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lunedì 9 settembre 2013

Un giardino a forma di cuore.


I

«Ho visto, ella raccontava il primo giorno, un giardino a forma di cuore, que­sto giardino era secco, arido. Gli alberi erano disseccati, non avevano foglie; l'er­ba era bruciata. Mancavano l'acqua per dissetarsi, e l'aria per respirare. 

In segui­to, ho visto in lontananza Gesù, triste, sofferente, piangente, coperto di polvere, nella più grande angoscia. Mi è sembrato che io stessa, al vederlo, fossi caduta nella tristezza, nella sofferenza, nell'angoscia. In una parola, ho provato tutti i sen­timenti, tutte le impressioni che vedevo in Gesù. Mi sono prosternata ai suoi pie­di, ed ho asciugato le sue lacrime con le mie, mi sembrava almeno che fosse così. Dal profondo del cuore avrei voluto asciugare la polvere dei suoi piedi e quella che lo copriva. Gesù è entrato in questo giardino inaridito, ma non vi ha trovato né aria, né acqua, né ombra, ed è divenuto ancora più triste, più oppresso, più soffe­rente. 

Non vi è rimasto a lungo, uscito quasi subito da questo giardino è entrato in un altro, accanto. 

In questo, ha trovato del verde, fiori, alberi da frutto e frutti ma­turi. Tutti gli alberi erano verdi, coperti da un fogliame folto e ombroso. C'erano aria ed acqua in abbondanza, la terra era lì ben lavorata e umidificata. In questo giardino; Gesù è parso ritornare in salute, è diventato giovane, sorridente, ed ha detto: Qui fa bel tempo: c'è aria per respirare, acqua per dissetarsi, frutta per mangiare, ombra per riposarsi. Ed è rimasto a lungo in questo giardino e vi stava molto bene. 

Non comprendendo il senso di ciò che vedevo, mi sono rivolta a un giovane che mi guidava a Gesù, e gli ho chiesto quello che ciò significasse. 

Egli mi ha detto: Il secondo giardino rappresenta l'anima fedele e umile che riceve e conserva le acque della grazia, mentre il primo giardino, che non è lavorato, è il simbolo delle anime orgogliose, le quali non conservano per loro l'acqua della grazia, vittime delle lo­ro passioni che le bruciano. L'aria che si respira nel buon giardino è il simbolo del­le aspirazioni dell'anima verso Gesù: queste aspirazioni sono la sua vita. I fiori rappresentano le virtù dell'anima; i frutti, sono le buone opere, la mortificazione, la penitenza, con le quali essa guadagna altre anime a Gesù. Le foglie degli albe­ri raffigurano la carità con l'ombra che esse danno. La aridità e la durezza della terra del cattivo giardino rappresentano un cuore indurito».
Gesù Maria Amore
venite insieme nel mio cuore

lunedì 1 luglio 2013

Ambrogio Autperto



L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Ambrogio Autperto.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Ambrogio Autperto

Cari fratelli e sorelle,

la Chiesa vive nelle persone e chi vuol conoscere la Chiesa, comprendere il suo mistero, deve considerare le persone che hanno vissuto e vivono il suo messaggio, il suo mistero. 

Perciò parlo da tanto tempo nelle catechesi del mercoledì di persone dalle quali possiamo imparare che cosa sia la Chiesa. Abbiamo cominciato con gli Apostoli e i Padri della Chiesa e siamo pian piano giunti fino all’VIII secolo, il periodo di Carlo Magno.
Oggi vorrei parlare di Ambrogio Autperto, un autore piuttosto sconosciuto: le sue opere infatti erano state attribuite in gran parte ad altri personaggi più noti, da sant’Ambrogio di Milano a sant’Ildefonso, senza parlare di quelle che i monaci di Montecassino hanno ritenuto di dover rivendicare alla penna di un loro abate omonimo, vissuto quasi un secolo più tardi. A prescindere da qualche breve cenno autobiografico inserito nel suo grande commento all’Apocalisse, abbiamo poche notizie certe sulla sua vita. L’attenta lettura delle opere di cui via via la critica gli riconosce la paternità consente però di scoprire nel suo insegnamento un tesoro teologico e spirituale prezioso anche per i nostri tempi.

