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venerdì 29 gennaio 2016

Ave Maria, piena di grazia! - COMMENTO ALL'AVE MARIA


COMMENTO ALL'AVE MARIA 
Ave Maria, piena di grazia!

Nella preghiera dell'Ave si distinguono tre parti: la prima venne pronunziata dall'angelo, cioè: «Ave, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta tra le donne» (Lc 1, 28). L'altra da Elisabetta, madre di Giovanni Battista, quando disse: «Benedetto il frutto del seno tuo» (Lc 1, 42). La terza fu aggiunta dalla Chiesa: il vocativo «Maria» (215). Difatti l'angelo non disse: «Ave, Maria», bensì: «Ave, piena di grazia»; ma vedremo come il nome «Maria», nei suoi vari significati, si addica al saluto dell'angelo.
In antico era considerato un grande onore il fatto che gli angeli si mostrassero agli occhi umani, e sommo titolo di lode l'essersi potuti prostrare dinanzi a quei messaggeri di Dio. Tant'è vero che a lode di Abramo vien detto che egli ospitò gli angeli nella propria tenda, rendendo loro la debita venerazione (216).
Ma del tutto insolito risulta che sia stato un angelo a inchinarsi davanti a creatura umana, fino al momento in cui Gabriele salutò la beata Vergine, devotamente: «Ave» (217).
La ragione per cui mai prima d'allora un angelo si era abbassato di fronte a persona umana è questa: che egli la sopravanza per tre motivi: quanto a dignità, a familiarità con Dio e al pieno splendore della grazia divina [che rifulge nelle sostanze angeliche].
L'angelo è infatti di natura spirituale, come attesta il salmo 103: «Tu hai creato i tuoi messaggeri come spirito» (Sal 103, 4), mentre l'uomo è corruttibile per natura. Disse in tal senso Abramo: «Io, che sono polvere e cenere, parlerò al mio Signore?» (Gn 18, 27). Non era quindi opportuno che una creatura spirituale e incorruttibile si umiliasse dinanzi ad altra creatura, caduca, qual'è l'uomo.
L'angelo è familiare con Dio; un suo assistente: «Mille migliaia [d'angeli] lo servivano, e miriadi di miriadi stavano in piedi di fronte a lui» (Dn 7, 10). Al contrario, l'uomo è come uno straniero, dopo essersi allontanato dal trono dell'Altissimo con la colpa d'origine. Ognuno di noi può ripetere: «Ecco, me ne son fuggito lontano» (Sal 54, 8). Perciò è assai più naturale che sia l'uomo a mostrarsi deferente nei confronti dell'angelo, intimo familiare del celeste sovrano.
E infine, gli angeli partecipano largamente del lume divino. [Bildad lo Shukhita] si domandava: «E’ possibile far un censimento delle sue milizie? e c'è qualcuno tra loro che non è investito dal divino fulgore?» (218). Per questa ragione, l'angelo si manifesta sempre come un essere luminoso; gli uomini, invece, anche quando siano in qualche modo toccati da quel lume di grazia, restano in una sorta di semioscurità. Non era conveniente che l'angelo prestasse un atto d'ossequio o riverenza all'uomo finché non si fosse trovato nelle umane generazioni qualcuno che lo superasse - per spiritualità, familiarità con Dio e nel pieno splendore della grazia. Così fu l'angelo che rese omaggio a Maria, salutandola: «Piena di grazia».
La beata Vergine, dunque, superò gli angeli per tre motivi, a cominciare dalla pienezza di grazia che, in lei, è superiore che non in qualunque spirito beato; e per sottolineare ciò, Gabriele le rese omaggio chiamandola: «Piena di grazia», quasi volesse dire: «Ti ossequio poiché mi vinci per sovrabbondanza di grazia».

I. La beata Vergine è detta «piena di grazia» innanzi tutto riguardo alla propria anima, satura di grazia divina. Tale dono viene concesso per due finalità: onde farci ben operare ed evitare il male. Maria ebbe il duplice ausilio in misura perfetta. Ella evitò il peccato meglio che qualunque altro santo, seconda soltanto rispetto al Cristo.
Esiste il peccato, che è di due specie. Da quello originale Maria venne mondata fin dal grembo materno; e fu esente da qualsiasi peccato personale, anche il più lieve. Si legge nel Cantico dei Cantici: «Tu sei tutta bella, amica mia, e in te non è possibile trovare alcuna macchia!» (Ct 4, 7). 

