giovedì 11 ottobre 2012

Ad Alessandroscene, dai fratelli di Ermione. Al mercato di Alessandroscene. La parabola degli operai della vigna. Il milite Aquila. Mt 20,1-16

Ecco due episodi che ci illuminano su molti aspetti della vita e dei viaggi e degli incontri di Gesù e degli Apostoli con giudei e non giudei nel territorio della Fenicia.  Si parla di molti soldati romani.

328. Ad Alessandroscene, dai fratelli di Ermione.
    
La strada è nuovamente raggiunta dopo un lungo giro per i campi e dopo aver superato il torrente su un 
ponticello di tavole cigolanti, capace proprio di servire solo al passaggio di persone: una passerella più che  un ponte.
E la marcia continua per la pianura, che si restringe sempre più per l’avanzarsi delle colline verso il litorale, 
tanto che dopo un altro torrente, con l’indispensabile ponte romano, la strada in pianura diviene strada nel 
monte, biforcandosi al ponte con una meno ripida che si dilunga verso nord-est per una valle, mentre questa, 
scelta da Gesù, secondo l’indicazione del cippo romano: “Alessandroscene - m.V°”, è una vera e propria 
scala nel monte roccioso ed erto che tuffa il muso aguzzo nel Mediterraneo, che sempre più si spiega alla 
vista man mano che si sale. Solo pedoni e somarelli percorrono quella via, quella gradinata, sarebbe meglio 
detto. Ma, forse perché raccorciante di molto, la strada è anche molto battuta e la gente osserva curiosa il 
gruppo galileo, così insolito, che la percorre.
«Questo deve essere il capo della Tempesta» dice Matteo indicando il promontorio che si spinge in mare.
«Sì, ecco lì sotto il paese dal quale ci parlò il pescatore» conferma Giacomo di Zebedeo. (Vedi Cap 318)
«Ma chi avrà fatto questa strada?».
«Chissà da quando c’è! Opera fenicia, forse…».
«Dalla vetta vedremo Alessandroscene oltre la quale è il capo Bianco. Vedrai molto mare, Giovanni mio!» 
dice Gesù ponendo un braccio intorno alle spalle dell’apostolo.
«Ne sarò contento. Ma fra poco è notte. Dove sosteremo?».
«Ad Alessandroscene. Vedi? La strada già scende. Giù è pianura fino alla città che si vede là, in basso».
«È la città della donna di Antigonio… Come potremmo fare ad accontentarla?» dice Andrea. (È Ermione vedi Cap 323) 
«Sai Maestro? Ella ci ha detto: “Andate in Alessandroscene. I fratelli miei hanno empori là e proseliti sono. 
Fate che sappiano del Maestro. Siamo figli di Dio anche noi…”, e piangeva perché è poco sopportata come 
nuora… di modo che mai i fratelli vanno a lei e lei non sa di loro…» spiega Giovanni.
«Cercheremo i fratelli della donna. Se ci accoglieranno come pellegrini avremo modo di accontentarla…».
«Ma come si fa a dire che l’abbiamo vista?».
«È dipendente di Lazzaro. Noi siamo amici di Lazzaro» dice Gesù.  
«È vero. Parlerai Tu…».
«Sì. Ma affrettate il passo per trovare la casa. Sapete dove è?»
«Sì, presso il Castro. Hanno molto contatto coi romani, ai quali vendono tante cose».
«Sta bene».
Fanno velocemente la strada tutta piana, bella, una vera strada consolare che certo si congiunge con quelle 
dell’interno, o meglio, che certo prosegue verso l’interno dopo aver lanciato la sua propaggine rocciosa, a 
gradinate, lungo la costa, a cavaliere del promontorio.
Alessandroscene è una città più miliare che civile. Deve avere una importanza strategica che io non conosco. 
Accucciata come è fra i due promontori, sembra una sentinella messa a guardia di quel pezzo di mare. Ora 
che l’occhio può guardare l’uno e l’altro capo, si vede che spesseggiano su essi le torri militari formanti 
catena con quelle del piano, delle città, dove, verso la marina, troneggia il Castro imponente.
Entrano nella città dopo aver superato un altro torrentello, sito proprio alle porte, e si dirigono verso la mole 
arcigna della fortezza guardandosi intorno curiosi ed essendo curiosamente osservati. I soldati sono molto 
numerosi e, sembra, anche in buoni rapporti con i cittadini, cosa che fa borbottare fra i denti gli apostoli: 
«Gente fenicia! Senza onore!».
Giungono ai magazzini dei fratelli di Ermione mentre gli ultimi avventori ne escono carichi delle più svariate 
merci, che vanno dai panni tessuti alle stoviglie e da queste a fieni e granaglie, oppure olio e cibarie. Odore 
di cuoi, di spezie, di pagliai, di lane grezze, empie l’ampio androne per il quale si accede nel cortile vasto 
come una piazza, sotto i portici del quale sono i diversi depositi.
Accorre un uomo barbuto e bruno. «Che volete? Cibarie?».
«Sì… e anche alloggio, se non ti sdegni alloggiare pellegrini. Veniamo da lontano e qui non fummo mai. 
Accoglici in nome del Signore».
L’uomo guarda attentamente Gesù, che parla per tutti. Lo scruta… Poi dice: «Veramente io non do alloggio. 
Ma Tu mi piaci. Sei galileo, non è vero? Meglio i galilei dei giudei. Troppa muffa in loro. Non ci perdonano 
di avere sangue non puro. Farebbero meglio ad avere loro l’anima pura. Vieni, entra qui, che ora vengo 
subito. Chiudo, che ormai è notte». 
Infatti la luce è ormai crepuscolare, e lo è ancor più nel cortile dominato dal Castro potente.
Entrano in una stanza e si siedono stanchi su dei sedili sparsi qua e là…
Torna l’uomo con altri due, uno più vecchio, l’altro più giovane, e addita gli ospiti, che si alzano salutando, 
dicendo: «Ecco. Che ve ne pare? Mi sembrano onesti…».
«Sì. Bene hai fatto» dice il più vecchio al fratello; e poi, rivolto agli ospiti, meglio, a Gesù che appare 
chiaramente essere il capo, chiede: «Come vi chiamate?».
«Gesù di Nazaret, Giacomo e Giuda pure di Nazaret, Giacomo e Giovanni di Betsaida e così Andrea, più 
Matteo di Cafarnao».
«Come mai qui siete? Perseguitati?».
«No. Evangelizzanti. Abbiamo percorso più di una volta la Palestina dalla Galilea alla Giudea, dall’uno 
all’altro mare. E fin nell’Oltre Giordano, all’Auranite, fummo. Ora siamo venuti qui… ad ammaestrare».
«Un rabbi qui? Ci è stupore, non è vero, Filippo e Elia?» chiede il più vecchio.
«Molto. Di che casta sei?».
«Di nessuna. Sono di Dio. Credono in Me i buoni del mondo. Sono povero, amo i poveri, ma non disprezzo i 
ricchi ai quali insegno l’amore alla misericordia e il distacco dalle ricchezze, così come insegno ai poveri ad 
amare la loro povertà fidando in Dio che non lascia perire nessuno. Fra gli amici ricchi e discepoli miei è 
Lazzaro di Betania…».
«Lazzaro? Abbiamo una sorella sposata ad un suo servo».
«Lo so. Per questo anche sono venuto. Per dirvi che ella vi saluta e vi ama».
«L’hai vista?».
«Non Io. Ma questi che sono con Me, mandati da Lazzaro ad Antimonio».
«Oh! dite! Che fa Ermione? È proprio felice?».
«Lo sposo e la suocera l’amano molto. Il suocero la rispetta…» dice Giuda Taddeo.
«Ma non le perdona il sangue materno. Dillo».
«Sta per perdonarglielo. Ci ha detto di lei grandi lodi. E ha quattro fanciulli molto belli e buoni. Ciò la fa 
felice. Ma vi ha sempre nel cuore e ha detto di venire a portarvi il Maestro divino».
«Ma… come… Sei il… quello che chiamano il Messia, Tu?».
«Lo sono».
«Sei veramente il… Ci hanno detto a Gerusalemme che sei, che ti chiamano il Verbo di Dio. È vero?».
«Sì».
«Ma lo sei per quelli di là o per tutti?».
«Per tutti. Potete credere che Io sono quello?».
«Credere non costa nulla, molto più quando si spera che la cosa creduta possa levare ciò che fa soffrire».
«È vero. Elia. Ma non dire così. È pensiero impuro molto, molto più del sangue misto. Rallegrati non nella 
speranza che cada ciò che ti fa soffrire come uomo del disprezzo altrui, ma rallegrati per la speranza di 
conquistare il Regno dei Cieli».
«Hai ragione. Sono un mezzo pagano, Signore…».
«Non te ne avvilire. Io amo anche te e anche per te sono venuto».
«Saranno stanchi, Elia. Tu li trattieni in discorsi. Andiamo alla cena e poi conduciamoli al riposo. Non ci 
sono donne qui… Nessuna d’Israele ci ha voluti e noi volevamo una di esse… Perdona perciò se la casa ti 
parrà fredda e spoglia».
«Il vostro buon cuore me la farà ornata e calda».
«Quanto ti trattieni?».
«Non più di un giorno. Voglio andare verso Tiro e Sidone e vorrei essere ad Aczib avanti il sabato».
«Non puoi, Signore! Lontana è Sidone!».
«Domani vorrei parlare qui».
«La nostra casa è come un porto. Senza uscire da essa avrai uditorio a tuo piacere, tanto più che domani è 
mercato grosso».
«Andiamo, allora, e il Signore vi compensi della vostra carità».
    
