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lunedì 19 maggio 2014

“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio morire. Voi giungerete alla Fede. ..."

S. Perpetua e S. Felìcita / Vangeli della Fede /



Perpetua e Felìcita

1° marzo 1944.

Mi dice Gesù, verso le 17:
«Non era mia intenzione darti questa visione questa sera. Avevo intenzione di
farti vivere un altro episodio dei “vangeli della fede”. Ma è stato espresso un
desiderio da chi merita d’esser accontentato. E Io accontento. Nonostante i tuoi
dolori, vedi, osserva e descrivi. I tuoi dolori li dài a Me e la descrizione ai
fratelli.»

E nonostante i miei dolori, tanto forti - per cui mi pare di avere il capo
stretto in una morsa che parte dalla nuca e si congiunge sulla fronte e scende
verso la spina dorsale, un male terribile per cui ho pensato mi stesse per
scoppiare una meningite e poi mi sono svenuta - scrivo. È tanto forte anche ora.
Ma Gesù permette che riesca a scrivere per ubbidire. Dopo... dopo sarà quel che
sarà.

Le assicuro, intanto, che passo di sorpresa in sorpresa; perché per prima cosa
mi trovo di fronte a degli africani, arabi per lo meno, mentre ho sempre creduto
che questi santi fossero europei. Ché non avevo la minima nozione della loro
condizione sociale e fisica e del loro martirio. Di Agnese  sapevo vita e
morte. Ma di questi! È come se leggessi un racconto sconosciuto.

Per prima illustrazione, avanti di svenirmi, ho visto un anfiteatro su per giù
come il Colosseo (ma non rovinato), vuoto per allora di popolo. Solo una
bellissima e giovane mora è ritta là in mezzo e sollevata dal suolo, raggiante
per una luce beatifica che si sprigiona dal suo corpo bruno e dalla scura veste
che lo copre. Sembra l’angelo del luogo. Mi guarda e sorride. Poi mi svengo e
non vedo più nulla.

Ora la visione si completa. Sono in un fabbricato che, per la mancanza di ogni e
qualsiasi comodità e per la sua arcigna apparenza, mi si rivela come una
fortezza adibita a carcere. Non è il sotterraneo del Tullianum visto ieri . Qui
sono stanzette e corridoi sopraelevati. Ma così scarsi di spazio e di luce e
così muniti di sbarre e di porte ferrate e piene di chiavistelli, che quel “che”
di migliore che hanno in posizione viene annullato dal loro rigore che annulla
la benché più piccola idea di libertà.

In una di queste tane è seduta su un tavolaccio, che fa da letto, sedile e
tavola, la giovane mora che ho visto nell’anfiteatro. Ora non emana luce. Ma
unicamente tanta pace. Ha in grembo un piccino di pochi mesi al quale dà il
latte. Lo ninna, lo vezzeggia con atto di amore. Il bambino scherza con la
giovane madre e strofina la sua faccetta molto olivastra contro la bruna
mammella materna, e vi si attacca e stacca con avidità e con subite risatine
piene di latte.

La giovane è molto bella. Un viso regolare piuttosto tondo, con bellissimi occhi
grandi e di un nero vellutato, bocca tumida e piccina piena di denti
candidissimi e regolari, capelli neri e piuttosto crespi ma tenuti a posto da
strette trecce che le si avvolgono intorno al capo. Ha il colorito di un bruno
olivastro non eccessivo.

Anche fra noi italiani, e specie del meridione d’Italia, si vede quel
colore, appena un poco più chiaro di questo. Quando si alza per addormentare il
piccino andando su e giù per la cella, vedo che è alta e formosa con grazia. Non
eccessivamente formosa, ma già ben modellata nelle sue forme. Sembra una regina
per il portamento dignitoso. È vestita di una veste semplice e scura, quasi
quanto la sua pelle, che le ricade in pieghe morbide lungo il bel corpo.

Entra un vecchio, moro lui pure. Il carceriere lo fa entrare aprendo la pesante
porta. E poi si ritira. La giovane si volge e sorride. Il vecchio la guarda e
piange. Per qualche minuto restano così.
Poi la pena del vecchio prorompe. Con affanno supplica la figlia di aver pietà
del suo soffrire: “Non è per questo” le dice “che ti ho generato. Fra tutti i
figli ti ho amata, gioia e luce della mia casa. Ed ora tu ti vuoi perdere e
perdere il povero padre tuo che sente morirsi il cuore per il dolore che gli
dài. Figlia, sono mesi che ti prego. Hai voluto resistere ed hai conosciuto il
carcere, tu nata fra gli agi. Curvando la mia schiena davanti ai potenti t’avevo
ottenuto di esser ancora nella tua casa per quanto come prigioniera. Avevo
promesso al giudice che ti avrei piegata con la mia autorità paterna. Ora egli
mi schernisce perché vede che di essa tu non ti sei curata. Non è questo quel
che dovrebbe insegnarti la dottrina che dici perfetta. Quale Dio è dunque quello
che segui, che ti inculca di non rispettare chi ti ha generato, di non amarlo,
perché se mi amassi non mi daresti tanto dolore? La tua ostinazione, che neppure
la pietà per quell’innocente ha vinto, ti ha valso di esser strappata alla casa
e chiusa in questa prigione. Ma ora non più di prigione si parla, ma di morte. E
atroce. Perché? Per chi? Per chi vuoi morire? Ha bisogno del tuo, del nostro
sacrificio - il mio e quello della tua creatura che non avrà più madre - il tuo
Dio? Il suo trionfo ha bisogno del tuo sangue e del mio pianto per compiersi? Ma
come? La belva ama i suoi nati e tanto più li ama quanto più li ha tenuti al
seno. Anche in questo speravo e per questo ti avevo ottenuto di poter nutrire il
tuo bambino. Ma tu non muti. E dopo averlo nutrito, scaldato, fatto di te
guanciale al suo sonno, ora lo respingi, lo abbandoni senza rimpianto. Non ti
prego per me. Ma in nome di lui. Non hai il diritto di farne un orfano. Non ha
diritto il tuo Dio di fare questo. Come posso crederlo buono più dei nostri se
vuole questi sacrifici crudeli? Tu me lo fai disamare, maledire sempre più. Ma
no, ma no! Che dico? Oh! Perpetua, perdona! Perdona al tuo vecchio padre che il
dolore dissenna. Vuoi che lo ami il tuo Dio? Lo amerò più di me stesso, ma resta
fra noi. Di’ al giudice che ti pieghi. Poi amerai chi vuoi degli dèi della
terra. Poi farai del padre tuo ciò che vuoi. Non ti chiamo più figlia, non son
più tuo padre. Ma il tuo servo, il tuo schiavo, e tu la mia signora. Domina,
ordina ed io ti ubbidirò. Ma pietà, pietà. Salvati mentre ancora lo puoi. Non è
più tempo di attendere. La tua compagna ha dato alla luce la sua creatura, lo
sai, e nulla più arresta la sentenza. Ti verrà strappato il figlio; non lo
vedrai più. Forse domani, forse oggi stesso. Pietà, figlia! Pietà di me e di lui
che non sa parlare ancora, ma lo vedi come ti guarda e sorride! Come invoca il
tuo amore! Oh! Signora, mia signora, luce e regina del cuor mio, luce e gioia
del tuo nato, pietà, pietà!”
Il vecchio è ginocchioni e bacia l’orlo della veste della figlia e le abbraccia
i ginocchi e cerca prenderle la mano che ella si posa sul cuore per reprimerne
lo strazio umano. Ma nulla la piega.