E sant'Agostino, nel trattato su La natura e la grazia, aggiunge: «Esclusa la santa Vergine Maria, se la totalità dei santi e delle sante fosse stata interrogata durante la loro vita terrena, se si stimassero immuni da colpa, avrebbero esclamato concordi: 'Quando dicessimo di non avere in noi l'esperienza del peccato, inganneremmo noi stessi: non ci sarebbe la verità nelle nostre parole!' (I Gv I, 8). Tutti. Eccetto questa santa Vergine che, come dico, non dev'esser neppure nominata in tale questione, per l'onore dovuto a Dio. Sappiamo infatti che le venne concessa tanta grazia da poter vincere la minima tentazione, quanto ne richiedeva il suo merito di concepire e dare alla luce colui che di certo non conobbe ombra di peccato».
Cristo, d'altronde, superò la beata Vergine: egli fu concepito senza la colpa d'origine mentre la Vergine santa, pur nascendo senza peccato, ne fu sfiorata appena, all'atto del concepimento [nel grembo di sua madre, Anna] (219).
Ella esercitò inoltre tutte le virtù, invece i santi rifulsero solo in tal une di esse: chi fu particolarmente umile, chi casto, chi misericordioso; singolarmente considerati, essi ci son d'esempio per qualche virtù specifica (come san Nicola che vien citato a modello di misericordia, ecc.). La vergine Maria è esemplare in ogni singola virtù: difatti trovi in lei esempio d'umiltà, quando dice: «Eccomi, sono l'ancella del Signore... Egli ha guardato alla pochezza della sua serva» (Lc 1, 38; 48). Fu modello di castità («Non ho [né intendo avere] esperienze matrimoniali») (220); e così di seguito, per le rimanenti virtù. Sicché la beata Vergine fu piena di grazia sia in ordine al bene da compiere, sia quanto al male da evitare.

2. Di più, ricevette la pienezza della grazia anche allo scopo di far ridondare l'eccesso [della medesima], dall'anima, nel proprio corpo.
È già mirabile cosa che i santi abbiano quel tanto di grazia sufficiente a santificarli nell'anima; ma lo spirito della Vergine ne fu così ricolmo da traboccare nel suo fisico, da cui doveva prender inizio il concepimento del Figlio di Dio. Dice al riguardo Ugo da san Vittore: «Dato che l'amore dello Spirito Santo ardeva nell'animo suo in misura singolare, produsse meraviglie nella sua carne, facendo germinare da lei l'Uomo-Dio». È un appropriato commento a quanto aveva scritto san Luca: «Il bambino che da te nascerà sarà santo, e verrà chiamato 'figlio dell'Altissimo'» (Lc l, 35).

