sabato 20 luglio 2013

PASSIONE DELLE SANTE PERPETUA E FELICITA




PASSIONE DELLE SANTE PERPETUA E FELICITA
(Tertulliano ?)

    1. Come le gesta degli antichi campioni della fede furono scritte quali documenti della grazia divina a edificazione dell’uomo, affinché leggendole e rappresentandoci alla mente i fatti, ne onoriamo Dio e ne caviamo conforto per noi stessi: così è opportuno tramandare anche i nuovi esempi, che non meno degli antichi possono giovare all’uno e all’altro scopo. Infatti anche questi un giorno saranno antichi e torneranno necessari ai posteri, sebbene nel loro tempo presente godano minore autorità mancando di quel prestigio che l’antichità attribuisce ai primi. Del resto, se la vedano essi, coloro che l’una e medesima potenza dell’unico Spirito Santo giudicano secondo l’antichità del tempo: ma, se la manifestazione della grazia ha avuto la sua pienezza per disposizione divina in quest’ultima epoca, si dovrebbe pur ritenere che gli esempi recenti e ultimi rivestano un significato anche maggiore. Dice il Signore: “Negli estremi giorni spanderò la virtù del mio Spirito su ogni carne vivente, e i loro figli e figlie proferiranno vaticini; sopra gli schiavi e le schiave mie spanderò il mio Spirito: i giovani contempleranno visioni, i vecchi avranno rivelazioni nel sogno” (Gioele 3, 1-5 e Atti 2). Pertanto anche noi, che riconosciamo e onoriamo le profezie e le visioni nuove e rivolgiamo ogni altra operazione dello Spirito Santo ad ammaestramento della Chiesa, alla quale fu mandato per distribuire tutti i suoi doni spirituali a ciascuno secondo la disposizione di Dio, reputiamo necessario raccontarle e leggerle in comune a gloria di Dio. Così non accadrà mai che alcuno per ignoranza o poca fede abbia a credere che la grazia di Dio si sia manifestata solo agli antichi, sia confortando al martirio, sia nel dono di rivelazione; poiché Dio opera senza interruzione secondo le sue promesse, a documento di chi non crede e a beneficio di chi crede.
    Vi presentiamo dunque, o fratelli e figlioli, anche noi “ciò che abbiamo udito e veduto e toccato con mano” (1 Giovanni 1, 1. 3.); affinché voi che siete stati presenti ai fatti, ricordandoli ne diate gloria al Signore; quelli poi che ora soltanto vengono a conoscerli per via di udito, vivano in spirituale unione coi santi martiri, e per mezzo loro, col nostro Signore Gesù Cristo, a cui è dovuta la gloria e l’onore per i secoli dei secoli. Amen.

    2. Furono arrestati i giovinetti catecumeni Revocato e Felicita sua compagna di schiavitù, Saturnino e Secondino. Era fra loro poi anche Vibia Perpetua di condizione patrizia, allevata accuratamente, sposata secondo il costume delle matrone. Vivevano ancora suo padre e sua madre, e aveva due fratelli, di cui l’uno era pure catecumeno. Essa aveva un bambino alle poppe (infantem ad ùbera) e toccava presso a poco l’età dei ventidue anni. Lo svolgimento del suo martirio fu narrato tutto da lei stessa, così come lo lasciò scritto di sua mano e di mente sua.

    3. Essa dunque così narra: “Mentre ancora mi trovavo in custodia libera, e mio padre voleva ad ogni modo piegarmi colle ragioni, e mosso dal suo affetto persisteva nel suo tentativo di farmi apostatare, gli dico:
    ‘Padre, vedi tu, per esempio questo vaso qui, o quell’orcio, o altro qualunque?’
    ‘Lo vedo’, risponde.
    Ed io a lui: ‘Può esso forse chiamarsi con altro nome che il suo?’.
    ‘No’, dice.
    ‘Così pure io non posso chiamarmi in altro modo se non ciò che sono, cioè cristiana’.
    Questa mia risposta lo mosse ad ira; mi si rivolse contro e pareva mi volesse cavare gli occhi; si limitò tuttavia a dirmi molte male parole, indi se ne andò confuso coi suoi argomenti ispirati dal diavolo. Per alcuni giorni in séguito non lo vidi più e ne ringraziavo il Signore, perché lo starne lontana mi era di sollievo. Frattanto, proprio in quell’intervallo di pochi giorni ricevemmo il battesimo; allora lo Spirito mi suggerì che non dovessi attendermi altra grazia dell’acqua battesimale se non la forza di resistere ai tormenti corporali, pochi giorni dopo fummo chiusi in prigione. Ne fui spaventata; non avevo mai provato l’orrore di simile oscurità. Fu un giorno doloroso! V’era un calore insopportabile, prodotto dal gran numero di persone quivi ammucchiate; vi si aggiungevano le villanie della soldataglia, e per estrema miseria ero straziata dal pensiero del mio bambino che avevo lasciato a casa. Allora i diaconi Terzo e Pomponio, che, benedetti, si curavano della nostra sorte, distribuendo mance ottennero che per alcune ore fossimo fatti uscire a ristorarci nella parte più comoda del carcere. Usciti dunque dalla prigione, eravamo tutti a nostro agio; potevo così allattare il mio bambino che veniva meno per inedia. Mentre mi curavo di lui, conversavo con mia madre e rivolgevo parole di conforto a mio fratello; a tutti e due poi raccomandavo mio figlio. Soffrivo perché li vedevo costernati per causa mia; così stetti in afflizione per molti giorni. Ottenni che il bimbo restasse con me nella prigione; presto lo vidi rimettersi in forze, onde fui sollevata dalla dolorosa apprensione per la vita di lui. D’allora il carcere mi divenne comodo come un palazzo, né più desiderai d’essere in alcun luogo fuori di là.

    4. Mi disse allora mio fratello:
    ‘Signora sorella mia, ormai hai acquistato tanto merito da poter chiedere a Dio di mostrarti in visione se avverrà il martirio o se saremo dimessi’.
    Io sapevo di avere rivelazioni da Dio per i molti favori che ne avevo ricevuti, onde piena di fede glielo promisi dicendogli:
    ‘Domani te lo farò sapere’.
    Lo domandai infatti e mi fu mostrata questa visione. Vidi una scala eretta nell’aria; era straordinariamente grande e coll’un dei capi arrivava fino al cielo; ma era stretta, sì che non vi si poteva salire che uno alla volta. Sui fianchi della scala erano confitti arnesi di ferro d’ogni sorta: v’erano pugnali, lance, uncini, sciabole, spiedi, sicché se uno vi saliva distrattamente e senza volgere gli occhi verso l’alto, veniva straziato e lasciava brandelli di carne attaccati a quei ferri. Ai piedi della scala stava straiato un drago di mostruosa dimensione; questo attendeva al varco quanti passavano per salire la scala, e così li atterriva per impedire loro la salita. Per primo vi ascese Sàturo, che ci aveva fatti cristiani e poi per nostro amore s’era offerto spontaneamente alle guadie, non essendo egli presente prima, quando fummo arrestati. Egli giunse fino alla sommità della scala, poi si rivolse e ci disse:
    ‘Perpetua, vieni; io ti aiuterò, ma guardati dai morsi di questo drago’.
    Dissi: ‘Nel nome di Gesù Cristo, non mi farà alcun male’.
    E subito quello, quasi avesse paura di me, abbassò lentamente la testa ai piedi della scala stessa: onde io vi posi sopra il piede premendogli la testa quasi fosse il primo gradino. Presi a salire; giunta sopra, vidi un estesissimo giardino. In mezzo sedeva un uomo dai capelli bianchi, vestito da pastore, grande, in atto di mungere le pecore. Intorno a lui molte migliaia di persone vestite di bianco. Alzò egli il capo, mi guardò e disse:
    ‘Sii la benvenuta, o figlia’.
    Poi mi chiamò; e mi porse tanto come un boccone di panna rappresa di quel latte che stava mungendo; lo ricevetti con le mani giunte e lo mangiai. Tutti i circostanti dissero:
    ‘Amen’.
    Al suono di quella parola mi risvegliai, e ancora mi pareva di inghiottire un non so che di dolce. Riferii il sogno a mio fratello; da quello comprendemmo che il martirio ci attendeva tra poco; onde ci disponemmo ad abbandonare ogni speranza di questo mondo.

