Sant' Antonio Maria Claret Vescovo
23 ottobre - Memoria
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Sallent (Catalogna, Spagna), 23 dicembre 1807 - Fontfroide (Francia), 24 ottobre 1870
Una figura del secolo XIX al cui nome è tuttora legata una congregazione religiosa diffusa in tutti i continenti, quella dei Missionari del Cuore Immacolato di Maria, detti appunto Clarettiani. Di origine catalana, appena ordinato sacerdote Claret si reca a Roma, a Propaganda Fide, per essere inviato missionario. Ma la salute precaria lo costringe a tornare in patria. Così per sette anni si dedica alla predicazione delle missioni popolari tra la Catalogna e le Isole Canarie. È tra i giovani raggiunti in questa attività apostolica che nasce l’idea della congregazione. Nel 1849 viene nominato arcivescovo di Santiago di Cuba. Morirà il 24 ottobre 1870. (Avvenire)
Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Sant’Antonio Maria Claret, vescovo: ordinato sacerdote, per molti anni percorse la regione della Catalogna in Spagna predicando al popolo; istituì la Società dei Missionari Figli del Cuore Immacolato della Beata Maria Vergine e, divenuto vescovo di Santiago nell’isola di Cuba, si adoperò con grande merito per la salvezza delle anime. Tornato in Spagna, sostenne ancora molte fatiche per la Chiesa, morendo infine esule tra i monaci cistercensi di Fontfroide vicino a Narbonne nella Francia meridionale.
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Nato in una famiglia profondamente cristiana di tessitori catalani con dieci figli. Viene ordinato nel 1835, a 28 anni. Va a Roma nel 1839 e si rivolge a Propaganda Fide per essere inviato come missionario in qualsiasi parte del mondo. Non potendo raggiungere questo obiettivo, entra come novizio tra i Gesuiti, ma dopo pochi mesi deve tornare in patria perché malato. Per sette anni predica numerosissime missioni popolari in tutta la Catalogna e le isole Canarie conquistando un'immensa popolarità, anche come taumaturgo. Sa mettere insieme la gente dando vita ad associazioni e gruppi. Nel 1849 fonda una Congregazione apostolica: i Figli dell’Immacolato Cuore di Maria Oggi anche conosciuti come Missionari Clarettiani. All'inizio del terzo millennio, essi lavorano in 65 paesi dei cinque continenti. Nel 1936/ 39, durante la guerra civile spagnola, 271vengono uccisi per causa della fede. Tra questi spiccano i 51 Martiri di Barbastro, beatificati da Giovanni Paolo II il 1992. (Vedi in questa web: Martiri Spagnoli Clarettiani di Barbastro).
Nominato nel 1849 arcivescovo di Santiago di Cuba (all'epoca appartenente alla corona di Spagna), arriva in diocesi nel febbraio di 1851. Nel suo strenuo lavoro apostolico affronta i gravi problemi morali, religiosi e sociali dell'Isola: concubinato, povertà, schiavitù, ignoranza, ecc., ai quali si aggiungono due calamità che colpiscono la popolazione: epidemie e terremoti.
Ripercorre la sua vasta diocesi per ben quattro volte missionando instancabilmente con un gruppo di santi missionari. Le sue preoccupazioni pastorali si riversano anche in gran parte nel potenziamento del seminario e nella riformazione del clero. Nell'ambito sociale, promuove l'agricoltura, anche con diverse pubblicazioni e creando una fattoria-modello a Camagüey. Oltre a questo crea in ogni parrocchia una cassa di risparmio, opera pioniera in America Latina. Promuove l'educazione cercando Istituti religiosi e creando egli stesso insieme alla Venerabile Maria Antonia Paris la congregazione delle Religiose di Maria Immacolata (Missionarie Clarettiane). La sua strenua fortezza nel difendere i diritti della Chiesa e i diritti umani li crea numerosi nemici tra i politici e i corrotti. E così subisce minacce e attentati, tra i quali uno ad Holguin, dove viene gravemente ferito al volto. Nel 1857 la regina lo richiama a Madrid come suo confessore. In questa tappa continua ad annunziare il Vangelo nella capitale e in tutta la penisola.
Esiliato in Francia nel 1868 arriva con la regina a Parigi e, anche qui, prosegue le sue predicazioni.
Poi partecipa in Roma al concilio Vaticano I dove difende con ardore l'infallibilità del Romano Pontefice.
Perseguitato ancora dalla rivoluzione, si rifugia nel monastero di Fontfroide presso Narbona, dove spira santamente il 24 ottobre del 1870.
Sulla tomba vengono scolpite le parole di papa Gregorio VII: "Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio". Il suo corpo si venera nella Casa Madre dei Clarettiani a Vic (Barcellona).
E l’8 maggio 1950, Pio XII lo proclama santo, e dice del Claret: "spirito grande, sorto come per appianare i contrasti: poté essere umile di nascita e glorioso agli occhi del mondo; piccolo nella persona però di anima gigante; modesto nell'apparenza, ma capacissimo d'imporre rispetto anche ai grandi della terra; forte di carattere però con la soave dolcezza di chi sa dell'austerità e della penitenza; sempre alla presenza di Dio, anche in mezzo ad una prodigiosa attività esteriore; calunniato e ammirato, festeggiato e perseguitato. E tra tante meraviglie, quale luce soave che tutto illumina, la sua devozione alla Madre di Dio".
Autore: P. Jesús Bermejo, CMF
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"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
giovedì 23 ottobre 2014
Sant' Antonio Maria Claret, Vescovo
SPIRITUALITA' DEL CELIBATO SACERDOTALE
Argomento: Sacerdozio e vita religiosa
Di Divo Barsotti
La perfezione cristiana è la perfezione della carità. Come la fede è adesione pacifica e sicura alla verità e non comporta dubbi, così la carità è frutto dello Spirito e in ogni anche suo minimo grado importa un'adesione appreziativamente somma a Dio. Non vi è carità là dove Dio non è amato come bene supremo: se l'uomo crede di spartire con altri il suo amore, non ama. L'ordine della carità è che si debba amare Dio di un amore totale: con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. E, certo, la fede che esclude ogni dubbio è dono di Dio, e cosi dono di Dio è la carità che esclude ogni divisione.