“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella
risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo
innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio morire. Voi giungerete alla
Fede. E che direste allora di me se avessi per viltà di un momento rinunciato
alla Fede? Il mio Dio non ha bisogno del mio sangue e del tuo pianto per
trionfare. Ma tu ne hai bisogno per giungere alla Vita. E questo innocente per
rimanervi. Per la vita che mi desti e per la gioia che egli mi ha dato, io vi
ottengo la Vita che è vera, eterna, beata. No, il mio Dio non insegna il
disamore per i padri e per i figli. Ma il vero amore. Ora il dolore ti fa
delirare, padre. Ma poi la luce si farà in te e mi benedirai. Io te la porterò
dal cielo. E questo innocente non è che io l’ami meno, ora che mi sono fatta
svuotare dal sangue per nutrirlo. Se la ferocia pagana non fosse contro noi
cristiani, gli sarei stata madre amantissima ed egli sarebbe stato lo scopo
della mia vita. Ma più della carne nata da me è grande Iddio, e l’amore che gli
va dato infinitamente più grande. Non posso neppure in nome della maternità
posporre il suo amore a quello di una creatura. No. Non sei lo schiavo della
figlia tua. Io ti son sempre figlia e in tutto ubbidiente fuorché in questo: di
rinunciare al vero Dio per te. Lascia che il volere degli uomini si compia. E se
mi ami, seguimi nella Fede. Là troverai la figlia tua, e per sempre, perché la
vera Fede dà il Paradiso, ed a me il mio Pastore santo ha già dato il benvenuto
nel suo Regno”.

E qui la visione ha un mutamento, perché vedo entrare nella cella altri
personaggi: tre uomini ed una giovanissima donna. Si baciano e si abbracciano a
vicenda. Entrano anche i carcerieri per levare il figlio a Perpetua. Ella
vacilla come colpita da un colpo. Ma si riprende.

La compagna la conforta: “Io pure, ho già perduto la mia creatura. Ma essa non è
perduta. Dio fu meco buono. Mi ha concesso di generarla per Lui e il suo
battesimo si ingemma del mio sangue. Era una bambina... e bella come un fiore.
Anche il tuo è bello, Perpetua. Ma per farli vivere in Cristo questi fiori hanno
bisogno del nostro sangue. Duplice vita daremo loro così”.
Perpetua prende il piccino, che aveva posato sul giaciglio  e che dorme sazio e
contento, e lo dà al padre dopo averlo baciato lievemente per non destarlo. Lo
benedice anche e gli traccia una croce sulla fronte ed una sulle manine, sui
piedini, sul petto, intridendo le dita nel pianto che le cola dagli occhi. Fa
tutto così dolcemente che il bambino sorride nel sonno come sotto una carezza.

Poi i condannati escono e vengono, in mezzo a soldati, portati in una oscura
cavea dell’anfiteatro in attesa del martirio. Passano le ore pregando e cantando
inni sacri, esortandosi a vicenda all’eroismo.

Ora mi pare di essere io pure nell’anfiteatro che ho già visto. È pieno di folla
per la maggior parte di pelle abbronzata. Però vi sono anche molti romani. La
folla rumoreggia sulle gradinate e si agita. La luce è intensa nonostante il
velario steso dalla parte del sole.

Vengono fatti entrare nell’arena, dove mi pare siano stati già eseguiti dei
giuochi crudeli perché è macchiata di sangue, i sei martiri in fila. La folla
fischia e impreca. Essi, Perpetua in testa, entrano cantando.

Si fermano in mezzo all’arena e uno dei sei si volge alla folla.
“Fareste meglio a mostrare il vostro coraggio seguendoci nella Fede e non
insultando degli inermi che vi ripagano del vostro odio pregando per voi e
amandovi. Le verghe con cui ci avete fustigato, il carcere, le torture, l’aver
strappato a due madri i figli - voi bugiardi che dite d’esser civili e attendete
che una donna partorisca per poi ucciderla e nel corpo e nel cuore separandola
dalla sua creatura, voi crudeli che mentite per uccidere perché sapete che
nessuno di noi vi nuoce, e men che mai delle madri che altro pensiero non hanno
che la loro creatura - non ci mutano il cuore. Né per quanto è amore di Dio né
per quanto è amore di prossimo. E tre, e sette, e cento volte daremmo la vita
per il nostro Dio e per voi. Perché voi giungiate ad amarlo, e per voi preghiamo
mentre già il Cielo su noi si apre: Padre nostro che sei nei cieli...”. In
ginocchio i sei santi martiri pregano.