    5. Pochi giorni dopo si sparse la voce che saremmo stati interrogati. Giunse frattanto dalla città mio padre; era quasi sfinito dalla costernazione. Venne su da me per tentare di farmi mutar proposito e prese a dirmi:
    ‘Abbi pietà della mia canizie, o figlia; abbi pietà di tuo padre, se pure sono degno d’essere chiamato da te con questo nome; se ti ho allevata con queste mani sino al fiore dell’età, se ti ho prediletta su tutti i tuoi fratelli! Guarda tua mamma e la tua zia materna; guarda il tuo figliolino, che non potrà sopravviverti. Lascia codesto tuo proposito che sarebbe la morte di noi tutti, che non potremo più parlare a fronte alta, se si oserà toccarti!’.
    Diceva queste cose mosso dal sentimento paterno e dal suo cuore; prostrato ai miei pedi mi baciava le mani, piangeva e non mi chiamava figlia, ma signora. Io soffrivo vedendolo in quello stato e pensando che egli solo di tutta la mia famiglia non fosse in grado di godere per il mio martirio. Lo consolavo dicendogli:
    ‘Quando sarò su quel palco accadrà quello che Dio vorrà; sappi che ormai non apparteniamo più a noi stessi, ma a Dio’.
    Se ne andò via da me tutto pieno di tristezza.

    6. In uno dei giorni successivi, durante il pasto, fummo condotti via d’improvviso per l’interrogatorio. Arrivammo alla piazza; s’era sparsa la voce di noi in tutte le adiacenze, e tosto accorse una folla innumerevole. Salimmo sul palco; gli altri furono interrogati e confessarono la fede. Venne la mia volta. Sopravvenne allora mio padre col mio bambino tra le braccia; mi trasse indietro supplichevole disse:
    ‘Abbi pietà di questo bambino’.
    Il procuratore Ilariano, che esercitava allora il potere esecutivo in sostituzione del proconsole Minucio Timiniano che era morto, mi disse:
    ‘Abbi riguardo dei capelli bianchi di tuo padre, e di questo tenero fanciullo! Offri un sacrificio per la salute degli Imperatori’.
    Risposi: ‘Non lo faccio’.
    Ilariano disse: ‘Sei tu cristiana?’.
    Risposi: ‘Sono cristiana’.
    Mio padre mi si faceva addosso per farmi rinnegare; Ilariano comandò di trascinarlo via e per di più lo fece cacciare a bastonate. Mi dolse il caso di mio padre, mi parve di sentire quei colpi sulle mie membra; mi piangeva il cuore per quella sua miseranda vecchiaia. Frattanto il procuratore pronunziò la nostra sentenza condannandoci alle fiere. Contenti ritornammo alla prigione. Il mio bambino soleva starmi alle poppe e restare con me in carcere; onde io tosto mandai il diacono Pomponio perché chiedesse il piccino a mio padre. Questi non volle consegnarglielo. E come piacque a Dio, il bambino cessò di domandare la mammella, e io fui libera dall’infiammazione che ciò cagionava, né più fui oppressa dalla cura del fanciullo e dal dolore delle mammelle.

    7. Dopo pochi giorni, mentre tutti siamo in orazione, m’uscì di bocca il nome di Dinòcrate; stupii, che non m’era mai sovvenuto di lui se non allora, e mi dolsi al ricordar i suoi casi. Sentii che Dio mi favoriva e che dovevo pregar per lui. Cominciai a farlo molto intensamente implorando con sospiri il Signore. Subito la notte seguente ebbi questa visione. M’apparve Dinòcrate che usciva da un luogo scuro dov’eran parecchi altri; era oppresso e arso di sete, col viso macilento e scolorito; aveva la faccia deturpata da una piaga, come era quando morì. Questo Dinòcrate era stato mio fratello carnale, vissuto fino ai sette anni; aveva contratto una malattia che lo condusse a mala morte per un tumore alla faccia, sì che la sua morte aveva destato grande ribrezzo in tutti. Avevo dunque pregato per lui, ed ora me lo vedevo innanzi, ma fra noi due vi era una grande distanza, sì che non potevamo avvicinarci l’uno all’altra. Quivi nel luogo ove stava Dinòcrate era una vasca piena d’acqua, con un parapetto più alto della statura del fanciullo; Dinòcrate vi si protendeva in atto di voler bere. Mi rammaricavo che quella vasca abbondasse così di acqua, mentre egli non avrebbe potuto berne per l’altezza della sponda. Mi svegliai e compresi che mio fratello pativa. Ma avevo fiducia di poter sollevare la sua sofferenza e pregai per lui ogni giorno, fino a che fummo trasferiti nella prigione militare, perché dovevamo scendere a combattere colle fiere durante lo spettacolo castrense per il natalizio di Geta Cesare. Feci orazione giorno e notte, con sospiri e lacrime, per ottenere che quel mio fratello mi fosse salvato.

    8. Il giorno che rimanemmo legati in prigione mi fu mostrata questa visione. Mi apparve lo stesso luogo veduto la prima volta, e quivi Dinòcrate tutto ben ripulito e sano, coperto di belle vesti, d’aspetto allegro. Al posto della piaga appariva la cicatrice. V’era la vasca che avevo già prima veduta, ma con la sponda abbassata tanto da arrivare a mezza statura del fanciullo, il quale vi poteva attingere a suo piacere. Sul parapetto era una fiala d’oro ricolma d’acqua. Dinòcrate si apprestò e prese a bere da quella, e mentre beveva non diminuiva l’acqua della fiala. Quando fu sazio dall’acqua si mise a trastullare, come sogliono fare i bambini, allegro. A questo punto mi risvegliai, e compresi che egli aveva finito di soffrire.
    9. Di lì a pochi giorni un soldato attendente di nome Pudente, che era preposto alla custodia delle carceri, cominciò a dimostrarci grande stima; s’era convinto che in noi fosse grande virtù. Così lasciava entrare molte persone a farci visita, ed era un gran sollievo reciproco per noi e per i nostri visitatori. Intanto si avvicinava il giorno dello spettacolo pubblico; allora venne mio padre. Era sfinito dal dolore; prese a strapparsi la barba, gettarsi ai miei piedi prostrato fino a terra; malediceva gli anni suoi e dava in tali lamenti da far pietà a ogni cosa creata. Io mi struggevo per quella vecchiaia sventurata.