329. Al mercato di Alessandroscene. La parabola degli operai della vigna. Il milite Aquila. Mt 20,1-16
    
Il cortile dei tre fratelli è per metà in ombra, per metà luminoso di sole. Ed è pieno di gente che va e viene 
per i suoi acquisti, mentre fuori dal portone, sulla piazzetta, vocia il mercato di Alessandroscene in un 
confuso andare e venire di acquirenti e di compratori, di asini, di pecore, di agnelli, di pollame; perché si 
capisce che qui hanno meno storie, e anche i polli vengono portati al mercato senza temere contaminazioni di 
sorta. Ragli, belati, croccolio di galline e trionfali chicchirichì di galletti si mescolano alle voci degli uomini 
in un allegro coro, che ogni tanto prende note acute e drammatiche per qualche alterco.
Anche nel cortile dei fratelli è brusio e non manca qualche alterco, o per il prezzo, o perché un avventore ha 
preso ciò che un altro aveva in cuor suo prescelto. Non manca il lamento querulo dei mendicanti che dalla 
piazza, presso il portone, fanno la litania delle loro miserie con una gorga cantante e triste come un ululo di 
morente.
Soldati romani vanno e vengono da padroni per il fondaco e per la piazza. Suppongo in servizio d’ordine, 
perché li vedo armati, e mai soli, fra i fenici tutti armati.
Anche Gesù va e viene per il cortile, passeggiando coi sei apostoli come in attesa del momento buono per 
parlare. E poi esce un momento sulla piazza, passando presso ai mendicanti ai quali dà un obolo. La gente si 
distrae per qualche minuto a guardare il gruppo galileo e si domanda chi sono quegli uomini stranieri. E c’è 
chi informa, perché ha chiesto notizie ai tre fratelli, chi siano i loro ospiti.
Un brusio segue i passi di Gesù che va tranquillo, accarezzando i bambini che trova sulla sua strada. Nel 
brusio non mancano i sogghigni e gli epiteti poco lusinghieri per gli ebrei, come non manca il desiderio 
onesto di sentire questo «Profeta», questo «Rabbi», questo «Santo», questo «Messia» d’Israele, che con tali 
nomi se lo indicano, a seconda del loro grado di fede e della loro rettezza d’animo.
Sento due madri: «Ma è vero?».
«Me lo ha detto Daniele, proprio a me. Lui ha parlato a Gerusalemme con gente che ha veduto i miracoli del 
Santo».
«Sì, d’accordo! Ma sarà poi questo l’uomo?».
«Oh! Mi ha detto Daniele che non può essere che Lui per quello che dice».
«Allora… che dici? Mi farà grazia anche se sono soltanto proselite?».
«Io direi di sì… Prova. Forse non tornerà più qui da noi. Prova, prova! Male non ti farà certo!».
«Vado» dice la donnetta, lasciando in asso un venditore di stoviglie col quale contrattava delle scodelle, il 
quale venditore, che ha sentito il discorso delle due, deluso, irritato del buon affare andato in fumo, si 
scaraventa sulla donna superstite, coprendola di improperi quali: «Maledetta proselite. Sangue d’ebrea. 
Donna venduta», ecc. ecc.
Sento due uomini gravi e barbuti: «Mi piacerebbe sentirlo. Dicono che è un grande Rabbi».
«Un Profeta, devi dire. Più grande del Battista. Mi ha detto Elia certe cose! Certe cose! Lui le sa perché ha 
una sorella sposata ad un servo di un grande ricco d’Israele e per sapere di lei va a chiederne ai conservi. 
Questo ricco è molto amico del Rabbi…».
Un terzo, un fenicio forse, che essendo lì vicino ha sentito, insinua la sua faccia sottile, satirica, fra i due, e 
sghignazza: «Bella santità! Condita di ricchezze! Per quello che so, il santo dovrebbe vivere poveramente!».
«Taci Doro, lingua maledica. Non sei degno, tu, pagano, di giudicare queste cose».
«Ah! ne siete degni voi, tu in specie, Samuele! Faresti meglio a pagarmi quel debito».
«Toh! e non mi girare più attorno, vampiro dalla faccia di fauno!»…
Sento un vecchio semicieco, accompagnato da una fanciullina, che chiede: «Dove è, dove è il Messia?»; e la 
bimba: «Fate largo al vecchio Marco! Vogliate dire dove è il Messia al vecchio Marco!».
Le due voci - la senile fioca e tremante; la fanciulla, argentina e sicura - si spandono sulla piazza inutilmente, 
finché un altro uomo dice: «Volete andare dal Rabbi? È tornato verso la casa di Daniele. Eccolo là fermo, 
che parla coi mendicanti».
Sento due soldati romani: «Deve essere quello che perseguitano i giudei, buone pelli! Si vede solo a 
guardarlo che è migliore di loro».
«Per quello che dà loro noia!».
«Andiamo a dirlo all’alfiere. Questo è l’ordine».
«Molto stolto, o Caio! Roma si guarda dagli agnelli e sopporta, direi carezza, le tigri» (Scipione).
«Non mi pare, Scipione! Ponzio è facile ad ammazzare!» (Caio).
«Sì… ma non chiude la sua dimora alle striscianti iene che lo adulano» (Scipione).
«Politica, Scipione! Politica!» (Caio).
«Viltà, Caio, e stoltezza. Di questo dovrebbe farsi amico. Per avere un aiuto a tenere ubbidiente questa 
marmaglia asiatica. Non serve bene Roma, Ponzio, trascurando questo buono e adulando i malvagi» 
(Scipione).
«Non criticare il Proconsole. Noi siamo soldati e il superiore è sacro come un dio. Abbiamo giurato 
ubbidienza al divo Cesare e il Proconsole è una rappresentanza di lui» (Caio).
«Va bene ciò per quanto riguarda il dovere verso la Patria, sacra e immortale. Ma non per il giudizio 
interno». (Scipione).
«Ma ubbidienza viene da giudizio. Se il tuo giudizio si ribella ad un ordine e lo critica, non ubbidirai più 
totalmente. Roma si appoggia sulla nostra ubbidienza cieca per tutelare le sue conquiste» (Caio).
«Sembri un tribuno, e dici bene. Ma ti faccio osservare che se Roma è regina, noi schiavi non siamo. Ma 
sudditi. Roma non ha, non deve avere cittadini schiavi. È schiavitù imporre un silenzio alla ragione dei 
cittadini. Io dico che la mia ragione giudica che Ponzio fa male a non curare questo israelita, chiamalo 
Messia, Santo, Profeta, Rabbi, ciò che ti pare. E sento che lo posso dire perché con questo non viene meno la 
mia fede a Roma, né il mio amore. Ma anzi questo vorrei, perché sento che Egli, insegnando rispetto alle 
leggi e ai Consoli, come fa, coopera al benessere di Roma» (Scipione).
«Tu sei colto, Scipione… Farai strada. Già avanti sei! Io sono un povero soldato. Ma, intanto, vedi là? Vi è 
assembramento intorno all’Uomo. Andiamo dai capi militari a dirlo» (Caio)…
Infatti presso il portone dei tre fratelli vi è un mucchio di gente intorno a Gesù, che per la sua alta statura si 
vede bene. Poi tutto ad un tratto si leva un urlo e la gente si agita. Altri accorrono dal mercato, mentre alcuni 
del mucchio corrono verso la piazza e oltre. Domande… risposte…
«Che è accaduto?».
«Che c’è?».
«L’Uomo d’Israele ha guarito il vecchio Marco!».
«Il velo dei suoi occhi si è dileguato».
Gesù, intanto, è entrato nel cortile, seguito da un codazzo di gente. Arrancando, in coda, c’è uno dei 
mendicanti, uno sciancato che si trascina più con le mani che con le gambe. Ma se le gambe sono storte e 
senza forza, per cui senza i bastoni non verrebbe avanti, la voce è ben robusta! Sembra una sirena, lacerante 
l’aria solare del mattino: «Santo! Santo! Messia! Rabbi! Pietà di me!». Urla a perdifiato e senza tregua.
Si voltano due o tre persone: «Serba il fiato! Marco è ebreo, tu no», «Grazie per gli israeliti veri fa, non per i 
nati da un cane!».
«Era ebrea mia madre…».
«E Dio l’ha percossa dandole te, mostro, per il suo peccato. Via, figlio di una lupa! Torna al tuo posto, fango 
nel fango…».
L’uomo si addossa al muro, avvilito, spaurito dalla minaccia dei pugni tesi…
Gesù si ferma, si volge, guarda. Ordina: «Uomo, vieni qui!». 
L’uomo lo guarda, guarda coloro che lo minacciano… e non osa venire avanti.
Gesù fende la piccola folla e va da lui. Lo prende per mano, ossia, gli posa la mano sulla spalla e dice: «Non 
avere paura. Vieni avanti con Me», e guardando i crudeli dice severo: «Dio è di tutti gli uomini che lo 
cercano e che sono misericordiosi».
Quelli capiscono l’antifona e ora sono loro che restano in coda, anzi, che si arrestano dove sono.
Gesù torna a voltarsi. Li vede là, confusi, prossimi ad andarsene, e dice loro: «No, venite voi pure. Farà bene 
anche a voi, raddrizzando e fortificando la vostra anima così come Io raddrizzo e fortifico costui perché ha 
saputo aver fede. Uomo, Io te lo dico, sii guarito dalla tua infermità». E lascia di tenere la mano sulla spalla 
dello sciancato, dopo che questo ha avuto come una scossa.
L’uomo si raddrizza sicuro sulle sue gambe, getta le stampelle consumate dall’uso e grida: «Egli mi ha 
guarito! Sia lode al Dio di mia madre!», e poi si inginocchia a baciare gli orli della veste di Gesù.
Il tumulto di chi vuol vedere, o che ha visto e commenta, è al colmo. Nel fondo androne, che dalla piazza 
conduce al cortile, le voci risuonano con sonorità di pozzo e fanno eco contro le muraglie del Castro.
Le milizie devono temere che sia accaduta una rissa - deve essere facile in questi luoghi, con tanti contrasti 
di razze e di fedi - e accorre un drappello che si fa largo rudemente chiedendo che avviene.
«Un miracolo! un miracolo! Giona, lo storpio, è stato guarito. Eccolo là, vicino all’Uomo galileo».
I soldati si guardano tra loro. Non parlano finché la folla non è tutta passata e dietro ad essa se ne è 
accatastata altra di quella che era nei magazzini o sulla piazza, nella quale si vedono rimasti solo i venditori 
pieni di stizza per l’impensato diversivo che fa fallire il mercato di quel giorno. Poi, vedendo passare uno dei 
tre fratelli chiedono: «Filippo, sai cosa faccia ora il Rabbi?».
«Parla, ammaestra, e nel mio cortile!» dice Filippo tutto gongolante.
I soldati si consultano. Rimanere? Andare via?
«L’alfiere ci ha detto di sorvegliare…».
«Chi? L’Uomo? Ma per Lui potremmo andare a giocare ai dadi un’anfora di vino di Cipro» dice Scipione, il 
milite che prima difendeva Gesù presso il compagno.
«Io direi che è Lui che ha bisogno di essere protetto, non il diritto di Roma! Lo vedete lì? Fra i nostri dèi non 
