mercoledì 27 novembre 2013

Satana sa «che gli resta poco tempo» (12,12)


San GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE


Cantico tratto dal Libro dell’Apocalisse:
17«Noi ti rendiamo grazie,

Signore Dio onnipotente,
che sei e che eri,
18perché hai preso in mano la tua grande potenza
e hai instaurato il tuo regno.
Le genti fremettero,
ma è giunta la tua ira,
il tempo di giudicare i morti,
di dare la ricompensa
ai tuoi servi, i profeti, e ai santi,
e a quanti temono il tuo nome,
piccoli e grandi,
e di annientare coloro
che distruggono la terra».

 12

10
«Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
perché è stato precipitato
l’accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
11Ma essi lo hanno vinto
grazie al sangue dell’Agnello
e alla parola della loro testimonianza,
e non hanno amato la loro vita
fino a morire.
12Esultate, dunque, o cieli
e voi che abitate in essi.
Ma guai a voi, terra e mare,
perché il diavolo è disceso sopra di voi
pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo».

"Il giudizio di Dio" (Ap 11,17-18; 12,10.12)


1. L’inno che ora è risuonato discende idealmente dal cielo. Infatti l’Apocalisse, che ce lo propone, lo collega nella sua prima parte (cfr 11,17-18) ai «ventiquattro vegliardi seduti sui loro troni al cospetto di Dio» (11,16) e nella seconda strofa (cfr 12,10-12) a «una gran voce nel cielo» (12,10).

Siamo, così, coinvolti nella grandiosa raffigurazione della corte divina ove Dio e l’Agnello, ossia Cristo, circondati dal «consiglio della corona», stanno giudicando la storia umana nel bene e nel male, mostrandone però anche il fine ultimo di salvezza e di gloria. I canti che costellano l’Apocalisse hanno proprio la funzione di illustrare il tema della signoria divina che regge il flusso, spesso sconcertante, delle vicende umane.


2. Significativo, al riguardo, è il primo brano dell’inno messo in bocca ai ventiquattro vegliardi che sembrano incarnare il popolo dell’elezione divina, nelle sue due tappe storiche, le dodici tribù di Israele e i dodici apostoli della Chiesa.
Ora, il Signore Dio onnipotente ed eterno «ha messo mano alla sua grande potenza e ha instaurato il suo regno» (11,17) e questo suo ingresso nella storia ha lo scopo non solo di bloccare le reazioni violente dei ribelli (cfr Sal 2,1.5) ma soprattutto di esaltare e ricompensare i giusti. Questi vengono definiti con una serie di termini usati per delineare la fisionomia spirituale dei cristiani. Essi sono «servi» che aderiscono alla legge divina con fedeltà; sono «profeti», dotati della parola rivelata che interpreta e giudica la storia; sono «santi», consacrati a Dio e rispettosi del suo nome, ossia pronti ad adorarlo e a seguirne la volontà. Tra di loro ci sono «piccoli e grandi», un’espressione cara all’autore dell’Apocalisse (cfr 13,16; 19,5.18; 20,12) per designare il popolo di Dio nella sua unità e varietà.


3. Passiamo, così, alla seconda parte del nostro Cantico. Dopo la scena drammatica della donna incinta «vestita di sole» e del terribile drago rosso (cfr 12,1-9), una voce misteriosa intona un inno di ringraziamento e di gioia.
La gioia proviene dal fatto che Satana, l’antico avversario, che fungeva nella corte celeste da «accusatore dei nostri fratelli» (12,10), come lo vediamo nel Libro di Giobbe (cfr 1,6-11; 2,4-5), è stato ormai «precipitato» dal cielo e quindi non ha più un grande potere. Egli sa «che gli resta poco tempo» (12,12), perché la storia sta per avere una svolta radicale di liberazione dal male e perciò reagisce «pieno di grande furore».
Dall’altro lato si leva Cristo risorto, il cui sangue è principio di salvezza (cfr 12,11). Egli ha ricevuto dal Padre un potere regale su tutto l’universo; in lui si compiono «la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio».
Alla sua vittoria sono associati i martiri cristiani che hanno scelto la via della croce, non cedendo al male e alla sua virulenza, ma consegnandosi al Padre e unendosi alla morte di Cristo attraverso una testimonianza di donazione e di coraggio che li ha portati a «disprezzare la vita fino a morire» (ibidem). Sembra di ascoltare l’eco delle parole di Cristo: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).


4. Le parole dell’Apocalisse su coloro che hanno vinto Satana e il male «per mezzo del sangue dell’Agnello», risuonano in una splendida preghiera attribuita a Simeone, Catholicos di Seleucia-Ctesifonte in Persia. Prima di morire martire con molti altri compagni il 17 aprile 341, durante la persecuzione del re Sapore II, rivolse a Cristo la seguente supplica:

«Signore, dammi questa corona: tu sai come l’ho desiderata perché ti ho amato con tutta l’anima e la vita mia. Sarò felice di vederti e tu mi darai il riposo… 
Voglio perseverare eroicamente nella mia vocazione, adempiere con fortezza il compito che mi è stato assegnato ed essere di esempio a tutto il tuo popolo dell’Oriente… 
Riceverò la vita che non conosce né pena, né preoccupazione, né angoscia, né persecutore, né perseguitato, né oppressore, né oppresso, né tiranno, né vittima; là non vedrò più minaccia di re, né terrori di prefetti; nessuno che mi citi in tribunale e mi atterrisca sempre più, nessuno che mi trascini e mi spaventi. 
Le ferite dei miei piedi guariranno in te, o via di tutti i pellegrini; la stanchezza delle mie membra troverà riposo in te, Cristo, crisma della nostra unzione. 
In te, calice della nostra salvezza, sparirà la tristezza del mio cuore; in te, nostra consolazione e gioia, si asciugheranno le lacrime dei miei occhi» (A. Hamman, Preghiere dei primi cristiani, Milano 1955, pp. 80-81).