Ma come è possibile allora un cammino spirituale se già fin dall'inizio del cammino l'uomo è in Dio? D'altra parte se non fosse in Dio, come potrebbe essere salvo un uomo che non avesse raggiunto la perfezione della carità? Ma è evidente che non è possibile una vita spirituale che non importi il superamento delle condizioni umane. Come potrebbe l'uomo trascendere cosi se medesimo e tutto il creato per raggiungere Dio e aderire a Lui nella fede e nell'amore? La fede è dono di Dio, e dono di Dio è la carità. Si deve allora capire come sia possibile un cammino di vita spirituale fino a una sua perfezione. Lo Spirito non opera nell'uomo come una forza estranea, al di fuori delle sue potenze, ma, nei suoi doni, Egli muove le sue potenze in tal modo che tutto l'uomo diviene strumento di Dio. L'uomo che sia in grazia è già in Dio, ma Dio richiede una cooperazione all'uomo alla sua azione, e la cooperazione dell'uomo all'azione di Dio è il suo consenso e la sua docilità all'azione dello Spirito.
Dio trasferisce in Se stesso l'uomo, ma l'uomo in Dio può compiere un “ suo ” cammino che può essere senza fine in un Dio che non ha fine. Avviene nella vita spirituale qualcosa di simile a quanto avviene nella vita umana. Con la sua nascita già l'uomo è uomo, ma quanto cammino deve ancora compiere per vivere come uomo! Il cammino dell'uomo nella vita spirituale dipende dalla sua docilità all'azione di Dio. L'esercizio delle virtù morali non è, ora, che l'espressione stessa di una vita spirituale perché l'esercizio di queste virtù, in dipendenza dall'azione dello Spirito, è come trasparente, è come lievitato dall'amore. Le virtù del cristiano infatti sono animate dalla carità: se non sono animate dalla carità non si possono dire cristiane. Si può dunque dire che le virtù sono quasi una certa incarnazione dell'amore, e come non vi è virtù cristiana senza l'amore, cosi non vi è carità nel cristiano senza le virtù, nelle quali vive la carità.
Vi è un cammino nelle virtù che dice il progresso dell'anima nella docilità allo Spirito. In questa docilità ogni comportamento umano viene trasformato. Cosi la vita spirituale importa tutte le virtù. Vi può essere una virtù senza l'altra nella vita morale umana, ma non vi può essere una virtù senza tutte le altre nella vita spirituale del cristiano.
Vi è una virtù nella vita spirituale del sacerdote che suppone tutte le altre, ma sembra tuttavia particolarmente significativa del suo stato e della sua missione; parlare della spiritualità del sacerdozio è considerare particolarmente questa virtù: è il celibato ecclesiastico.
Si può dunque riconoscere nell'esercizio di questa virtù il cammino proprio del sacerdote verso una sua perfezione nella carità? Potrebbe sembrare che il celibato non fosse espressione di amore; per sé sembra dire soltanto rinuncia di fatto, poi il celibato non è essenzialmente legato al sacerdozio. Il termine in realtà non è felice: “ celibato ” direttamente dice qualcosa di negativo, la rinuncia cioè al matrimonio, e potrebbe anche significare uno stato di vita che non importa amore e chiude l'uomo in se stesso. Al contrario, il celibato del sacerdote non vuole significare qualcosa di negativo: la Chiesa vuole, col celibato, la castità perfetta del sacerdote. La spiritualità sacerdotale ha precisamente nella castità perfetta la sua espressione più vera, perché la castità è, nel sacerdote, l'espressione stessa dalla sua carità.
Si è detto che una virtù suppone tutte le altre virtù, ma in ogni stato è una particolare virtù che sembra meglio esprimere e rivelare la carità. Se non fosse animata dalla carità, la castità sarebbe rifiuto all'amore. Ma col celibato la Chiesa manifesta al contrario di volere la santità dei suoi sacerdoti. La castità nel sacerdozio, al contrario di essere una difesa all'amore, è il carisma dell'amore perfetto, di un amore che, a somiglianza di quello di Dio, è preveniente e gratuito, ed è universale.
La dedizione del sacerdote al suo ministero non infatti una risposta all'amore dei fratelli: anche il sacerdote, come il Signore, deve amare per primo. Se conosce un motivo al suo amore, è perché è particolarmente attirato dalla miseria di coloro che egli deve salvare. Certo, l'unico Salvatore di tutti è Gesù figlio di Dio, ma la salvezza che Egli ha meritato per tutti raggiunge di fatto ogni uomo per il servizio sacerdotale di coloro che il Cristo associa alla sua missione.
Per i fratelli egli dona la sua vita; l'ordinazione sacerdotale lo consacra a un servizio dal quale mai più potrà liberarsi, ed è un servizio che richiede il dono totale di sé. E a nessuno per sé può rifiutare il suo amore.
Come potrebbe il sacerdote vivere questo amore se in lui non vivesse Gesù? Il sacerdozio esige e suppone nello stesso tempo la più intima unione, anzi una certa unità col Cristo: è il Cristo medesimo che deve vivere in lui, e la vita del Cristo è l'amore fino al sacrificio, fino alla morte. Questa unità col Cristo, per cui una sola è la vita e uno solo l'amore, non potrebbe essere vissuta senza la castità perfetta. La castità sacerdotale è pertanto come il segno sacramentale dell'unione del sacerdote col Cristo.
Sì è detto tante volte e sì è ripetuto che il sacerdote è un “ altro Cristo ”. Per l'esercizio del sacerdozio ogni sacerdote opera nella persona del Cristo, ma quello che avviene per il potere che gli è conferito con l'ordinazione, se assicura per sé' l'efficacia degli atti sacramentali, esige tuttavia, perché non sia menzogna, che la vita del sacerdote sia una sola con la vita del Cristo.