3. Maria fu piena di grazia anche in ordine alla compartecipazione del dono a tutti gli uomini. Se è un fatto ammirabile che un santo abbia posseduto la grazia in misura tale da procurar la salvezza di molti altri, il possederne in quantità sufficiente da provvedere alla salvezza spirituale del mondo intero, questo equivarrebbe ad aver la grazia in grado massimo: ed è quel che si verifica in Cristo e nella Vergine beata.
In qualunque frangente ti trovassi, tu potrai scamparne grazie alla gloriosa Vergine. Per simboleggiarne la potenza, può applicarsi a lei ciò che si può leggere nel Cantico. «Innumerevoli corazze - ossia ripari contro ogni pericolo - la circondano» (Ct 4, 4). E puoi averla al tuo fianco, ad aiutarti nel compimento di ogni opera virtuosa; in questo secondo senso è applicabile alla santa Vergine un'altra citazione biblica: «In me si trova ogni speranza [necessaria] alla vita e alla virtù» (Sir 24, 25).
Dunque, Maria è piena di grazia, da eccedere per abbondanza gli angeli stessi. Perciò è chiamata convenientemente «Maria», che significa: «Colei che ha in sé la luce». La sua anima, infatti, per riportare alcune parole del profeta, «risplende nelle tenebre» (Is 58, 11): luce che si irradia sopra l'intera umanità. Ecco perché Maria vien rassomigliata al sole e alla luna.
Ella supera gli angeli anche quanto a familiarità con Dio. Volle metterlo in risalto l'angelo: «Il Signore è con te»; quasi dica: «Ti rendo ossequio giacché tu sei più intima con Dio, di quanto non lo sia io stesso. Il Signore infatti è 'con te': Dio Padre e il suo Verbo!» Nessun angelo né alcun' altra creatura potrà ripetere altrettanto. «Colui che nascerà da te, sarà detto 'Figlio di Dio'» (Lc 1, 35). Nel tuo grembo, il Figlio unigenito del Padre. Perciò, Maria, «esulta e giubila... che abiterà in te, possente, il Santo d'Israele» (Is 12, 6).
Il Signore sta con la beata Vergine anche in altro senso, rispetto al suo stare assieme agli angeli. [Diverso il rapporto:] Dio, che si rende figlio di Maria, resta Signore delle schiere angeliche.
Lo Spirito Santo dimora in lei come in un tempio, sicché essa riceve giustamente l'appellativo di «tempio del Signore, sacrario dello Spirito Santo». Maria concepì [il Cristo] in virtù dello Spirito Santo, che scese su di lei con la potenza dell'Altissimo (cf. Lc 1, 35). Un'intimità col creatore più profonda di qualunque altra, cui possa aspirare una creatura: sono in lei Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, l'indivisa Trinità; per questo si canta della Vergine: «O nobile triclinio della Trinità» (221); e l'espressione: «Il Signore è con te» è la più nobile che si possa proferire. Giustamente l'angelo s'inchina davanti a Maria: è la madre del suo Signore, e dunque Signora lei medesima. Le si addice [anche] perciò il nome «Maria» che, in siriaco, viene interpretato «signora».
Infine, la beata Vergine supera gli angeli nella purezza, dal momento che fu pura non soltanto in se stessa, ma dispensatrice di purezza per tanti altri. Fu purissima sia quanto alla minima colpa - giacché non contrasse il peccato d'origine, né commise alcun peccato, mortale o veniale -, sia quanto alla pena (222).
A causa del peccato [d'origine] erano stati comminati tre generi di castigo. La donna avrebbe concepito d'allora in poi con pregiudizio della verginità, portato avanti nel disagio la gravidanza, e partorito tra le doglie.
Ma la beata Vergine fu esente da tutto ciò: concepì senza danno della propria integrità, tutta consolata portò in grembo il Figlio e tra gaudi inenarrabili diede alla luce colui che è il Salvatore. Le si possono adattare le parole d'Isaia: «Si coprirà di fiori..., fiorirà simile al narciso; esulterà piena di contentezza e cantando laudi» (Is 35, 2).
Altra pena, data all'uomo: avrebbe dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Ne fu esclusa la Vergine beata, secondo la sentenza dell'Apostolo: «Le vergini si danno pensiero [unicamente] delle cose che riguardano il Signore» (1 Cor 7, 34).
La terza è comune agli uomini e alle donne, il cui corpo deve tornare [a risolversi] in polvere. La beata Vergine ne fu risparmiata, essendo stata assunta in cielo, anima e corpo, quasi aderendo all'invito: «Lèvati, Signore, verso la tua dimora: tu, e l'arca tua santa» (Sal 131, 8).
Insomma, ella fu libera da ogni genere di maledizioni; «benedetta tra le donne », lei che - tolta di mezzo la maledizione - ci donò la benedizione [nel Cristo] e aprì l'accesso al paradiso. Le si addice così il nome di «Maria» nel significato di «stella del mare». Come infatti, grazie alla stella [polare], i naviganti si orientano ritrovando la rotta verso il porto, similmente i cristiani son guidati da Maria alla patria celeste.



Benedetto il frutto del tuo seno
(Lc I, 42)

Talvolta il peccatore cerca nei beni un godimento che non gli riesce d'ottenere, mentre il medesimo viene concesso al giusto. E detto nel libro dei Proverbi: «Le sostanze dell'empio sono serbate per l'uomo retto» (Prv 13, 22). Eva, ad esempio, mangiò del frutto [proibito] senza tuttavia trovarci quanto aveva sperato. La beata Vergine invece trovò nel frutto del proprio grembo ciò che Eva aveva cercato invano.

I. Il diavolo le aveva ingannevolmente promesso che [lei e Adamo] si sarebbero tramutati in dèi, capaci di 'conoscere il bene e il male': «Sarete - promise quel bugiardo - simili alla deità» (Gn 3, 5). Naturalmente mentiva, poiché è menzognero, ispiratore d'ogni falsità.
L'aver mangiato del frutto vietato non rese Eva simile a Dio, bensì dissimile, giacché peccando s'allontanò dall'unico che poteva salvarla. Venne cacciata dal paradiso.
Il contrario accadde alla beata Vergine ed a ciascun cristiano: in forza della nostra unione al Cristo (223) siamo congiunti e resi simili a Dio: « Quando in noi sarà attuale [lo splendore della vita divina], saremo simili a lui, e lo vedremo quale egli è» (I Gv 3, 2).