Saluti:
Je salue cordialement les pèlerins francophones. Demeurez dans l’amour du Christ Sauveur, pour grandir en sainteté et pour être des témoins radieux de l’Évangile !
I am pleased to greet the English-speaking pilgrims present at this Audience, especially those from Finland, New Zealand and the United States of America. Upon you and your loved ones, I invoke the Lord’s blessings of health and joy. Happy New Year.
Sehr herzlich heiße ich die Pilger und Besucher aus den Ländern deutscher Sprache willkommen. Gott lenkt und leitet Zeit und Welt. Legt in seine Hände euer ganzes Leben! Der Geist des Herrn führe euch auf all euren Wegen in diesem neuen Jahr!
Saludo cordialmente a los peregrinos de España y América Latina ¡Qué vuestra peregrinación a la tumba de Pedro os aliente a ser apóstoles de la paz, venciendo siempre el mal con el bien! ¡Gracias!
Saluto in lingua polacca:
Hymn, który słyszeliśmy przed chwilą pochodzi z Apokalipsy św. Jana. Mówi on o panowaniu Boga w ludzkich dziejach. Dzięki zmartwychwstaniu Chrystusa Bóg Ojciec dał nam poznać, że ich koniec będzie tryumfem dobra. W zwycięstwie Chrystusa mają udział męczennicy, którzy przeszli drogę krzyża, aby dać świadectwo swej wiary i miłości dla Niego.
Kantyk z Apokalipsy ukazuje tę prawdę we wspaniałej wizji. Bóg Ojciec i Jezus Chrystus, w otoczeniu świętych męczenników i wyznawców, przeprowadzają sąd nad dobrem i nad złem, jakie dokonały się w historii świata, i wskazują na jego ostateczny jej ostateczny cel, jakim jest zbawienie i chwała.
Serdecznie witam moich rodaków. W sposób szczególny pozdrawiam arcybiskupa Damiana Zimonia, przedstawicieli Uniwersytetu Śląskiego w Katowicach wraz z rektorem oraz prezydenta miasta Katowice. Wszystkim obecnym tu pielgrzymom życzę: Szczęść Boże!
Traduzione italiana del saluto in lingua polacca:
Rivolgo un cordiale benvenuto ai miei connazionali. In modo particolare saluto l’Arcivescovo Mons. Damian Zimoń, i rappresentanti dell’Università di Slesia a Katowice con il rettore e il sindaco della città di Katowice.
A tutti i presenti auguro: Dio vi colmi di felicità!
***
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti della diocesi di Genova, accompagnati dal loro Arcivescovo, il Cardinale Tarcisio Bertone; i rappresentanti dell’Istituto magistrale "Don Gnocchi" di Maddaloni, e il gruppo di Suore Benedettine della Divina Provvidenza.
Il mio pensiero va inoltre ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La festa del Battesimo del Signore, che abbiamo celebrato la scorsa domenica, vi aiuti, cari giovani, a riscoprire con gioia il dono della fede in Cristo; renda voi, cari malati, forti nella prova; spinga voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia una vera chiesa domestica.
Mercoledì, 12 gennaio 2005 
Copyright © Libreria Editrice Vaticana