c’è alcuno di così mite e pur di così virile aspetto. Non è degna la marmaglia di averlo. E gli indegni sempre 
cattivi sono. Rimaniamo a tutelarlo. All’occorrenza gli salveremo le spalle e le carezzeremo a questi 
galeotti» dice, mezzo sarcastico, mezzo ammirato, un altro.
«Bene dici, Pudente. Anzi, acciò Procoro, l’alfiere, che sempre sogna complotti contro Roma e… 
promozioni per sé, in grazia e merito del suo acuto vegliare alla salute del divo Cesare e della dea Roma, 
madre e signora del mondo, si persuada che qui non acquisterà bracciale o corona, vallo a chiamare, Azio».
Un giovane milite parte di corsa e di corsa torna dicendo: «Procoro non viene. Manda il triario Aquila…».
«Bene! Bene! Meglio lui dello stesso Cecilio Massimo. Aquila ha servito in Africa, in Gallia, e fu nelle 
foreste crudeli che ci tolsero Varo e le sue legioni. Conosce greci e britanni e ha fiuto buono a distinguere… 
Oh! Salve! Ecco qua il glorioso Aquila! Vieni, insegna a noi miserelli a comprendere il valore degli esseri!».
«Viva Aquila, maestro delle milizie!» gridano tutti, dando affettuose scrollate al vecchio soldato dal volto 
segnato da cicatrici, e come ha il volto così ha le braccia nude ed i polpacci nudi.
Egli sorride bonario ed esclama: «Viva Roma, maestra del mondo! Non io, povero soldato. Che c’è 
dunque?».
«Da sorvegliare quell’uomo alto e biondo come il rame più chiaro».
«Bene. Ma chi è?».
«Lo dicono il Messia. Si chiama Gesù, ed è di Nazaret. È quello, sai, per cui fu diramato l’ordine…».
«Uhm! Sarà… Ma mi sembra che corriamo dietro alle nuvole».
«Dicono che vuol farsi re e soppiantare Roma. Lo hanno denunciato il Sinedrio e i farisei, sadducei, erodiani, 
a Ponzio. Tu lo sai che hanno questo baco nella testa gli ebrei, e ogni tanto salta fuori un re…».
«Sì, sì… Ma se è per questo!… Ad ogni modo ascoltiamo ciò che dice. Mi pare si appresti a parlare».
«Ho saputo dal milite che sta col centurione che Publio Quintilliano gliene  ha parlato come di un filosofo 
divino… Le donne imperiali ne sono entusiaste…» dice un altro soldato, giovane.
«Lo credo! Ne sarei entusiasta anch’io se fossi una donna e lo vorrei nel mio letto…» dice ridendo di gusto 
un altro giovane milite.
«Taci, impudico! La lussuria ti mangia!» scherza un altro.
«E tu no, Fabio! Anna, Sira, Alba, Maria…»
«Silenzio, Sabino. Egli parla e voglio ascoltare» ordina il triario. E tutti tacciono.
Gesù è salito su una cassa messa contro una parete. È perciò ben visibile a tutti. Il suo dolce saluto si è già 
sparso nell’aria ed è stato seguito dalle parole: «Figli di un unico Creatore, udite»; poi prosegue nel silenzio 
attento della gente.
«Il Tempo della Grazia per tutti è venuto non solo ad Israele ma per tutto il mondo. Uomini ebrei, qui per 
ragioni diverse, proseliti, fenici, gentili, tutti, udite la Parola di Dio, comprendete la Giustizia, conoscete la 
Carità. Avendo Sapienza, Giustizia e Carità, avrete i mezzi di giungere al Regno di Dio, a quel Regno che 
non è esclusività dei figli d’Israele, ma è di tutti coloro che ameranno d’ora in poi il vero, unico Dio, e
crederanno nella parola del suo Verbo.
Udite. Io sono venuto da tanto lontano non con mire di usurpatore né con violenza da conquistatore. Sono 
venuto solamente per essere il Salvatore delle anime vostre. I domìni, le ricchezze, le cariche non mi 
seducono. Sono nulla per Me e non le guardo neppure. Ossia le guardo per commiserarle, perché mi fanno 
compassione, essendo tante catene per tenere prigioniero il vostro spirito impedendogli di venire al Signore 
eterno, unico, universale, santo e benedetto. Le guardo e le avvicino come le più grandi miserie. E cerco di 
guarirle del loro affascinante e crudele inganno che seduce i figli dell’uomo, perché essi possano usarle con 
giustizia e santità, non come armi crudeli che feriscono e uccidono l’uomo, e per primo sempre lo spirito di 
chi non santamente le usa.
Ma, in verità vi dico, mi è più facile guarire un corpo deforme che un’anima deforme; mi è più facile dare 
luce alle pupille spente, sanità ad un corpo morente, che non luce agli spiriti e salute alle anime malate. 
Perché ciò? Perché l’uomo ha perso di vista il vero fine della sua vita e si occupa di ciò che è transitorio. 
L’uomo non sa o non ricorda o, ricordando, non vuole ubbidire a questa santa ingiunzione del Signore e - 
dico anche per i gentili che mi ascoltano - del fare il bene, che è bene in Roma come in Atene, in Gallia come 
in Africa, perché la legge morale esiste sotto ogni cielo e in ogni religione, in ogni retto cuore. E le religioni, 
da quella di Dio a quella della morale singola, dicono che la parte migliore di noi sopravvive, e a seconda di 
come ha agito sulla terra avrà sorte dall’altra parte. Fine dunque dell’uomo è la conquista della pace 
nell’altra vita, non la gozzoviglia, l’usura, la prepotenza, il piacere, qui, per poco tempo, scontabili per una 
eternità con tormenti ben duri. Ebbene l’uomo non sa, o non ricorda, o non vuole ricordare questa verità. Se 
non lo sa, è meno colpevole. Se non la ricorda, è colpevole alquanto, perché la verità deve essere tenuta 
accesa come fiaccola santa nelle menti e nei cuori. Ma, se non la vuole ricordare, e quando essa gli 
fiammeggia egli chiude gli occhi per non vederla, avendola odiosa come la voce di un retore pedante, allora 
la sua colpa è grave, molto grave.
Eppure Dio la perdona, se l’anima ripudia il suo male agire e propone di perseguire, per il resto della vita, il 
fine vero dell’uomo, che è conquistarsi la pace eterna nel Regno del Dio vero. Avete fino ad ora seguito una 
mala strada? Avviliti, pensate che è tardi per prendere la via giusta? Desolati, dite: “Io non sapevo nulla di 
questo! Ed ora sono ignorante e non so fare”? No. Non pensate che sia come nelle cose materiali e che 
occorra molto tempo e molta fatica per rifare il già fatto ma con santità. La bontà dell’eterno, vero Signore 
Iddio, è tale che non vi fa certo ripercorrere a ritroso la via fatta, per rimettervi al bivio dove voi, errando, 
avete lasciato il giusto sentiero per l’ingiusto. È tanta che, dal momento che voi dite: “Io voglio essere della 
Verità”, ossia di Dio perché Dio è Verità, Dio, per un miracolo tutto spirituale, infonde in voi la Sapienza, 
per cui voi da ignoranti divenite possessori della scienza soprannaturale, ugualmente a quelli che da anni la 
possiedono.
Sapienza è volere Dio, amare Dio, coltivare lo spirito, tendere al Regno di Dio ripudiando tutto ciò che è 
carne, mondo e Satana. Sapienza è ubbidire alla legge di Dio che è legge di carità, di ubbidienza, di 
continenza, di onestà. Sapienza è amare Dio con tutti se stessi, amare il prossimo come noi stessi. Questi 
sono i due indispensabili elementi per essere sapienti della Sapienza di Dio. E nel prossimo sono non solo 
quelli del nostro sangue o della nostra razza e religione, ma tutti gli uomini, ricchi o poveri, sapienti o 
ignoranti, ebrei, proseliti, fenici, greci, romani…».
Gesù è interrotto da un minaccioso urlo di certi scalmanati. Li guarda e dice: «Sì. Questo è l’amore. Io non 
sono un maestro servile. Io dico la verità perché così devo fare per seminare in voi il necessario alla Vita 
eterna. Vi piaccia o non vi piaccia ve lo devo dire, per fare il mio dovere di Redentore. A voi fare il vostro di 
bisognosi di Redenzione. Amare il prossimo, dunque. Tutto il prossimo. Di un amore santo. Non di un losco 
concubinaggio di interessi, per cui è “anatema” il romano, il fenicio o il proselite, o viceversa, finché non c’è 
di mezzo il senso o il denaro, mentre, se brama di senso o utile di denaro sorgono in voi, “anatema” più non 
è…».
Altro rumoreggiare della folla, mentre i romani, dal loro posto nell’atrio, esclamano: «Per Giove! Parla bene, 
costui!».
Gesù lascia calmare il rumore e riprende: 
«Amare il prossimo come vorremmo essere amati. Perché a noi non fa piacere essere maltrattati, vessati, 
derubati, oppressi, calunniati, insolentiti. La stessa suscettibilità nazionale o singola hanno gli altri. Non 
facciamoci dunque a vicenda il male che non vorremmo che ci fosse fatto.
Sapienza è ubbidire ai dieci Comandi di Dio: 
“Io sono il Signore Iddio tuo. Non avere altro dio all’infuori di Me. Non avere idoli, non dare loro culto.
Non usare il Nome di Dio invano. È il Nome del Signore Iddio tuo, e Dio punirà chi lo usa senza ragione o 
per imprecazione o per convalida ad un peccato.
Ricordati di santificare le feste. Il sabato è sacro al Signore che in esso si riposò della Creazione e lo ha
benedetto e santificato.
Onora il padre e la madre affinché tu viva in pace lungamente sulla terra ed eternamente in Cielo.
Non ammazzare.
Non fare adulterio.
Non rubare.
Non dire il falso contro il tuo prossimo.
Non desiderare la casa, la moglie, il servo, la serva, il bue, l’asino, né altra cosa che appartenga al tuo 
prossimo”.
Questa è la Sapienza. Chi fa ciò è sapiente e conquista la Vita e il Regno senza fine. Da oggi, dunque, 
proponete di vivere secondo Sapienza, anteponendo questa alle povere cose della terra.
Che dite? Parlate. Dite che è tardi? No. Udite una parabola.
Un padrone, allo spuntare di un giorno, uscì per assoldare degli operai per la sua vigna e pattuì con loro un 
denaro al giorno.
Uscito all’ora di terza nuovamente e pensando che i lavoratori presi ad opra erano pochi, vedendo sulla 
piazza altri sfaccendati in attesa di chi li prendesse, li prese e disse: “Andate nella mia vigna e vi darò quello 
che ho promesso agli altri”. E quelli andarono.
Uscito a sesta e a nona ne vide altri ancora e disse loro: “Volete lavorare alle mie dipendenze? Io do un 
denaro al giorno ai miei lavoratori”. Quelli accettarono e andarono.