Nella castità così il sacerdote, al contrario di vivere un suo rifiuto all'amore, realizza quell'unione nuziale che, secondo i più grandi maestri, è precisamente la perfezione stessa della vita spirituale. Se non fosse così, la castità non potrebbe essere condizione all'amore e potrebbe divenire condizione invece a un egoismo che potrebbe chiudere l'anima e il cuore del sacerdote, rendendo vuota e sterile la sua vita. Di fatto il matrimonio è stato elevato da Cristo a dignità di sacramento, perché nell'amore dell'uomo e della donna già in figura si faceva presente il mistero dell'unione del Cristo e della Chiesa. La castità perfetta nel sacerdote non è più soltanto figura di quell'unione, ma suo compimento più o meno perfetto. Solo cosi, divenendo un solo Spirito col Cristo, il sacerdote vivrà una partecipazione reale all'amore preveniente e gratuito del Cristo e sarà il Cristo medesimo a vivere in lui la sua stessa passione di amore, la sua missione di universale salvezza.
L'amore esclusivo per Cristo, per cui egli liberamente rinuncia a formarsi una sua famiglia, dilata cosi il suo cuore da farlo capace di un amore che non conosce confine. La sua famiglia è l'universo. Certo, i condizionamenti umani rimangono. Anche Gesù non è stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele, ma questo non impedì che egli di fatto fosse il salvatore del mondo. Se sul piano visibile e sociale s'impone un limite all'attività dell'uomo, la carità non conosce altro limite che quello della sua imperfezione. Per questo anche il sacerdote riceve una missione canonica che è limitata nel tempo e nello spazio, ma la carità che lo anima non conosce per sé alcun limite, è eterna e non può escludere alcuno.
Unica e indivisibile è la missione del Cristo, e ogni cristiano la vive nello stato in cui l'ha posto il Signore e in quelle condizioni di tempo e di luogo che la Provvidenza ha assegnato alla sua vita. Ma più di ogni cristiano, nella castità che lo unisce a Cristo in una carità indivisibile, il sacerdote è impegnato a vivere la stessa missione del Cristo. E’ proprio la castità perfetta che lo apre a una carità universale: nulla e nessuno lo lega e lo divide dagli altri. Uno col Cristo, egli diviene uno con tutti.
Questa unità non si compie che in Cristo e importa che tutta l'umanità, tutta la creazione, sia in qualche modo assunta dal Verbo e divenga in Lui un solo Cristo. Cosi la Persona del Verbo per cui tutte le cose furono create, diviene il principio di una unità di tutto il genere umano, anzi della creazione intera; ma tutto questo non avviene senza il sacerdozio. Cosi il sacerdozio è strumento di Dio al compimento di questo disegno mirabile. Certo, precipuamente lo è coi sacramenti che amministra, ma prima ancora con la testimonianza di tutta la sua vita.
Si insegna che l'Ordine sacro imprime un sigillo nella natura del sacerdote. Il carattere non trasforma radicalmente la natura dell'uomo, ma fa si che ogni attività di questa natura non possa non essere un'attività sacerdotale. Con tutta la sua vita il sacerdote è a servizio del Verbo per ricondurre a Lui gli uomini e il mondo. Per questa operazione è necessario che il mondo fisico venga sottomesso allo spirito e lo spirito a Dio. La castità è la forza che riporta la sensibilità umana all'obbedienza dello spirito; pertanto è nella castità il primo mezzo per liberare l'uomo dalla schiavitù dei sensi e ordinarlo alla vita spirituale. Di questa liberazione il sacerdote deve dare l'esempio in se stesso, e deve essere guida. Per la castità infatti tutti gli uomini sono chiamati a iniziare un loro cammino di risanamento della natura umana disgregata dal peccato. Di qui l'importanza che ha la castità nella vita di ogni cristiano, ma anche di qui l'importanza eccezionale che deve avere questa virtù nella vita del sacerdote, che più direttamente è chiamato a vivere la missione del Cristo, perché tutta la natura anche fisica si ordini a Dio.
Questa salvezza che doveva risanare la rottura dell'uomo da Dio, dell'uomo dagli uomini, dell'uomo dalla creazione e finalmente dell'uomo in se stesso che il peccato aveva compiuto doveva esigere che si ricomponesse prima di tutto 1’unità dell'uomo in se medesimo. Come potrebbe il sacerdote essere il messaggero e il testimone della salvezza, se egli non dimostrasse con la sua vita di essere egli stesso salvato? Sottomessa la carne allo spirito, ora l'uomo può ordinarsi a Dio e in Dio essere salvo.
Ma la salvezza non può isolare, dividere l'uomo dagli altri fratelli, e per la missione sacerdotale tanto meno può dividere il sacerdote da tutti coloro ai quali è stato mandato. La castità che risana la natura dell'uomo divisa dal peccato è nel sacerdote anche un impegno a risanare la divisione che il peccato ha compiuto tra uomo e uomo, tra l'uomo e la creazione. La castità perfetta è quella forza divina che solleva non soltanto l'uomo a Dio, ma solleva tutta quanta la creazione ordinandola a Lui. Importante per la sua santificazione, la castità è sommamente importante per il ministero del sacerdote. Nella liberazione da ogni legame familiare, egli è totalmente disponibile al suo ministero: nulla può o deve sottrarlo a quella dedizione di sé cui si consacrò con l'ordinazione sacerdotale. Non può vivere più una sua vita, una sua professione, non ha più un suo nome: non appartiene che a Cristo. E Cristo vive in lui una missione che il sacerdote può dire di avere adempiuto se gli chiederà il dono di tutta la vita. Il celibato che la Chiesa vuole da lui sarebbe una mutilazione se non fosse, al contrario, la condizione perché si facesse presente in lui il mistero del Cristo, della sua vita e della sua morte per la salvezza del mondo. Negare che sul piano naturale non sia un sacrificio, è negare l'evidenza; ma il celibato del sacerdote non è solitudine se è unione col Cristo, non e sterilità se è servizio di amore.