Nato in Provenza, da distinta famiglia, Ambrogio Autperto – secondo il suo tardivo biografo Giovanni – fu alla corte del re franco Pipino il Breve ove, oltre all’incarico di ufficiale, svolse in qualche modo anche quello di precettore del futuro imperatore Carlo Magno. Probabilmente al seguito di Papa Stefano II, che nel 753-54 si era recato alla corte franca, Autperto venne in Italia ed ebbe modo di visitare la famosa abbazia benedettina di san Vincenzo, alle sorgenti del Volturno, nel ducato di Benevento. Fondata all’inizio di quel secolo dai tre fratelli beneventani Paldone, Tatone e Tasone, l’abbazia era conosciuta come oasi di cultura classica e cristiana. Poco dopo la sua visita, Ambrogio Autperto decise di abbracciare la vita religiosa ed entrò in quel monastero, dove poté formarsi in modo adeguato, soprattutto nel campo della teologia e della spiritualità, secondo la tradizione dei Padri. Intorno all’anno 761 venne ordinato sacerdote e il 4 ottobre del 777 fu eletto abate col sostegno dei monaci franchi, mentre gli erano contrari quelli longobardi, favorevoli al longobardo Potone. La tensione a sfondo nazionalistico non si acquietò nei mesi successivi, con la conseguenza che Autperto l’anno dopo, nel 778, pensò di dare le dimissioni e di riparare con alcuni monaci franchi a Spoleto, dove poteva contare sulla protezione di Carlo Magno. Con ciò, tuttavia, il dissidio nel monastero di S. Vincenzo non venne appianato, e qualche anno dopo, quando alla morte dell’abate succeduto ad Autperto fu eletto proprio Potone (a. 782), il contrasto tornò a divampare e si giunse alla denuncia del nuovo abate presso Carlo Magno. Questi rinviò i contendenti al tribunale del Pontefice, il quale li convocò a Roma. Chiamò anche come testimone Autperto che, però, durante il viaggio morì improvvisamente, forse ucciso, il 30 gennaio 784.

Ambrogio Autperto fu monaco ed abate in un’epoca segnata da forti tensioni politiche, che si ripercuotevano anche sulla vita all’interno dei monasteri. Di ciò abbiamo echi frequenti e preoccupati nei suoi scritti. 

Egli denuncia, ad esempio, la contraddizione tra la splendida apparenza esterna dei monasteri e la tiepidezza dei monaci: sicuramente con questa critica aveva di mira anche la sua stessa abbazia. Per essa scrisse la Vita dei tre fondatori con la chiara intenzione di offrire alla nuova generazione di monaci un termine di riferimento con cui confrontarsi. 

Uno scopo simile perseguiva anche il piccolo trattato ascetico Conflictus vitiorum et virtutum ("Conflitto tra i vizi e le virtù"), che ebbe grande successo nel Medioevo e fu pubblicato nel 1473 a Utrecht sotto il nome di Gregorio Magno e un anno dopo a Strasburgo sotto quello di sant’Agostino. In esso Ambrogio Autperto intende ammaestrare i monaci in modo concreto sul come affrontare il combattimento spirituale giorno per giorno. In modo significativo egli applica l’affermazione di 2 Tim 3,12: "Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati" non più alla persecuzione esterna, ma all’assalto che il cristiano deve affrontare dentro di sé da parte delle forze del male. Vengono presentate in una specie di disputa 24 coppie di combattenti: ogni vizio cerca di adescare l’anima con sottili ragionamenti, mentre la rispettiva virtù ribatte tali insinuazioni servendosi preferibilmente di parole della Scrittura.

In questo trattato sul conflitto tra vizi e virtù, Autperto contrappone alla cupiditas (la cupidigia) il contemptus mundi (il disprezzo del mondo), che diventa una figura importante nella spiritualità dei monaci. Questo disprezzo del mondo non è un disprezzo del creato, della bellezza e della bontà della creazione e del Creatore, ma un disprezzo della falsa visione del mondo presentataci e insinuataci proprio dalla cupidigia. 

Essa ci insinua che "avere" sarebbe il sommo valore del nostro essere, del nostro vivere nel mondo apparendo come importanti. E così falsifica la creazione del mondo e distrugge il mondo. Autperto osserva poi che l’avidità di guadagno dei ricchi e dei potenti nella società del suo tempo esiste anche nell’interno delle anime dei monaci e scrive perciò un trattato intitolato De cupiditate, in cui, con l’apostolo Paolo, denuncia fin dall’inizio la cupidigia come la radice di tutti i mali. Scrive: "Dal suolo della terra diverse spine acute spuntano da varie radici; nel cuore dell’uomo, invece, le punture di tutti i vizi provengono da un’unica radice, la cupidigia" (De cupiditate 1: CCCM 27B, p. 963). Rilievo, questo, che alla luce della presente crisi economica mondiale, rivela tutta la sua attualità. Vediamo che proprio da questa radice della cupidigia tale crisi è nata.
Ambrogio immagina l’obiezione che i ricchi e i potenti potrebbero sollevare dicendo: ma noi non siamo monaci, per noi certe esigenze ascetiche non valgono. E lui risponde: "È vero ciò che dite, ma anche per voi, nella maniera del vostro ceto e secondo la misura delle vostre forze, vale la via ripida e stretta, perché il Signore ha proposto solo due porte e due vie (cioè la porta stretta e quella larga, la via ripida e quella comoda); non ha indicato una terza porta ed una terza via" (l. c., p. 978). Egli vede chiaramente che i modi di vivere sono molto diversi. Ma anche per l’uomo in questo mondo, anche per il ricco vale il dovere di combattere contro la cupidigia, contro la voglia di possedere, di apparire, contro il concetto falso di libertà come facoltà di disporre di tutto secondo il proprio arbitrio. Anche il ricco deve trovare l’autentica strada della verità, dell’amore e così della retta vita. Quindi Autperto, da prudente pastore d’anime, sa poi dire, alla fine della sua predica penitenziale, una parola di conforto: "Ho parlato non contro gli avidi, ma contro l’avidità, non contro la natura, ma contro il vizio" (l. c., p. 981).