Uscito infine verso l’undecima ora, vide altri stare dimessi all’ultimo sole. “Che fate qui, così oziosi? Non vi 
fa vergogna stare senza fare nulla per tutto il giorno?” chiese loro. 
“Nessuno ci ha presi a giornata. Avremmo voluto lavorare e guadagnarci il cibo. Ma nessuno ci chiamò alla 
sua vigna”. 
“Ebbene, io vi chiamo alla mia vigna. Andate ed avrete la mercede degli altri”. Così disse, perché era un 
buon padrone ed aveva pietà dell’avvilimento del suo prossimo.
Venuta la sera e finiti i lavori, l’uomo chiamò il suo fattore e disse: “Chiama i lavoratori e paga la loro 
mercede, secondo che ho fissato, cominciando dagli ultimi, che sono i più bisognosi non avendo avuto nel 
giorno cibo che gli altri hanno una o più volte avuto e che, anche, sono quelli che per riconoscenza verso la 
mia pietà hanno più di tutti lavorato; io li osservavo, e licenziali, che vadano al riposo meritato, godendo con 
i famigliari i frutti del loro lavoro”. E il fattore fece come il padrone ordinava, dando ad ognuno un denaro.
Venuti per ultimi quelli che lavoravano dalla prima ora del giorno, rimasero stupiti di avere essi pure un solo 
denaro e fecero delle lagnanze fra di loro e col fattore, il quale disse: “Ho avuto quest’ordine. Andate a 
lagnarvi dal padrone e non da me”. E quelli andarono e dissero: “Ecco, tu non sei giusto! Noi abbiamo 
lavorato dodici ore, prima fra la guazza e poi al sole cocente e poi daccapo all’umido della sera, e tu ci hai 
dato come a quei poltroni che hanno lavorato una sola ora!… Perché ciò?”. E uno specialmente alzava la 
voce, dicendosi tradito e sfruttato indegnamente.
“Amico, e in che ti fo’ torto? Cosa ho pattuito con te all’alba? Una giornata di continuo lavoro e per mercede 
di un denaro. Non è vero?”.
“Sì, è vero. Ma tu lo stesso hai dato a quelli, per tanto lavoro di meno…”.
“Tu hai acconsentito a quella mercede parendoti buona?”.
“Sì. Ho acconsentito perché gli altri davano anche meno”.
“Fosti seviziato qui da me?”.
“No, in coscienza no”.
“Ti ho concesso riposo lungo il giorno e cibo, non è vero? Tre pasti ti ho dato. E cibo e riposo non erano 
pattuiti. Non è vero?”.
“Sì, non erano pattuiti”.
“Perché li hai accettati?”.
“Ma... Tu hai detto: ‘Preferisco così per non farvi stancare tornando alle case. E a noi non parve vero… Il tuo 
cibo era buono, era un risparmio, era…”.
“Era una grazia che vi davo gratuitamente e che nessuno poteva pretendere. Non è vero?”.
“È vero”.
“Dunque vi ho beneficati. Perché allora vi lamentate? Io dovrei lamentarvi di  voi che, comprendendo di 
avere a che fare con un padrone buono, lavoravate pigramente, mentre costoro, venuti dopo di voi, con 
beneficio di un solo pasto, e gli ultimi di nessun pasto, lavorarono con più lena, facendo in meno tempo lo 
stesso lavoro fato da voi in dodici ore. Traditi vi avrei se vi avessi dimezzata la mercede per pagare anche 
questi. Non così. Perciò piglia il tuo e vattene. Vorresti in casa mia venirmi ad imporre ciò che ti pare? Io 
faccio ciò che voglio e ciò che è giusto. Non volere essere maligno e tentarmi all’ingiustizia. Buono io sono”.
O voi tutti che mi ascoltate, in verità vi dico che il Padre Iddio a tutti gli uomini fa lo stesso patto e promette89
l’uguale mercede. Chi con solerzia si mette a servire il Signore sarà trattato da Lui con giustizia, anche se 
poco sarà il suo lavoro per prossima morte. In verità vi dico che non sempre i primi saranno i primi nel 
Regno dei Cieli, e che là vedremo degli ultimi essere primi e dei primi essere ultimi. Là vedremo uomini, 
non d’Israele, santi più di molti di Israele. Io sono venuto a chiamare tutti, in nome di Dio. Ma se molti sono 
i chiamati pochi sono gli eletti, perché pochi sono coloro che vogliono la Sapienza. Non è sapiente chi vive 
del mondo e della carne e non di Dio. Non è sapiente né per la terra, né per il Cielo. Perché sulla terra si crea 
nemici, punizioni, rimorsi. E per il Cielo perde lo stesso in eterno.
Ripeto: siate buoni col prossimo quale esso sia. Siate ubbidienti, rimettendo a Dio il compito di punire chi 
non è giusto nel comandare. Siate continenti nel sapere resistere al senso e onesti nel sapere resistere all’oro, 
e coerenti nel dire anatema a ciò che merita, non anatema quando vi pare, salvo poi stringere contatti con 
l’oggetto prima maledetto come idea. Non fate agli altri ciò che per voi non vorreste, e allora…».
«Ma va’ via, noioso profeta! Ci hai danneggiato il mercato!… Ci hai levato i clienti!…» urlano i venditori, 
irrompendo nel cortile… E quelli che avevano rumoreggiato nel cortile, ai primi insegnamenti di Gesù -  e 
non sono tutti fenici, ma anche ebrei, presenti per non so che motivo in questa città - si uniscono ai venditori 
per insultare e minacciare, e soprattutto per cacciare… Gesù non piace perché non consiglia al male… 
Egli incrocia le braccia e guarda. Mesto. Solenne.
La gente, divisa in due partiti, si azzuffa, in difesa e in offesa del Nazareno. Improperi, lodi, maledizioni, 
benedizioni, grida di: «Hanno ragione i farisei. Sei un venduto a Roma, un amante dei pubblicani e 
meretrici», o di: «Tacete, lingue blasfeme! Voi venduti a Roma, fenici d’inferno!», «Satana siete!», «Vi 
inghiotta l’inferno!», «Via, via!», «Via voi, ladri che venite a far mercato qui, usurai», e così via.
Intervengono i soldati dicendo: «Altro che sobillatore! È sobillato!». E colle aste cacciano fuori tutti dal 
cortile e chiudono il portone.
Restano i tre fratelli proseliti e i sei discepoli con Gesù.
«Ma come vi è venuto in mente di farlo parlare?» chiede il triario ai tre fratelli.
«Parlano in tanti!» risponde Elia.
«Sì. E non succede nulla perché insegnano ciò che piace all’uomo. Ma questo ciò non insegna. Ed è 
indigesto…». Il vecchio soldato guarda attento Gesù che è sceso dal suo posto e che sta zitto, come astratto.
Di fuori la folla continua ad azzuffarsi. Tanto che dalla caserma escono altre milizie e con esse lo stesso 
centurione. Bussano e si fanno aprire, mentre altri restano a respingere tanto chi grida: «Viva il Re 
d’Israele», come chi lo maledice.
Il centurione viene avanti, inquieto. Assale con la sua collera il vecchio Aquila: «Così tuteli Roma, tu? 
Lasciando acclamare un re straniero nella terra soggetta?».
Il vecchio saluta con rigidezza e risponde: «Egli insegnava rispetto e ubbidienza e parlava di un regno non di 
questa terra. Per quello lo odiano. Perché è buono e rispettoso. Non ho trovato motivo di imporre il silenzio a 
chi non offendeva la nostra legge».
Il centurione si calma e borbotta: «Allora è una nuova sedizione di queste fetide marmaglie… Bene. Date 
ordine all’uomo di andarsene subito. Non voglio noie, qui. Eseguite e scortate fuori città non appena sarà 
sgombra la via. Vada dove gli pare. Agli inferi, se vuole. Ma mi esca dalla giurisdizione. Compreso?».
«Sì. Faremo».
Il centurione volta le spalle con un gran splendere di corazza e ondeggiare di mantello porporino, e se ne va 
senza neppur guardare Gesù.
I tre fratelli dicono al Maestro: «Ci spiace…».
«Non ne avete colpa. E non temete. Non ve ne verrà male. Io ve lo dico…».
I tre mutano colore… Filippo dice: «Come sai questa nostra paura?».
Gesù sorride dolcemente, un raggio di sole sul viso mesto: «Io so ciò che è nei cuori e nel futuro».
I soldati si sono messi al sole, in attesa, e sbirciano, commentando…
«Possono mai amare noi, se odiano anche quello lì che non li opprime?».
«E che fa miracoli, devi dire…».
«Per Ercole! Chi era quello di noi che era venuto ad avvisare che c’era l’indiziato da sorvegliare?».
«Caio, fu!».
«Lo zelante! Intanto abbiamo perduto il rancio e prevedo che perderò il bacio di una fanciulla!… Ah!».
«Epicureo! Dove è la bella?».
«Non lo dirò certo a te, amico!».
«Sta dietro al cocciao, alle Fondamenta. Lo so. Ti ho visto sere sono…» dice un altro.
Il triario, come passeggiando, va verso Gesù e gli gira intono, lo guarda, lo guarda. Non sa che dire… Gesù 
gli sorride per incoraggiarlo. L’uomo non sa che fare… Ma si accosta di più. 
Gesù accenna alle cicatrici: «Tutte ferite? Sei un prode e un fedele, allora…».
Il vecchio milite si fa di porpora per l’elogio.
«Hai sofferto molto per amore della tua patria e del tuo imperatore… Non vorresti soffrire qualcosa per una 
più grande patria: il Cielo? Per un eterno imperatore: Dio?».
Il soldato scuote il capo e dice: «Sono un povero pagano. Ma non è detto che non arrivi anche io 
all’undecima ora. Ma chi mi istruisce? Tu vedi!... Ti cacciano. E queste sì che sono ferite che fanno male, 
non le mie!… Almeno io le ho rese ai nemici. Ma Tu, a chi ti ferisce che dài?».
«Perdono, soldato. Perdono e amore».
«Ho ragione io. Il sospetto su Te è stolto. Addio, Galileo».
«Addio, romano».
Gesù resta solo finché tornano i tre fratelli e i discepoli con delle cibarie. Che offrono, i fratelli, ai soldati, 
mentre i discepoli le offrono a Gesù. Mangiano svogliatamente, al sole, mentre i militi mangiano e bevono 
allegramente.
Poi un soldato esce a sbirciare sulla piazza silenziosa. «Possiamo andare» urla. «Sono tutti andati via. Non ci sono che le pattuglie».
Gesù si alza docilmente, benedice e conforta i tre fratelli, ai quali dà appuntamento per la Pasqua al Getsemani, ed esce, inquadrato fra i soldati coi suoi discepoli mortificati che gli vengono dietro. E percorrono le strade vuote, fino alla campagna.
«Salve, galileo» dice il triario.
«Addio, Aquila. Ti prego, non fate del male a Daniele, Elia, e Filippo. Io solo sono il colpevole. Dillo al centurione».
«Non dico nulla. A quest’ora non se lo ricorda neanche più, e i tre fratelli ci forniscono bene, specie di quel vino di Cipro che il centurione ama più della vita. Sta’ in pace. Addio».
Si separano. Tornano i soldati oltre le porte, Gesù e i suoi avviandosi per la campagna silenziosa, in direzione est.