    10. Il giorno prima del combattimento nostro ebbi questa visione. Mi parve che venisse da noi il diacono Pomponio e che fermatosi alla porta del carcere battesse fortemente. Uscii incontro a lui e gli aprii la porta. Era vestito di una bianchissima tunica fluente, e portava calzari variati di molti colori.
    Mi disse:
    ‘Perpetua, t’aspettiamo, vieni’.
    Indi mi prese per mano e ci avviammo per sentieri scoscesi e tortuosi. A fatica giungemmo finalmente trafelati dinanzi all’anfiteatro; mi condusse fino nel mezzo dell’arena dicendomi:
    ‘Non temere: sono qui io a soffrire in tua compagnia’.
    Indi uscì. Vidi un’immensa folla che mi guardava meravigliata. Sapendo io d’essere condannata quivi alle bestie, mi stupivo che quelle non venissero sguinzagliate contro di me. Allora mi uscì incontro un certo egiziano, brutto di aspetto, e si accinse a combattere con me assistito da compagni che gli facevano da scudieri. Intanto vidi venire alla mia volta alcuni leggiadri giovinetti e schierarsi in mio soccorso. Mi svestii dei miei abiti e fui trasformata in maschio. I miei aiutanti allora presero a farmi massaggi con olio, come suol farsi agli atleti prima della lotta; vedevo frattanto di contro a me quell’egiziano che si voltolava sull’arena. Nel punto stesso vidi farmisi incontro un uomo di grandezza smisurata, tale da oltrepassare la parte più elevata dell’anfiteatro; aveva una tunica fluente di porpora percorsa da due fascette davanti; e portava calzari variati fatti d’oro e d’argento. Egli reggeva in una mano una bacchetta come sogliono portarla i maestri gladiatori e nell’altra un ramo verdeggiante con mele color d’oro. Impose silenzio e disse:
    ‘Questo egiziano, se avrà vinto costei, la ucciderà con la spada; se invece essa vincerà, riceverà questo ramo’.
    Indi si ritirò. Ci appressammo l’un altro e cominciammo il pugilato. Quegli voleva afferrarmi i piedi; io gli sprangavo calci sulla faccia. Mi sentii allora sollevare in aria, e presi a percuoterlo come se i miei piedi non poggiassero sul terreno. In un istante che quegli esitò giunsi le mani incrociando le dita, gli serrai così alla testa e lo percossi sul viso, indi atterratolo gli posi un piede sul capo. La folla prese a gridare; i miei fautori cantavano. Mi appressai al maestro dei gladiatori e ricevetti da lui il ramo. Mi baciò e mi disse:
    ‘Figlia, la pace sia con te’.
    Allora m’avviai per uscire verso la porta Sanavivaria. In quel punto mi svegliai; compresi che dovevo combattere non con le bestie, ma col diavolo, ma mi tenevo sicura della vittoria.
    Queste sono le cose da me fatte fino alla vigilia dello spettacolo; quanto allo svolgimento di questo, lo descriverà chi vorrà”.

    11. Anche Saturo benedetto fece conoscere una sua visione da lui stesso narrata per iscritto.
    “Mi pareva dice che avessimo già sofferto il martirio e fossimo già usciti dalla carne mortale e che quattro angeli ci trasportassero verso l’oriente, senza che le loro mani ci toccassero. Procedevamo non coricati con la faccia all’insù, ma come se ascendessimo una facile erta. Usciti dal mondo inferiore, fummo avvolti da immensa luce. Io dissi a Perpetua, che mi stava al fianco:
    ‘Ecco quello che il Signore ci prometteva; siamo giunti ormai al promesso bene’.
    Mentre eravamo portati da quei quattro angeli, ci si offerse alla vista una grande spianata che aveva l’aspetto di un giardino, con cespugli di rose e fiori d’ogni genere. V’erano alberi che si ergevano all’altezza di un cipresso, e le foglie cadevano da quelli continuamente. In quel giardino apparvero altri quattro angeli più splendidi dei primi; quando ci videro, ci fecero riverenza e dissero agli altri angeli:
    ‘Ci sono, ci sono!’.
ed erano pieni di meraviglia. I quattro angeli che ci portavano, presi da timore, ci deposero; indi a piedi cominciammo a percorrere per la lunghezza d’uno stadio un’ampia strada, fino a che incontrammo Giocondo, Saturnino e Artassio, i quali in quella medesima persecuzione erano stati bruciati vivi. Con essi era anche Quinto martire, morto nel carcere. Domandavamo a loro dove fossero gli altri. Gli angeli ci dissero:
    ‘Entrate prima, andate a salutare il Signore’.

    12. Ci appressammo a un recinto le cui mura parevano fatte di luce; sull’entrata di esso stavano quattro angeli. Questi entrarono e indossarono candide vesti. Entrammo noi pure e udimmo voci in coro che cantavano:
    ‘Santo, Santo, Santo’,
    e non cessavano di ripeterlo. Vedemmo quivi la figura di un uomo tutto bianco, dalle chiome color di neve, dal volto d’adolescente. Non vedevamo i suoi piedi. A destra e a sinistra di lui stavano quattro anziani; dietro di essi ve n’erano molti altri. Ci avanzammo pieni di meraviglia e giungemmo ai piedi del trono. I quattro angeli ci sollevarono; baciammo in volto quel personaggio ed egli ci passò la sua mano sul viso.
    Gli altri anziani dissero:
    ‘Alziamoci’.
    Ci alzammo, ci demmo a vicenda il bacio di pace. Gli anziani ci dissero:
    ‘Andate a divertirvi’.
    Io dissi a Perpetua: ‘Il tuo desiderio è compiuto’.
    Mi rispose: ‘Siano rese grazie a Dio, perché lieta fui nella carne mortale, ed ora qui la mia letizia è accresciuta’.

    13. Uscimmo e dinanzi alla porta trovammo a destra il vescovo Ottato, a sinistra il presbitero Aspasio, maestro dei catecumeni; stavano l’uno in disparte dall’altro e tristi. Ci si gettarono ai piedi dicendo:
    ‘Fate la pace tra noi, ora che siete usciti dal mondo e ci avete così abbandonati!’.
    Dicemmo loro: ‘Non sei tu il nostro vescovo, e tu uno dei nostri presbiteri? Perché vi siete messi ai nostri piedi?’.
    Eravamo commossi e ci gettammo fra le loro braccia. Perpetua cominciò a parlare loro in lingua greca. Li conducemmo in disparte entro il giardino sotto un gran cespo di rose. Mentre con essi conversavamo, gli angeli dissero a quelli:
    ‘Lasciate che si divertano; se avete qualche contrasto tra voi due, perdonatevi a vicenda’.
    Quelle parole li rattristarono. Allora (gli angeli) dissero a Ottato:
    ‘Raddrizza il tuo popolo; perché si radunano con te come gente che ritorna dal circo e agitati da animosità partigiane’.
    Ci parve poi che volessero chiudere le porte. Frattanto cominciammo a riconoscere quivi molti fratelli e anche molti martiri. Tutti aspiravano profumi di ineffabile soavità e ne eravamo inebriati. In quel punto mi svegliai ancor tutto pieno di allegrezza.

    14. Queste sono le più insigni visioni degli stessi beatissimi martiri Sàturo e Perpetua, scritte da loro medesimi. Dio chiamò a sé poi Secondino con morte anticipata mentr’era ancora in carcere, non senza usargli un favore, poiché gli risparmiò le belve. Ma se il ferro non gli tolse la vita, certo gli straziò la carne.