Roberto de Mattei su "il Foglio" del 26 novembre 2013



Processo ai nuovi modernisti
Ieri luterani e gesuiti equivoci, oggi ciellini e rossomalpeli.
Così avete snaturato la fede cattolica
....De Lubac apparteneva a quella categoria di uomini che detestano le conseguenze delle proprie idee. Criticò il disfacimento postconciliare, ma non volle ammettere che le radici di quanto accadeva stavano proprio negli errori della nouvelle théologie. Nel 1972 fu tra i promotori della rivista “Communio”, e don Luigi Giussani, che negli stessi anni lanciava Comunione e Liberazione, lo riconobbe come un suo maestro. I discepoli di don Giussani protestano quando gli attribuisco una equivoca nozione di fede, e “Rosso Malpelo” (Gianni Gennari), mi accusa su “Avvenire” di dire “bugie”, ma la verità è consegnata alla storia.
Invito a leggere il libro di don Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia. Itinerario di quindici anni concepiti e vissuti, con un’introduzione del cardinale Ratzinger (Il Sabato, Milano 1993). Il volume raccoglie le interviste e gli appunti da conversazioni pubbliche che il fondatore di CL ha tenuto tra il 1976 e il 1992. Il libro non contiene nessuna esplicita negazione delle verità di fede e vuole manifestare anzi l’attaccamento alla Chiesa di don Giussani. Ma alla fine delle 500 pagine si rimane con una sensazione di vuoto intellettuale. Al lettore non rimane che questo messaggio: non serve né l’apologetica, né l’approfondimento razionale della verità. Ciò che conta è vivere. Ma vivere che cosa? Si tratta, spiega don Giussani, di “rendere la fede un avvenimento” (p. 339). Comunione e Liberazione nasce da una “intuizione del Cristianesimo come avvenimento di vita e quindi come storia” (p. 349). “Il metodo consiste in questo: che l’intuizione diventa esperienza (…). L’esperienza è il luogo in cui si vede se ciò che è intuito vale per la vita” (p. 351). La fede è incontrare Cristo, riconoscere la sua presenza nella storia e nella propria vita. Ma chi è Cristo? La risposta ciellina è scoraggiante: colui che si incontra. Il problema di fondo è che, al di fuori della tautologia dell’incontro, Cielle non è andata e non potrà mai andare, proprio per la sua pretesa di ridurre il cristianesimo a pura esperienza ed esigenza dello spirito.
Il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà. Ma l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la presuppone. Nella prospettiva di Cielle invece cade l’apologetica e tocca alla vita, e non alla razionalità dei motivi, dare la dimostrazione dell’esistenza di Dio e della verità della Chiesa. L’esperienza religiosa però ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero. Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione. Per i modernisti di oggi, come per i protestanti di una volta, la fede appartiene alla sfera affettiva e irrazionale. L’oggetto della fede, le verità credute, diventa secondario. Si rigetta in blocco il realismo greco-cristiano, negando valore al Logos, ai primi princìpi della ragione e al primato della metafisica. Ciò che conta è l’esperienza individuale del credente, quello che egli vive nella sua sensibilità. L’esperienza intima del soggetto diviene l’unica esperienza della vita cristiana e la coscienza religiosa l’essenza della vita della Grazia. 
Questa “esperienza di fede” rifugge dalle affermazioni dogmatiche, nella convinzione che ciò che è assoluto divide e solo ciò che muta e si adatta può unire gli uomini tra loro e a Dio. In questa religione dell’umanità caratteristica dei nostri tempi l’affermazione netta della verità è un atto di intolleranza verso il prossimo e il compromesso tra la fede e il mondo diviene il modello di ciò che definito “incontro” con Dio. La fede però non è irenica: si alimenta con lo studio, con la discussione, anche con la polemica. Quando si discute con passione, vuol dire che si crede e il calore della polemica è talvolta la misura dell’amore verso ciò in cui si crede. Ma all’interno dello stesso clero, chi crede oggi, e in che cosa?
Ogni errore ha delle conseguenze. La scarsa sensibilità liturgica di Comunione e Liberazione non è casuale. La massima della Chiesa secondo cui la lex orandi traduce la lex credendi presuppone l’esistenza di una integra e coerente dottrina, di cui la liturgia è visibile espressione. Ma se la dottrina è assorbita dalla vita, la liturgia non può che essere condannata all’estinzione. L’amore per la liturgia tradizionale presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali. E il tanto bistrattato “tradizionalismo” non è altro che questo: amore alla verità della Chiesa in tutte le sue espressioni, da quelle liturgiche a quelle politiche e sociali. I cosiddetti “tradizionalisti”, che sono solo cattolici senza compromessi, si richiamano all’insegnamento immutabile della Chiesa: non idolatrano il potere, ma credono nella Regalità sociale di Gesù Cristo, ossia sul suo diritto a regnare su ogni uomo e sulla società intera. L’“esperienza religiosa” a cui si rifanno è quella di coloro che testimoniarono col sangue la loro visione cristiana della società, come i Vandeani in Francia e i Cristeros in Messico. Nulla a che fare con l’amoralismo politico di cui negli anni Cielle ha dato prova. Sarebbe vano cercare un filo conduttore negli ospiti illustri del Meeting di Rimini, dalle sue origini ad oggi: personalità di destra e di sinistra, conservatori e progressisti si sono alternati e si alternano in una passerella del potere, che se è priva di continuità intellettuale e politica, non manca di intima coerenza nel suo radicale pragmatismo. Il lungo idillio di Comunione e Liberazione con Giulio Andreotti deve far riflettere. Andreotti fu l’incarnazione dell’amoralismo politico e tra la filosofia della prassi ciellina e la politica della prassi andreottiana, l’incontro era obbligato. L’uomo che andava a Messa ogni mattina, non esitava a firmare, nel 1978, la legge abortista in Italia. La fede svincolata dai princìpi razionali e dai “valori non negoziabili” rende disponibili a qualunque avventura. Così oggi Roberto Formigoni, quando “apre” all’affidamento di bambini alle coppie gay, non è incoerente con la “filosofia della prassi” a cui si ispira.
Il prof. Massimo Borghesi ritiene che negli anni Settanta, fu “la pedagogia dell’esperienza” di CL e non il tradizionalismo a “salvare” la Chiesa. Io ritengo invece che Comunione e Liberazione abbia semplicemente intercettato la parte sana del mondo cattolico rimasta “orfana” negli anni bui del postconcilio, senza essere in grado di dare a questi giovani gli strumenti teologici e filosofici di cui avevano bisogno, a cominciare da una retta nozione di fede. Molti di essi, oggi non più giovani, erano e sono di ottima qualità ed è soprattutto a loro che mi rivolgo quando affermo che Comunione e Liberazione non ha costituito un argine alla crisi della fede dei nostri giorni, ma ha contribuito all’infiacchimento della fede e alla sua crisi attuale, senza negare naturalmente le buone intenzioni di nessuno e con il massimo rispetto per i miei interlocutori, a cominciare da mons. Luigi Negri, al quale contraccambio stima e amicizia.

Santa Caterina e la Medaglia Miracolosa

 Santa Caterina Labourè 
 Santa Caterina e la Medaglia Miracolosa

Ma dove e come ha avuto origine la Medaglia miracolosa? Essa risale al 1830. La sua origine è veramente meravigliosa. Si può dire che questa medaglietta è "miracolosa " già nel suo nascere.

Siamo a Parigi. Ci troviamo nella Casa Madre delle Suore di San Vincenzo de' Paoli e Santa Luisa de Marillac, le Figlie della Carità. Nella Casa Madre c'è il Noviziato. Tra le novizie c'è un'umile suora che si chiama Suor Caterina Labouré, oggi Santa. A quest'umile novizia, nascosta e sconosciuta, avverranno alcuni dei fatti più straordinari che possono capitare a una creatura sulla terra: le apparizioni della Vergine Immacolata. Perché a Suor Caterina? ... Perché proprio a lei? ...

Perché era una Suora tanto umile, tanto semplice, tanto angelica...
Questa risposta corrisponde alle divine parole di Gesù: "Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose agli intelligenti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli" (Lc 10,21).
La conferma più splendida della lode di Gesù agli umili la troviamo nel comportamento di S. Caterina dopo i fatti straordinari: ella seppe tenere nascosto il segreto delle apparizioni della Madonna per ben 46 anni, ossia fino alla morte, rivelandolo soltanto al suo confessore. A questi "piccoli" Dio dona le cose più grandi.




 "Ecco un'altra Mamma!"

