Eminenza, sono uno dei tanti veneziani che il destino ha portato altrove, ma sempre legato alla città e al suo Patriarcato dove, giovanissimo, ho ricevuto l’istruzione religiosa tra i sodales del «Collegium Tarcisii», associazione un tempo voluta dal Suo lontano, venerato predecessore cardinal Pietro La Fontaine. E dove si sono succeduti, quali i presbteri, sacerdoti di grandissimo valore umano e religioso, quali monsignor Ugo Camozzo che sarà arcivescovo di Pisa e monsignor Giuseppe Olivotti che diverrà vescovo ausiliare del patriarca Angelo Roncalli. Monsignor Rino Vianello e monsignor Renato Volo, più tardi, ne raccoglieranno l’eredità. Collaborò all’opera educativa del Collegium anche monsignor Loris Capovilla che diverrà segretario particolare di Roncalli e seguirà poi il Patriarca di Venezia elevato al soglio di Pietro. Ho conosciuto personalmente in Venezia questi eminenti sacerdoti ma ho anche amato il semplice parroco di campagna che andava per le strade sterrate in bicicletta, con la retina sulla ruota posteriore per via della tonaca.
A quel tempo la gente per la strada vedeva una tonaca e vedeva un prete, spesso lo riveriva con rispetto anche se non conosciuto. Oggi è nota la carenza di vocazioni sacerdotali, tanto è vero che nelle nostre campagne un solo prete si deve talora occupare di più sedi parrocchiali, con notevole impegno professionale. Pochi dunque sono oggi i preti ma quello che rattrista noi fedeli è che non li riconosciamo più: vestono con polo o maglione, non sempre freschissimi, indossano jeans, e questo non è un bel vedere. E’ vero, alcuni portano una crocetta, ma questa non può essere un esclusivo segno di appartenenza all’ordine sacerdotale: croci e crocette d’oro o dorate, ciondolano anche dalle collane sulle scollature di attrici e soubrette, che confessionali non sono. L’immagine del prete tra la gente non è più una realtà. Oggi la talare viene indossata dal Papa e dai vescovi. Alternativa, tranne per il Pontefice, è il clergyman. Ma il semplice e pur sempre caro prete se ne va in giro in abiti borghesi.
Si può obiettare che la veste non fa il monaco, forse è vero ma: «conviene saper portare dappertutto e con grande dignità l’abito talare, immagine della tunica di Cristo» (Giovanni XXIII, 1959) e «…la semplicità di vita e l’abito ecclesiastico costituiscono segni evidenti del fatto che il sacerdote è un uomo "a parte" a servizio del Vangelo» (Giovanni Paolo II, 1999) e ancora «…anche nell’abito il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale…» (Benedetto XVI, 2010). Inoltre la Cei, nel 1966, stabiliva che in ogni circostanza (con dispensa in casi particolari) l’abito talare o il clergyman devono essere indossati dagli ecclesiastici «utpote sacerdotii signum». Vi è dunque un preciso richiamo «ad audiendum verbum» che il prete non può disattendere, anche perché ogni fedele lo vuole diverso dai comuni mortali, non solo nella santità della vita ma anche nell’umano apparire. Eppure non si hanno risposte. Eminenza, sarebbe edificante incontrare ancora per le strade di ogni diocesi un prete finalmente vestito da prete e con lui poter scambiare un saluto con la rituale e antica formula di fede: «Sia lodato Gesù Cristo» e «Sempre sia lodato». Così sia. Con rispettoso ossequio.
LAUDETUR JESUS
CHRISTUS!
LAUDETUR CUM
MARIA!
SEMPER LAUDENTUR!