    15. In quanto poi a Felicita le fu riserbata dal Signore questa grazia. Essendo essa all’ottavo mese (che, quando l’arrestarono era incinta), e avvicinatosi ormai il giorno dello spettacolo, era in grande passione per timore che ella a cagione del suo stato non fosse rimandata ad altra volta, non essendo permesso offrire all’arena a supplizio le incinte; così che le fosse poi toccato di versare il suo sangue innocente insieme con delinquenti. Anche i compagni di martirio si affliggevano assai, nel dubbio di dover lasciare una compagna così valente e quasi loro guida, indietro da sola nella via di raggiungere la loro medesima speranza. Pertanto sul fare del terzo giorno prima dello spettacolo, con le lacrime unanimi e concordi fecero orazione dinanzi al Signore. Tosto finita l’orazione, Felicita fu sorpresa dalle doglie; e poiché, stentando, dolorava nel parto, per la naturale difficoltà dell’ottavo mese, uno dei soldati sorveglianti del carcere le disse:
    ‘O tu che ora patisci tanto strazio, che farai quando verrai gettata in pasto a quelle belve che disprezzasti rifiutando di sacrificare?’
    E quella rispose: ‘Ora sono io che devo sopportare questi strazi; quivi invece vi sarà dentro di me un altro, il quale patirà per me, perché anch’io mi dispongo a patire per lui’.
    Così Felicita mise alla luce una bambina, la quale fu allevata come figlia da una sorella di fede.

    16. Poiché dunque lo Spirito Santo ha permesso, e permettendolo l’ha voluto, che si scrivesse lo svolgimento di quello spettacolo, sebbene indegni di scrivere il restante di sì grande gloria, tuttavia, come per eseguire un incarico, anzi un fidecommesso della santissima Perpetua, aggiungeremo un documento della sua costanza e altezza d’animo. L’ufficiale militare aveva preso a trattarli più severamente, per causa delle ciarle di certi uomini vanissimi, che avevan fatto temere non fossero i martiri sottratti dalla prigione per mezzo di qualche stregoneria; allora Perpetua arditamente gli disse:
    ‘E perché dunque non permetti un po’ di buon trattamento per noi, che, per essere destinati a lottare nel natalizio di Cesare, siamo vittime privilegiate? Non sarà forse tuo merito, se ci troveremo più in carne nel dì che verremo presentati all’arena?’.
    L’ufficiale si turbò ed arrossì, e frattanto ordinò che fossero meglio trattati, sì che ai loro fratelli di fede e agli altri fosse permesso d’entrare e di prendere cibo con essi; perché del resto lo stesso attendente del carcere s’era convertito alla fede.
    17. Anche la vigilia, mentre s’intrattenevano a quell’ultimo desinare che chiamano ‘cena libera’, lo celebravano piuttosto come un’agape (banchetto eucaristico) che come una cena, e con solita franchezza rivolgevano la parola al popolo, minacciando il giudizio di Dio, dicendosi felici d’andare al martirio; talora anche prendevano in burla la curiosità dei sopravvenienti; come Sàturo, il quale andava dicendo:
    ‘Eh, non vi basta il giorno di domani? Ci squadrate con tanta curiosità, mentre ci portate odio; vi mostrate amici oggi, voi, i nemici di domani? Ebbene, osservate con cura le nostre facce, sì che abbiate a ravvisarci in quel giorno’.
    Così tutti se ne tornavano di là turbati, e fra loro molti si volsero alla fede.

    18. Sorse il dì della loro vittoria, ed essi uscirono dalla prigione verso l’anfiteatro, lieti e composti in volto, come quelli che s’avviano al cielo: trepidavano, è vero, non però di paura, ma piuttosto di gioia. Perpetua teneva dietro con passo tranquillo, come una matrona di Cristo, come una prediletta da Dio; e la luce del suo sguardo faceva abbassare gli occhi di tutti; così pure Felicita, lieta d’aver felicemente partorito, per potere lottare con le belve passando da sangue a sangue, dall’ostetrice al reziario, pronta a purificarsi del parto con un secondo battesimo. Furono condotti alla porta e venne loro imposto d’indossare abiti da spettacolo: gli uomini a foggia di Saturno, le donne a mo’ delle sacerdotesse di Cèrere. Ma quella nobile donna oppose un coraggioso e irriducibile rifiuto. Diceva:
    ‘Siam venuti di nostra volontà sino a questo punto per non sacrificare la nostra libertà; abbiamo messo la vita a pegno per non macchiarci di simili atti; tanto abbiamo pattuito con voi’. L’ingiustizia allora s’inchinò alla giustizia, e l’ufficiale diede licenza che fossero introdotti senz’altro così com’erano. Perpetua cantava un salmo, già sul punto di premere la testa dell’Egizio; Revocato, Saturnino e Sàturo facevano ammonimenti alla folla degli spettatori. Quindi, giunti in presenza d’Ilariano, cominciarono a far gesti e cenni, quasi per dirgli:
    ‘Tu colpisci noi, ma Dio raggiungerà te’.
    A quella vista, la folla irritata, richiese che venissero straziati con staffili, passando fra le fila dei carnefici (venatores); di che essi furono lieti, perché eran messi in qualche modo a parte dei patimenti del Signore”.

    19. Ma Colui che aveva detto ‘domandate e riceverete’ aveva concesso a ciascuno di loro quel genere di morte che preferiva. Difatti, quando essi discorrevano fra loro dei propri desideri riguardo al martirio, Saturnino dichiarava di preferire le belve, per avere una corona più gloriosa; pertanto, nello svolgersi dello spettacolo, egli e Revocato, dopo aver affrontato il leopardo, dovevano anche essere straziati dall’orso, sopra il palchetto. Veramente Sàturo aveva orrore dell’orso più che d’ogni altra fiera, e sperava che un solo assalto del leopardo l’avrebbe finito. Fu allora esposto al cinghiale; in questo, appunto il carnefice, che l’aveva legato al palo per il cinghiale fu azzannato in vece di lui dalla medesima fiera, sì che morì il giorno appresso; Sàturo, al contrario, fu solo da quella trascinato per un breve tratto. Nuovamente legato sul palchetto per l’orso, questo non volle uscir fuori dalla gabbia. Così fu che Sàturo, rimasto due volte illeso, fu chiamato dalla folla fuori dell’arena.


    20. Per le giovani, il diavolo preparò una vacca ferocissima, cosa veramente inusitata, quasi volesse fare, anche con quella bestia, uno sfregio al loro sesso. Spogliate dunque, e ravviluppate nei reticoli, esse venivano condotte nell’arena. La folla fu presa da un senso di ribrezzo, vedendole tenera fanciulla una, l’altra ancora fresca di parto e con le poppe stillanti. Furono allora richiamate e rivestite con lunghe tuniche. Perpetua, acciuffata per la prima e sbattuta, ricadde a terra supina. Messasi a sedere, raccolse i lembi della tunica lacerata sul fianco per coprirsi il femore, più ansiosa del proprio pudore che del proprio dolore. Indi raccolse le forcelle, si appuntò la scomposta capigliatura: non s’addiceva davvero a una martire soffrire la passione con le chiome disciolte, sì da sembrare far lutto nella sua gloria! Ciò fatto, s’alzò in piedi, e, veduta Felicita colpita, le si avvicinò porgendole la mano per rialzarla. Così stettero alquanto, fino a che, ammansita la ferocia della folla, furono richiamate e fatte uscire per la porta Sanavivaria. Quivi Perpetua fu accolta da un tal catecumeno di nome Rustico, che era stato addetto al suo servizio, e, riscossa come da sonno, talmente era assorta e rapita in spirito, prese a volgere gli occhi attorno e con meraviglia di tutti uscì in queste parole:
    ‘Ma quando dunque saremo noi esposte a quella vacca?’.
    Udito che la cosa era già accaduta, non voleva credere, sino a che non ebbe ravvisate nella sua persona e nell’abito certe tracce dello strazio. Chiamato quindi a sé il fratello e quel tal catecumeno, così disse:
    ‘Siate fermi nella fede, amatevi tutti l’un l’altro, né prendete sgomento dei nostri tormenti’.