Se comunque è unione con Cristo, la fedeltà all'impegno del celibato esige la preghiera che alimenta l'amore, una preghiera viva. nel rapporto personale del sacerdote col Cristo. Se è servizio di amore, è necessario che il sacerdote non si chiuda in se stesso, ma senta sempre più che egli vive per gli altri, che gli altri sono la sua vita.
Questa dunque ci appare la spiritualità del sacerdote: egli deve vivere una intima unione con Cristo per essere con Lui una sola lode al Padre, ed essere insieme una sola cosa con gli altri. Vivrà la sua unione col Cristo nella sua stessa dedizione ai fratelli. La santità e la missione saranno cosi inseparabili e la loro unità sarà frutto di un amore casto. Il celibato, che poteva sembrare isolarlo, diviene il segno dì un amore che unendolo a Cristo lo fa anche uno con tutti.
VIRGO et MATER "GUADALUPENSE" INTERCEDE PRO NOBIS |
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La dispensa dal celibato sacerdotale ...e le sue cause.
Argomento: Sacerdozio e vita religiosa
SACRA CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, I. Litterae circulares Per litteras ad universos omnibus locorum ordinariis et moderatoribus generalibus religionum clericalium de modo procedendi in examine et resolutione petitionum quae dispensationem a caelibatu respiciunt, Prot. N. 128161s, 14 octobris 1980: AAS 72(1980) 1132‑1135.
I. LETTERA CIRCOLARE
1. Nella lettera rivolta a tutti i sacerdoti della chiesa il giovedì santo 1979, il sommo pontefice Giovanni Paolo II, riferendosi ‑ come egli stesso diceva ‑ alla dottrina esposta dal Concilio Vaticano II, successivamente da Paolo VI nell'enciclica Sacerdotalis caelibatus e poi dal sinodo dei vescovi del 1971, ha nuovamente illustrato con chiarezza la grande stima che si deve avere del celibato sacerdotale nella chiesa latina.
Il santo padre ricorda che si tratta di cosa di grande importanza che è particolarmente connessa con la dottrina del vangelo. Dietro l'esempio di Cristo Signore e in conformità con la dottrina apostolica e la sua propria tradizione, la chiesa latina ha voluto e vuole tuttora che tutti coloro che ricevono il sacramento dell'ordine abbraccino anche questa rinuncia, non solo come un segno escatologico, ma anche come “segno d'una libertà che è a sua volta ordinata al ministero”.
Osserva infatti il sommo pontefice: “Ogni cristiano che riceve il sacramento dell'ordine s'impegna al celibato con piena coscienza e libertà, dopo una preparazione pluriennale, una profonda riflessione e una assidua preghiera. Egli prende la decisione per la vita nel celibato solo dopo essere giunto alla ferma convinzione che Cristo gli concede questo dono per il bene della chiesa e per il servizio degli altri... E' ovvio che una tale decisione obbliga non soltanto in virtù della legge stabilita dalla chiesa, ma anche in virtù della responsabilità personale. Si tratta qui di mantenere la parola data a Cristo e alla chiesa”. Del resto, i cristiani uniti nel matrimonio hanno il diritto ‑ aggiunge il santo padre ‑ di aspettarsi dai sacerdoti “il buon esempio e la testimonianza della fedeltà alla vocazione fino. alla morte”.
2. Tuttavia; le difficoltà che, specialmente nel corso di questi ultimi anni, i sacerdoti hanno sperimentato, sono state la causa per cui un non piccolo numero di essi ha chiesto la dispensa dagli obblighi derivanti dalla loro ordinazione sacerdotale, in special modo la dispensa dal celibato. A causa della vasta diffusione di questo fatto - cosa che ha inferto una dolorosa ferita alla chiesa, colpita in questo modo nella fonte della sua vita e che provoca un continuo dolore ai pastori e a tutta la comunità cristiana ‑ il sommo pontefice Giovanni Paolo II, fin dall'inizio del suo supremo ministero apostolico, si è convinto della necessità di stabilire una ricerca sulla situazione sulle cause e i rimedi da prendere.
3. in realtà si deve evitare che, in un problema tanto grave, la dispensa dal celibato, sia considerata come un diritto che la chiesa debba riconoscere in modo indiscriminato per tutti i suoi sacerdoti. Al contrario, vero diritto dev'essere ritenuto quello che il sacerdote con l'offerta di se stesso ha conferito a Cristo e a tutto il popolo di Dio, il quale quindi attende da lui che sia fedele alla sua promessa, nonostante le gravi difficoltà che può incontrare nella sua vita. Inoltre, si deve evitare anche che la dispensa dal celibato venga considerata, con il passare del tempo, come un effetto quasi automatico di un processo sommario amministrativo (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti di tutta la chiesa in occasione del giovedì santo, n. 9). Beni troppo preziosi qui sono messi in causa: anzitutto, quello del sacerdote che chiede la dispensa, convinto che questa sia l'unica soluzione del suo problema esistenziale e di non riuscire più a portarne il peso; poi il bene generale della chiesa che non può sopportare che un poco alla volta venga dissolto l'organico dei sacerdoti che è assolutamente necessario per l'adempimento della sua missione; infine anche il bene particolare delle chiese locali, ossia dei vescovi con il loro presbiterio, che si preoccupano di conservare, per quanto è possibile, le necessarie forze apostoliche, e contemporaneamente anche il bene di tutte le categorie di fedeli, per il servizio dei quali il ministero sacerdotale dev'essere ritenuto un diritto e una necessità. Perciò occorre fare attenzione ai molteplici aspetti che vanno raccordati tra loro, salvaguardando la giustizia e la carità: nessuno di essi può essere trascurato o peggio ancora rifiutato
4. Pertanto, consapevole dei molti e complessi aspetti di questo problema, che comportano tristi situazioni personali, e insieme tenendo conto della necessità di considerare ogni cosa nello spirito di Cristo, il santo padre ‑ al quale molti vescovi hanno dato informazioni e consigli ‑ ha deciso di prendersi un sufficiente spazio di tempo per poter arrivare, con l'aiuto dei suoi collaboratori, ad una decisione prudente e fondata su argomenti sicuri, circa l'accettazione, l'esame e la soluzione delle domande riguardanti la dispensa dal celibato. Il frutto di questa matura riflessione sono le decisioni che ora vengono brevemente esposte. L'accurata preoccupazione, di prendere in esame tutti gli aspetti che entrano in gioco ha suggerito e ispirato le norme. secondo le quali d'ora in poi dovrà essere impostato l'esame delle domande che verranno rivolte alla sede apostolica. Come è evidente, è assolutamente necessario che queste norme non siano separate dallo spirito pastorale da cui sono animate.