Fin da piccina, S. Caterina Labouré ebbe nel Cuore una devozione così tenera e filiale verso la Madonna che quando le morì la mamma, ella riunì i fratellini ai piedi di una statuina di Maria e disse loro "Non abbiamo più la mamma: ecco un'altra Mamma!"


Era così che un tempo i genitori cristiani educavano i figli e dalle famiglie cristiane fiorivano i Santi.
La pia fanciulla era nata a Fain-les-Moutiers, villaggio della Borgogna, il 2 maggio 1806. La famiglia era molto buona: c'erano dieci figli; si viveva tutti in una grande fattoria. Quando Caterina aveva ancora dodici anni, e la mamma era già morta, dovette assumere la direzione della casa perché la sorella maggiore entrava in convento a Parigi tra le Figlie della Carità.Giudiziosa e sollecita, la brava fanciulla non fece rimpiangere la sorella più grande. Attenta e generosa, Caterina arrivava a tutto: sbrigava i lavori di casa, serviva il papà e i fratelli, coltivava con fervore la sua pietà eucaristica e la sua devozione alla Madonna.

Visse così, laboriosa e pura, fino alla sua giovinezza. E si capiva che qualcosa di speciale maturava in lei, per il fascino che esercitava con il suo candore e la sua umiltà. Ciò apparve evidente quando le furono fatte diverse proposte di matrimonio, e la sua risposta fu sempre una sola

"Ho già trovato il mio sposo fin dal giorno della prima Comunione, a Lui ho dato tutta me stessa". Anch'ella voleva diventare la Sposa di Gesù tra le Figlie della Carità al servizio dei poveri e dei sofferenti.

 La Sposa di Gesù.

S. Vincenzo invita in sogno S. Caterina a
seguirlo per l'assistenza degli infermi

Finalmente, superati ostacoli amarissimi, la pia giovane poté entrare nel noviziato delle Figlie della Carità, a Parigi, in Rue du Bac. Era il 21 aprile 1830.
Non trovò nessuna difficoltà a vivere una vita di sacrificio nella preghiera e nella mortificazione. Era così bene allenata! E tutto ella era pronta a soffrire pur di diventare la Sposa sempre vergine di Gesù: era il suo ideale di amore sublime e infinito. L'intuizione luminosa che ebbe -e che hanno solo i semplici e i puri di cuore- fu quella di diventare degna Sposa di Gesù affidandosi alla Madonna e ricopiando fedelmente le virtù della Celeste Vergine.

Ecco il proposito fondamentale scritto da lei stessa con semplicità "Prenderò Maria per modello al principio delle mie azioni, e penserò come Ella avrebbe fatto il dovere che sto per compiere"Via via, intensificherà talmente la sua filiale devozione alla Madonna, e ne scoprirà così in profondità il valore, soprattutto per la gioventù, che la Madonna stessa, in una delle apparizioni, la incaricò di organizzare un'associazione mariana per aiutare tutti a possedere la "perla preziosa" (Mt 13,46) della devozione mariana.

Per questo, senza risparmio di prove e di sofferenze, ella si impegnò e arrivò a fondare le "Figlie di Maria' esclamando felice, con lo sguardo profetico rivolto al futuro "Come sarà bello vedere Maria onorata da tutta la gioventù!"

 "La gioia più dolce"

Il fatto centrale di tutta la vita di S. Caterina, però, fu e rimane sempre quello delle cinque apparizioni della Madonna che le affidò la "Medaglia miracolosa" da diffondere nel mondo intero.

Nel luglio e nel novembre del 1830 avvennero le due principali apparizioni della Vergine Santissima nella Cappella del Noviziato. La prima delle due avvenne di notte. Avvertita dall'Angelo Custode, S. Caterina si recò trepidante nella Cappella e andò a inginocchiarsi ai piedi della Madonna che stava seduta al lato destro dell'altare. 

La Santa poté poggiare le sue mani sulle ginocchia della Madonna e contemplare il Suo celestiale volto. "In quel momento -scriverà poi- provai la gioia più dolce della mia vita ".

Il colloquio durò più di due ore! La seconda volta, S. Caterina ricevette dalla Vergine la missione di far coniare la celebre "medaglia" che sarà giustamente definita "miracolosa". La Madonna stessa le fece vedere il modello completo, così come lo vediamo riprodotto sulle medagline. Le difficoltà e i travagli furono grandi prima di ottenere che venisse coniata questa medaglina. Un'umile suora, ignorata da tutti, ricca soltanto della povertà evangelica, come avrebbe mai potuto far coniare una medaglia da produrre poi in quantità sempre maggiori, e da diffonderla nel mondo intero?

La potenza di Dio risplende tanto più gloriosa, quanto più impotenti sono le creature. E due anni dopo, il 30 giugno 1832, venivano coniati i primi 1500 esemplari della medaglina.

S. Caterina, così umile, così povera, potette avere fra le mani la bella medaglina. Quanti baci e lacrime d'amore! E con quale entusiasmo si applicò a diffonderla ovunque e a chiunque, certissima delle parole della Madonna "Tutte le persone che porteranno la medaglia riceveranno grandi grazie." Tra gli operai e gli ammalati, fra i soldati e i poveri, per oltre 40 anni, S. Caterina, la dolce Figlia della Carità, fu apostola della Medaglia miracolosa fino alla sua beata morte, che avvenne il 31 dicembre 1876.

Il suo corpo verginale riposa sotto l'altare, nella cappella delle apparizioni, ai piedi della sua Regina Immacolata. Nella ricognizione del corpo, le mani di S. Caterina che avevano toccato la Madonna e i suoi occhi che l'avevano contemplata apparvero conservati straordinariamente bene.
Notizie tratte dal sito www.totustuus.org

Regina sine labe originali concepta,
ora pro nobis.