Si apre un basso portone e irrompono le fiere che, per quanto sembrano bolidi
tanto sono veloci nella corsa, mi paiono tori o bufali selvaggi. Come una
catapulta ornata di corna puntute, investono il gruppo inerme. Lo alzano sulle
corna, lo sbattono per aria come fossero tanti cenci, lo riabbattono al suolo,
lo calpestano. Tornano a fuggire come pazzi di luce e di rumore e tornano a
investire.
Perpetua, presa come un fuscello dalle corna di un toro, viene scaraventata
molti metri più là. Ma per quanto ferita, si rialza e sua prima cura è di
ricomporsi le vesti strappate sul seno. Tenendosele con la destra, si trascina
verso Felicita caduta supina e mezza sventrata, e la copre e sorregge facendo di
sé appoggio alla ferita. Le bestie tornano a ferire finché i sei malvivi
sono stesi al suolo. Allora i bestiari le fanno rientrare e i gladiatori
compiono l’opera.
Ma, fosse pietà o inesperienza, quello di Perpetua non sa uccidere. La ferisce,
ma non prende il punto giusto. “Fratello, qua, che io ti aiuti” dice ella con un
filo di voce e un dolcissimo sorriso. E, appoggiata la punta della spada contro
la carotide destra, dice: “Gesù, a Te mi raccomando! Spingi, fratello. Io ti
benedico” e sposta il capo verso la spada per aiutare l’inesperto e turbato
gladiatore.

Dice Gesù:
«Questo è il martirio della mia martire Perpetua, della sua compagna Felicita e
dei suoi compagni. Rea di esser cristiana. Catecumena ancora. Ma come intrepida
nel suo amore per Me! Al martirio della carne ella ha unito quello del cuore, e
con lei Felicita. Se sapevano amare i loro carnefici, come avranno saputo amare
i figli loro?
Erano giovani e felici nell’amore dello sposo e dei genitori. Nell’amore della
loro creatura. Ma Dio va amato sopra ogni cosa. Ed esse lo amano così. Si
strappano le loro viscere separandosi dal loro piccino, ma la Fede non muore.
Esse credono nell’altra vita. Fermamente. Sanno che essa è di chi fu fedele e
visse secondo la Legge di Dio.
Legge nella legge è l’amore. Per il Signore Iddio, per il prossimo loro. Quale
amore più grande di dare la vita per coloro che si ama, così come l’ha data il
Salvatore per l’umanità che Egli amava? Esse dànno la vita per amarmi e per
portare altri ad amarmi e possedere perciò l’eterna Vita.
Esse vogliono che i
figli e i genitori, gli sposi, i fratelli e tutti coloro che esse amano di amore
di sangue o di amore di spirito - i carnefici fra questi poiché Io ho detto:
“Amate coloro che vi perseguitano” : Matteo 5, 43-44; Luca 6, 27. - abbiano
la Vita del mio Regno. E, per guidarli a questo mio Regno, tracciano
col loro sangue un segno che va dalla Terra al Cielo, che splende, che chiama.
Soffrire? Morire? Cosa è? È l’attimo che fugge. Mentre la vita eterna resta.
Nulla è quell’attimo di dolore rispetto al futuro di gioia che le attende. Le
fiere? Le spade? Che sono? Benedette siano esse che dànno la Vita.
Unica preoccupazione - poiché chi è santo lo è in tutto - di conservare la
pudicizia. In quel momento, non della ferita ma delle vesti scomposte hanno
cura. Poiché, se vergini non sono, sono sempre delle pudiche. Il vero
cristianesimo dà sempre verginità di spirito. La mantiene, questa bella purezza,
anche là dove il matrimonio e la prole han levato quel sigillo che fa dei
vergini degli angeli.
Il corpo umano lavato dal Battesimo è tempio dello Spirito di Dio. Non va dunque
violato con invereconde mode e inverecondi costumi. Dalla donna, specie dalla
donna che non rispetta se stessa, non può che venire una prole viziosa e una
società corrotta, dalla quale Dio si ritira e nella quale Satana ara e semina i
suoi triboli che vi fanno disperare.»

Da “Vangeli della Fede”
AMDG et BVM

sabato 20 luglio 2013

PASSIONE DELLE SANTE PERPETUA E FELICITA




PASSIONE DELLE SANTE PERPETUA E FELICITA
(Tertulliano ?)

    1. Come le gesta degli antichi campioni della fede furono scritte quali documenti della grazia divina a edificazione dell’uomo, affinché leggendole e rappresentandoci alla mente i fatti, ne onoriamo Dio e ne caviamo conforto per noi stessi: così è opportuno tramandare anche i nuovi esempi, che non meno degli antichi possono giovare all’uno e all’altro scopo. Infatti anche questi un giorno saranno antichi e torneranno necessari ai posteri, sebbene nel loro tempo presente godano minore autorità mancando di quel prestigio che l’antichità attribuisce ai primi. Del resto, se la vedano essi, coloro che l’una e medesima potenza dell’unico Spirito Santo giudicano secondo l’antichità del tempo: ma, se la manifestazione della grazia ha avuto la sua pienezza per disposizione divina in quest’ultima epoca, si dovrebbe pur ritenere che gli esempi recenti e ultimi rivestano un significato anche maggiore. Dice il Signore: “Negli estremi giorni spanderò la virtù del mio Spirito su ogni carne vivente, e i loro figli e figlie proferiranno vaticini; sopra gli schiavi e le schiave mie spanderò il mio Spirito: i giovani contempleranno visioni, i vecchi avranno rivelazioni nel sogno” (Gioele 3, 1-5 e Atti 2). Pertanto anche noi, che riconosciamo e onoriamo le profezie e le visioni nuove e rivolgiamo ogni altra operazione dello Spirito Santo ad ammaestramento della Chiesa, alla quale fu mandato per distribuire tutti i suoi doni spirituali a ciascuno secondo la disposizione di Dio, reputiamo necessario raccontarle e leggerle in comune a gloria di Dio. Così non accadrà mai che alcuno per ignoranza o poca fede abbia a credere che la grazia di Dio si sia manifestata solo agli antichi, sia confortando al martirio, sia nel dono di rivelazione; poiché Dio opera senza interruzione secondo le sue promesse, a documento di chi non crede e a beneficio di chi crede.
    Vi presentiamo dunque, o fratelli e figlioli, anche noi “ciò che abbiamo udito e veduto e toccato con mano” (1 Giovanni 1, 1. 3.); affinché voi che siete stati presenti ai fatti, ricordandoli ne diate gloria al Signore; quelli poi che ora soltanto vengono a conoscerli per via di udito, vivano in spirituale unione coi santi martiri, e per mezzo loro, col nostro Signore Gesù Cristo, a cui è dovuta la gloria e l’onore per i secoli dei secoli. Amen.