L’opera più importante di Ambrogio Autperto è sicuramente il suo commento in dieci libri all’Apocalisse: esso costituisce, dopo secoli, il primo commento ampio nel mondo latino all’ultimo libro della Sacra Scrittura. Quest’opera era frutto di un lavoro pluriennale, svoltosi in due tappe tra il 758 ed il 767, quindi prima della sua elezione ad abate. Nella premessa, egli indica con precisione le sue fonti, cosa assolutamente non normale nel Medioevo. Attraverso la sua fonte forse più significativa, il commento del Vescovo Primasio Adrumetano, redatto intorno alla metà del VI secolo, Autperto entra in contatto con l’interpretazione che dell’Apocalisse aveva lasciato l’africano Ticonio, che era vissuto una generazione prima di sant’Agostino. Non era cattolico; apparteneva alla Chiesa scismatica donatista; era tuttavia un grande teologo. In questo suo commento egli vede soprattutto nell’Apocalisse riflettersi il mistero della Chiesa. Ticonio era giunto alla convinzione che la Chiesa fosse un corpo bipartito: una parte, egli dice, appartiene a Cristo, ma c’è un’altra parte della Chiesa che appartiene al diavolo. Agostino lesse questo commento e ne trasse profitto, ma sottolineò fortemente che la Chiesa è nelle mani di Cristo, rimane il suo Corpo, formando con Lui un solo soggetto, partecipe della mediazione della grazia. Sottolinea perciò che la Chiesa non può mai essere separata da Gesù Cristo. Nella sua lettura dell’Apocalisse, simile a quella di Ticonio, Autperto non s’interessa tanto della seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi, quanto piuttosto delle conseguenze che derivano per la Chiesa del presente dalla sua prima venuta, l’incarnazione nel seno della Vergine Maria. E ci dice una parola molto importante: in realtà Cristo "deve in noi, che siamo il suo Corpo, quotidianamente nascere, morire e risuscitare" (In Apoc. III: CCCM 27, p. 205). Nel contesto della dimensione mistica che investe ogni cristiano, egli guarda a Maria come a modello della Chiesa, modello per tutti noi, perché anche in noi e tra noi deve nascere Cristo. Sulla scorta dei Padri che vedevano nella "donna vestita di sole" di Ap 12,1 l’immagine della Chiesa, Autperto argomenta: "La beata e pia Vergine … quotidianamente partorisce nuovi popoli, dai quali si forma il Corpo generale del Mediatore. Non è quindi sorprendente se colei, nel cui beato seno la Chiesa stessa meritò di essere unita al suo Capo, rappresenta il tipo della Chiesa". In questo senso Autperto vede un ruolo decisivo della Vergine Maria nell’opera della Redenzione (cfr anche le sue omelie In purificatione s. Mariae e In adsumptione s. Mariae).

La sua grande venerazione e il suo profondo amore per la Madre di Dio gli ispirano a volte delle formulazioni che in qualche modo anticipano quelle di san Bernardo e della mistica francescana, senza tuttavia deviare verso forme discutibili di sentimentalismo, perché egli non separa mai Maria dal mistero della Chiesa. Con buona ragione quindi Ambrogio Autperto è considerato il primo grande mariologo in Occidente. 

Alla pietà che, secondo lui, deve liberare l’anima dall’attaccamento ai piaceri terreni e transitori, egli ritiene debba unirsi il profondo studio delle scienze sacre, soprattutto la meditazione delle Sacre Scritture, che qualifica "cielo profondo, abisso insondabile" (In Apoc. IX). Nella bella preghiera con cui conclude il suo commento all’Apocalisse sottolineando la priorità che in ogni ricerca teologica della verità spetta all’amore, egli si rivolge a Dio con queste parole: "Quando da noi sei scrutato intellettualmente, non sei scoperto come veramente sei; quando sei amato, sei raggiunto".

Possiamo vedere oggi in Ambrogio Autperto una personalità vissuta in un tempo di forte strumentalizzazione politica della Chiesa, in cui nazionalismo e tribalismo avevano sfigurato il volto della Chiesa. Ma lui, in mezzo a tutte queste difficoltà che conosciamo anche noi, seppe scoprire il vero volto della Chiesa in Maria, nei Santi. 

E seppe così capire che cosa vuol dire essere cattolico, essere cristiano, vivere della Parola di Dio, entrare in questo abisso e così vivere il mistero della Madre di Dio: dare di nuovo vita alla Parola di Dio, offrire alla Parola di Dio la propria carne nel tempo presente. E con tutta la sua conoscenza teologica, la profondità della sua scienza, Autperto seppe capire che con la semplice ricerca teologica Dio non può essere conosciuto realmente com’è. Solo l’amore lo raggiunge. Ascoltiamo questo messaggio e preghiamo il Signore perchè ci aiuti a vivere il mistero della Chiesa oggi, in questo nostro tempo.