Badiamo con ogni premura a non attenuare alcuna dimensione o esigenza dell’Eucaristia. Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero! (S. GiovanniPaoloII)


L’inopportunità di ricevere l’Eucaristia nella mano


Comunione sulla mano o in bocca? Numerose testimonianze dei primi secoli mostrano come l’Eucaristia sia stata sempre amministrata in bocca, per rispetto al Divino Sacramento. Diverse anche le ammonizioni e i divieti di ricevere l’Ostia sacra in mano a laici, uomini e donne.


«Dobbiamo badare con ogni premura a non attenuare alcuna dimensione o esigenza dell’Eucaristia. Così ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono [...]. Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero!» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 61).


Facciamo un gran parlare della necessità di seguire i cosiddetti “segni dei tempi”, così insistiamo spesso e giustamente che il Cristianesimo non debba essere un’astrazione ma un’attenzione al concreto. E poi... e poi, quando meno te lo aspetti, ti ritrovi dinanzi alle più bieche astrazioni, che farebbero invidia a quella famosa affermazione di quell’altrettanto famoso teorico del socialismo sovietico: «Se i fatti non ci daranno ragione, peggio per i fatti!».



Considerazioni che mi sono venute spontanee allorquando sono anch’io venuto a contatto, nella mia recente villeggiatura in montagna, con uno di quei sacerdoti fissati per la Comunione nella mano e che fanno di tutto per invogliare i fedeli a ricevere in tal modo l’Eucaristia. 



Ora, verrebbe facilmente da chiedere: oggi come oggi il problema è che si crede troppo nella Presenza Reale di Gesù nell’Eucaristia o che se ne crede poco? Ovviamente non do risposta perché è scontata. 



Ebbene, invitare, quasi costringere, i fedeli a ricevere l’Eucaristia nella mano spinge a fortificare o indebolire il mistero del Santissimo Sacramento e quindi la Presenza Reale in Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Cristo nelle Sacre Specie? Una domanda, questa, a cui potrebbe facilmente rispondere un bambino: se il pane quotidiano si prende con le mani, è giusto prendere diversamente il pane celeste... Ma, si sa (fu proprio Gesù a dirlo), tra le cose più difficili vi è proprio quella di conservare la semplicità e la sapienza dei bambini. 
Detto questo, vengo al dunque. 



Un edificante episodio... e ciò che insegna san Francesco



Si era nel 1871, in Francia. I Prussiani stavano per occupare il villaggio di Delors. Gli abitanti, buoni cristiani, si preoccuparono che all’arrivo dei nemici l’Eucaristia avrebbe rischiato di essere profanata. Avevano già sentito di casi simili operati dai Prussiani, ma non avevano però il sacerdote per poterla rimuovere dal tabernacolo. 

Allora pensarono di affidare ad un venerando anziano il compito di prendere le Sacre Specie e di nasconderle. Ma l’anziano prescelto si rifiutò categoricamente: «Io non sono degno!»; poi lui stesso consigliò di servirsi di un bambino che era lì ed aveva appena quattro anni. Fu accettata la proposta. Si chiamò quel fanciullo innocente e ci si recò in chiesa. Il vecchio aprì il tabernacolo e il fanciullo prese nelle mani la Pisside con le Ostie e la portò, seguito dai fedeli, in un luogo sicuro. 
Un pio scrittore che riferisce questo episodio ha commentato: «Quei buoni abitanti mostrarono in qualche modo quale deve essere la purezza di chi riceve la Comunione! Poiché, se tanta deve essere l’innocenza e la purezza in colui che ha da portare semplicemente fra le sue mani Gesù Eucaristico, quanto dovrà essere maggiore l’innocenza e la purezza di chi deve riceverlo nel santuario del proprio cuore?» .


San Francesco d’Assisi vedeva nella Vergine Immacolata il modello della purezza con la quale i cristiani, e in particolare i sacerdoti, dovrebbero accostarsi al Corpo santissimo del Signore. Egli scrive in una sua lettera: «Ascoltate, fratelli miei, se è tanto onorata la Vergine Maria, come è giusto, perché portò Gesù nel suo seno santissimo, quanto non deve essere santo e giusto e degno di Lui chi lo può toccare con le sue mani, prendere nel cuore e nella bocca, o offrirlo agli altri perché lo ricevano?» .



Sono davvero credibili gli argomenti a favore dell’Eucaristia da ricevere in mano?

Veniamo adesso ad elencare alcuni argomenti che solitamente sostengono coloro che sono favorevoli a ricevere l’Eucaristia nella mano.
Il primo argomento è relativo a ciò che racconta il Vangelo, il secondo è di carattere storico. 

Argomento evangelico

Si dice: Gesù nell’Ultima Cena non diede agli Apostoli l’Eucaristia direttamente in bocca ma in mano.
Prima di tutto va detto che non è affatto scontata una cosa del genere. Anzi, è possibile supporre che Gesù abbia dato il pane direttamente in bocca a ciascun Apostolo. In Medio Oriente, usanza del tempo di Gesù e che perdura tuttora, il padre di casa nutre i suoi ospiti con la propria mano, mettendo un pezzo simbolico di cibo nella bocca degli ospiti .
Ma, ammesso e non concesso che sia andata davvero così, cioè che Gesù abbia dato l’Eucaristia nelle mani degli Apostoli, va fatta una precisazione importante: in quel momento gli Apostoli già erano stati ordinati sacerdoti, addirittura sacerdoti in pienezza, quindi vescovi. [Poi dicendo: Prendete e mangiate, sarebbe come dire: Ricevetemi, Accoglietemi nel vostro cuore...]

Argomento storico

Il secondo argomento è di carattere storico ed è più complesso del primo, pertanto merita una risposta molto più lunga. Si dice: i primi cristiani non ricevevano la Comunione direttamente in bocca ma tra le mani. Vediamo se realmente fu così.



Prima di tutto va fatta una premessa. 