    2. Furono arrestati i giovinetti catecumeni Revocato e Felicita sua compagna di schiavitù, Saturnino e Secondino. Era fra loro poi anche Vibia Perpetua di condizione patrizia, allevata accuratamente, sposata secondo il costume delle matrone. Vivevano ancora suo padre e sua madre, e aveva due fratelli, di cui l’uno era pure catecumeno. Essa aveva un bambino alle poppe (infantem ad ùbera) e toccava presso a poco l’età dei ventidue anni. Lo svolgimento del suo martirio fu narrato tutto da lei stessa, così come lo lasciò scritto di sua mano e di mente sua.

    3. Essa dunque così narra: “Mentre ancora mi trovavo in custodia libera, e mio padre voleva ad ogni modo piegarmi colle ragioni, e mosso dal suo affetto persisteva nel suo tentativo di farmi apostatare, gli dico:
    ‘Padre, vedi tu, per esempio questo vaso qui, o quell’orcio, o altro qualunque?’
    ‘Lo vedo’, risponde.
    Ed io a lui: ‘Può esso forse chiamarsi con altro nome che il suo?’.
    ‘No’, dice.
    ‘Così pure io non posso chiamarmi in altro modo se non ciò che sono, cioè cristiana’.
    Questa mia risposta lo mosse ad ira; mi si rivolse contro e pareva mi volesse cavare gli occhi; si limitò tuttavia a dirmi molte male parole, indi se ne andò confuso coi suoi argomenti ispirati dal diavolo. Per alcuni giorni in séguito non lo vidi più e ne ringraziavo il Signore, perché lo starne lontana mi era di sollievo. Frattanto, proprio in quell’intervallo di pochi giorni ricevemmo il battesimo; allora lo Spirito mi suggerì che non dovessi attendermi altra grazia dell’acqua battesimale se non la forza di resistere ai tormenti corporali, pochi giorni dopo fummo chiusi in prigione. Ne fui spaventata; non avevo mai provato l’orrore di simile oscurità. Fu un giorno doloroso! V’era un calore insopportabile, prodotto dal gran numero di persone quivi ammucchiate; vi si aggiungevano le villanie della soldataglia, e per estrema miseria ero straziata dal pensiero del mio bambino che avevo lasciato a casa. Allora i diaconi Terzo e Pomponio, che, benedetti, si curavano della nostra sorte, distribuendo mance ottennero che per alcune ore fossimo fatti uscire a ristorarci nella parte più comoda del carcere. Usciti dunque dalla prigione, eravamo tutti a nostro agio; potevo così allattare il mio bambino che veniva meno per inedia. Mentre mi curavo di lui, conversavo con mia madre e rivolgevo parole di conforto a mio fratello; a tutti e due poi raccomandavo mio figlio. Soffrivo perché li vedevo costernati per causa mia; così stetti in afflizione per molti giorni. Ottenni che il bimbo restasse con me nella prigione; presto lo vidi rimettersi in forze, onde fui sollevata dalla dolorosa apprensione per la vita di lui. D’allora il carcere mi divenne comodo come un palazzo, né più desiderai d’essere in alcun luogo fuori di là.

    4. Mi disse allora mio fratello:
    ‘Signora sorella mia, ormai hai acquistato tanto merito da poter chiedere a Dio di mostrarti in visione se avverrà il martirio o se saremo dimessi’.
    Io sapevo di avere rivelazioni da Dio per i molti favori che ne avevo ricevuti, onde piena di fede glielo promisi dicendogli:
    ‘Domani te lo farò sapere’.
    Lo domandai infatti e mi fu mostrata questa visione. Vidi una scala eretta nell’aria; era straordinariamente grande e coll’un dei capi arrivava fino al cielo; ma era stretta, sì che non vi si poteva salire che uno alla volta. Sui fianchi della scala erano confitti arnesi di ferro d’ogni sorta: v’erano pugnali, lance, uncini, sciabole, spiedi, sicché se uno vi saliva distrattamente e senza volgere gli occhi verso l’alto, veniva straziato e lasciava brandelli di carne attaccati a quei ferri. Ai piedi della scala stava straiato un drago di mostruosa dimensione; questo attendeva al varco quanti passavano per salire la scala, e così li atterriva per impedire loro la salita. Per primo vi ascese Sàturo, che ci aveva fatti cristiani e poi per nostro amore s’era offerto spontaneamente alle guadie, non essendo egli presente prima, quando fummo arrestati. Egli giunse fino alla sommità della scala, poi si rivolse e ci disse:
    ‘Perpetua, vieni; io ti aiuterò, ma guardati dai morsi di questo drago’.
    Dissi: ‘Nel nome di Gesù Cristo, non mi farà alcun male’.
    E subito quello, quasi avesse paura di me, abbassò lentamente la testa ai piedi della scala stessa: onde io vi posi sopra il piede premendogli la testa quasi fosse il primo gradino. Presi a salire; giunta sopra, vidi un estesissimo giardino. In mezzo sedeva un uomo dai capelli bianchi, vestito da pastore, grande, in atto di mungere le pecore. Intorno a lui molte migliaia di persone vestite di bianco. Alzò egli il capo, mi guardò e disse:
    ‘Sii la benvenuta, o figlia’.
    Poi mi chiamò; e mi porse tanto come un boccone di panna rappresa di quel latte che stava mungendo; lo ricevetti con le mani giunte e lo mangiai. Tutti i circostanti dissero:
    ‘Amen’.
    Al suono di quella parola mi risvegliai, e ancora mi pareva di inghiottire un non so che di dolce. Riferii il sogno a mio fratello; da quello comprendemmo che il martirio ci attendeva tra poco; onde ci disponemmo ad abbandonare ogni speranza di questo mondo.