Saluto in lingua italiana

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina con l’Arcivescovo Mons. Salvatore Ligorio; della diocesi di Mondovì, con il Vescovo Mons. Luciano Pacomio; e dell’Arcidiocesi di Lanciano-Ortona, con l’Arcivescovo Mons. Carlo Ghidelli. Cari fratelli e sorelle, come afferma san Paolo, nessuna difficoltà può separarci dall’amore di Cristo, (cfr. Rm 8,35-39). Per questo, testimoniate con fervore la vostra comune adesione a Cristo ed edificate la Chiesa nella carità e nella verità. Saluto i Seminaristi dei Seminari Maggiori, partecipanti al convegno promosso dalla Pontifica Unione Missionaria, ed i rappresentanti del Movimento dei Laici Missionari della Carità, esortando ciascuno a riscoprire il dono della sequela di Cristo, aderendo sempre, con il suo aiuto, alla volontà del Padre. Saluto con affetto gli esponenti dell’Unione mutilati per il servizio istituzionale, ed auspico che la loro visita alle tombe degli Apostoli susciti in tutti un rinnovato desiderio di testimonianza cristiana. Un saluto speciale rivolgo ai soci dell’Associazione Nazionale S. Paolo Italia, qui convenuti così numerosi. Cari amici, vi incoraggio a proseguire generosamente la vostra importante opera in favore dell’animazione dei ragazzi e dei giovani, mediante gli Oratori e i Circoli giovanili. Come l’Apostolo delle genti, siate ferventi annunciatori del Vangelo. Il mio particolare pensiero va pure agli studenti della scuola "Giuseppe Susanna" del I° Circolo didattico "Don Lorenzo Milani" di Galatone, come pure agli alunni dell’Istituto professionale alberghiero di San Pellegrino Terme.

Saluto, ora, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Il Signore risorto riempia del suo amore il cuore di ciascuno di voi, cari giovani, perché siate pronti a seguirlo con l'entusiasmo e la freschezza della vostra età; sostenga voi, cari malati, nell'accettare con serenità il peso della sofferenza; guidi voi, cari sposi novelli, a fondare nella fedele donazione reciproca, famiglie impregnate del profumo della santità evangelica.

Desidero infine rivolgere una speciale parola ai Giovani del Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo, che ricordano oggi il 25° anniversario della consegna della croce dell’Anno Santo ai giovani del mondo. Era, infatti, il 22 aprile del 1984, quando alla fine dell'Anno Santo della Redenzione, l’amato Giovanni Paolo II affidò ai giovani del mondo la grande croce di legno che, per suo stesso desiderio, era stata tenuta presso l'altare maggiore della basilica di San Pietro durante quello speciale Anno Giubilare. Da allora, la croce fu accolta nel Centro internazionale giovanile San Lorenzo, e da lì cominciò a viaggiare per i Continenti, aprendo i cuori di tanti ragazzi e ragazze all'amore redentore di Cristo. Questo suo pellegrinaggio prosegue ancora, soprattutto in preparazione delle Giornate Mondiali della Gioventù, tanto da essere ormai nota come "Croce delle GMG". Cari amici, vi affido di nuovo questa croce! Continuate a portarla in ogni angolo della terra, perchè anche le prossime generazioni scoprano la Misericordia di Dio e ravvivino nei loro cuori la speranza in Cristo crocifisso e risorto!

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

venerdì 28 giugno 2013

Parabola dell'uomo stolto e del bambino saggio.


Le parabole di Gesù
(046)
Parabola dell'uomo stolto e del bambino saggio (513.3)

Un uomo un giorno si sentì chiamare da un grande re il quale gli disse: "Ho saputo che tu sei meritevole di un premio perchè sei saggio e onori la tua città col lavoro e con la scienza. Orbene io non ti darò questo o quello, ma ti porterò nella sala dei miei tesori, e tu sceglierai quello che vuoi, ed io te lo darò. In tal modo giudicherò anche se tu sei quale la fama ti descrive."



E contemporaneamente il re, accostatosi al terrazzo che cingeva il suo atrio, gettò uno sguardo sulla piazza che era davanti al palazzo reale e vide passare un fanciulletto in povere vesti, un piccolo certo di poverissima famiglia, forse un orfano e mendico. Si volse ai suoi servi dicendo: "Andate da quel fanciullo e portatemelo."

I servi andarono e tornarono con il fanciullino tremante di trovarsi al cospetto del re. Per quanto i dignitari di corte gli dicessero: "Inchinati, saluta, di': <Onore e gloria a te, mio re. Piego il ginocchio davanti a te, potente che la Terra esalta come essere che più grande non c'è>" il fanciullo non voleva inchinarsi e dire quelle parole, e i dignitari, scandalizzati, lo scrollavano duramente e dicevano: "O re, questo fanciullo zotico e lercio è un obbrobrio nella tua dimora. Lascia che noi lo si cacci di qui, in mezzo alla via. Se brami avere al tuo fianco un fanciullo noi andremo a cercartelo fra i ricchi della città, se sei stanco dei nostri, e te lo porteremo. Ma non questo zotico che non sa neppur salutare!..."