    21. Similmente Sàturo, presso un’altra porta, rinfrancava il soldato Pudente, dicendogli:
    ‘Tutto sommato, davvero finora, come avevo predetto, non ho ancora sentito lo strazio d’alcuna fiera; sii fermo dunque con tutto il cuore nella fede. Ora vedrai, io mi avanzo fin là, e sarò ucciso da un solo morso di leopardo’.
    E tosto, essendo lo spettacolo sul termine, sguinzagliatogli contro un leopardo, ne toccò una zannata per cui fu inondato di sangue in gran copia; e, mentre, si ritraeva, la folla gli rendeva testimonianza del secondo battesimo vociando:
    ‘Salvo, lavato’.
    Davvero che era salvo colui che s’era bagnato in simile lavacro! Disse allora al soldato Pudente:
    ‘Addio, ricordati della mia fede e di me; che tutto questo valga non a turbarti ma a darti animo’. Così dicendo, lo richiese dell’anello che portava in dito, e, bagnandolo nella propria ferita, glielo rese come sua eredità, lasciandoglielo come pegno e come una memoria di sangue. Quindi, ormai sfinito, venne disteso insieme con gli altri nel luogo solito per essere sgozzato. La folla reclamava che fossero portati in vista, per seguire con i loro occhi omicidi l’entrar del coltello nelle carni di quelli; i martiri si rizzarono spontaneamente e si trascinarono fin là dove la marmaglia voleva. Già s’erano dato fra loro il bacio, ché ben volevano por fine al martirio con il santo rito della pace. Gli altri ricevettero il ferro raccolti in silenzio. Tosto rese lo spirito Sàturo, che era asceso per primo nella scala; egli attendeva Perpetua che gli tenesse dietro.

A questa era ancora riserbato di gustare qualche tormento: perché il ferro le si impigliò tra le vertebre della gola. Mandò un forte gemito, e prese essa stessa a guidare la incerta mano dell’inetto gladiatore, aggiustandosi la punta alle carni. Ma forse una donna di tanto valore, che incuteva spavento allo spirito immondo, non avrebbe altrimenti potuto essere uccisa se essa non l’avesse voluto!
    O martiri fortissimi e mille volte beati! O voi veramente chiamati ed eletti per la gloria del nostro Signore Gesù Cristo! Chiunque aspira ad aumentare, illustrare e adorare questa gloria, ben deve leggere a edificazione della Chiesa questi esempi, non minori di quelli passati: sì che le nuove gesta rendano testimonianza all’unico e medesimo Spirito Santo che finora ha operato, a Dio Padre onnipotente e al Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore, al quale si deve onore e potestà senza limiti per tutti i secoli.
    Amen.

da: P. VANNUTELLI a cura di , Atti dei Martiri 1, Città del Vaticano, ristampa 1962, 14-57



SURREXIT

La Madonna vegliava, e al momento giusto gli fece incontrare un signore che rimase subito colpito dall’intelligenza e dalla bontà di questo ragazzo.



San Giovanni della Croce.


 Quando S. Giovanni della Croce morì, il fratello Francesco, anima eletta. ebbe una visione e lo vide in Paradiso accanto alla Madonna, circondato da Angeli.
Così lo vide, nella gloria dei cieli. E così è bello cominciare a guardarlo, per vedere la continuità della sua vita mariana sulla terra e in Paradiso.
La Madonna fu particolarmente accanto a S. Giovanni della Croce sulla terra, e il Santo si ritrova anche nel Regno dei cieli accanto alla sua amatissima Madre e Regina.

Nascita e fanciullezza

S. Giovanni della Croce nacque nel 1549, probabilmente il 24 giugno, festa di S. Giovanni Battista, di cui ebbe il nome nel Battesimo ricevuto poche ore dopo la nascita.
Nacque a Hontiberos, un piccolo centro fra Salamanca e Medina del Campo, nella Diocesi di Avila.
Quando il santo nasceva, nella vicina Avila S. Teresa, ventisettenne, stava portando a maturazione quella sua radicale dedizione a Dio, che poi la spingerà a riformare il Carmelo.
La famiglia di S, Giovanni della Croce era molto modesta, famiglia di poveri tessitori, anche se di nobili origini, dal casato degli Jepes, il papà, degli Alvarez, I la mamma.
Dopo la nascita di Giovanni, terzo figlio, il papà morì, lasciando la giovane vedova a lottare con la povertà per nutrire e allevare i tre figli.
La mamma di S. Giovanni della Croce era un modello di mamma cristiana, dal grande spirito di fede e di abnegazione. Lavoro, preghiera, educazione dei figli, riempirono tutta la sua vita. Il santo timor di Dio, la conoscenza del Vangelo, l’amore del cielo, il disprezzo del mondo, il fervore della preghiera: queste cose ella inculcava con cura materna nei cuori dei suoi figli, tra i quali Giovannino cresceva con il candore di un angelo, la prudenza di un adulto, il fare sempre modesto, un’obbedienza non comune.
In particolare, la mamma inculcò nei figli una tenerissima devozione alla Madonna, tanto che Giovannino, più dei fratelli, non lasciava passare giorno senza rivolgerle speciali preghiere. Come era bello vederlo con le manine giunte e gli occhi fissi nell’immagine della Madonna! Già da allora poteva lasciar presagire · che sarebbe diventato il cavaliere della Regina del Carmelo.

La manina sporca

Indubbiamente la Madonna dovette avere molto caro questo figliolo, se gli apparirà immancabilmente vicina nei momenti più tragici.
Fin da piccolo, un giorno, mentre Giovannino giocava con alcuni compagni vicino a un laghetto, scivolò e cadde nel laghetto. I compagni non seppero fare altro che spaventarsi e scappare. Giovannino stava ormai per affogare, quando ecco apparirgli la Madonna che gli porge la sua mano materna.
Il bambino però non le dà la sua manina. Perché? Perché la vede sporca, mentre la mano della Madonna è purissima. È un particolare delicatissimo. La Madonna lo prende lo stesso e lo sostiene a fior d’acqua, finché qualcuno lo tira a riva sano e salvo.
Alcuni anni dopo, lo stesso, Giovanni lavora da infermiere in un ospedale. Una volta va a caricare acqua al pozzo, ma scivola e precipita nel pozzo. Tutti lo danno per morto. Ma quando si affacciano a guardare nel pozzo, lo vedono placido e sereno a fior d’acqua. Come mai? Appena tirato su, egli dice che di nuovo, mentre stava affogando, la Madonna gli è apparsa e lo ha sostenuto con la testa fuori dell’acqua.
Qualcuno ha scritto che il demonio assaliva S. Giovanni della Croce con questi pericoli di morte, perché non riusciva ‘a fargli commettere un peccato mortale per rovinargli 1′anima piena di innocenza e difesa dalla mortificazione. Ma la Madonna vegliò materna e immancabile su questo figliolo prediletto, destinato a una grande missione per la Sua gloria.