    5. Pochi giorni dopo si sparse la voce che saremmo stati interrogati. Giunse frattanto dalla città mio padre; era quasi sfinito dalla costernazione. Venne su da me per tentare di farmi mutar proposito e prese a dirmi:
    ‘Abbi pietà della mia canizie, o figlia; abbi pietà di tuo padre, se pure sono degno d’essere chiamato da te con questo nome; se ti ho allevata con queste mani sino al fiore dell’età, se ti ho prediletta su tutti i tuoi fratelli! Guarda tua mamma e la tua zia materna; guarda il tuo figliolino, che non potrà sopravviverti. Lascia codesto tuo proposito che sarebbe la morte di noi tutti, che non potremo più parlare a fronte alta, se si oserà toccarti!’.
    Diceva queste cose mosso dal sentimento paterno e dal suo cuore; prostrato ai miei pedi mi baciava le mani, piangeva e non mi chiamava figlia, ma signora. Io soffrivo vedendolo in quello stato e pensando che egli solo di tutta la mia famiglia non fosse in grado di godere per il mio martirio. Lo consolavo dicendogli:
    ‘Quando sarò su quel palco accadrà quello che Dio vorrà; sappi che ormai non apparteniamo più a noi stessi, ma a Dio’.
    Se ne andò via da me tutto pieno di tristezza.

    6. In uno dei giorni successivi, durante il pasto, fummo condotti via d’improvviso per l’interrogatorio. Arrivammo alla piazza; s’era sparsa la voce di noi in tutte le adiacenze, e tosto accorse una folla innumerevole. Salimmo sul palco; gli altri furono interrogati e confessarono la fede. Venne la mia volta. Sopravvenne allora mio padre col mio bambino tra le braccia; mi trasse indietro supplichevole disse:
    ‘Abbi pietà di questo bambino’.
    Il procuratore Ilariano, che esercitava allora il potere esecutivo in sostituzione del proconsole Minucio Timiniano che era morto, mi disse:
    ‘Abbi riguardo dei capelli bianchi di tuo padre, e di questo tenero fanciullo! Offri un sacrificio per la salute degli Imperatori’.
    Risposi: ‘Non lo faccio’.
    Ilariano disse: ‘Sei tu cristiana?’.
    Risposi: ‘Sono cristiana’.
    Mio padre mi si faceva addosso per farmi rinnegare; Ilariano comandò di trascinarlo via e per di più lo fece cacciare a bastonate. Mi dolse il caso di mio padre, mi parve di sentire quei colpi sulle mie membra; mi piangeva il cuore per quella sua miseranda vecchiaia. Frattanto il procuratore pronunziò la nostra sentenza condannandoci alle fiere. Contenti ritornammo alla prigione. Il mio bambino soleva starmi alle poppe e restare con me in carcere; onde io tosto mandai il diacono Pomponio perché chiedesse il piccino a mio padre. Questi non volle consegnarglielo. E come piacque a Dio, il bambino cessò di domandare la mammella, e io fui libera dall’infiammazione che ciò cagionava, né più fui oppressa dalla cura del fanciullo e dal dolore delle mammelle.

    7. Dopo pochi giorni, mentre tutti siamo in orazione, m’uscì di bocca il nome di Dinòcrate; stupii, che non m’era mai sovvenuto di lui se non allora, e mi dolsi al ricordar i suoi casi. Sentii che Dio mi favoriva e che dovevo pregar per lui. Cominciai a farlo molto intensamente implorando con sospiri il Signore. Subito la notte seguente ebbi questa visione. M’apparve Dinòcrate che usciva da un luogo scuro dov’eran parecchi altri; era oppresso e arso di sete, col viso macilento e scolorito; aveva la faccia deturpata da una piaga, come era quando morì. Questo Dinòcrate era stato mio fratello carnale, vissuto fino ai sette anni; aveva contratto una malattia che lo condusse a mala morte per un tumore alla faccia, sì che la sua morte aveva destato grande ribrezzo in tutti. Avevo dunque pregato per lui, ed ora me lo vedevo innanzi, ma fra noi due vi era una grande distanza, sì che non potevamo avvicinarci l’uno all’altra. Quivi nel luogo ove stava Dinòcrate era una vasca piena d’acqua, con un parapetto più alto della statura del fanciullo; Dinòcrate vi si protendeva in atto di voler bere. Mi rammaricavo che quella vasca abbondasse così di acqua, mentre egli non avrebbe potuto berne per l’altezza della sponda. Mi svegliai e compresi che mio fratello pativa. Ma avevo fiducia di poter sollevare la sua sofferenza e pregai per lui ogni giorno, fino a che fummo trasferiti nella prigione militare, perché dovevamo scendere a combattere colle fiere durante lo spettacolo castrense per il natalizio di Geta Cesare. Feci orazione giorno e notte, con sospiri e lacrime, per ottenere che quel mio fratello mi fosse salvato.

    8. Il giorno che rimanemmo legati in prigione mi fu mostrata questa visione. Mi apparve lo stesso luogo veduto la prima volta, e quivi Dinòcrate tutto ben ripulito e sano, coperto di belle vesti, d’aspetto allegro. Al posto della piaga appariva la cicatrice. V’era la vasca che avevo già prima veduta, ma con la sponda abbassata tanto da arrivare a mezza statura del fanciullo, il quale vi poteva attingere a suo piacere. Sul parapetto era una fiala d’oro ricolma d’acqua. Dinòcrate si apprestò e prese a bere da quella, e mentre beveva non diminuiva l’acqua della fiala. Quando fu sazio dall’acqua si mise a trastullare, come sogliono fare i bambini, allegro. A questo punto mi risvegliai, e compresi che egli aveva finito di soffrire.
    9. Di lì a pochi giorni un soldato attendente di nome Pudente, che era preposto alla custodia delle carceri, cominciò a dimostrarci grande stima; s’era convinto che in noi fosse grande virtù. Così lasciava entrare molte persone a farci visita, ed era un gran sollievo reciproco per noi e per i nostri visitatori. Intanto si avvicinava il giorno dello spettacolo pubblico; allora venne mio padre. Era sfinito dal dolore; prese a strapparsi la barba, gettarsi ai miei piedi prostrato fino a terra; malediceva gli anni suoi e dava in tali lamenti da far pietà a ogni cosa creata. Io mi struggevo per quella vecchiaia sventurata.