5. Nell'esame delle domande rivolte alla sede apostolica, oltre i casi dei sacerdoti che, avendo abbandonato già da molto tempo la vita sacerdotale, desiderano sanare una situazione dalla quale non possono ritirarsi, la Congregazione per la dottrina della fede prenderà in considerazione il caso di coloro che non avrebbero dovuto ricevere l'ordinazione sacerdotale, perché è mancata la necessaria attenzione o alla libertà o alla responsabilità, oppure perché i superiori competenti al momento opportuno, non sono stati in grado di valutare prudentemente e sufficientemente se il candidato fosse realmente idoneo a condurre perpetuamente la vita nel celibato consacrato a Dio.
In questa materia dev'essere evitata ogni leggerezza che diminuendo il significato del sacerdozio, il carattere sacro dell'ordinazione e la gravità degli obblighi precedentemente assunti, può certamente provocare un gravissimo danno e costituirà certamente anche una triste sorpresa e uno scandalo per molti fedeli. Perciò la causa della dispensa va dimostrata con argomenti efficaci per numero e solidità. Affinché le cose procedano con serietà e sia tutelato il bene dei fedeli, la stessa attenzione suggerirà che non vengano prese in considerazione quelle domande che si presentassero con sentimenti diversi dall'umiltà.
6. Nell'adempimento di questo gravoso compito che le è affidato dal romano pontefice, la Congregazione per la dottrina della fede è ben convinta di poter contare sulla piena e fiduciosa collaborazione di tutti gli ordinari interessati. Per quanto la riguarda, essa è pronta a offrire tutti quegli aiuti di cui avessero bisogno. Confida similmente che essi osserveranno prudentemente le norme proposte, perché essa ben conosce la loro preoccupazione pastorale di realizzare in questo campo condizioni necessarie per servire il bene della chiesa e del sacerdozio, e per provvedere alla vita spirituale dei presbiteri e delle comunità dei fedeli. Infine questo dicastero sa che essi non possono dimenticare i doveri della loro paternità spirituale verso tutti i loro, sacerdoti, specialmente verso quanti si trovano in gravi difficoltà spirituali, senza offrire loro un saldissimo e necessario aiuto, affinché più facilmente e con più gioia possano adempiere i doveri assunti nel giorno dell'ordinazione verso il Signore Gesù Cristo e la sua santa chiesa, senza far tutto il possibile nel Signore per riportare il fratello vacillante alla tranquillità dello spirito, alla fiducia, alla penitenza e a riprendere il primitivo fervore, offrendo aiuto, secondo i casi, con i confratelli, gli amici, i parenti, i medici e gli psicologi (cfr. Lett. enc. Sacerdotalis caeIibatus, n. 87 e 91).
7. A questa lettera vengono allegate le norme procedurali, che si devono osservare nella preparazione della documentazione riguardante la domanda di dispensa dal celibato.
Roma, dal Palazzo della Congregazione per la dottrina della fede, 14 ottobre 1980.
FRANJO card. SEPER, prefetto
FR. JÉROME HAMER, O.P., arciv. Tit. di Lorium, segretario.
Nota: Le Normae procedurales Ordinarius competens de dispensatione a sacerdotali caelibatu, Prot. N. 128/61 del 14 ottobre 1980 [cfr. AAS 72(1980) 1136‑1137] sono sub secreto.
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martedì 21 ottobre 2014
Un Mariano veramente ...Giorgio
Il suicidio dei buoni, ossia, la falsa obbedienza che demolisce la Fede
Riprendo da Campari&deMaistre [qui].
[1] Summa Theologiae, II-II, Q. 104, Art. 3
[2] http://papabenedettoxvitesti.blogspot.com/2009/08/j-ratzingernei-confronti-della-liturgia.html
[3] GRUNER N., Il Terzo Segreto e il problema della falsa obbedienza.
[4] Ibidem.
Nel II secolo a.C. un sacerdote, di nome Mattatia (in ebraico «dono di Dio»), alla vista dell’apostasia generale del popolo d’Israele, dal Sommo Sacerdote all’ultimo israelita, pianse su Gerusalemme, stracciandosi le vesti per la corruzione, l’idolatria e il tradimento perpetrato da tutto il popolo contro la fede dei padri.
Vennero, dunque, a chiamarlo i messaggeri del re Antioco Epìfane, per convincerlo ad accettare i “nuovi” riti, di sottomettersi, per obbedienza, alla pratica del nuovo culto. “Ma Mattatia rispose a gran voce: «Anche se tutti i popoli nei domini del re lo ascolteranno e ognuno si staccherà dal culto dei suoi padri e vorranno tutti aderire alle sue richieste, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell'alleanza dei nostri padri; ci guardi il Signore dall'abbandonare la legge e le tradizioni; non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra”. (1Mac 2, 19-22).
A ben vedere, questo brano del primo libro dei Maccabei, riporta delle forti analogie con gli avvenimenti dei nostri tempi.