« Tu mi servirai »

Dopo le prime scuole, a 13 anni, questo figliuolo prediletto di Maria, a cui piace moltissimo pregare, leggere, studiare, deve invece impegnarsi in un mestiere per aiuare la povera famigliola, portata avanti da mamma Caterina con tanti stenti.
Giovanni cominciò a cercare di imparare prima un lavoro nelle officine; ma non gli riuscì. Tentò di fare il legnaiuolo; ma fallì lo stesso. Cercò allora di imparare qualunque altro mestiere: il sarto, l’intagliato-re, il pittore… Ma gli fallivano tutti fra le mani! Come fare? Che cosa fare? C’era proprio da avvilirsi.
Ma la Madonna vegliava, e al momento giusto gli fece incontrare un signore che rimase subito colpito dall’intelligenza e dalla bontà di questo ragazzo. Seppe della penosa situazione familiare. Pensò di aiutarlo nel lavoro e negli studi, ottenendogli un posto di infermiere nell’ospedale di Medina, con la possibilità di studiare nelle ore libere presso i Gesuiti. Fu una grazia immensa per Giovanni. Si apriva una strada, quella degli · studi, su cui gli riusciva di correre agile e instancabile.
Cosi, portò avanti sempre brillantemente gli studi, imponendosi all’ammirazione dei Padri Gesuiti, che 10 sollecitavano a una scelta per la vita religiosa.
Giovanni aveva 20 anni. Si rendeva conto dell’ora di scegliere la sua strada. Pregò molto la B. Vergine. E durante la preghiera, la Madonna gli fece udire queste precise parole: « Tu mi servirai in una religione . in cui ristabilirai la primitiva osservanza ».
Da lei attendeva l’indicazione giusta, secondo Dio.

Con l’abito della Madonna

L’anno seguente, a 21 anni, Giovanni chiese di entrare fra i Carmelitani di Medina. E prese l’abito il 24 febbraio 1563, festa di S. Mattia apostolo, con il nome di Fra’ Giovanni di S. Mattia.
E' significativo che nella cerimonia della vestizione dell’abito, quando il Superiore gli domandava che cosa voleva, Giovanni rispondeva che chiedeva di essere ammesso nell’Ordine della B. Vergine. In tal modo egli diventava membro di un Ordine tutto mariano, che ha cantato nei secoli le glorie della Celeste Regina, e che ora accoglieva nel suo grembo chi avrebbe rinnovato gli splendori della più alta santità carmelitana, a gloria della Regina decoro del Carmelo.
Intanto, S. Teresa d’Avila da 6 mesi aveva iniziato la riforma delle Carmelitane con l’osservanza perfetta della Regola primitiva.
Come mai questa Riforma? Le ragioni sono storiche.
L’Ordine Carmelitano vanta le sue origini dal Profeta Elia, sul monte Carmelo. Ebbe la sua regola da S. Alberto, approvata dai Pontefici Onorio III (l226) e Innocenzo IV (1248). Fu fecondo di Santi e Sante in misura invidiabile.
In seguito, però, a causa di situazioni storiche particolari, si fu nella necessità di mitigare alquanto la Regola primitiva; e la Regola così mitigata fu approvata da Papa Eugenio IV nel 1432.
S. Teresa, però, dopo più di un secolo, avvertì il tempo adatto a riproporre l’osservanza fedele della Regola primitiva nella sua integrità. E si accinse all’opera per le Suore.

Incontro con S. Teresa

Con l’abito della Madonna addosso, il novello novizio ha un ardore senza pari nel santificarsi. Vuole per sé i lavori più umili. È disposto a fare la volontà di tutti, eccetto la propria. Trascorre ore intere davanti al Tabernacolo. Ama particolarmente la cella, anche perché ha una finestrella che dà nella Chiesa. Porta constantemente una catenella a punte ai fianchi.
Dopo il Noviziato, viene mandato a Salamanca per gli studi, e deve accettare per obbedienza di prepararsi anche al Sacerdozio. Egli ne è sgomento. Si ritiene assolutamente indegno. Proprio lui, di cui S. Teresa dirà un giorno che « era una delle anime più pure e sante che Dio contava nella sua Chiesa ».
Mn dopo il Sacerdozio egli avverte non meno acuto il bisogno di una vita più austera e soprannaturale, più solitaria ed elevata. Perciò pensa a una Certosa in cui nascondersi. E fa i primi passi per abbracciare la : vita certosina.
Ma viene invitato a incontrarsi con S. Teresa di Gesù ad Avila. L’incontro di queste due anime eccezionali è mirabile per elevatezza di contenuti e per fecondità di propositi.
Appena S. Teresa sente dirsi da Fra’ Giovanni che sta per entrare in una Certosa, con fare materno dolcissimo e persuasivo gli chiede di aspettare almeno un po’, perché, dice, « a me sembra cosa molto santa che voi procuriate la vostra perfezione, anche a costo di lasciar la religione in cui avete professato; ma pure se in questa religione vi si presentasse il mezzo di soddisfare il vostro fervore, non mi negherete che ciò sarebbe assai più conforme al consiglio di S. Paolo, che ci esorta a perseverare nella propria vocazione.
Iniziare una Riforma è aprire la strada della salute ad innumerevoli anime che seguiranno il vostro esempio, è servizio maggiore di quello che potreste rendere a Dio, ritirandovi in una Certosa: perché l’utilità comune precede il l bene di uno solo. Non fate caso delle difficoltà, che noi, tardi di cuore a credere, esageriamo sempre. Non vedete con quanta facilità si stanno fondando i monasteri di religiose? È il Signore che lo fa.
Se noi siamo i figli dei nostri veri fondatori, i santi profeti Elia ed Eliseo e i loro discepoli; se la corte del nostro gran Re e della Vergine Sua Madre, Signora e Patrona nostra, I è popolata di figli di questa religione che intercedono per la sua santità e per la sua duratura posterità, perchè noi dobbiamo perdere la speranza? ».
Queste parole ardenti e materne della Santa fanno riecheggiare potentemente e chiaramente nel cuore di Fra’ Giovanni la voce misteriosa della Madonna che gli aveva detto un giorno: « Tu mi servirai in una religione, in cui ristabilirai la primitiva osservanza·. Fra’ Giovanni vede chiaro dentro di sè. Non solo non si tira indietro, ma dice con generosa esultanza il suo Fiat. .
Così iniziò il cammino della Riforma dei Carmelitani.

I primi grandi fervori

  Il 30 settembre 1568 Fra’ Giovanni era a Durvelo, leI primo nido della riforma, consacrato a Nostra Signora del Monte Carmelo. È la prima pietra angolare iella riforma. Non per niente porta il nome della Regina del Carmelo.
Per due mesi S. Giovanni inaugurò da solo questo eremo scelto e preparato con cura da S. Teresa. Una Cappellina, due celluzze, una stanzina per cucina e refettorio. Tanta povertà e austerità. Tanto silenzio e solitudine.
Fra’ Giovanni esultò per tale luogo e per tale vita; . e all’arrivo del primo compagno, trovato anch’esso da S. Teresa, il P. Antonio, tutti e due fecero, ai piedi della Madonna, la rinuncia alla Regola mitigata, giurando di osservare fino alla morte la Regola primitiva. Si misero a piedi scalzi. Indossarono il nuovo abito confezionato da S. Teresa. Si chiamarono da allora in poi Fra’ Giovanni della Croce e P. Antonio di Gesù.
P. Giovanni della Croce assunse il compito di maestro dei novizi per i nuovi candidati che cominciarono ad arrivare molto presto. E il fervore della novella vita religiosa era così grande che S. Giovanni potè esclamare: « lo prego sua Divina Maestà che in avvenire conservi sempre, come adesso, il grande fervore del nostro Ordine per il suo santo servizio ».
Meno di due anni dopo erano già in dieci. Impossibile stare in quel bugigattolo. Si trasferirono a Mancera, dove un benefattore donava loro un convento e una Cappella, in cui si venerava una meravigliosa immagine della Madonna.
Il cammino era iniziato, e proseguiva spedito. Da Mancera ad Alcalà. Da maestro dei novizi a direttore dei giovani. S. Giovanni della Croce è in piena attività di vita religiosa e di formazione delle anime. Diviene anche confessore delle Carmelitane scalze, e sarà fino alla morte un maestro di perfezione come pochi ne ha mai avuto la Chiesa, che un giorno lo innalzerà al grado sommo di Dottore mistico.
U n figlio prediletto della Madonna diviene il più grande maestro della perfezione. Non poteva esse diversamente, perché la Madonna è la « Sede della Sapienza» e la « Madre della Grazia », In tutto il cammino della perfezione, dice S. Giovanni della Croce, la Madonna è il modello supremo della Fede, Speranza e ‘ i Carità, ed è la sorgente della Grazia che ci dona ogni , vita, e santità.