    10. Il giorno prima del combattimento nostro ebbi questa visione. Mi parve che venisse da noi il diacono Pomponio e che fermatosi alla porta del carcere battesse fortemente. Uscii incontro a lui e gli aprii la porta. Era vestito di una bianchissima tunica fluente, e portava calzari variati di molti colori.
    Mi disse:
    ‘Perpetua, t’aspettiamo, vieni’.
    Indi mi prese per mano e ci avviammo per sentieri scoscesi e tortuosi. A fatica giungemmo finalmente trafelati dinanzi all’anfiteatro; mi condusse fino nel mezzo dell’arena dicendomi:
    ‘Non temere: sono qui io a soffrire in tua compagnia’.
    Indi uscì. Vidi un’immensa folla che mi guardava meravigliata. Sapendo io d’essere condannata quivi alle bestie, mi stupivo che quelle non venissero sguinzagliate contro di me. Allora mi uscì incontro un certo egiziano, brutto di aspetto, e si accinse a combattere con me assistito da compagni che gli facevano da scudieri. Intanto vidi venire alla mia volta alcuni leggiadri giovinetti e schierarsi in mio soccorso. Mi svestii dei miei abiti e fui trasformata in maschio. I miei aiutanti allora presero a farmi massaggi con olio, come suol farsi agli atleti prima della lotta; vedevo frattanto di contro a me quell’egiziano che si voltolava sull’arena. Nel punto stesso vidi farmisi incontro un uomo di grandezza smisurata, tale da oltrepassare la parte più elevata dell’anfiteatro; aveva una tunica fluente di porpora percorsa da due fascette davanti; e portava calzari variati fatti d’oro e d’argento. Egli reggeva in una mano una bacchetta come sogliono portarla i maestri gladiatori e nell’altra un ramo verdeggiante con mele color d’oro. Impose silenzio e disse:
    ‘Questo egiziano, se avrà vinto costei, la ucciderà con la spada; se invece essa vincerà, riceverà questo ramo’.
    Indi si ritirò. Ci appressammo l’un altro e cominciammo il pugilato. Quegli voleva afferrarmi i piedi; io gli sprangavo calci sulla faccia. Mi sentii allora sollevare in aria, e presi a percuoterlo come se i miei piedi non poggiassero sul terreno. In un istante che quegli esitò giunsi le mani incrociando le dita, gli serrai così alla testa e lo percossi sul viso, indi atterratolo gli posi un piede sul capo. La folla prese a gridare; i miei fautori cantavano. Mi appressai al maestro dei gladiatori e ricevetti da lui il ramo. Mi baciò e mi disse:
    ‘Figlia, la pace sia con te’.
    Allora m’avviai per uscire verso la porta Sanavivaria. In quel punto mi svegliai; compresi che dovevo combattere non con le bestie, ma col diavolo, ma mi tenevo sicura della vittoria.
    Queste sono le cose da me fatte fino alla vigilia dello spettacolo; quanto allo svolgimento di questo, lo descriverà chi vorrà”.

    11. Anche Saturo benedetto fece conoscere una sua visione da lui stesso narrata per iscritto.
    “Mi pareva dice che avessimo già sofferto il martirio e fossimo già usciti dalla carne mortale e che quattro angeli ci trasportassero verso l’oriente, senza che le loro mani ci toccassero. Procedevamo non coricati con la faccia all’insù, ma come se ascendessimo una facile erta. Usciti dal mondo inferiore, fummo avvolti da immensa luce. Io dissi a Perpetua, che mi stava al fianco:
    ‘Ecco quello che il Signore ci prometteva; siamo giunti ormai al promesso bene’.
    Mentre eravamo portati da quei quattro angeli, ci si offerse alla vista una grande spianata che aveva l’aspetto di un giardino, con cespugli di rose e fiori d’ogni genere. V’erano alberi che si ergevano all’altezza di un cipresso, e le foglie cadevano da quelli continuamente. In quel giardino apparvero altri quattro angeli più splendidi dei primi; quando ci videro, ci fecero riverenza e dissero agli altri angeli:
    ‘Ci sono, ci sono!’.
ed erano pieni di meraviglia. I quattro angeli che ci portavano, presi da timore, ci deposero; indi a piedi cominciammo a percorrere per la lunghezza d’uno stadio un’ampia strada, fino a che incontrammo Giocondo, Saturnino e Artassio, i quali in quella medesima persecuzione erano stati bruciati vivi. Con essi era anche Quinto martire, morto nel carcere. Domandavamo a loro dove fossero gli altri. Gli angeli ci dissero:
    ‘Entrate prima, andate a salutare il Signore’.

    12. Ci appressammo a un recinto le cui mura parevano fatte di luce; sull’entrata di esso stavano quattro angeli. Questi entrarono e indossarono candide vesti. Entrammo noi pure e udimmo voci in coro che cantavano:
    ‘Santo, Santo, Santo’,
    e non cessavano di ripeterlo. Vedemmo quivi la figura di un uomo tutto bianco, dalle chiome color di neve, dal volto d’adolescente. Non vedevamo i suoi piedi. A destra e a sinistra di lui stavano quattro anziani; dietro di essi ve n’erano molti altri. Ci avanzammo pieni di meraviglia e giungemmo ai piedi del trono. I quattro angeli ci sollevarono; baciammo in volto quel personaggio ed egli ci passò la sua mano sul viso.
    Gli altri anziani dissero:
    ‘Alziamoci’.
    Ci alzammo, ci demmo a vicenda il bacio di pace. Gli anziani ci dissero:
    ‘Andate a divertirvi’.
    Io dissi a Perpetua: ‘Il tuo desiderio è compiuto’.
    Mi rispose: ‘Siano rese grazie a Dio, perché lieta fui nella carne mortale, ed ora qui la mia letizia è accresciuta’.