Quello che è successo ai Frati Francescani dell’Immacolata, per esempio, è semplicemente sconcertante e doloroso, e tuttavia è ancora più sconvolgente la loro risposta a questa ingiusta oppressione: hanno deposto le armi, hanno scelto la non belligeranza. L’atteggiamento che hanno sposato è quello di obbedire all’ingiustizia e contemporaneamente affidarsi ciecamente all’Immacolata la quale, a dir loro, li libererà, prima o poi, da questa persecuzione. Premesso che la devozione e la fiducia sconfinata nella Santa Madre di Dio è santissima nonché doverosa per ogni battezzato, tuttavia la Madonna non ci priva del nostro intelletto, né la devozione a Lei ci esime dal resistere alle ingiustizie e di rimboccarci le maniche dinanzi all’errore e al sopruso: basti guardare l’esempio militante di San Massimiliano Kolbe (sic!). In parole povere, “bisogna dar battaglia perché Dio conceda vittoria!” (Santa Giovanna d’Arco).
L’immobilismo apparentemente pio ed eroico in cui i Francescani dell’Immacolata si sono rinchiusi sembra essere più un cieco fideismo che mal si concilia con la “Vera” e santa obbedienza cattolica. I frati vorrebbero cioè rimanere fedeli all’autorità, che li ha privati della Santa Messa di sempre, pur riconoscendo la palese ingiustizia di tale comando. Ma l’obbedienza, per definizione, non consiste nell’accettare controvoglia, con critiche, con mormorazioni e giudizi un decreto dell’autorità, bensì, per essere vera obbedienza, deve tendere alla conformazione della volontà del sottoposto con quella del suo superiore. Ossia, il religioso deve pensare come il superiore o almeno tendere alla totale identità di volontà (cfr. Summ. Theol.).
Ora, posto che i frati perseguitati si considerano appunto “perseguitati”, si deduce che essi non accettano (moralmente) il provvedimento della Suprema autorità contro di essi, riconoscendone la palese ingiustizia, eppure l’accettano sul piano pratico. Bè cari frati, se credete così di assolvere al precetto dell’obbedienza, vi sbagliate di grosso. Questa non è l’obbedienza cattolica, è falsa obbedienza. Dunque, se volessimo essere veramente puristi e vestire i panni dell’avvocato del Diavolo, dovremmo richiamarvi ad una più piena obbedienza, ad una più piena “comunione”, ad un vero “sentire cum Ecclesia”. Ma se i frati chinano il capo dinanzi a tale provvedimento, ne riconoscono la giustezza, dunque perdono ogni diritto di lamentarsi, e di compatirsi, leccandosi le ferite che hanno voluto autoinfliggersi. Inoltre, sembra che i nostri frati si dimentichino che fu lo stesso Papa Benedetto XVI a smascherare la totale falsità di questa prospettiva, dichiarando che l’antica Messa non “è mai stata abrogata” e che il suo uso da parte di qualsiasi sacerdote all’interno della Chiesa “è stato sempre permesso”, non potendo, neppure il Papa, in alcun modo eliminarla o abrogarla, né, tantomeno, sostituirla (cfr. CCC n. 1125). Infatti è stato proprio a causa di un falso principio di obbedienza all’autorità ecclesiastica che la sovversione della Fede Cattolica è stata così rapida e diffusa. Fu proprio lo stesso Papa Benedetto, quando era ancora il Cardinal Ratzinger, a confutare questa erronea teoria: “Il Papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione, e perciò il primo garante dell’obbedienza… Per cui, per quanto concerne la Liturgia, ha il compito di un giardiniere, e non quello di un tecnico che costruisce nuove macchine e butta quelle vecchie”[2]. Dobbiamo dare atto a S.S. Benedetto XVI del valido e coraggioso tentativo di ritorno sui binari della Tradizione e, contemporaneamente, dobbiamo tenere conto della violenta e tempestiva offensiva che i suoi oppositori hanno riversato su di lui, tanto da costringerlo alla rinuncia papale.
Ora, posto che i frati perseguitati si considerano appunto “perseguitati”, si deduce che essi non accettano (moralmente) il provvedimento della Suprema autorità contro di essi, riconoscendone la palese ingiustizia, eppure l’accettano sul piano pratico. Bè cari frati, se credete così di assolvere al precetto dell’obbedienza, vi sbagliate di grosso. Questa non è l’obbedienza cattolica, è falsa obbedienza. Dunque, se volessimo essere veramente puristi e vestire i panni dell’avvocato del Diavolo, dovremmo richiamarvi ad una più piena obbedienza, ad una più piena “comunione”, ad un vero “sentire cum Ecclesia”. Ma se i frati chinano il capo dinanzi a tale provvedimento, ne riconoscono la giustezza, dunque perdono ogni diritto di lamentarsi, e di compatirsi, leccandosi le ferite che hanno voluto autoinfliggersi. Inoltre, sembra che i nostri frati si dimentichino che fu lo stesso Papa Benedetto XVI a smascherare la totale falsità di questa prospettiva, dichiarando che l’antica Messa non “è mai stata abrogata” e che il suo uso da parte di qualsiasi sacerdote all’interno della Chiesa “è stato sempre permesso”, non potendo, neppure il Papa, in alcun modo eliminarla o abrogarla, né, tantomeno, sostituirla (cfr. CCC n. 1125). Infatti è stato proprio a causa di un falso principio di obbedienza all’autorità ecclesiastica che la sovversione della Fede Cattolica è stata così rapida e diffusa. Fu proprio lo stesso Papa Benedetto, quando era ancora il Cardinal Ratzinger, a confutare questa erronea teoria: “Il Papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione, e perciò il primo garante dell’obbedienza… Per cui, per quanto concerne la Liturgia, ha il compito di un giardiniere, e non quello di un tecnico che costruisce nuove macchine e butta quelle vecchie”[2]. Dobbiamo dare atto a S.S. Benedetto XVI del valido e coraggioso tentativo di ritorno sui binari della Tradizione e, contemporaneamente, dobbiamo tenere conto della violenta e tempestiva offensiva che i suoi oppositori hanno riversato su di lui, tanto da costringerlo alla rinuncia papale.