“AVE MARIA VIRGO POTENS!”

El Evangelio del Domingo XXVIII tiempo ordinario, B, 14 . X . 2012 EL ENCUENTRO CON EL JOVEN RICO





EL ENCUENTRO CON EL JOVEN RICO






Es una mañana bellísima del mes de abril. La tierra y el cielo despliegan toda su belleza. Se respira luz, canto, perfume. por la noche debió haber llovido un poco, porque en el camino no hay polvo, pero tampoco lodo. Las hierbas, las hojas limpias y puras se balancean a la caricia de una brisa que baja de los montes hacia la fértil llanura precursora de Jericó. De las riberas del Jordán sube continuamente gente que las atravesaron, o bien han seguido el camino que va a lo largo de él y que según las señales que hay lleva a Jericó y a Doco. Pastores y más pastores con sus corderos que llevan para el sacrificio se mezclan con muchos israelitas que de todas partes vienen a Jerusalén para la fiesta, y con mercaderes.
Muchos al reconocer a Jesús le saludan. Son hebreos de la Perea, Decápolis y de lugares no muylejanos. Viene un grupo de Cesarea Paneade. Hay pastores que como siempre llevan una vida nómada por sus rebaños, han conocido al Maestro o supieron de Él por medio de los discípulos.

UNO AGRADECIDO A JESÚS POR HABERLE CURADO
 LE OFRECE UN CORDERO

Uno se postra y le dice: "¿Puedo ofrecerte el cordero?"
"No te prives de él. Es tu recompensa."
"¡Mi agradecimiento! No te acuerdas de mí, yo sí. Soy uno que curaste entre muchos. Me soldaste el hueso del muslo que nadie me había podido curar. Te doy con gusto el cordero. Es el más hermoso. Te lo doy para el banquete de alegría. Sé que estás obligado a gastar para el holocausto. Es para el banquete de alegría... tómalo, Maestro."
"Sí, tómalo. Ahorraremos. O mejor: podríamos comérnoslo porque con todas tus prodigalidades, no tengo más dinero" propone Iscariote.
"¿Prodigalidades? ¡Si desde Siquén no se ha gastado ni un céntimo!" protesta Mateo.
"En resumidas cuentas, no tengo más dinero. Lo último lo di a Merode."
"Escucha" dice Jesús al pastor para hacer que Judas se calle, "por ahora no voy a Jerusalén y no puedo llevar conmigo el cordero. De otro modo lo aceptaría con gusto."
"Pero después irás, ¿no? Te quedarás a las fiestas. Tendrás un lugar donde quedarte. Dímelo y loentregaré a tus amigos..."
"No tengo nada de esto... Pero en Nobe tengo un amigo pobre y viejo. Escúchame bien: al día siguiente del sábado pascual, al amanecer, irás a Nobe y dirás a Juan, el anciano de allí -todos te indicarán dónde vive-: "Este cordero te lo manda Jesús de Nazaret, tu amigo, para que te prepares un banquete de alegría, porque mayor alegría no puede haber para los amigos del Mesías". ¿Lo harás?"
"Sí así quieres lo haré."
"Y me sentiré feliz. No antes del día siguiente al sábado. Acuérdate bien. Y acuérdate de mispalabras. Ahora vete, y la paz sea contigo. Conserva tu corazón firme en la paz en los días que están por venir. Esto también recuérdalo y sigue creyendo en mi Verdad. Adiós."
La gente que se había acercado a oír se dispersa cuando el pastor volviendo a guiar su rebaño,hace que se disperse. Jesús lo sigue, aprovechando el espacio abierto.

LA GENTE HACE COMENTARIOS

La gente comenta: "¡Pero va a Jerusalén? ¿No sabe que hay un bando contra Él?"
"¡Eh! pero nadie puede prohibir a un hijo de la ley que se presente ante el Señor para la pascua.¿Es acaso culpable de algún delito público? No. Si lo fuera, Pilatos ya lo hubiera hecho aprisionar como a Barrabás."
Y otros: "¿Oíste? No tiene refugio, ni amigos en Jerusalén. ¿Que todos lo han abandonado?¿Hasta el resucitado? ¡Valiente gratitud!"
"Cállate. Aquellas dos son las hermanas de Lázaro. Soy de la campiña de Mágdala y las conozcobien. Si están con Él, señal es que toda la familia le sigue siendo fiel."
"Tal vez no se atreve a entrar en la ciudad."
"Tiene razón."
"Dios lo perdonará si se queda afuera."
"Es muy prudente. Si fuese aprehendido, terminaría todo antes de su hora."
"Claro. Porque todavía no está preparado para ser proclamado rey nuestro, y Él no quiere seraprehendido."
"Se dice que mientras todos creían que estaba en Efraín, se fue a todas partes, hasta las tribusnómadas, para asegurarse seguidores, soldados y protección."
"¿Quién te lo ha dicho?
"Son las acostumbradas mentiras. Es el Rey santo y no el rey de ejércitos."
"Tal vez celebrará la pascua suplementaria. Así es más fácil que pase sin ser observado. ElSanedrín se disuelve después de las fiestas, y todos los sinedristas vuelven a sus hogares para la cosecha. No vuelve a reunirse sino hasta Pentecostés."
"Cuando los sinedristas no estén ya, ¿quien quieres que le haga mal alguno? Son ellos loschacales."
"¡Que si es prudente! Lo es más que cualquiera. Pero no es un cobarde."
"¿Cobarde? ¿Por qué? Nadie puede tachar de cobarde a quien se cuida para llevar a cabo sumisión."
"Es siempre un cobarde, porque cualquiera misión que se le haya encomendado es inferior aDios. Por esto el culto a Dios es superior a todo."
Palabras y comentarios semejantes van de boca en boca. Jesús simula no oír.
Judas de Alfeo se detiene para esperar a las mujeres, y llegadas -venían con Benjamín unos treinta pasos detrás- dice a Nique: "Repartisteis mucho en Siquén después que partimos."
"¿Por qué?"
"Porque Judas no tiene ni un céntimo. No tendrás sandalias, Benjamín. Mala suerte. No se pudoentrar en Tersa, y aunque hubiéramos podido, no habría habido dinero... Tendrás que entrar en Jerusalén así..."
"Antes está Betania" dice Marta con una sonrisa.
"Y antes Jericó y mi casa" dice Nique, sonriendo.

MARÍA MAGDALENA AHORA QUE TIENE EXPERIENCIA 
DE LO QUE ES NO TENER, HABLA

"Y antes de todo estoy yo. Lo prometí y lo haré. Este es un viaje de experiencias. He visto lo que significa con tener ni un didracma. Y ahora veré lo que es vender algo por necesidad" interviene María Magdalena.
"¿Y qué quieres vender, sino traes tus joyeles?" le pregunta Marta.
"Traigo muchas horquillas de plata. Para sujetarme el cabello bastan de hierro. Las venderé. Jericó está lleno de gente que compra estas cosas. Hoy es día de mercado, también mañana y así varios días, por las fiestas."
"¡Pero, hermana!"
"¿Qué? ¿Te escandalizas de que vayan a pensar que soy tan pobre que venda hasta las horquillas de plata? ¡Hubiera querido haberte dado siempre esta clase de escándalos! Peor era cuando sin necesidad me vendía al vicio a otros y a mí misma."
"¡Silencio, que Benjamín no sabe nada!"
"Todavía no. Y tal vez ignora que fui pecadora. Pero mañana lo sabría de labios de quien me odia porque ya no lo soy, y con ciertos detalles que no existieron. Es mejor que lo sepa de mí misma y vea cuánto puede el Señor que lo recogió. De una pecadora hizo una arrepentida; de un muerto un resucitado. A mí me resucitó en el espíritu, a Lázaro en su cuerpo. Somos dos seres que vivimos.Esto nos lo hizo el Rabí, Benjamín. Recuérdalo siempre y ámalo con todas tus fuerzas porque verdaderamente es el Hijo de Dios.

VOY A DOCO, DICE JESÚS

Algo que no deja avanzar hace que las mujeres alcancen a Jesús y a los apóstoles. Jesús ordena:"Seguid hasta Jericó y entrad si queréis. Voy a Doco. Al anochecer estaré con vosotros."
"¿Por qué nos dejas? No estamos cansadas" protestan todas.
"Porque quisiera que por lo menos algunas de vosotras avisaseis a los discípulos que mañanaestoy en casa de Nique."
"Si es así, vamos. Venid Elisa, Juana, Susana, Marta. Prepararemos todo" habla Nique.
"Yo y Benjamín. Haremos nuestras compras. Bendícenos, Maestro, y regresa pronto. ¿Te quedas, Madre?"
"Sí, con mi Hijo."
Se separan. Con Jesús se quedan las tres Marías: su Madre, su cuñada María Cleofás y MaríaSalomé.

VIENE UNA RICA CARAVANA.  UN JOVEN  HACIENDO ARRODILLAR 
SU CAMELLO BAJA DE SU SILLA Y SE DIRIGE A JESÚS 
EL JOVEN SE POSTRA. 
MAESTRO BUENO, 
¿QUÉ DEBERÉ HACER PARA OBTENER LA VIDA ETERNA?

Jesús deja el camino de Jericó, y toma el que va a Doco. Ha poco caminando cuando he aquí unarica caravana, que debe venir de lejos porque las mujeres vienen montadas en camellos, encerradas dentro de sus movibles tiendas. Hombres de guardia sobre fogosos caballos. Se separa un joven y haciendo arrodillar su camello baja de su silla y se dirige a Jesús. Un siervo corre a tener de las riendas al animal.
El joven se postra ante Jesús y después de una profunda inclinación le dice: "Soy Felipe deCanata, hijo de verdaderos israelitas y tal he sido. Discípulo de Gamaliel hasta que la muerte de mi padre me obligó a hacerme cargo de sus negocios. Varias veces te he escuchado. Conozco tus acciones. Aspiro a una vida mejor para alcanzar la vida eterna que prometes a quien crea en sí tu Reino. Dime, pues, Maestro bueno, ¿qué deberé hacer para obtener la vida eterna?"
"¿Por qué me llamas bueno? Sólo Dios lo es."
"Tú eres el Hijo de Dios, bueno como tu Padre. ¡Oh! ¿dime qué debo hacer?"
"Para entrar en la vida eterna observa los mandamientos."
"¿Cuáles, Señor mío? ¿Los antiguos o los tuyos?"
"En los antiguos están ya los míos, pues no los cambian. Siempre son: adorar amorosamente alDios Verdadero y Único, respetar las leyes de su culto, no matar, no robar, no cometer adulterio, no ser testigo falso, honrar a tu padre y madre, no hacer mal al prójimo, sino amarlo como a ti mismo. Si haces así, alcanzarás la vida eterna."
"Maestro, desde mi niñez he observado todas estas cosas."
Jesús lo mira con ojos amorosos y dulcemente le pregunta: "¿Y no te parece aun suficiente?"
"No, Maestro. El Reino de Dios en nosotros y en la otra vida es una cosa grande. Dios que se nos da es un don infinito. Pienso que respecto al Absoluto, al Infinito, al Perfecto, todo que se debe hacer es poco, y creo que se debe conseguir con cosas mayores que las que se nos mandan, para mostrarle nuestra gratitud."

PARA SER PERFECTO TE FALTA UNA COSA. SI QUIERES SER 
PERFECTO COMO QUIERE NUESTRO PADRE CELESTIAL, 
VE A TU CASA Y VENDE CUANTO POSEES, DALO A LOS POBRES 
Y TENDRÁS UN TESORO EN EL CIELO, DONDE EL PADRE, 
QUE HA DADO SU TESORO A LOS POBRES DE LA TIERRA, 
TE AMARÁ. LUEGO VEN Y SÍGUEME.

"Dices bien. Para ser perfecto te falta una cosa. Si quieres ser perfecto como quiere nuestro Padre celestial, ve a tu casa y vende cuanto posees, dalo a los pobres y tendrás un tesoro en el cielo, donde el Padre, que ha dado su tesoro a los pobres de la tierra, te amará. Luego ven y sígueme."
El joven se entristece, piensa. Se pone de pie, dice: "Tendré presente tu consejo..." y se aleja con tristeza.
Judas irónicamente se sonríe y murmura: "¡No soy el único que ame el dinero!"