    13. Uscimmo e dinanzi alla porta trovammo a destra il vescovo Ottato, a sinistra il presbitero Aspasio, maestro dei catecumeni; stavano l’uno in disparte dall’altro e tristi. Ci si gettarono ai piedi dicendo:
    ‘Fate la pace tra noi, ora che siete usciti dal mondo e ci avete così abbandonati!’.
    Dicemmo loro: ‘Non sei tu il nostro vescovo, e tu uno dei nostri presbiteri? Perché vi siete messi ai nostri piedi?’.
    Eravamo commossi e ci gettammo fra le loro braccia. Perpetua cominciò a parlare loro in lingua greca. Li conducemmo in disparte entro il giardino sotto un gran cespo di rose. Mentre con essi conversavamo, gli angeli dissero a quelli:
    ‘Lasciate che si divertano; se avete qualche contrasto tra voi due, perdonatevi a vicenda’.
    Quelle parole li rattristarono. Allora (gli angeli) dissero a Ottato:
    ‘Raddrizza il tuo popolo; perché si radunano con te come gente che ritorna dal circo e agitati da animosità partigiane’.
    Ci parve poi che volessero chiudere le porte. Frattanto cominciammo a riconoscere quivi molti fratelli e anche molti martiri. Tutti aspiravano profumi di ineffabile soavità e ne eravamo inebriati. In quel punto mi svegliai ancor tutto pieno di allegrezza.

    14. Queste sono le più insigni visioni degli stessi beatissimi martiri Sàturo e Perpetua, scritte da loro medesimi. Dio chiamò a sé poi Secondino con morte anticipata mentr’era ancora in carcere, non senza usargli un favore, poiché gli risparmiò le belve. Ma se il ferro non gli tolse la vita, certo gli straziò la carne.

    15. In quanto poi a Felicita le fu riserbata dal Signore questa grazia. Essendo essa all’ottavo mese (che, quando l’arrestarono era incinta), e avvicinatosi ormai il giorno dello spettacolo, era in grande passione per timore che ella a cagione del suo stato non fosse rimandata ad altra volta, non essendo permesso offrire all’arena a supplizio le incinte; così che le fosse poi toccato di versare il suo sangue innocente insieme con delinquenti. Anche i compagni di martirio si affliggevano assai, nel dubbio di dover lasciare una compagna così valente e quasi loro guida, indietro da sola nella via di raggiungere la loro medesima speranza. Pertanto sul fare del terzo giorno prima dello spettacolo, con le lacrime unanimi e concordi fecero orazione dinanzi al Signore. Tosto finita l’orazione, Felicita fu sorpresa dalle doglie; e poiché, stentando, dolorava nel parto, per la naturale difficoltà dell’ottavo mese, uno dei soldati sorveglianti del carcere le disse:
    ‘O tu che ora patisci tanto strazio, che farai quando verrai gettata in pasto a quelle belve che disprezzasti rifiutando di sacrificare?’
    E quella rispose: ‘Ora sono io che devo sopportare questi strazi; quivi invece vi sarà dentro di me un altro, il quale patirà per me, perché anch’io mi dispongo a patire per lui’.
    Così Felicita mise alla luce una bambina, la quale fu allevata come figlia da una sorella di fede.

    16. Poiché dunque lo Spirito Santo ha permesso, e permettendolo l’ha voluto, che si scrivesse lo svolgimento di quello spettacolo, sebbene indegni di scrivere il restante di sì grande gloria, tuttavia, come per eseguire un incarico, anzi un fidecommesso della santissima Perpetua, aggiungeremo un documento della sua costanza e altezza d’animo. L’ufficiale militare aveva preso a trattarli più severamente, per causa delle ciarle di certi uomini vanissimi, che avevan fatto temere non fossero i martiri sottratti dalla prigione per mezzo di qualche stregoneria; allora Perpetua arditamente gli disse:
    ‘E perché dunque non permetti un po’ di buon trattamento per noi, che, per essere destinati a lottare nel natalizio di Cesare, siamo vittime privilegiate? Non sarà forse tuo merito, se ci troveremo più in carne nel dì che verremo presentati all’arena?’.
    L’ufficiale si turbò ed arrossì, e frattanto ordinò che fossero meglio trattati, sì che ai loro fratelli di fede e agli altri fosse permesso d’entrare e di prendere cibo con essi; perché del resto lo stesso attendente del carcere s’era convertito alla fede.
    17. Anche la vigilia, mentre s’intrattenevano a quell’ultimo desinare che chiamano ‘cena libera’, lo celebravano piuttosto come un’agape (banchetto eucaristico) che come una cena, e con solita franchezza rivolgevano la parola al popolo, minacciando il giudizio di Dio, dicendosi felici d’andare al martirio; talora anche prendevano in burla la curiosità dei sopravvenienti; come Sàturo, il quale andava dicendo:
    ‘Eh, non vi basta il giorno di domani? Ci squadrate con tanta curiosità, mentre ci portate odio; vi mostrate amici oggi, voi, i nemici di domani? Ebbene, osservate con cura le nostre facce, sì che abbiate a ravvisarci in quel giorno’.
    Così tutti se ne tornavano di là turbati, e fra loro molti si volsero alla fede.

    18. Sorse il dì della loro vittoria, ed essi uscirono dalla prigione verso l’anfiteatro, lieti e composti in volto, come quelli che s’avviano al cielo: trepidavano, è vero, non però di paura, ma piuttosto di gioia. Perpetua teneva dietro con passo tranquillo, come una matrona di Cristo, come una prediletta da Dio; e la luce del suo sguardo faceva abbassare gli occhi di tutti; così pure Felicita, lieta d’aver felicemente partorito, per potere lottare con le belve passando da sangue a sangue, dall’ostetrice al reziario, pronta a purificarsi del parto con un secondo battesimo. Furono condotti alla porta e venne loro imposto d’indossare abiti da spettacolo: gli uomini a foggia di Saturno, le donne a mo’ delle sacerdotesse di Cèrere. Ma quella nobile donna oppose un coraggioso e irriducibile rifiuto. Diceva:
    ‘Siam venuti di nostra volontà sino a questo punto per non sacrificare la nostra libertà; abbiamo messo la vita a pegno per non macchiarci di simili atti; tanto abbiamo pattuito con voi’. L’ingiustizia allora s’inchinò alla giustizia, e l’ufficiale diede licenza che fossero introdotti senz’altro così com’erano. Perpetua cantava un salmo, già sul punto di premere la testa dell’Egizio; Revocato, Saturnino e Sàturo facevano ammonimenti alla folla degli spettatori. Quindi, giunti in presenza d’Ilariano, cominciarono a far gesti e cenni, quasi per dirgli:
    ‘Tu colpisci noi, ma Dio raggiungerà te’.
    A quella vista, la folla irritata, richiese che venissero straziati con staffili, passando fra le fila dei carnefici (venatores); di che essi furono lieti, perché eran messi in qualche modo a parte dei patimenti del Signore”.