Non è detto che ciò che vi era nell’antichità è sempre migliore di ciò che si è approfondito e si è istituzionalizzato in seguito. Liturgicamente, come è sbagliato il progressismo, per cui ciò che viene dopo sarebbe sempre migliore di ciò che è venuto prima; è altrettanto sbagliato l’archeologismo, ciò che è venuto prima sarebbe sempre migliore di ciò che viene dopo. A riguardo il Venerabile Papa Pio XII è molto chiaro nella sua Mediator Dei (n. 51): «[...] non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi, ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia (1786), e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono, con grande danno delle anime e che la Chiesa, vigilante custode del “Depositum Fidei” affidatole dal suo divin Fondatore, a buon diritto condannò».


Altra premessa importante. 
Nei primi secoli del Cristianesimo si facevano forti penitenze per l’Eucaristia, per esempio ci si asteneva da qualsiasi cibo e bevanda dalla vigilia fino al momento della Comunione. Ora, se valesse il principio archeologista, bisognerebbe chiedere a tanti sostenitori della Comunione nella mano: ma perché non si recuperano anche le rigide penitenze dei primi secoli? Se è giusto riprendere ciò che vi era all’inizio, allora si riprendano anche le dure penitenze dell’inizio... mi sa che molti si tirerebbero indietro.


Ma veniamo ai fatti. Davvero nei primi tempi della Chiesa l’Eucaristia si riceveva nella mano? È falso.   
      Ci sono testimonianze certe che attestano come sin dall’inizio era diffusa la consuetudine di deporre le Sacre Specie sulle labbra dei comunicandi e anche della proibizione ai laici di toccare l’Eucaristia con le mani. Solo in caso di necessità e in tempo di persecuzione, assicura per esempio san Basilio, si poteva derogare da questa norma e quindi era concesso anche ai laici di comunicarsi con le proprie mani .



Papa Sisto I fu sesto successore di Pietro e settimo papa, dal 115 al 125. Questi, per impedire gli abusi che già a quei tempi si verificavano, proibì ai laici di toccare i vasi sacri, per cui è ampiamente fondato supporre che vietasse agli stessi di toccare le Sacre Specie eucaristiche: «Statutum est ut sacra vasa non aliis quam a sacratis Dominoque dicatis contractentur hominibus» .



 Sant’Eutichiano, papa dal 275 al 283, affinché non toccassero l’Eucaristia con le mani, proibì ai laici di portare le Sacre Specie agli ammalati: «Nessuno osi consegnare la comunione a un laico o ad una donna per portarla ad un infermo» .



Il Concilio di Saragozza, nel 380, emanò la scomunica contro coloro che si fossero permessi di trattare la Santissima Eucaristia come in tempo di persecuzione, tempo nel quale – come abbiamo già detto – anche i laici potevano trovarsi nella necessità di toccarla con le proprie mani .



Sant’Innocenzo I, dal 404, impose il rito della Comunione solo sulla lingua . Papa sant’Innocenzo I (401-417), nel 416, nella Lettera a Decenzio, vescovo di Gubbio, che gli chiedeva direttive riguardo alla Liturgia romana che intendeva adottare, rispose affermando per tutti l’obbligo di rispettare al riguardo la Tradizione della Chiesa di Roma, perché essa discende dallo stesso Pietro, primo Papa. Ebbene, lo stesso sant’Innocenzo – come abbiamo detto prima – dal 404 aveva imposto il rito della Comunione solo sulla lingua . 



San Leone Magno (440-461) scrisse nel Sermo V, De jeunio, decimi mensi: “Hoc ore sumitur”, ovvero: «Questo Cibo si riceve con la bocca» .



San Gregorio Magno narra che sant’Agapito, papa dal 535 al 536, durante i pochi mesi del suo Pontificato, recatosi a Costantinopoli, guarì un sordomuto all’atto in cui «gli metteva in bocca il Corpo del Signore» , dunque l’Eucaristia si dava direttamente in bocca.



Il Concilio di Rouen, verso il 650, proibì al ministro dell’Eucaristia di deporre le Sacre Specie sulla mano del comunicando laico: «[Il sacerdote] badi a comunicarli [i fedeli] di propria mano, non ponga l’Eucaristia in mano a nessun laico o donna, ma la deponga solo sulle labbra con queste parole: “Il Corpo e il Sangue del Signore, ti giovi in remissione dei peccati e per la vita eterna”. Se qualcuno trasgredirà queste norme, sia rimosso dall’altare, perché disprezza Dio Onnipotente e per quanto sta in lui lo disonora» .



Sulla medesima linea il Concilio Costantinopolitano III (680-681), sotto i Pontefici Agatone e Leone II, vietò ai fedeli di comunicarsi con le proprie mani e minacciò la scomunica a chi avesse avuto la temerarietà di farlo.



Il Sinodo di Cordoba dell’anno 839 condannò la setta dei “casiani” a causa del loro rifiuto di ricevere la Sacra Comunione direttamente in bocca .



In Occidente, il gesto di prostrarsi e inginocchiarsi prima di ricevere il Corpo del Signore si osservava negli ambienti monastici già a partire dal VI secolo (per esempio nei monasteri di san Colombano) . Più tardi nei secoli X e XI questo gesto si diffuse ancora di più .



       Quando san Tommaso d’Aquino espose i motivi che vietavano ai laici di toccare le Sacre Specie, non parlò di un rito di recente invenzione, ma di consuetudine liturgica antica come la Chiesa .



Ecco perché il Concilio di Trento poté affermare che non solo nella Chiesa di Dio fu una consuetudine costante che i laici ricevessero la Comunione dai sacerdoti, mentre i sacerdoti si comunicassero da sé, ma anche che tale consuetudine è di origine apostolica: «Nell’assunzione di questo Sacramento (l’Eucaristia) fu sempre costume nella Chiesa di Dio che i laici ricevessero la comunione dai Sacerdoti e i Sacerdoti celebranti invece comunicassero se stessi, costume che con ogni ragione deve ritenersi come proveniente dalla Tradizione apostolica» .