L'uomo ricco e saggio, che prima si era umiliato in cento inchini, profondi, come fosse davanti all'altare, disse: "I tuoi dignitari dicono bene. Per la maestà della tua corona devi impedire che non sia data alla tua sacra persona l'omaggio che le si spetta" e nel dire queste parole ancora si prostrava sino a baciare il piede del re.

Ma il re disse: "No. Io voglio questo fanciullo. Non solo. Ma voglio condurlo lui pure nella stanza dei miei tesori perchè scelga ciò che vuole e io glielo darò. Che forse non mi è concesso, perchè sono re, di fare felice un povero fanciullo? Non è forse mio suddito come voi tutti? Ha forse colpa di essere infelice? No, viva Dio, io lo voglio fare contento almeno una volta! Vieni, fanciullo, e non temere di me" e gli porse la mano che il fanciullo prese semplicemente dandogli sopra un bacio spontaneo. Il re sorrise. E fra due file di dignitari curvi, nell'ossequio, su tappeti di porpora a fiori d'oro, si diresse verso la stanza dei tesori, avendo a destra l'uomo ricco e saggio, e a sinistra il fanciullo ignorante e povero.

E il manto regale era in grande contrasto con la vesticciuola sfilacciata e i piedini scalzi del povero bambino.

Entrarono nella stanza dei tesori della quale due grandi della Corte avevano aperto la porta. Era una stanza alta, rotonda, senza finestre. Ma la luce pioveva dal soffitto che era tutto un'enorme lastra di mica. Una luce mite e che pur faceva lucere le borchie d'oro dei forzieri e i nastri porporini di molti rotoli messi su alti e ornati leggii. Rotoli pomposi, dalla bacchetta preziosa, dal fermaglio e il segno ornato di pietre splendenti. Opere rare che soltanto un re poteva possedere. E, negletto su un leggio severo, scuro, basso, un piccolo rotolo attorcigliato su un legnetto bianco, legato con un filo rustico, polveroso come cosa negletta.

Il re disse indicando le pareti: "Ecco, qui sono tutti i tesori della Terra, e altri più grandi ancora dei tesori terrestri. Perchè qui sono tutte le opere dell'ingegno umano, e vi sono anche opere che vengono da fonti soprumane. Andate, prendete ciò che volete".
E si mise al centro della stanza, con le braccia conserte, ad osservare.

L'uomo ricco e saggio si diresse prima ai forzieri e ne alzò i coperchi con ansia sempre più febbrile. Oro in verghe e oro in monili, argento, perle, zaffiri, rubini, smeraldi, opali... scintillii da tutti i cofani.... gridi di ammirazione ad ogni apertura... E poi si diresse ai leggii, e leggendo il titolo dei rotoli, nuovi gridi di ammirazione uscivano dalle sue labbra, e infine l'uomo, acceso di entusiasmo, si volse al re e disse. "Ma tu hai un tesoro senza paragone e le pietre eguagliano in valore i rotoli e questi quelle! E posso proprio scegliere liberamente?"
"L'ho detto. Come tutto ti appartenesse."
L'uomo si gettò col volto al suolo dicendo: "Io ti adoro, o gran re!" E si alzò, correndo prima ai cofani, poi ai leggii, prendendo da questi e quelli il meglio che vedeva.

Il re, che aveva sorriso una prima volta fra la barba vedendo la febbre con cui l'uomo correva da forziere a forziere, e una seconda vedendolo gettarsi a terra adorando, e che sorrideva per la terza volta vedendo con che cupidigia e con qual regola e preferenze sceglieva gemme e libri, si volse al bambino che era rimasto al fianco dicendogli: "E tu non vai a scegliere le belle pietre o i rotoli di valore?"

Il bambino scosse il capo per dire di no.
"E perché?"
"Perchè per i rotoli non so leggere e per le pietre... non ne conosco il valore. Per me sono sassolini e nulla più."
"Ma ti farebbero ricco..."
"Non ho padre, nè madre, nè fratello. A che mi servirebbe andare al mio rifugio con un tesoro al seno?"
"Ma potresti con quello comperarti una casa..."
"Ci abiterei sempre solo".
"Delle vesti."
"Avrei sempre freddo perchè manca l'amore dei parenti".
"Dei cibi".
"Non potrei saziarmi dei baci della mamma, nè comperarli a nessun prezzo."
"Dei maestri e imparare a leggere..."
"Questo mi piacerebbe di più. Ma cosa leggere, poi?"
"Le opere dei poeti, dei filosofi, dei saggi... e le parole antiche e le storie dei popoli."
"Inutili cose, vane o passate... Non merita".

"Che stolto fanciullo!" esclamò l'uomo che aveva ormai le braccia cariche di rotoli, e la cintura e la tunica sul petto gonfia di gemme.
Il re sorrise ancora fra la sua barba. E preso il fanciullo in braccio lo portò ai forzieri e affondando la mano nelle perle, nei rubini, nei topazi, nelle ametiste, facendole cadere come pioggia scintillante, lo tentò a prenderne.