CUÁN DIFÍCILMENTE UN RICO ENTRARÁ EN EL REINO 
DE LOS CIELOS CUYA PUERTA ES ESTRECHA, Y EL CAMINO 
ÁSPERO. ... PARA ENTRAR ALLÁ ARRIBA NO HACEN FALTA 
SINO TESOROS DE VIRTUDES, Y SABER SEPARARSE DE TODO 
QUE ES APEGO A LAS COSAS DEL MUNDO Y VANIDAD

Jesús se vuelve, lo mira... luego mira a los otros once que le rodean, suspira: "Cuán difícilmenteun rico entrará en el Reino de los cielos cuya puerta es estrecha, y el camino áspero. No pueden caminar por él, no pueden entrar en ella los que vienen cargando grandes fardos de riquezas. Para entrar allá arriba no hacen falta sino tesoros de virtudes, y saber separarse de todo que es apego a las cosas del mundo y vanidad." Jesús está muy triste...
Los apóstoles se miran de soslayo entre sí...
Jesús al ver la caravana del joven rico que se aleja, añade: "En verdad os digo que es más fácil que un camello pase por el agujero de una aguja, que no lo es para el rico entrar en el Reino de Dios."
"¿Entonces, quién podrá salvarse? La miseria frecuentemente empuja al pecado porque se tieneenvidia o no se respeta lo que es del otro, o se desconfía de la Providencia... La riqueza sirve de obstáculo para la perfección... ¿Entonces quién podrá salvarse?"

LO QUE ES IMPOSIBLE PARA LOS HOMBRES, ES POSIBLE PARA 
DIOS PORQUE ÉL TODO LO PUEDE

Jesús los mira y les dice: "Lo que es imposible para los hombres, es posible para Dios porque Éltodo lo puede. Basta con que el hombre ayude a su Señor con su buena voluntad, que se manifiesta en aceptar el consejo que se recibe y en esforzarse por llegar a desprenderse de las riquezas. En ser libre, para seguir a Dios, pues la verdadera libertad del hombre consiste en: seguir la voz que Dios susurra en el corazón y sus mandamientos, no ser esclavo de sí mismo, ni del mundo, ni del respeto humano, y por lo tanto de SatanásUsar la gran libertad de arbitrio que Dios ha dado al hombre para querer libre y santamente el bien y conseguir así la vida eterna, que es luz, libertad, bienaventuranzaNo hay que ser esclavos ni siquiera de la propia vida, si por conservarla el hombre se opone a Dios. Os lo he dicho: "El que pierda su vida por amor a Mí y por servir a Dios, la salvará en la eternidad"."
"¡Bueno! Nosotros hemos dejado todo por seguirte, aun lo que se nos permitía. ¿Qué sacaremosde ello? ¿Entraremos en tu Reino?" pregunta Pedro.

EN VERDAD OS DIGO TAMBIÉN QUE CUALQUIERA QUE, POR AMOR 
A MÍ, HAYA DEJADO CASA, CAMPOS, PADRE, MADRE, HERMANOS,
 ESPOSA, HIJOS Y HERMANAS, PARA ESPARCIR LA BUENA NUEVA Y
 CONTINUARME, RECIBIRÁ EL CIENTO POR UNO EN ESTE TIEMPO
 Y LA VIDA ETERNA EN LA EDAD QUE ESTÁ POR VENIR

"En verdad, en verdad os digo que los que así me hubieran seguido, y me siguieren -pues siemprehay tiempo de reparar las debilidades y culpas hasta el presente cometidas, y siempre lo hay mientras se vive en la tierra- tales estarán conmigo en mi Reino. En verdad os digo que los que me habéis seguido en la nueva era que llegará os sentaréis sobre tronos a juzgar las naciones de la tierra junto con el Hijo del hombre que estará sentado en su trono de gloria. En verdad os digo también que cualquiera que, por amor a Mí, haya dejado casa, campos, padre, madre, hermanos, esposa, hijos y hermanas, para esparcir la Buena nueva y continuarme, recibirá el ciento por uno en este tiempo y la vida eterna en la edad que está por venir."
"Si perdemos todo, ¿cómo podemos centuplicar nuestros bienes?" pregunta Judas de Keriot.
"Repito: lo que es imposible a los hombres, es posible a Dios. Dios dará el ciento de gozo espiritual a los que quisieron hacerse hijos suyos, esto es, de seres netamente humanos, se hicieron espirituales.Poseerán un gozo acá en la tierra y en el más allá. Os digo también que no todos los que parecen ser últimos, o menos que ello, por no ser aparentemente mis discípulos, y ni siquiera del Pueblo elegido, lo serán. En verdad os digo que muchos que eran los primeros serán los últimos; y que muchos de estos serán los primero... Bien, ved allá Doco. Adelantaos todos menos Judas de Keriot y Simón Zelote. Id a anunciarme a quienes puedan tener necesidad de Mí."
Jesús espera con los otros dos a que los alcancen las tres Marías que los siguen a pocos metros de distancia.
X. 255-260

A. M. D. G.et BVM 

Gesù mio, e quale speranza potrei aver io, che tante volte vi ho voltate le spalle e mi ho meritato l'inferno, di venire fra tante vergini innocenti, fra tanti santi martiri, fra gli apostoli ed i serafini del cielo, a godere la vostra bella faccia nella patria beata, se voi, mio Salvatore, non foste morto per me?



MEDITAZIONE I - 
La Passione di Gesù Cristo e la nostra consolazione.

Chi mai può consolarci tanto in questa valle di lagrime, quanto Gesù crocifisso? Nei rimorsi di coscienza che ci fa sentire la memoria de' nostri peccati, chi solo può raddolcire le punture che ne proviamo, se non il sapere che Gesù Cristo ha voluto dare se stesso alla morte per pagare le nostre colpe? Dedit semet ipsum pro peccatis nostris (Gal. I, 4).

In tutte le persecuzioni, calunnie, disprezzi, privazioni di robe e di onori, che ci accadono in questa vita, vi è chi meglio possa confortarci a soffrirle con pazienza e rassegnazione, se non Gesù Cristo disprezzato, calunniato e povero, che muore nudo ed abbandonato da tutti in una croce?

Nelle infermità chi più ci consola, che la vista di Gesù crocifisso? Allorché stiamo infermi, ci troviamo noi in un letto bene aggiustato; ma a Gesù, quando egli stiè infermo sulla croce dove morì, non toccò altro letto che un rozzo legno, in cui fu appeso a tre chiodi, né altro guanciale per appoggiarvi l'afflitto capo, che quella corona di spine, la quale seguì a tormentarlo finché spirò.

Noi, stando infermi, abbiamo dintorno al letto parenti ed amici che ci compatiscono e ci divertono; Gesù morì in mezzo a nemici, che anche nel tempo ch'egli agonizzava e si accostava alla morte, l'ingiuriavano e deridevano qual malfattore

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e seduttore. Certamente non v'è cosa che possa più sollevare un infermo nelle pene che patisce, e specialmente se taluno nella sua infermità trovasi abbandonato dagli altri, quanto la vista di Gesù crocifisso. Ah che l'unire allora le proprie pene con quelle di Gesù Cristo, è il sollievo più grande che può avere un povero infermo.

Nelle angustie maggiori poi della morte, quali sono gli assalti dell'inferno, la vista de' peccati fatti e 'l conto che tra breve se ne ha da rendere nel divin tribunale, l'unica consolazione che può avere un moribondo, che sta già combattendo colla morte, è l'abbracciarsi col Crocifisso e dirgli: Gesù mio e Redentore mio, voi siete l'amore e la speranza mia.

In somma quanto noi abbiamo di grazie da Dio, di lumi, d'ispirazioni, di santi desideri, di affetti divoti, di dolore de' peccati, di buoni propositi, di amore a Dio e di speranza al paradiso, tutti son frutti e doni che ci provengono dalla Passione di Gesù Cristo.

Ah Gesù mio, e quale speranza potrei aver io, che tante volte vi ho voltate le spalle e mi ho meritato l'inferno, di venire fra tante vergini innocenti, fra tanti santi martiri, fra gli apostoli ed i serafini del cielo, a godere la vostra bella faccia nella patria beata, se voi, mio Salvatore, non foste morto per me? La vostra Passione dunque è quella che, non ostanti i miei peccati, mi fa sperare di venire un giorno ancor io in compagnia de' santi e della vostra santa Madre a cantare le vostre misericordie, a ringraziarvi ed amarvi per sempre in paradiso. Gesù mio, così spero. Misericordias Domini in aeternum cantabo (Ps. LXXXVIII, 2).

Maria madre di Dio, pregate Gesù per me.




<<Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis>>
i

Quanto segue, spero, serva ad innamorarti dell'Opera di Maria Valtorta,  

aiutandoti a far tesoro della Parola del Verbo che più chiara forse non potrebbe risuonare. 

Sono convinto - letteralmente - della bontà divina di quest'Opera che conosco da più di 40 anni. 

Un amico afferma - e direi giustamente - che l'Anno della Fede, oggi iniziato, sarebbe un puro fallimento se non si mettesse sapientemente in luce nella Santa Chiesa "L'Evangelo così come mi è stato rivelato".

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 



L'ENIGMA MARIA VALTORTA

Dal bollettino valtortiano I semestre 2009 (parte Iˆ)

Traduzione dal francese di Claudia Vecchiarelli.

Più di sessant'anni fa, immobilizzata nel suo letto da un'infermità cronica, Maria Valtorta scrisse di proprio pugno, in appena quattro anni. migliaia di pagine manoscritte che sono già diffuse in più di venti lingue.
Trattandosi di una “Vita di Gesù”, quest'opera non lascia indifferenti e suscita sempre appassionate reazioni. L'opera è così eccezionale che merita di essere annoverata tra i capolavori della letteratura universale. Offre la materia per un’inesauribile enciclopedia della vita di Gesù. Infatti quest'opera non solo integra la totalità dei quattro evangeli, ma ne ricostruisce tutto il contesto socioculturale.
Quelli che conoscono l’opera classica Gesù nel suo tempo sono sorpresi. Leggendo Maria Valtorta, nel constatare che la realizzazione del disegno di Henri Daniel-Rops vi è di gran lunga superata. Maria Valtorta mostra una tale capacità nel far rivivere i personaggi e gli avvenimenti che alcuni dotti l'hanno paragonata al genio di uno Shakespeare. Questo si nota soprattutto nel realismo psicologico riguardante innumerevoli personaggi: agendo ognuno, per tutta l'opera, secondo l'età, il sesso, la professione, la sua situazione familiare e sociale, la sua formazione, le sue attitudini.
I più grandi autori si sforzano di raggiungere questo scopo, ma tutt'al più non vi pervengono che per il personaggio che rappresenta sé stessi e per qualcuno vicino. È così che l'eroe del romanzo David Copperfield rappresenta di fatto l'autore Charles Dickens, così come Tom Sawyer ci restituisce interamente l'infanzia di Mark Twain.
Inoltre, la successione degli avvenimenti riportati da Maria Valtorta trova molto naturalmente il suo posto nel quadro storico del primo secolo. Lo storico Elian Cuvillier, rendendosi conto che venti secoli di ricerche incessanti sulla cronologia della vita di Gesù sono apparsi poco fruttuosi, scrisse: "Lo storico ormai sa che è impossibile ricostruire con precisione la Vita di Gesù nel dettaglio ... Quanto a collocare questa o quella parola nel quadro della sua esistenza terrena, ciò è definitivamente impossibile". Chi legge la vita di Gesù nell'opera valtortiana ha la folgorante impressione di una cronologia coerente, completa e senza eguali: il puzzle è completato [È un miraggio?]
Per quanto concerne i testi sacri Maria Valtorta ne manifesta una conoscenza così approfondita che l'eminente biblista Gabriele Allegra (autore della prima traduzione integrale della Bibbia in cinese) si disse stupefatto per "la sorprendente cultura scritturistica" di lei che "si serviva di una semplice versione popolare della Bibbia" (relazione scritta a Macao nel giugno 1970).
Quanto alla geografia, per fissare le carte della Palestina ai tempi di Gesù gli eruditi (e specialmente i ricercatori ebrei) hanno dovuto consultare un cumulo di documenti tra i quali il Talmud, Giuseppe Flavio, le iscrizioni. le tradizioni, fonti archeologiche, ecc. Maria Valtorta nomina centinaia di luoghi e descrive con esattezza e forza dettagli di panorami, strade, corsi d'acqua, rilievi, monumenti, pur non disponendo praticamente di alcuna documentazione specializzata.
Il più sorprendente è che Maria Valtorta, pur avendo una viva intelligenza ed una eccellente memoria, non aveva neppure terminato i suoi studi secondari.