Abbiamo iniziato con Papa Giovanni Paolo II, concludiamo con lui. Sempre nella Ecclesia de Eucharistia, al n. 49, scrive: «Sull’onda dell’elevato senso del mistero si comprende come la fede della Chiesa nel mistero eucaristico si sia espressa nella storia non solo attraverso l’istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne».  


(di Corrado Gnerre)

1  Cf. S. M. Manelli, La grande promessa dei SS. Cuori, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino), pp. 67-69.
2 Francesco d’Assisi, Lettera II, cit. in Rita M. Rossi, I santi e la Madonna, vol. I, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino), pp. 30-31.
3 Cf. A. Schneider, Dominus est, “Cum amore ac timore”. Alcune osservazioni storico-liturgiche sulla Sacra Comunione, in Il Settimanale di Padre Pio, anno VIII, n. 9, 08.03.2009, p. 14.
4 PG XXXII, coll. 483-486.
5 Mansi, vol. I, col. 653.
6 PL V, coll. 163-168.
7 Saenz de Aguire, Notitia Conciliorum Hispanae, Salamanca, 1686, p. 495.
8 Mansi X, 1205.
9 Ibidem.
10 PL 54, 1385.
11 Dialoghi III, 3.
12 Mansi, vol. X, coll.1099-1100.
13 Cf. J. A. Jungmann, Missarum solemnia. Eine genetische Erklarung der romischen Messe, Wein 1948, II, p. 436, n. 52; da: A. Schneider, op. cit., p. 14.
14 Cf. Regula coenobialis, da: A. Schneider, op. cit., p. 14.
15 Cf. J. A. Jungmann, op. cit., pp. 456-457; p. 458, n. 25; da: A. Schneider, op. cit., p. 14.
16 Cf. Summa Theologiæ III, 9, 82, a. 3.
17 Concilio di Trento, Decreto sull’Eucaristia, sessione XIII, Denzinger 881.

CINQUE PERLE

Benedetto XVI: 2005.. Cinque tra le perle del suo Pontificato



Premessa:
Il Sommo Pontefice ha dato le sue dimissioni. Un fatto eclatante tra i rarissimi precedenti. Nell’attesa di quel che avverrà ora nella Santa Chiesa, ciò che è stato in questi 8 anni di Pontificato è doveroso ricordarlo, esprimendo riconoscenza e gratitudine al nostro Santo Padre Benedetto XVI.



    Nello sbalordimento generale Benedetto XVI ha annunciato, durante il Concistoro cardinalizio dell’11 febbraio 2013, festa della Madonna di Lourdes e LXXXIV anniversario del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, la sua rinuncia, per ragioni di salute, alla più alta carica della terra: quella di Successore di Pietro, Vescovo di Roma e Vicario di Cristo in terra.
    Scrivendo in prossimità dell’annuncio (12 febbraio) e non essendo profeti non siamo in grado di fare nessuna previsione sull’andamento delle cose nella Chiesa, sulle modalità e gli sviluppi del futuro Conclave, e su tutti gli altri elementi annessi e connessi. Il Papa ha dichiarato di voler restare sul trono più alto sino alla fine di febbraio, per cui, visti i tempi tecnici per il Conclave (senza però le tradizionali cerimonie per un Pontefice defunto), padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, ha dichiarato che probabilmente già per la prossima Pasqua (31 marzo) ci sarà un nuovo Successore di Pietro e la Sede vacante sarà cessata.

    Che si può dire di questo gesto del tutto inatteso, che non si ripeteva dal Medioevo (1249, con san Celestino V) e dal tempo del Concilio di Costanza (1415, con Gregorio XII), in tutt’altre circostanze storiche? Anzitutto giova ricordare che il Codice di Diritto Canonico attualmente in vigore (1983) prevede esplicitamente la rinuncia al Sommo Ufficio con queste precise parole: «Il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema nella Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo (§1). Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno l’accetti (§2)» (can. 332). Quest’ultima precisazione ha profonda congruenza teologica con quanto insegnato comunemente dalla Chiesa, specie dopo le chiarificazioni del Vaticano I sull’Autorità e il Primato su tutta la Chiesa e sullo stesso Episcopato mondiale esercitato del Vescovo di Roma. Come insegna, con forza e pari densità dottrinale, il canone 331: «Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente». Ogni parola andrebbe analizzata e commentata ampiamente, ma per evitare lungaggini, rinviamo il lettore interessato, agli ottimi commenti dell’edizione bilingue del Codex curata da una vasta équipe di studiosi presieduta da Juan Ignacio Arrieta (Codice di Diritto canonico e leggi complementari, ed. Coletti a San Pietro, Roma 2004). 


Le 5 perle:

    Vogliamo ricordare le 5 perle del Suo Pontificato. Non neghiamo che si potrebbero trovare altre perle in un Pontificato così ricco seppur di neanche 8 anni, ma noi preferiamo sottolineare alcuni meriti tra i più rilevanti dal punto di vista spirituale, in ordine alla restaurazione della Chiesa e del Cattolicesimo, che da mezzo secolo vive in uno stato di lenta inesorabile agonia.



    1) Il Discorso alla Curia Romana del Natale del 2005

Questo memorabile Discorso resterà alla storia come il discorso delle due ermeneutiche: quella della continuità e quella della discontinuità. Il Papa approva la logica della continuità: la Chiesa esiste in quanto Tradizione, in quanto piena continuità con il Vangelo e l’eredità di Cristo. Tutti i cambiamenti storici e accidentali, come quelli che si ebbero nell’ultimo Concilio, sono del tutto secondari e non scalfiscono affatto il permanere del Depositum fidei già consolidato. 
Certo, già nel Concilio e soprattutto dopo, si manifestarono esigenze e tendenze andanti nel senso della discontinuità, pretendendo di riportare la Chiesa ai secoli pre-costantiniani (cioè a prima del 313, alla Chiesa delle catacombe). Ma Benedetto XVI ha ben distinto la discontinuità reale, che esiste in ogni società e realtà viva: vivere infatti significa mutare; essa però si fonda sulla prevalente continuità, così come il bambino diviene adulto (rinnovando completamente le cellule e il sangue), ma mantenendo l’essenza della stessa persona, ovvero l’anima che non varia di un millimetro. 