"No, o re, non ne voglio. Vorrei un'altra cosa..."
Il re lo portò ai leggii e lesse strofe di poeti, episodi di eroi, descrizioni di paesi.
"Oh! leggere è più bello. Ma non è questo che vorrei..."
"E che dunque? Parla e te lo darò, fanciullo."
"Oh! non credo, o re, che tu lo possa nonostante la tua potenza. Non è cosa di quaggiù..."
"Ah! vuoi opere non della Terra! Ecco allora: qui sono le opere dettate da Dio ai suoi servi. Ascolta." e lesse pagine ispirate.
"Questo è molto più bello. Ma per capirlo bene bisogna prima sapere bene il linguaggio di Dio. Non c'è un libro che lo insegni, che ci faccia capire cosa è Dio?"

Il re ebbe un atto di stupore e non rise più, ma si strinse al cuore il fanciullo.
L'uomo invece rise beffardo dicendo: "Neanche i più sapienti sanno ciò che è Dio, e tu, fanciullo ignorante, lo vuoi sapere? Se vuoi farti ricco con ciò!..."

Il re lo guardò severo mentre il piccolo rispondeva: "Io non cerco ricchezze, cerco amore, e mi fu detto un giorno che Dio è Amore."
Il re lo portò presso il leggio severo dove era il piccolo rotolo, legato di cordicella e polveroso. Lo prese, lo svolse e lesse le prime righe: "Chi è piccolo venga a Me e Io: Dio, gli insegnerò la scienza dell'amore. In questo libro essa è, e Io..."
"Oh! questo voglio! E conoscerò Dio, e tutto avrò, Lui avendo. Dammi questo rotolo, o re, e io sarò felice."

"Ma è senza valore di denaro! Quel fanciullo è proprio stolto! Non sa leggere e prende un libro! Non è sapiente e non si vuole istruire. E' misero e non prende tesoro."

"Io mi sforzerò a possedere l'amore, e questo libro me lo insegnerà. Che tu sia benedetto, o re, perchè mi dai di che non sentirmi più orfano e povero!"

"Almeno adoralo come ho fatto io, se credi di esser divenuto per suo mezzo tanto felice!"
"Io non adoro l'uomo, ma Dio che lo ha fatto buono così".

"Questo fanciullo è il vero saggio nel mio regno, o uomo che usurpi la fama di saggio. Tu sei divenuto ebbro per orgoglio e avidità al punto di porre l'adorazione alla creatura in luogo di offrirla al Creatore. E ciò perchè la creatura ti dava pietre e opere umane.
E non hai pensato che le gemme che hai, e io le ho avute, perchè Dio le ha create, e hai i rotoli rari dove è il pensiero dell'uomo perchè Dio ha dato all'uomo l'intelletto. Questo piccolo che ha fame e freddo, che è solo, che è stato percosso da tutti i dolori, che sarebbe scusato e scusabile se divenisse ebbro davanti alle ricchezze, ecco che sa dare il giusto grazie a Dio per avere fatto buono il mio cuore, e non cerca che l'unica cosa necessaria: amare Dio, conoscere l'amore per avere le vere ricchezze qui e oltre. 

Uomo: io ho promesso che ti avrei dato ciò che avresti scelto: parola di re è sacra. Va' dunque con le tue pietre e i tuoi rotoli: sassolini multicolori e... paglia di umano pensiero. E vivi tremando per i ladri e per le tignole, i primi nemici delle gemme, le seconde delle pergamene. E abbacinati coi fatui bagliori di quelle scaglie, e disgustati col dolciastro sapore della scienza umana che è solo sapore e non nutrimento. Va'. Questo fanciullo resterà al mio fianco, e insieme ci sforzeremo di leggere il libro che è amore, ossia Dio. E non avremo bagliori fatui di fredde gemme, nè il dolciastro sapore di paglia delle opere di umano sapere. Ma i fuochi dello Spirito Eterno ci daranno sino da qui l'estasi del Paradiso e possederemo la Sapienza, fortificante più che vino, nutriente più di miele. Vieni, fanciullo, al quale la sapienza ha mostrato il suo volto perchè tu la desiderassi come sposa verace":

E cacciato l'uomo prese con sè il fanciullo e lo istruì nella divina Sapienza perchè fosse un giusto e un re degno della sacra unzione sulla Terra, e un cittadino del Regno di Dio oltre la vita.
(Spiegazione)
della parabola 

Questa è la parabola promessa ai piccoli e proposta agli adulti.
Ricordate Baruc?   Egli dice: “Per qual motivo, o Israele, sei in terra nemica, invecchi in paese straniero, sei contaminato fra i morti e annoverato fra quelli che scendono nell’abisso? ”  E risponde: “Perché hai abbandonato la fonte della Sapienza.   Se tu avessi camminato sulla via di Dio saresti vissuto a lungo, in pace e per sempre”.   (…)

Il popolo di Dio soffre perché ha abbandonato la Sapienza. Come potete possedere prudenza, forza, intelligenza, come potete neppur sapere dove si trovano, per poter conseguentemente sapere le cose minori, se non state più ad abbeverarvi alle fonti della Sapienza?
Il suo Regno non è di questa Terra, ma la misericordia di Dio ne concede la fonte. Essa è in Dio. E’ Dio stesso. Ma Dio apre il suo seno perché essa scenda a Voi.  (…)

Perché per salire al Cielo con lo spirito e comprendere le lezioni della Sapienza occorre uno spirito umile, ubbidiente e soprattutto tutto amore, essendo che la Sapienza parla il suo linguaggio, ossia parla il linguaggio dell’amore essendo essa Amore. 