Alcuni dettagli
L’opera trabocca di dati esatti dal punto di vista storico, tipografico, architettonico, geografico, etnologico, cronologico ecc. Inoltre Maria Valtorta fornisce spesso precisazioni conosciute solo da qualche erudito, in certi casi perfino totalmente sconosciute al momento della loro redazione, e che l'archeologia, la storia o la scienza hanno poi confermato.
Lo studio di migliaia di dati, disseminati come per caso in quest'opera, ha permesso di costituire lungo gli anni la imponente base documentaria. Questa ricerca sistematica mette in luce la straordinaria precisione e l’insospettabile livello di coerenza e di credibilità di questa Vita di Gesù di Maria Valtorta.
Prendiamo, per esempio, il caso di Caecilius Maximus, graduato dell'armata romana semplicemente nominato da M. Valtorta [5.329] in un breve dialogo tra due soldati romani all'inizio dell'anno 29. Nell'opera egli non riveste alcun ruolo. Il suo nome, sconosciuto dagli storici quando l’opera fu pubblicata, sembra pura invenzione. Eppure l’esistenza storica del personaggio è oggi convalidata dalla scoperta di una tavoletta d'argilla presso Pompei nel 1959, menzionante la presenza di Caecilius Maximus a Pozzuoli (Puteoli) nel luglio dell'anno 29. Coincidenza?
Sorprendente è anche ciò che M. Valtorta chiama “le rovine ciclopiche dell'antica Hatzor" [3.160]. Certo, la scoperta del luogo risale al 1870, ma è stato necessario attendere la campagna di scavi iniziata nel 1955 (prosegue ancora nel 2008) per avere un'idea della sua estensione. Nessuno (prima di M. Valtorta nel 1945) ne aveva evocata la grandezza. Gli scavi coprono oggi una superficie di 80 ettari e costituiscono il più vasto cantiere archeologico di Israele!
Altrove M. Valtorta descrive a lungo il luogo in cui avviene l'elezione apostolica: " ... una gola fra le colline … Fra l'una e l'altra collina rocciosa, scabra, che si apre a picco come un fiordo ... " [3.164]; e nel capitolo successivo scrive che Gesù “... scende, perché la sua caverna è la più alta. entrando di volta in volta nelle grotte ... " [3.165]. La descrizione è così dettagliata che il ricercatore può localizzare queste grotte molto prima di sapere, circa mille pagine dopo [360.6], che si tratta delle grotte di Arbela.
Lo stesso per il monte del sermone sulla Montagna: “Poi il monte ha un altro balzo in altezza e sale con una salita piuttosto accentuata fino ad un picco, che poi si abbassa per rialzarsi di nuovo con un picco simile. in una bizzarra forma di sella" [3.169]. "La collina ha la vetta in forma di giogo, anzi, è più chiaro, in forma di gobba di cammello ... " [3.174]. La descrizione designa senza equivoco il luogo chiamato le Corna diHattin. 
Quando più oltre M. Valtorta menziona un monte che "alle spalle di Efraim è proprio un gigante verde che domina sugli altri" [8.552], non può essere che l'attuale Tel Asour", che con i suoi 1011 metri è il punto culminante della Giudea-Samaria.
Sono centinaia gli esempi che si raccolgono lungo tutta l'opera, sebbene questascienza passi inosservata alla prima lettura. Tuttavia l'estrema esattezza geografica non è affatto il solo "enigma Valtorta".

La fuga in Egitto
Quando Maria Valtorta descrive il soggiorno della Santa Famiglia in Egitto sembra dapprima che ne ignori l'esatta localizzazione. Scrive: "Il luogo è in Egitto. Non ho dubbi, perché vedo il deserto e una piramide" [1.036], e un po' oltre: " ... il sole cala verso le sabbie nude, e un vero incendio invade tutto il cielo dietro la piramide lontana"[1.036]. "La piramide sembra più scura" [1.036]. Bisogna arrivare al volume seguente per apprendere che la fuga era terminata a Matarea: " ... non Lui che era fuggito oltre Matarea" [2.119]; "E sarà più triste del tuo primo genetliaco in Matarea" [2.133]; e poi al volume 4°: "Per quanto la bontà del Signore ci avesse fatto men duro l'esilio a Matarea, in mille modi" [4.247].
Matarea (oggi EI Matariya) è un quartiere dell'antica città di Heliopolis, posta a 20 Km a nord/nord-est delle tre piramidi di Gizeh. Era una terra ospitale per gli ebrei perseguitati, e ai tempi di Gesù vi dimorava una importante colonia giudaica.
La menzione più antica di Matarea come rifugio della Santa Famiglia proviene dal vangelo gnostico detto "di Tommaso" del 2° secolo. Dopo quest'epoca, e fino ad oggi, si venera in questo luogo la "fontana della Vergine" e "l'albero di Maria", ricordati peraltro nel testo di M. Valtorta. Henri de Beauvau, nel Voyage au Levant (1615),nomina questo luogo: "La Matarea, luogo dove la Vergine si salvò con il suo caro figlio sfuggendo alla persecuzione di Erode ... ". Cornelis de Bruyn passa per Matarea nel 1685 e spiega: "È qui che si crede che Giuseppe e Maria scelsero la loro dimora quando si ritirarono in Egitto ... ".
Perché M. Valtorta vede in questo luogo una sola delle tre piramidi? Bisogna rilevare che le piramidi di Gizeh erano orientate a sud-ovest/nord-est. Matarea si trovaesattamente sul loro asse e dunque, solo in questo stretto settore, la piramide di Cheope nasconde effettivamente quelle di Chefren e di Micerino, situate proprio dietro di essa! L'utilizzo di un semplice articolo al singolare - "la" piramide - apporta un forte indice di autenticità alla visione di questa scena da parte di M. Valtorta.

La foresta pietrificata. 
Nel volume 4° [4.248], Gesù rievoca la sua prima infanzia in Egitto: " ... foreste pietrificate che si vedono sparse per la valle del Nilo e nel deserto egiziano. Erano boschi e boschi di piante vive ... Poi, per una ignota causa, come cose maledette, esse si sono non solo disseccate, come fanno le piante ... , ma pietra sono divenute. Pietra. La silice del suolo sembra essere salita per un sortilegio dalle radici al tronco, ai rami, alle fronde ... ".
Queste foreste fossili sussistono ancora ai nostri giorni e specialmente quella situata a 17 km a sud-est di Matarea. Si tratta di Al-Ghaba Al-Motahagguéra (la foresta pietrificata) presso El Maadi. Questa foresta fu riscoperta verso il 1840 ma è rimasta poco conosciuta in Europa fino ai nostri giorni. Essa è ora molto minacciata dall'urbanizzazione e la zona restante (7 kmq) è stata classificata luogo protetto nel 1989 e fu iscritta nel patrimonio dell'Unesco nel 2003. E la teoria detta "sostituzione dalla silice" è una delle due sole teorie ritenute oggi per spiegare la formazione di questa foresta!
Nuovi elementi del dossier dell' "enigma Valtorta"!

Indagine in Fenicia. 
Maria Valtorta nella sua opera, a più riprese, menziona Alessandroscene, antica città molto poco conosciuta ai nostri giorni. Ella dà descrizioni precise e dettagliate della sua posizione.
"E la marcia continua per la pianura, che si restringe sempre più per l'avanzarsi delle colline verso il litorale, tanto che dopo un altro torrente, con l'indispensabile ponte romano, la strada in pianura diviene strada nel monte, biforcandosi al ponte con una meno ripida che si dilunga verso nord-est per una valle, mentre questa, scelta da Gesù, secondo l'indicazione del cippo romano: Alessandroscène - m. V°, è una vera e propria scala nel monte roccioso ed erto che tuffa il muso aguzzo nel Mediterraneo, che sempre più si spiega alla vista man mano che si sale. Solo pedoni e somarelli percorrono quella via, quella gradinata, sarebbe meglio detto ... " (Si possono leggere il seguito in 5.328 e altri particolari in 330.8 e in 474.8).
Tutte queste descrizioni sono perfettamente esatte e verificabili oggi.
Situato all'estremo nord di Israele, Roch Hanikra (o Ras el-Nakoura) spinge le sue falesie di gesso bianco nel Mediterraneo. I pellegrini cristiani avevano denominato questo luogo Scala Tyriorum, scale di Tiro. Alessandro il Grande avrebbe fatto scavare verso il 333 a.C. queste scale (o questi gradini) per i suoi soldati e le loro cavalcature. Poi esse furono usate dalle legioni romane e dai crociati. Luogo praticamente dimenticato ai nostri giorni, non ne rimane che qualche incisione del 190 secolo ... Proprio come M. Valtorta l'ha letto sul cippo romano, la città era effettivamente posta a 5 miglia romane (m. V°) (esattamente 7,5 km) dal luogo dove iniziano le scale di Tiro, come l'hanno confermato scavi recenti (a 4 km al nord della base militare dell'ONU di Naqurah).
Ecco come era descritta questa regione nel 2007 da una guida turistica di Tiro: "Tra due promontori della costa fenicia - Ras el Bayada e Ras en Naqurah - si trovano le rovine di una considerevole città senza storia. se non che Alessandro il Grande vi dimorò dopo la cattura di Tiro. In suo onore fu costruita una città e fu chiamata Alessandroscene". Perfetta coincidenza con Maria Va1torta!.
Questa città esisteva ai tempi di Gesù, dato che il pellegrino di Bordeaux, nel 333, menziona di avervi fatto tappa. Ma nel 19° secolo non ne restava che qualche pietra.
Una semplice foto di roch Hanikra giustifica quest'altra descrizione: "Il paese è raggiunto. Un mucchietto di case di pescatori messo a ridosso di uno sperone di monte che viene verso mare" [5.318]; e: "Gesù, guardando come fa da più lati, vede perciò una catena ondulata di monti che all'estremo nord-ovest e sud-ovest tuffa l'ultima propaggine in mare: a sud-ovest col Carmelo ... ; a nord-ovest con un capo tagliente come uno sperone di nave, molto simile alle nostre Apuane per vene rocciose biancheggianti al sole" [5.325].
Maria Valtorta ha descritto perfettamente nel 1945 la costa israelo-libanese, cosÌ come un'antica città dimenticata, figurante solo su qualche raro documento antico e conosciuta attualmente da pochi specialisti!
"L'enigma Valtorta" continua ...