Ciò che è vero per il Papa – ovvero che il suo potere e la sua autorità sono limitate dall’obbedienza alla Fede – è ancor più vero per tutti i suoi sottoposti. Eppure tra le fila di questi ultimi, in quest’epoca post-conciliare, l’obbedienza alla Fede è stata largamente rimpiazzata dall’obbedienza all’autorità gerarchica, a loro uso e consumo. Il positivismo (la mia volontà è legge) ed il nominalismo (ciò che voglio è giusto perché lo voglio io) hanno invaso la Chiesa, facendo in modo che gli abusi della gerarchia venissero coperti in virtù dell’obbedienza, che ormai sembra essere diventata l’unica e sola virtù su cui insistono le autorità ecclesiastiche”[3].
“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(5,29), e facilmente si obbietterà che Dio parla per mezzo del Papa, di un Concilio o della gerarchia, eppure bisogna ricordare anche che Dio non può comandare cose contraddittorie, Dio non “evolve”, Egli è Immutabile per essenza. “Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile”(Is 45,23), con buona pace del card. Kasper e del sua fanta-teologia schellinghiana. Dio non dice un giorno di credere in una cosa e il giorno dopo di non crederla più: Dio non cambia, rimane stabile per sempre, e con Lui coloro che rimangono fedeli alla dottrina immutabile: “Veritas Domini manet in aeternum”(Esdr 3,12). Non solo, per quanto riguarda la Fede, che è il presupposto della Speranza e della Carità, l’Apostolo dice: “se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele perché non può rinnegare se stesso”(2Tm 2,12-13). Dio cioè non può contraddirsi, non può rinnegare ciò che ha già dichiarato.
“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(5,29), e facilmente si obbietterà che Dio parla per mezzo del Papa, di un Concilio o della gerarchia, eppure bisogna ricordare anche che Dio non può comandare cose contraddittorie, Dio non “evolve”, Egli è Immutabile per essenza. “Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile”(Is 45,23), con buona pace del card. Kasper e del sua fanta-teologia schellinghiana. Dio non dice un giorno di credere in una cosa e il giorno dopo di non crederla più: Dio non cambia, rimane stabile per sempre, e con Lui coloro che rimangono fedeli alla dottrina immutabile: “Veritas Domini manet in aeternum”(Esdr 3,12). Non solo, per quanto riguarda la Fede, che è il presupposto della Speranza e della Carità, l’Apostolo dice: “se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele perché non può rinnegare se stesso”(2Tm 2,12-13). Dio cioè non può contraddirsi, non può rinnegare ciò che ha già dichiarato.
Ma riprendiamo per un secondo il passaggio del libro dei Maccabei: “Si avvicinò un Giudeo alla vista di tutti per sacrificare sull'altare in Modin secondo il decreto del re. Ciò vedendo Mattatia arse di zelo; fremettero le sue viscere ed egli ribollì di giusto sdegno. Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull'altare; uccise nel medesimo tempo il messaggero del re, che costringeva a sacrificare, e distrusse l'altare. Egli agiva per zelo verso la legge come aveva fatto Pincas con Zambri figlio di Salom. La voce di Mattatia tuonò nella città: «Chiunque ha zelo per la legge e vuol difendere l'alleanza mi segua!». Fuggì con i suoi figli tra i monti, abbandonando in città quanto avevano”(1Mac2,23-28).
Torniamo, per concludere, ai Maccabei. In seguito alla persecuzione, “molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero per dimorare nel deserto con i loro figli, le loro mogli e i greggi, perché si erano addensati i mali sopra di essi”(29-30). Ora, i mali addensatisi sopra i Francescani dell’Immacolata perché ricercavano sinceramente la giustizia sono innegabili, e molti di loro sono attualmente “nascosti” e braccati come lepri dal cacciatore. E tuttavia, qui non si lotta contro gli uomini ma contro le potenze infernali, le quali non si fermeranno finché non avranno annientato coloro che gli si oppongono. Ma quale fu la reazione dei “fedeli” d’Israele dinanzi alla battaglia? «Non usciremo, né seguiremo gli ordini del re, profanando il giorno del sabato[…]Moriamo tutti nella nostra innocenza. Testimoniano per noi il cielo e la terra che ci fate morire ingiustamente» (34,37).
Apparentemente sembrerebbe una morte eroica e santa, giustificata dalla loro “obbedienza” legalistica al giorno di sabato nel quale era proibito combattere ed uccidere. Eppure, all’udire la fine di questi “pii” giudei, Mattatia dichiarò: «Se faremo tutti come hanno fatto i nostri fratelli e non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, ci faranno sparire in breve dalla terra». Presero in quel giorno questa decisione: “«Noi combatteremo contro chiunque venga a darci battaglia in giorno di sabato e non moriremo tutti come sono morti i nostri fratelli nei nascondigli» (40-41). Dunque, alla luce di tali riflessioni, voglio concludere con una santa esortazione, con una chiamata alle armi (spirituali).
Apparentemente sembrerebbe una morte eroica e santa, giustificata dalla loro “obbedienza” legalistica al giorno di sabato nel quale era proibito combattere ed uccidere. Eppure, all’udire la fine di questi “pii” giudei, Mattatia dichiarò: «Se faremo tutti come hanno fatto i nostri fratelli e non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, ci faranno sparire in breve dalla terra». Presero in quel giorno questa decisione: “«Noi combatteremo contro chiunque venga a darci battaglia in giorno di sabato e non moriremo tutti come sono morti i nostri fratelli nei nascondigli» (40-41). Dunque, alla luce di tali riflessioni, voglio concludere con una santa esortazione, con una chiamata alle armi (spirituali).