Per conoscere i suoi sentieri ci vuole uno sguardo limpido e umile, libero dalla concupiscenza triplice. Per possedere la Sapienza occorre comperarla con le monete vive: le virtù. (…) 
Una sola cosa è necessaria. Possedere la Sapienza. A costo anche della vita. Perché la vita non è la cosa più preziosa e meglio vale perdere cento vite a perdere la propria anima.

Sancte Antoni, ora pro nobis!

giovedì 30 maggio 2013

*Vangelo della Fede. Santa Petronilla e Santa Felicola.


4 marzo 1944.

Il martirio di S. Petronilla e S. Felicola.

Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera ardentissima che deve proprio
penetrare nei cieli. Una è più matura. Pare quasi sui trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute tutte e due. 
Poi si alzano e preparano un piccolo altare su cui dispongono lini preziosi e fiori.
Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto una borsa dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una Messa. Poi si riveste delle vesti sacerdotali e
inizia il Sacrificio.
Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello di Marco: “E gli presentarono dei bambini... chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo non c’entrerà”  Marco 10, 15; Luca 18, 17.
 Le due giovani, inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente.

Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a comunicare le due fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di ardore. 
Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo in profonda preghiera e
sembra restino così per pura devozione.
Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare collocato su una
pedana di legno - dopo la celebrazione del rito, che è uguale a quella di Paolo nel Tullianum . Solo qui il celebrante parla più piano, date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo  - una soltanto delle giovani si
muove. L’altra rimane prostrata come prima. La compagna la chiama e la scuote.
Si china anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la bocca respira a fatica.
Ma che beatitudine in quel viso!
La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso una finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano soccorrerla. Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accenna al cielo e non dice che due parole:
“Grazia... Gesù” e senza spasimi spira.

Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata alla colonna che ho visto
questa notte e che, per quanto molto più pallida e smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite che ora piange presso la
morta. E resto così, nella mia incertezza, per qualche ora.

Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente prima, ora ritta presso la
fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.

La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu insista, o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per la mia amica morta. 
Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla è morta, segno era che non
doveva essere tua sposa. Ma io neppure. Tante sono le fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le signore della tua casa. Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”.
“Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci di un pugno d’ebrei?”.
“Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre nozze”.
“E se io ti volessi?”.
“Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti, vorrai forzare la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai  seguire il mio desiderio avendo
per me la buona amicizia che io ho per te”.
“Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”.
“Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore, non è fuga di uno ad un
destino. Ella non s’è uccisa. È morta...”.
“Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi come a mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora nella mia casa e lasciare il culto demoniaco del tuo povero dio, anziché conoscere il rigore di Roma che non permette siano insultati i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice. Altrimenti...”.
“Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio Dio. Non posso adorare
gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di Dio ed io non la vendo per le gioie della tua casa”.
“È la tua ultima parola?”.
“L’ultima”.

 “Sai che il mio amore può mutarsi in odio?”
“Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come fratello e pregherò per il tuo bene”.
“Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata. Allora mi invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle dottrine stolte di cui ti nutri”.
“Comprenderò che il mondo, per non avere più dei Flacchi, ha bisogno di queste
dottrine. E farò il tuo bene pregando per te dal Regno del mio Dio”.
“Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il tuo Cristo se lo può”.

Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco sia né più né meno che
un segugio del Questore di Roma perché, quando la visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la giovane legata alla colonna, vedo che è un tribunale come quello in cui fu giudicata Agnese. Ben poche sono le differenze e che, anche qui, vi è un brutto ceffo che giudica e condanna, e che Flacco gli fa da aiutante e aizzatore.

Felicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo alla sala. Appare
sfinita di forze ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la luce l’abbacini, debole
come è e abituata ormai al buio carcere, si tiene eretta e sorride. Le solite
domande e le solite offerte seguite dalle solite risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che non sia il mio Signore Gesù Cristo”.

Viene condannata alla colonna.
Le strappano le vesti e nuda, alla presenza del popolo, la legano con le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per fare ciò le slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere atroce. E non basta, ma
torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono sul petto e sul ventre
nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire.
Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Felicola, con voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino, volete che io lo perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio amore compiuto. Dolci nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua! Sogno di tutta la mia vita!”.

Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per terra. Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate ai polsi dalla fune che ha fatto due
braccialetti di sangue vivo, pendono come morte. I piedi, pure lacerati ai malleoli sino a mostrare i nervi e i tendini, appaiono chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il volto è pieno di una felicità d’angelo.

Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio ride assorto in una visione
che l’estasia.
I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci, e a calci la spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser toccato, verso la predella del Questore.
“Ancor viva sei?”.
“Sì, per volontà del mio Signore”.
“Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?”
“Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni, Amore eterno!”.
“Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”.
I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle membra spezzate deve essere
atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue vesti, non per pudicizia ma per
impedirle di reggersi in acqua. Inutile cura! Con degli arti in quello stato, non si nuota. Solo la testa emerge dal viluppo delle vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un carnefice, pende come fosse già morta. Ma ella sorride alla luce delle fiaccole, perché ormai è sera.
Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi, la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle quali ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido.


Dice Gesù:

«Ti ho voluto far conoscere la mia martire Felicola per dare a te ed a tutti qualche insegnamento.
Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di Petronilla, compagna e maestra di Felicola di cui era molto più anziana, e il frutto di una santa
amicizia.

Petronilla, figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva parola del
mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori della sua evangelizzazione
romana.

Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma Colui che non mente gli
aveva fatto trovare in questa fanciulla - e in maniera sovrabbondante, colma,
premuta, secondo le mie promesse Luca 6, 38. - conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io
a Betania, egli in casa di Petronilla trovava aiuti, ospitalità e soprattutto amore. La donna è uguale, nel suo bene e nel suo male, sotto tutti i cieli e in
tutte le epoche. Petronilla fu la Maria (Maria di Magdala, sorella di Lazzaro e Marta di Betania) di Pietro, con in più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione angelica.


Maria, ascolta.
Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se stessa senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare questo amore, aveva pregato il
suo Dio di fare di lei una crocifissa. E Dio la esaudì. La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella lunga infermità sul terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia.
Ascolta ancora, Maria. Quando fu necessario, la sua malattia conobbe una sosta.
Per mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi, finito il momento, tornò a crocifiggerla.

Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo Maestro, come Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi, sii forte” e cessato il bisogno del Maestro non torni una povera inferma in perpetua agonia?
Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di Dio.

La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste ricordare. Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi. Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute, vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più ricordarvi che quella vita, rifiorita quando già la
carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla nel Bene.
Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbita  inutilmente la mia Dottrina. Essa
è come sale che preserva dal male, dalla
corruzione, è fiamma che scalda e
illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa sicuri.
Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo. Petronilla prega. Chiama Dio.
Vuol essere di Dio. Il mondo la vuole? Dio la difenda dal mondo.
Il Cristo l’ha detto: “Se avete tanta fede quanto un granello di senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati a va’ più in là’ ” (Matteo 17, 20; Marco 11, 23; Luca 17, 6).
 Pietro glie l’ha detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi.
Chiede a Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci. E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In un’estasi, Maria, prima che la prova la schiacci.
Ricordala questa cosa, piccola discepola mia 


(Maria Valtorta, della cui vita viene fatto qui un parallelo con quella di Petronilla, morì dopo un lungo periodo di smemorato isolamento, che per molti è rimasto misterioso).

Felicola era amica, più che amica figlia o sorella, data la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza santificarsi con chi è
santo. Come ci si guasta convivendo con chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo invece trascura i santi o li sevizia, e
segue i satana divenendo sempre più satana.

La fermezza e la dolcezza di Felicola l’hai vista. Che è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il Martire del Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita?
È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Felicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio che la vedono ilare in Cielo dietro l’Agnello
divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.

Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”, e pensa che anche per te ho suscitato un Nicomede 
(È il nome del presbìtero che recuperò il corpo della santa martire Felicola, le cui notizie storiche sembrano corrispondere al racconto sulla martire Felicola, qui presentato. Il “Nicomede” della scrittrice, suscitato per il suo recupero spirituale, è Padre Migliorini),
per salvare dalle acque delle passioni il tuo io che
volevo per Me, e per raccogliere quanto di te merita d’esser conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del bene all’anima dei fratelli.»



Felicola, santa, martire di Roma, la passio di Nereo e Achilleo la vuole sorella di latte di S. Petronilla. Sepolta al VII miglio della via Ardeatina, nel 1112 venne scoperta dal presbitero Benedetto e traslata a S. Lorenzo in Lucina. Il suo corpo qui ritrovato nel 1605 è conservato presso l’altare maggiore. Il primo rinvenimento dei resti avvenne, secondo la lapide del 1112, insieme alle spoglie del martire Gordiano.

[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
Antico Martirologio Romano, 13 giugno - A Roma, sulla via Ardeatina, il natale di santa Felicola, Vergine e Martire. Non volendo maritarsi a Flacco, ne sacrificare agli idoli, fu data in mano ad un Giudice, il quale, perseverando essa nella confessione di Cristo, dopo tenebroso carcere e lunga fame, tanto tempo la fece tormentare nell'eculeo, finchè essa non rese lo spirito, e così finalmente la fece deporre e gettare in una cloaca. Il suo corpo, estratto da san Nicomede Prete, fu sepolto sulla medesima via.

Martirologio Romano, 13 giugno: A Roma al settimo miglio della via Ardeatina, santa Felícola, martire