    19. Ma Colui che aveva detto ‘domandate e riceverete’ aveva concesso a ciascuno di loro quel genere di morte che preferiva. Difatti, quando essi discorrevano fra loro dei propri desideri riguardo al martirio, Saturnino dichiarava di preferire le belve, per avere una corona più gloriosa; pertanto, nello svolgersi dello spettacolo, egli e Revocato, dopo aver affrontato il leopardo, dovevano anche essere straziati dall’orso, sopra il palchetto. Veramente Sàturo aveva orrore dell’orso più che d’ogni altra fiera, e sperava che un solo assalto del leopardo l’avrebbe finito. Fu allora esposto al cinghiale; in questo, appunto il carnefice, che l’aveva legato al palo per il cinghiale fu azzannato in vece di lui dalla medesima fiera, sì che morì il giorno appresso; Sàturo, al contrario, fu solo da quella trascinato per un breve tratto. Nuovamente legato sul palchetto per l’orso, questo non volle uscir fuori dalla gabbia. Così fu che Sàturo, rimasto due volte illeso, fu chiamato dalla folla fuori dell’arena.


    20. Per le giovani, il diavolo preparò una vacca ferocissima, cosa veramente inusitata, quasi volesse fare, anche con quella bestia, uno sfregio al loro sesso. Spogliate dunque, e ravviluppate nei reticoli, esse venivano condotte nell’arena. La folla fu presa da un senso di ribrezzo, vedendole tenera fanciulla una, l’altra ancora fresca di parto e con le poppe stillanti. Furono allora richiamate e rivestite con lunghe tuniche. Perpetua, acciuffata per la prima e sbattuta, ricadde a terra supina. Messasi a sedere, raccolse i lembi della tunica lacerata sul fianco per coprirsi il femore, più ansiosa del proprio pudore che del proprio dolore. Indi raccolse le forcelle, si appuntò la scomposta capigliatura: non s’addiceva davvero a una martire soffrire la passione con le chiome disciolte, sì da sembrare far lutto nella sua gloria! Ciò fatto, s’alzò in piedi, e, veduta Felicita colpita, le si avvicinò porgendole la mano per rialzarla. Così stettero alquanto, fino a che, ammansita la ferocia della folla, furono richiamate e fatte uscire per la porta Sanavivaria. Quivi Perpetua fu accolta da un tal catecumeno di nome Rustico, che era stato addetto al suo servizio, e, riscossa come da sonno, talmente era assorta e rapita in spirito, prese a volgere gli occhi attorno e con meraviglia di tutti uscì in queste parole:
    ‘Ma quando dunque saremo noi esposte a quella vacca?’.
    Udito che la cosa era già accaduta, non voleva credere, sino a che non ebbe ravvisate nella sua persona e nell’abito certe tracce dello strazio. Chiamato quindi a sé il fratello e quel tal catecumeno, così disse:
    ‘Siate fermi nella fede, amatevi tutti l’un l’altro, né prendete sgomento dei nostri tormenti’.

    21. Similmente Sàturo, presso un’altra porta, rinfrancava il soldato Pudente, dicendogli:
    ‘Tutto sommato, davvero finora, come avevo predetto, non ho ancora sentito lo strazio d’alcuna fiera; sii fermo dunque con tutto il cuore nella fede. Ora vedrai, io mi avanzo fin là, e sarò ucciso da un solo morso di leopardo’.
    E tosto, essendo lo spettacolo sul termine, sguinzagliatogli contro un leopardo, ne toccò una zannata per cui fu inondato di sangue in gran copia; e, mentre, si ritraeva, la folla gli rendeva testimonianza del secondo battesimo vociando:
    ‘Salvo, lavato’.
    Davvero che era salvo colui che s’era bagnato in simile lavacro! Disse allora al soldato Pudente:
    ‘Addio, ricordati della mia fede e di me; che tutto questo valga non a turbarti ma a darti animo’. Così dicendo, lo richiese dell’anello che portava in dito, e, bagnandolo nella propria ferita, glielo rese come sua eredità, lasciandoglielo come pegno e come una memoria di sangue. Quindi, ormai sfinito, venne disteso insieme con gli altri nel luogo solito per essere sgozzato. La folla reclamava che fossero portati in vista, per seguire con i loro occhi omicidi l’entrar del coltello nelle carni di quelli; i martiri si rizzarono spontaneamente e si trascinarono fin là dove la marmaglia voleva. Già s’erano dato fra loro il bacio, ché ben volevano por fine al martirio con il santo rito della pace. Gli altri ricevettero il ferro raccolti in silenzio. Tosto rese lo spirito Sàturo, che era asceso per primo nella scala; egli attendeva Perpetua che gli tenesse dietro.

A questa era ancora riserbato di gustare qualche tormento: perché il ferro le si impigliò tra le vertebre della gola. Mandò un forte gemito, e prese essa stessa a guidare la incerta mano dell’inetto gladiatore, aggiustandosi la punta alle carni. Ma forse una donna di tanto valore, che incuteva spavento allo spirito immondo, non avrebbe altrimenti potuto essere uccisa se essa non l’avesse voluto!
    O martiri fortissimi e mille volte beati! O voi veramente chiamati ed eletti per la gloria del nostro Signore Gesù Cristo! Chiunque aspira ad aumentare, illustrare e adorare questa gloria, ben deve leggere a edificazione della Chiesa questi esempi, non minori di quelli passati: sì che le nuove gesta rendano testimonianza all’unico e medesimo Spirito Santo che finora ha operato, a Dio Padre onnipotente e al Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore, al quale si deve onore e potestà senza limiti per tutti i secoli.
    Amen.

da: P. VANNUTELLI a cura di , Atti dei Martiri 1, Città del Vaticano, ristampa 1962, 14-57



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