Tempesta e prigione…

Le opere di Dio vengono tutte passate al vaglio. Quest’opera della riforma, carissima a Dio e a Maria, ebbe anch’essa la sua lunga ora di tempesta e di travaglio.
Quando i Carmelitani mitigati videro l’avanzarsi della riforma e il moltiplicarsi dei nuovi conventi riformati, cominciarono ad alzare la voce, seriamente preoccupati. Essi non ritenevano adatti i tempi per una riforma, non riconoscevano in S. Teresa e in S. Giovanni della Croce due santi, e ci tenevano a difendere soprattutto l’unità dell’Ordine.
Intervennero perciò contro gli scalzi per fermarli; ma questi cercarono di difendersi.
Le cose si imbrogliarono sempre di più, e drammaticamente, perché nella questione intervenivano troppe persone variamente interessate. Protettori di ogni tipo da una parte e dall’altra, gerarchie, autorità religiose e civili, soprattutto il Re Filippo II (difensore della riforma), amici e dotti studiosi: tutti entrarono a interessarsi e a complicare le cose, e si arrivò a un punto tale che gli scalzi non sapevano più a chi dovessero obbedire senza disobbedire a qualcuno!
La tensione crebbe burrascosa. I mitigati pensarono di ricorrere anche a metodi violenti, e fecero rapire incarcerare S. Giovanni della Croce, che venne rinchiuso in una fetida prigione del convento di Toledo. Per nove mesi, il coraggioso e pacifico santo soffrì pene terribili e dolori disumani con inalterabile mitezza, ritenendosi sempre meritevole di castighi maggiori per i suoi peccati.
La sofferenza più cruda fu la privazione della S. Messa e della Comunione. Ma, in compenso, i ebbe le ispirazioni più alte a scrivere i due supremi ‘I cantici dell’esperienza mistica: «Il cantico spirituale » e «La fiamma d’amore viva ». Nè dovettero mancargli l consolazioni celesti con rapimenti e visioni ineffabili I del Signore e della B. Vergine, come appariva dagli I splendori che a volte inondavano 1′angusta prigione, i irradiandosi fuori dalle fessure della porta.

« Uscirai da questa prigione »

Il 14 agosto 1578, dopo circa nove mesi di carcere, S. Giovanni supplicò il Priore del Convento di volergli concedere di celebrare la S. Messa in onore della dolce Regina del Cielo. Ma non gli fu accordata neppure questa grazia. Umile e mite, il santo accettò anche questo doloroso rifiuto.
Ma la notte stessa del 15 agosto gli apparve la B. Vergine e gli disse: «Figlio mio, abbi ancora pazienza, presto finiranno i tuoi travagli, uscirai da questa prigione, dirai la. S. Messa e sarai consolato ».
Dopo qualche giorno, di nuovo gli apparve la Madonna con Gesù, e questa volta gli ingiunse di fuggire. Per dove? S. Giovanni si sentì spinto ad accostarsi a una finestra, nei brevi momenti di sosta fuori prigione; si affacciò, era molto alta la finestra, e dava sul fiume Tago. A sera egli allentò le viti della porta della prigione, e in piena notte, dopo aver tagliato le coperte a grandi liste per fare una corda, si accostò silenzioso alla finestra e cominciò la discesa attaccato a quella specie di corda. Ma a metà discesa la corda finì. Egli si affidò alla Madonna, e si lasciò andare giù.
Cadde incolume. Scavalcò miracolosamente un muro di cinta, e si trovò su una piazzetta. Si riposò un po’ in un cortile, e poi si recò al monastero delle Carmelitane scalze. Qui successe un delirio di gioia, appena le monache si resero conto che si trattava del P. Giovanni della Croce; e siccome c’era una monaca in agonia, bisognosa dei Sacramenti, S. Giovanni entrò subito nel Monastero per assistere quella monaca, e si trovò anche al sicuro dalla caccia furiosa che subito gli fecero i carmelitani calzati.
Raggiunse presto, poi, una dimora sicura nel convento di Almodovar, e di là continuò a partecipare alle dolorose vicende di lotta fra calzati e scalzi, mentre  lavorava intensamente alla formazione spirituale dei nuovi candidati alla vita carmelitana, quasi tutti da lui  preparati e curati con somma maestria.
Intanto, arrivò la tanto sospirata alba di pace, il 22 giugno 1580. Il Papa Gregorio XIII, dopo aver esaminato attentamente la grave questione, decise la separazione netta fra scalzi e calzati, per donare a tutti la possibilità di vivere secondo la Regola primitiva o la Regola mitigata.
Grande fu il giubilo dei carmelitani scalzi, che si strinsero attorno alla loro Regina per far rifiorire il suo Ordine, nella fedeltà pura ed eroica alla Regola primitiva.
Più grande di tutti, però, dovette essere il giubilo di S. Giovanni della Croce, che vedeva finalmente realizzate in pieno le parole profetiche della Celeste Regina: « Tu mi servirai in una religione, in cui ristabilirai la primitiva osservanza ».

Mia è la Madre di Dio

Il nostro Santo non ha scritto molto sulla Madonna, ma quel che ha scritto è più che sufficiente per gettare tanta luce nelle anime sul mistero dolcissimo di Maria.
È lui che afferma della Madonna la perfezione altissima nello stato di unione trasformante fin dal suo immacolato concepimento: « Essendo fin dal principio della sua vita innalzata a questo sublime stato, non ebbe mai impressa nell’anima forma d’alcuna creatura, nè fu mossa da essa; ma fu sempre mossa dallo Spirito Santo ».
Il consenso dato dalla Madonna all’Incarnazione  del Verbo nel suo seno verginale, S. Giovanni della Croce lo tratta più volte in termini di alta poesia e pensiero. L’adorazione, lo stupore, l’arcano amore della B. Vergine di fronte al mistero del Verbo che si incarna in lei, suscita sentimenti di incanto verso la Divina Maternità di Maria.
Ci parla anche del culto dovuto alle immagini della Madonna, del contenuto dei titoli di Maria, delle locuzioni e apparizioni della Madonna, dei santuari mariani, dei pellegrinaggi, delle feste, e soprattutto della vera devozione che fa amare e imitare in Maria il modello sublime dell’anima perfetta.
Come ogni vero amante, S. Giovanni della Croce fa puntare l’anima alla vita d’unione, al possesso d’amore della Madonna.
La devozione e il culto che non conducano a questa meta, sono sterili. Il vero amore alla Madonna deve portare al grido di gioia: Mia è la Madre di Dio!
Questo grido di gioia noi troviamo nell’orazione dell’anima innamorata, in cui S. Giovanni esclama con esultanza incontenibile: « Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli Angeli sono miei e la Madre di Dio è mia… ».