    2) Il Discorso di Ratisbona del 2006. 

In quel discorso il Sommo Pontefice, ricordò l’importanza storica e provvidenziale dell’incontro tra la fede cristiana biblica e il pensiero greco. Tra i mali della Chiesa del post-Concilio v’è sicuramente la perdita delle radici storiche del fatto cristiano. 

Tra le radici non solo perse, ma volontariamente estirpate da molti, figura sicuramente la tradizione e l’eredità classica, che fa capo alla filosofia greca e al Diritto romano. La filosofia greca, non dimentichiamolo, è alla base della futura grandiosa speculazione cristiana (Ambrogio, Agostino, Boezio, Alberto, Tommaso, Bonaventura, Scoto, ecc.). 

Il Diritto romano poi sta alla base del Diritto Canonico (e dello stesso Diritto Ecclesiastico) e ne costituisce la pur imperfetta piattaforma naturale, elevato a dismisura dalla Legge di grazia del Vangelo. Senza questi due fondamenti storici, l’eredità cristiana appare compromessa o fondata sulle nuvole (come un’anima senza corpo). Non a caso i modernisti di primo Novecento, come i protestanti del XVI secolo, odiano la lingua di Roma (il latino), la Liturgia (vista come sfarzo pagano) e il Diritto antico, giudicato formalista, materialista, universalista, astratto. Papa Benedetto XVI ha attaccato frontalmente questo abbandono dell’eredità classica, descrivendone bene le tappe (Riforma, Rivoluzioni moderne, ’68, crisi teologica post-conciliare).



    3) Il Motu Proprio "Summorum Pontificum" del 2007. 

Dalla riforma liturgica del 1969-’70 sono aumentate nel mondo intero le Messe e le cerimonie «al limite del sopportabile» come disse lo stesso Benedetto XVI. 

Un grave limite della riforma e della sua universale applicazione fu il fatto di essere presentata come un rinnovamento che escludeva ogni forma rituale precedente. Come se ogni liturgia cattolica dovesse seguire le mode culturali del momento. 

Tutti conosciamo purtroppo le Messe ridotte a schitarrate, con balli e canti di fatto blasfemi e con celebranti travestiti da pupazzi di carnevale. Perfino veniva detto ai fedeli migliori, innamorati del Rito antico (che risale a Gregorio Magno e non a san Pio V), che il loro desiderio della Messa in latino era segno di “mentalità scismatica”! Il che è palesemente assurdo. Benedetto XVI ha apportato un (parziale) rimedio a questo stato di fatto, mostrando indomito coraggio, anche nell’opporsi a certi Prelati e Pastori. 

La Liturgia immemoriale e il Breviario, i Sacramenti celebrati con il Rito antico e tutto il resto, stanno suscitando o forse risuscitando vocazioni, conventi, monasteri, nuovi Ordini religiosi. 



    4) La revoca delle scomuniche ai 4 Vescovi della Fraternità San Pio X del 2009. 

Sebbene la controversia giuridica tra Santa Sede e cosiddetti lefebvriani non sia ancora giunta al felice epilogo atteso da tutti i buoni, la revoca della scomunica ha avuto e ha un senso più generale. 

Il “tradizionalista” non è, in quanto tale, qualcuno che si pone contro la Chiesa e al di là di essa. Anzi, esso si trova indubbiamente, sebbene si tenti di marginalizzarlo, nel cuore della cattolicità. È il “progressista” che sta fuori dalla Comunione e questo per la nota incompatibilità delle sue posizioni (in campo teologico e morale) con quelle del Magistero cattolico. 

La Tradizione non è un Museo che si possa abolire e disfare in nome di un Concilio; ma sono i Concili che hanno senso e perenne validità nella misura in cui si collocano sul terreno della Tradizione perenne e ininterrotta. Il Papa per questo suo atto magnanimo dovette scusarsi con una Lettera davanti alle ribellioni sia massoniche che catto-progressiste. Cosa inconcepibile e che mostra bene l’irriducibilità del modernismo con il Cristianesimo, e la congruenza del “tradizionalismo” (nel senso di amore alla Tradizione) con la Fede cattolica apostolica. 

    5) La ripresa della pratica della concessione delle Indulgenze. 

Pochi lo hanno notato ma Benedetto XVI ha concesso molte volte (per l’Anno Sacerdotale per esempio, o per l’Anno della Fede) le canoniche e tradizionali Indulgenze, riannodando con questa tradizionale dottrina cattolica, odiata da luterani, modernisti e “conciliaristi” vari. 
Ma se la Chiesa e il Papato possono concedere le Indulgenze è perché esiste davvero il Tesoro della Chiesa formato dai meriti di Cristo e dei santi, ed esiste altresì il Purgatorio. Se esiste il Purgatorio esiste la pena. E se esiste la pena, da espiare in terra o dopo la morte, esiste anche la colpa e il peccato. Se esiste il peccato però, deve esistere anche il peccato inespiato e dunque deve esistere l’inferno per chi lo compie e il Paradiso per chi ne è immune... Le buone opere per l’espiazione dei peccati sono tornate in auge e questo è un gran bene. Insomma la pratica della concessione delle sante Indulgenze, rinnovata da Benedetto XVI, è un chiaro segno di continuità, di buona dottrina e di fedeltà inconcussa alla Tradizione, né più né meno. Non possiamo che gioirne in Domino. 
    Auguriamo infine a Papa Benedetto XVI una vita serena e felice, all’altezza di Pietro e di Cristo, nella fermezza della fede e nell’intransigenza davanti all’errore.
(di Fabrizio Cannone)
Dal Tuo Cuore Immacolato, 
o dolcissima Maria, 
scaturisce la nostra Salvezza