Coccodrilli in Giudea? 
Nella sua opera Maria Valtorta nomina in più occa­sioni, con molta giustezza e coerenza, la fauna e la flora della Palestina. Ma il lettore può essere sorpreso quando, venendo da Sicaminon e avvicinandosi a Cesarea, il grup­po apostolico vede dei piccoli sauri. Lo spazio qui non consente di riportare brani del gustoso dialogo suscitato dalla presenza di quei piccoli ma voraci coccodrilli, paragonati a "grossi lucertoloni". Rimandiamo il lettore al capitolo 254 dell'opera.
La presenza di coccodrilli nella pianura di Saron certamente meraviglia e può sembrare anacronistico. Ma Plinio, nella sua Storia naturale, ricorda in questo luogo ilCrocodilum flumen, e il geografo Stradone parla delle rovine di una città chiamataKrokodeilon polis (che l'archeologo R. Stieglitz ha portato alla luce nel 1999).
L'esistenza di questi piccoli coccodrilli fu confermata da molti pellegrini nel corso dei secoli. Segnaliamo Jacques de Vitry (1230), R. Pockocke (1760), o Joseph Fr. Michaud che conferma nel 1831: "questi coccodrilli sono della specie più piccola". Poi Victor Guérin nel 1883 precisa: "ci sono dei piccoli coccodrilli in questo modesto fiume, e non bisogna bagnarcisi senza precauzione .... essi erano piccoli dai cinque ai sei piedi circa di lunghezza ... dei coccodrilli sarebbero stati trasportati un tempo dall'Egitto in Palestina".
La riva e il ponte descritti da M. Valtorta [4.254] esistono anch'essi. La riva si chiama il Nahr ez Zerqa, e in Lands oJ the Bible,1881, McGarvey rileva i resti di un ponte antico, a 1,5 km dalla foce di questo fiume. Si può dunque dare credito o attenzione al dialogo che segue a questo incontro inatteso e che evidenzia il terrore provato da Marta di Betania, alla quale Gesù sembra preconizzare un futuro di donna coraggiosa [4.254].
È un dettaglio che può passare inosservato o sembrare enigmatico a lettori non francesi, ma ha senso per chi in Francia conosce l'antica tradizione provenzale delle Saintes- Maries-de-Ia - Mel'.
La Legenda aurea (Giacomo da Varazze, 1255) vi racconta che Marta, superando la sua paura, liberò i rivieraschi del Rodano, nella valle d'Avignone, dalla Tarrasque, queldrago ne dalla lunga coda che divorava uomini bestiame. Molti storici pensano che si trattasse probabilmente di un coccodrillo. Questo animale avrebbe raggiunto il Rodano dopo il naufragio di un battello che lo trasportava verso qualche vicino anfiteatro. La Tarrasque diwnne così il simbolo di Tarascona.
Con i suoi scritti M. Valtorta, nello svelarci una curiosità storica poco conosciuta, rafforza lo. credibilità di una leggenda provenzale. Semplice e geniale ispirazione d'autore?

Tanti altri luoghi "dimenticati". 
La citazione o la descrizione di numerosi luoghi della Palestina, conosciuti nel 1944 solo da qualche raro erudito, furono una delle sorprese dell'eminente specialista Padre François Paul Dreyfus. Eccone alcuni dati:
Jotapata [5.315], attuale Tel Yodefat, è perfettamente localizzata e descritta dalla Valtorta, mentre il luogo è stato riscoperto dagli archeologi solo negli anni 1992-1994.
Magdalgad, piccolo paese sulla collina [3.220], è menzionato una sola volta nella Bibbia (Giosuè 15, 37). All'epoca della Valtorta l'ubicazione era ancora controversa. Identificata ora con la moderna AI-Majdal, a circa km. 4,8 a nord-est di Ascalona (in perfetta conformità con la descrizione valtortiana), il luogo è oggi inserito nel sobborgo di Ascalona.
Lesendam. Laishem Dan, la città di La'ish, appare sotto questo nome una sola volta nella Bibbia (Giosuè 19,47). La Valtorta rievoca il passaggio di Gesù nelle vicinanze [5.330 e 5.331]. Tuttavia la riscoperta dell'antica città di Tel Dan (Tell el-Qadi), attuale nome dell'antica La'ish, non ebbe luogo che nel 1966 grazie agli scavi israeliani.
Rohob. Antica capitale del regno aramaico, la città fu ostile a David. La Bibbia (Giudici 18,28) la situa nella regione di Laïsh, ma la posizione esatta resta ancora oggi sconosciuta. Alcuni congetturano che essa sarebbe l'attuale Hunin, ad una decina di chilometri a ovest di Banias, il che ben corrisponde alla menzione valtortiana per bocca di un pastore [5.330]: "lo pascolo tra Rohob e Lesemdan, proprio sulla strada che è di confine fra qui e Neftali".
Doco. Ecco una città oggi totalmente scomparsa e dimenticata. Eppure la Valtorta la menziona una quindicina di volte nella sua opera come luogo di passaggio o di in­contro per chi costeggia il Giordano da nord a sud, attra­versa la Giudea da Betel a Gerico, o va verso la Decapoli venendo da Gerusalemme. Si tratta senza alcun dubbio di A'im Duk, situata ai piedi nord-est del Jebel Karantal. C'era lì, ai tempi di Gesù, una fortezza chiamata Docus dai romani. Fu lì che Simone Maccabeo fu invitato ad un banchetto dal genero Tolomeo e fu trucidato nel 135 a.C. (1 Maccabei 16, 11-17).
Ramot. Ramoth en Galaad o Ramoth Gileat era, con Betser e Golan, una delle tre città di rifugio della Transgiordania date ai Leviti. Numerose volte menziona­ta nella Bibbia, l'ubicazione esatta di questa città è sempre stata discussa. Sono stati proposti tre siti principali: Tell er-Rumeith che fu scavata nel 1960 e comprende delle vestigia dell'Età del Ferro. Tuttavia alcuni pensano che il sito era troppo piccolo per corrispondere alla de­scrizione biblica. Tell el-Husn è un'altra possibilità, ma un cimitero mussulmano postovi sopra impedisce ogni scavo. La terza candidata è Ar-Ramtha, ma anche là, la città moderna sortavi sopra rende impossibili gli scavi. Nell'opera valtortiana Gesù con i suoi, venendo da Gerico e recandosi a Gerasa, fa tappa a Ramoth. Un mercante che li accompagna dice a Maria: "Vedi, o Donna, quel paese? È Ramot. Là ci fermeremo ... " [4.286]. Con la descrizione e uno schizzo manoscritto [4.287] la Valtorta situa Ramot nel luogo dell'attuale Es Salt, esattamente a metà percorso tra Gerico e Gerasa, tagliando questo percorso in due lunghe tappe di 33 km ciascuna. Ed è ancora più notevole quando si scopre che Es Salt è riconosciuta oggi dagli ar­cheologi come il luogo più probabile per Ramot!
Sarebbe sicuramente possibile moltiplicare tali esempi, ma gli argomenti "sorprendenti" in quest'opera sono ancora così tanti che è necessario fermarsi. Segnaliamo solo che Maria Valtorta menziona con il loro nome più di 300 località, monti, fiumi, regioni e altri dati geografici, e li localizza con esattezza, il che è già notevole. Un'analisi completa richiederà un'opera voluminosa.
Vorrei solo richiamare l'attenzione su un fatto ancora più inaspettato. Uno studio più approfondito sul testo dell'opera valtortiana permette di identificare numerosi altri luoghi senza storia e dei quali la Valtorta non conosce nemmeno il nome. Questi luoghi, sconosciuti dalle enciclopedie bibliche per il semplice fatto del loro anonimato, non possono dunque apparire nelle ricerche basate su una semplice indicizzazione del testo. Ora le descrizioni di questi luoghi anonimi si rivelano assolutamente esatte ogni volta che le nostre conoscenze attuali permettono di identificarli, sia che si tratti di corsi d'acqua, o di strade romane, o di monti, o delle più umili colline, o dei più modesti villaggi. Spesso la Valtorta, quando prova qualche difficoltà nel trovare le parole per descrivere ciò che "vede", aggiunge uno schizzo sul suo manoscritto. Tali disegni, benché tecnicamente molto maldestri, sono tuttavia preziosi per perfezionare certe descrizioni.
Maria Valtorta raggiunge anche un grado tale di precisione e di esattezza che io personalmente non ho mai riscontrato nei numerosi autori di racconti di viaggi in Terra Santa, da me consultati durante questo studio. Potrei fornirne molti esempi, ma per esigenze di spazio posso darne uno solo.
Nella primavera del secondo anno, Gesù con i suoi va in pellegrinaggio al Tempio per l'esame della maggiore età di Margziam e per la festa di Pasqua. Si avvicinano a Betel, venendo da Sichem: " ... una nuova salita molto ripida ... Giunti alla cima, ecco in lontananza splendere, già distintamente, un mare lucente, sospeso sopra un agglomerato bianco ... " [3.194]. Gesù dice allora a Margziam:
"Vedi quel punto d'oro? È la Casa del Signore. Là tu giurerai di ubbidire alla Legge". Sapendo che sono a 25 km da Gerusalemme, questa osservazione di Gesù potrebbe sorprenderci.
Ora, secondo i racconti dei pellegrini dei secoli passati, Gerusalemme (e dunque il Tempio) era visibile da molto lontano per chi veniva dal nord. Ma la testimonianza di Léonie de Bazelaire (Chevauchée en Palestine, 1899, p. 93) non lascia spazio al dubbio. Infatti, venendo da Nablus, dice di scorgere Gerusalemme come "massa biancastra in lontananza" da una collina che precede Betel, in esatta conformità con l'indicazione dataci dalla Valtorta.
Gli esempi, che si possono moltiplicare, permettono di comprendere ciò che disse Gesù a Maria Valtorta: "Giorni or sono dicesti che muori col desiderio inappa­gato di vedere i Luoghi Santi. Tu li vedi, e come erano quando lo li santificavo con la mia presenza. Ora, dopo venti secoli di profanazioni venute da odio o da amore, non sono più come erano. Perciò pensa che tu li vedi e chi va in Palestina non li vede" (I quaderni del 1944, 3 marzo).
Il lettore attento avrà notato che le descrizioni sono molto minuziose nei primi volumi e più contenute negli ultimi volumi, in conformità con le parole di Gesù alla scrittrice [5.297]: "Ti autorizzo ad omettere le descrizioni dei luoghi. Tanto abbiamo dato per i ricercatori curiosi. E saranno sempre 'ricercatori curiosi'. Nulla più. Ora basta. La forza fugge. Serbala per la parola. Con lo stesso animo col quale constatavo l'inutilità di tante mie fatiche, constato l'inutilità di tante tue fatiche. Perciò ti dico: serbati solo per la parola".
Non c'è dubbio che l'opera di Maria Valtorta possa perfino essere l'origine di nuove scoperte archeologiche, quando gli specialisti in questo ambito avranno più pienamente preso coscienza della pertinenza e della ricchezza delle sue descrizioni.















                                                                                     AVE MARIA PURISSIMA!