La Madonna lo salva ancora

Ancora due volte la Madonna interviene a salvare da sicura morte S. Giovanni della Croce.
Una volta egli si trova a Cordova per portare a termine una nuova fondazione. Alcuni operai stanno ab)attendo un vecchio muro. Ma il muro crolla all’improvviso e precipita nella cella in cui si trova S. Giovanni della Croce. Tutti accorrono temendolo schiacciato dal crollo. E invece, egli appare sereno e illeso fra le macerie. Spiega la cosa dicendo che la Madonna nel momento del crollo lo ha coperto con il suo manto salvandolo da sicura morte.
Qualche tempo dopo, in viaggio per un’altra fondazione, di fronte a un fiume in piena, egli fa fermare’ i compagni, e si inoltra solo, inspiegabilmente, sull’asinello. A metà guado, però, viene travolto dalla corrente del fiume con l’asinello. I compagni gridano atterriti. Ma poco dopo vedono S. Giovanni della Croce aldilà del fiume; la sua Divina Protettrice e Madre l’ha trasportato incolume sull’altra riva.
Ma perché tanta fretta di attraversare il fiume? Pareva fretta inspiegabile. E invece, aldilà del fiume, S. Giovanni della Croce si imbatte in un infelice pugnalato e ridotto già in fin di vita. Il Santo comprende  allora la fretta che l’ha spinto ad attraversare il fiume e la protezione della Madonna nel salvarlo dalle acque perché assistesse questo moribondo. Si accosta al povero infelice,  ne ascolta la confessione e lo assiste nel passaggio al mondo di là.
S. Giovanni della Croce intanto è il primo definitore della Provincia. Lavora instancabilmente alla fondazione di nuovi conventi, tanto che alla sua morte la Riforma ha già 78 conventi. Egli fa il maestro delle nuove leve da formare e rivestire dell’abito della Madonna. È modello di virtù. Ha il dono dei miracoli. È confessore e direttore di più monasteri delle Carmelitane scalze. Completa i suoi mirabili scritti di teologia mistica. Quale portento, questo santo mite e ardente!
Ma ormai si avvicina anche per lui la meta del Regno de Cieli, lo avverte, e per prepararsi meglio egli vuole chiedere al Signore tre grazie: 1. morire da semplice e umile suddito; 2. soffrire per amor suo; 3. morire in un convento dove non fosse conosciuto.
Il Signore lo esaudì molto presto.












Ancora una tempesta



Frutto delle debolezze umane, anche fra i Carmelitani scalzi si scatenò una brutta tempesta di lotte che venne a colpire pure S. Giovanni della Croce a causa di gravi calunnie, architettate soprattutto da qualche frate risentito nei suoi confronti.
Nel Capitolo Generale del 1591, infatti, il Santo venne messo in un cantuccio senza più cariche, proprio come egli aveva chiesto al Signore per prepararsi a morire. Ottenne per sé il convento del deserto della Penuela.
E qui egli si beava delle lunghe ore di solitudine fra le balze pietrose, i dirupi, nelle grotte. Se c’era chi sbalordiva a quel suo amore alla solitudine, egli diceva: « Non vi stupite, perché quando tratto con i sassi trovo meno di che confessarmi, che conversando con gli uomini ».
Pochi mesi dopo S. Giovanni della Croce fu assalito da violenta febbre per una grave infiammazione nella gamba sinistra.
I frati cercarono con ogni premura di farlo curare. Ma il Priore disse al P. Provinciale che in quel convento il Santo non avrebbe potuto ricevere mai tutte le cure necessarie per la guarigione.
Il P. Provinciale comunicò subito di fare scegliere a S. Giovanni della Croce uno dei due Conventi, quello di Ubeda o quello di Baeza, dove andarsi a curare. S. Giovanni della Croce scelse il convento di Ubeda. Perché? Solo perché questo convento era povero e piccolo, e perché vi era come superiore il P. Francesco Crisostomo, uno di quei frati che nutriva risentimenti personali contro S. Giovanni della Croce: nelle mani di questo superiore egli si metteva per arricchirsi di dolori e di meriti in preparazione alla morte.
Il puro cavaliere di Maria non teme gli eroismi. Al contrario, li cerca, li sceglie, li fa suoi con coraggio. Così fece S. Giovanni della Croce scegliendo questo convento per gli ultimi due mesi di vita.
Arrivò a Ubeda più morto che vivo per gli strapazzi del viaggio. Ma il Priore lo accolse con il volto gelido e seccato, che contrastava tanto con il volto sofferente ma sorridente di S. Giovanni della Croce.
Messo su un giaciglio, in una celletta, cominciarono davvero per S. Giovanni della Croce i due mesi di preparazione alla morte fra dolori lancinanti e strazianti. Il dottore, sperando di guarirlo, interveniva con cauteri e tagli che straziarono la gamba al collo del piede fino a scoprire le ossa. I frati della comunità gli volevano bene e cercavano di alleviargli un po’ di pene.
Ma il Priore non faceva che rimproverare i frati per le premure verso l’infermo; arrivò a imprecare contro le sofferenze del santo, proibì persino di fargli lavare le bende per le fasciature, e infine gli tolse anche il frate infermiere.
Povero S. Giovanni della Croce! Solo e derelitto nelle sua pace e crocifissione!
Ma qualche frate scrisse al P. Provinciale sull’ignobile trattamento riservato al santo dal Priore. Il Provinciale, P. Antonio di Gesù, primo compagno i S. Giovanni della Croce, accorse subito al letto dell’infermo; riprese severamente il Priore tanto crudele quanto incosciente nel non rendersi conto del tesoro che aveva in casa; diede ordini precisi di garantire la massima assistenza all’augusto infermo, e assistette lui personalmente il santo finché poté restare lì.
Ma ormai il santo era in prossimità della meta.

Un sabato per il Cielo

Il 7 dicembre, vigilia della festa dell’Immacolata, i medici e i superiori decisero di far portare il Viatico al Santo. Era di sabato. Il Santo aveva detto che sarebbe morto di sabato, ma non era quello il sabato dell’entrata in Paradiso.
Il viatico egli lo ricevette in onore dell’Immacolata concezione. Fu un pensiero filiale tanto nobile e dolce!
Perché morire di sabato? Per una grazia di predilezione della Madonna. « Penso – diceva il Santo – alla grandezza del beneficio che fa Maria Vergine ai religiosi del suo Ordine, che portano degnamente il suo scapolare ». E quando si arrivò al venerdì successiva, 13 dicembre, dal tramonto in poi il Santo chiedeva ogni tanto: « Che ora è? perché io andrò a cantare il Mattutino in Cielo ».
Qualche ora dopo udì la campanella di un monastero vicino. Chiese perché suonava. Gli risposero che chiamava quella comunità alla recita anticipata del Mattutino. E il Santo esclamò: « Oh. io pure andrò a cantarlo in cielo con la Vergine! ». Sembrava che non avesse altro pensiero che questo: trovarsi fra poco in Paradiso con la Madonna. E poco dopo con voce piena di gratitudine aggiunse: « Grazie, grazie, o Regina e Signora mia, per il favore che mi fate di chiamarmi a voi nel giorno vostro! ».
Deve essere davvero una grande grazia morire di sabato o in altro giorno dedicato alla Madonna. S. Giovanni della Croce, il sommo mistico, ce lo assicura con la sua morte e con la speciale gratitudine che esprime alla Madonna per questa predilezione, Del resto, è naturale che la Madonna venga a prendersi questo figliolo da lei custodito premurosamente e salvato più volte da sicura morte; ed è anche giusto che chi ha glorificato la Madonna rinnovando il Carmelo, che è l’Ordine mariano per eccellenza, sia accolto in cielo in un giorno mariano a cantare lassù le glorie di Maria.
FONTE: I Santi e la Madonna, ©Ed. CasaMariana, vol. 6
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