e lo seppellì con gli altri papi e fece della casa di Cecilia una chiesa.
Nell’821 le sue spoglie furono traslate da papa Pasquale I nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere e nel 1599, durante i restauri, ordinati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati in occasione dell’imminente Giubileo del 1600, venne ritrovato un sarcofago con il corpo della martire che ebbe l’alta dignità di essere stata sepolta accanto ai Pontefici e sorprendentemente fu trovata in un ottimo stato di conservazione. Il Cardinale commissionò allo scultore Stefano Maderno una statua che riproducesse quanto più fedelmente l’aspetto e la posizione del corpo di santa Cecilia, così com’era stato ritrovato, con la testa girata a tre quarti, a causa della decapitazione e con le dita della mano destra che indicano tre (la Trinità) e della mano sinistra uno (l’Unità); questo capolavoro di marmo si trova sotto l’altare centrale di Santa Cecilia.
Nel XIX secolo sorse il cosiddetto Movimento Ceciliano, diffuso in Italia, Francia e Germania. Vi aderirono musicisti, liturgisti e studiosi, che intendevano restituire onore alla musica liturgica sottraendola all’influsso del melodramma e della musica popolare. Il movimento ebbe il grande merito di ripresentare nelle chiese il gregoriano e la polifonia rinascimentale delle celebrazioni liturgiche cattoliche. Nacquero così le varie Scholae cantorum in quasi tutte le parrocchie e i vari Istituti Diocesani di Musica Sacra (IDMS), che dovevano formare i maestri delle stesse Scholae.
Il tortonese e sacerdote Lorenzo Perosi, che trovò in San Pio X un paterno mecenate, è certamente l’esponente più celebre del Movimento Ceciliano, che ebbe in Papa Sarto il più grande sostenitore. Il 22 novembre 1903, giorno di santa Cecilia, il Pontefice emanò il Motu Proprio Inter Sollicitudines, considerato il manifesto del Movimento.


Autore: 
Cristina Siccardi

E qui la bellissima storia dall'antica tradizione:
https://plus.google.com/108959476555250029461/posts/NM7wWdR9jvo

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