Frati Francescani dell’Immacolata e voi tutti sacerdoti timidi, (comprensibilmente) impauriti: combattete la buona battaglia, difendete con fortezza la Santa Messa, quella tramandataci dalla Sacra Tradizione, quella dei Santi, quella immutabile, quella che è perseguitata, quella che è stata messa al bando, quella che il Maligno non sopporta. A tal proposito, è opportuno chiedersi seriamente: se la Messa moderna è “sostanzialmente” uguale all’antica, se la grazia è la stessa, perché il Maligno la tollera? Perché non la perseguita? Perché non gli dà fastidio?
Pertanto, sacerdoti e religiosi tutti, amanti della Tradizione e perciò stesso amanti della Chiesa, e ancor più amanti di Cristo: unitevi insieme, alzatevi a difesa dell’unico Vero Innocente, dell’Unica Vera Vittima, dell’Unico Vero Perseguitato, Gesù Cristo Signore Nostro! Mi rivolgo qui anche a quei vescovi e cardinali che sotto Ratzinger si dimostrarono coraggiosi e che ora si sono un po’ “contratti”, ora che, invece, ce n’è più bisogno. Non siate quei cani muti, di cui parla Isaia, ma siate, al contrario, pastori che difendono il gregge. “Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore, è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio?” (San Gregorio Magno, La Regola pastorale).
Pertanto, sacerdoti e religiosi tutti, amanti della Tradizione e perciò stesso amanti della Chiesa, e ancor più amanti di Cristo: unitevi insieme, alzatevi a difesa dell’unico Vero Innocente, dell’Unica Vera Vittima, dell’Unico Vero Perseguitato, Gesù Cristo Signore Nostro! Mi rivolgo qui anche a quei vescovi e cardinali che sotto Ratzinger si dimostrarono coraggiosi e che ora si sono un po’ “contratti”, ora che, invece, ce n’è più bisogno. Non siate quei cani muti, di cui parla Isaia, ma siate, al contrario, pastori che difendono il gregge. “Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore, è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio?” (San Gregorio Magno, La Regola pastorale).
A tal proposito c’è una nota storiella popolare molto istruttiva, che narra di un uomo molto fervente che stava affogando nel mezzo di un lago. Costui implorava la Divina Provvidenza che lo salvasse e lo liberasse dalla morte: confidava fermamente che Dio lo avrebbe salvato. Passò, dunque, una barca che gli tese un remo, ma lui rispose: “no grazie, aspetto che Dio mi salvi” e, intanto, annaspava e sperava…passò dunque una seconda barchetta che, allo stesso modo, si offrì di portarlo in salvo, ma egli replicò: “no grazie, sono sicuro che verrà Dio a salvarmi” e, intanto, beveva acqua e continuava a confidare…passò infine una terza scialuppa di salvataggio ma egli: “mi salverà Dio, ne sono certo”. Alla fine, l’uomo fidente, morì affogato. Quando si trovò al cospetto di Dio chiese indispettito: “perché non sei venuto a salvarmi?” e l’Onnipotente rispose: “ma come? Sono passato tre volte e mi hai rifiutato!”. Morale della favola, bisogna rimboccarsi le maniche, e combattere la battaglia del nostro tempo, e non ritirare i remi in barca nascondendoci dietro un’apparente “pia” obbedienza. Prima di tutto, dice San Tommaso: “la Carità è una virtù più grande dell’obbedienza”[1].
Quello appena visto è l’esempio di obbedienza che non pochi santi si sono trovati a dover opporre a decreti ingiusti provenienti, non di rado, anche dalla Suprema Autorità ecclesiastica (San Paolo, Sant’Ambrogio, Sant’Ilario, Sant’Atanasio, San Massimo, Santa Caterina, Santa Brigida ecc…).
“Poiché tutta l’autorità proviene da Dio, noi obbediamo agli uomini solo e unicamente perché la loro autorità si basa in ultima analisi su quella del Signore. Questa obbedienza, laddove non vada contro la legge di Dio, è in realtà un atto di giustizia, un dare agli altri, e a Dio in primo luogo, ciò che è dovuto. Ma il Signore non dà a nessun uomo l’autorità di impartire un ordine che contravvenga ai comandi e ai precetti da Lui Stesso fornitici, come quelli contenuti nei Dieci Comandamenti o nel Vangelo, che costituisce la “legge positiva” di Cristo Re. Ne consegue che nessun uomo abbia il diritto di obbedire ad un ordine simile. Per di più, tutta l’autorità in terra è limitata dalla giustizia. Neanche il Papa dispone di un’autorità illimitata, perché i suoi limiti provengono dalla Rivelazione, dalle Scritture, dalla Tradizione e dagli insegnamenti autentici dal Magistero Ordinario ed Universale, nonché da quello Straordinario con le sue definizioni dogmatiche”[4].
“Poiché tutta l’autorità proviene da Dio, noi obbediamo agli uomini solo e unicamente perché la loro autorità si basa in ultima analisi su quella del Signore. Questa obbedienza, laddove non vada contro la legge di Dio, è in realtà un atto di giustizia, un dare agli altri, e a Dio in primo luogo, ciò che è dovuto. Ma il Signore non dà a nessun uomo l’autorità di impartire un ordine che contravvenga ai comandi e ai precetti da Lui Stesso fornitici, come quelli contenuti nei Dieci Comandamenti o nel Vangelo, che costituisce la “legge positiva” di Cristo Re. Ne consegue che nessun uomo abbia il diritto di obbedire ad un ordine simile. Per di più, tutta l’autorità in terra è limitata dalla giustizia. Neanche il Papa dispone di un’autorità illimitata, perché i suoi limiti provengono dalla Rivelazione, dalle Scritture, dalla Tradizione e dagli insegnamenti autentici dal Magistero Ordinario ed Universale, nonché da quello Straordinario con le sue definizioni dogmatiche”[4].
Giorgio Mariano
______________________[1] Summa Theologiae, II-II, Q. 104, Art. 3
[2] http://papabenedettoxvitesti.blogspot.com/2009/08/j-ratzingernei-confronti-della-liturgia.html
[3] GRUNER N., Il Terzo Segreto e il problema della falsa obbedienza.
[4] Ibidem.
lunedì 20 ottobre 2014
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