2. Ancora. La donna aveva sperato di appagare il proprio desiderio mangiando di quel frutto che le sembrava così appetibile. Ma non ne trasse piacere, perché all'istante si ritrovò spogliata [di tanti doni] e in preda all'angoscia. Nel frutto della Vergine [madre] troviamo invece soavità e salute. L'ha detto la Verità incarnata: «Chi mangia la mia carne, partecipa della vita eterna» (Gv 6, 55).
3. Il frutto bramato da Eva, infine, era bello all'apparenza, ma assai più bello è il frutto della Vergine Maria, tanto che gli angeli bramano di poterlo contemplare. Di lui canta il salmista: «Tu splendi per bellezza tra i figli dell'uomo; soffuse di grazia sono le tue labbra» (224), ed è un effetto della gloria del Padre.
Eva, al pari d'ogni altro peccatore, non poté conseguire ciò che sperava dal peccato. E allora, quel che desideriamo cerchiamolo nel Figlio della Vergine. È un frutto benedetto da Dio, che lo arricchì d'ogni grazia, tanto da farla traboccare sino a noi appena gli porgiamo il nostro ossequio. «Egli ci ha benedetti in Cristo, dall'alto dei cieli, con ogni genere di benedizioni spirituali» (Ef I, 3). E benedetto dagli angeli: «Lode, gloria; sapienza, rendimento di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio, nei secoli dei secoli!» (Ap 7, 12). Benedetto dagli uomini, che ripetono: «Ogni lingua riconosca che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 11), e: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Gv 12,13; cf. Sal 117, 26).
Benedetta di sicuro la Vergine santa, ma ancor più benedetto il frutto del suo grembo.

lunedì 23 febbraio 2015

mercoledì 28 gennaio 2015

BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE, 23 giugno 2010 San Tommaso d'Aquino (3)


BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 23 giugno 2010
San Tommaso d'Aquino (3)
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi completare, con una terza parte, le mie catechesi su san Tommaso d’Aquino. Anche a più di settecento anni dopo la sua morte, possiamo imparare molto da lui. Lo ricordava anche il mio Predecessore, il Papa Paolo VI, che, in un discorso tenuto a Fossanova il 14 settembre 1974, in occasione del settimo centenario della morte di san Tommaso, si domandava: “Maestro Tommaso, quale lezione ci puoi dare?”. E rispondeva così: “la fiducia nella verità del pensiero religioso cattolico, quale da lui fu difeso, esposto, aperto alla capacità conoscitiva della mente umana” (Insegnamenti di Paolo VI, XII [1974], pp. 833-834). E, nello stesso giorno, ad Aquino, riferendosi sempre a san Tommaso, affermava: “tutti, quanti siamo figli fedeli della Chiesa possiamo e dobbiamo, almeno in qualche misura, essere suoi discepoli!” (Ibid., p. 836).
Mettiamoci dunque anche noi alla scuola di san Tommaso e del suo capolavoro, la Summa Theologiae. Essa è rimasta incompiuta, e tuttavia è un’opera monumentale: contiene 512 questioni e 2669 articoli. Si tratta di un ragionamento serrato, in cui l’applicazione dell’intelligenza umana ai misteri della fede procede con chiarezza e profondità, intrecciando domande e risposte, nelle quali san Tommaso approfondisce l’insegnamento che viene dalla Sacra Scrittura e dai Padri della Chiesa, soprattutto da sant’Agostino. In questa riflessione, nell’incontro con vere domande del suo tempo, che sono anche spesso domande nostre, san Tommaso, utilizzando anche il metodo e il pensiero dei filosofi antichi, in particolare di Aristotele, arriva così a formulazioni precise, lucide e pertinenti delle verità di fede, dove la verità è dono della fede, risplende e diventa accessibile per noi, per la nostra riflessione.  Tale sforzo, però, della mente umana – ricorda l’Aquinate con la sua stessa vita – è sempre illuminato dalla preghiera, dalla luce che viene dall’Alto. Solo chi vive con Dio e con i misteri può anche capire che cosa essi dicono.
Nella Summa di Teologia, san Tommaso parte dal fatto che ci sono tre diversi modi dell’essere e dell'essenza di Dio: Dio esiste in se stesso, è il principio e la fine di tutte le cose, per cui tutte le creature procedono e dipendono da Lui; poi Dio è presente attraverso la sua Grazia nella vita e nell’attività del cristiano, dei santi; infine, Dio è presente in modo del tutto speciale nella Persona di Cristo unito qui realmente con l'uomo Gesù, e operante nei Sacramenti, che scaturiscono dalla sua opera redentrice. Perciò, la struttura di questa monumentale opera (cfr. Jean-Pierre Torrell, La «Summa» di San Tommaso, Milano 2003, pp. 29-75), una ricerca con “sguardo teologico” della pienezza di Dio (cfr. Summa Theologiae, Ia, q. 1, a. 7), è articolata in tre parti, ed è illustrata dallo stesso Doctor Communis – san Tommaso - con queste parole: “Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole. Nell’intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo per primo di Dio; per secondo del movimento della creatura verso Dio; e per terzo del Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio” (Ibid., I, q. 2). È un circolo: Dio in se stesso, che esce da se stesso e ci prende per mano, così che con Cristo ritorniamo a Dio, siamo uniti a Dio, e Dio sarà tutto in tutti.
La prima parte della Summa Theologiae indaga dunque su Dio in se stesso, sul mistero della Trinità e sull’attività creatrice di Dio. In questa parte troviamo anche una profonda riflessione sulla realtà autentica dell’essere umano in quanto uscito dalle mani creatrici di Dio, frutto del suo amore. Da una parte siamo un essere creato, dipendente, non veniamo da noi stessi; ma, dall’altra, abbiamo una vera autonomia, così che siamo non solo qualcosa di apparente — come dicono alcuni filosofi platonici — ma una realtà voluta da Dio come tale, e con valore in se stessa.
Nella seconda parte san Tommaso considera l’uomo, spinto dalla Grazia, nella sua aspirazione a conoscere e ad amare Dio per essere felice nel tempo e nell’eternità. Per prima cosa, l’Autore presenta i principi teologici dell’agire morale, studiando come, nella libera scelta dell’uomo di compiere atti buoni, si integrano la ragione, la volontà e le passioni, a cui si aggiunge la forza che dona la Grazia di Dio attraverso le virtù e i doni dello Spirito Santo, come pure l’aiuto che viene offerto anche dalla legge morale. Quindi l'essere umano è un essere dinamico che cerca se stesso, cerca di divenire se stesso e cerca, in questo senso, di compiere atti che lo costruiscono, lo fanno veramente uomo; e qui entra la legge morale, entra la Grazia e la propria ragione, la volontà e le passioni. Su questo fondamento san Tommaso delinea la fisionomia dell’uomo che vive secondo lo Spirito e che diventa, così, un’icona di Dio. Qui l’Aquinate si sofferma a studiare le tre virtù teologali - fede, speranza e carità -, seguite dall’esame acuto di più di cinquanta virtù morali, organizzate attorno alle quattro virtù cardinali - la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. Termina poi con la riflessione sulle diverse vocazioni nella Chiesa.
Nella terza parte della Summa, san Tommaso studia il Mistero di Cristo - la via e la verità - per mezzo del quale noi possiamo ricongiungerci a Dio Padre. In questa sezione scrive pagine pressoché insuperate sul Mistero dell’Incarnazione e della Passione di Gesù, aggiungendo poi un’ampia trattazione sui sette Sacramenti, perché in essi il Verbo divino incarnato estende i benefici dell’Incarnazione per la nostra salvezza, per il nostro cammino di fede verso Dio e la vita eterna, rimane materialmente quasi presente con le realtà della creazione, ci tocca così nell'intimo.
Parlando dei Sacramenti, san Tommaso si sofferma in modo particolare sul Mistero dell’Eucaristia, per il quale ebbe una grandissima devozione, al punto che, secondo gli antichi biografi, era solito accostare il suo capo al Tabernacolo, come per sentire palpitare il Cuore divino e umano di Gesù. In una sua opera di commento alla Scrittura, san Tommaso ci aiuta a capire l’eccellenza del Sacramento dell’Eucaristia, quando scrive: “Essendo l’Eucaristia il sacramento della Passione di nostro Signore, contiene in sé Gesù Cristo che patì per noi. Pertanto tutto ciò che è effetto della Passione di nostro Signore, è anche effetto di questo sacramento, non essendo esso altro che l’applicazione in noi della Passione del Signore” (In Ioannem, c.6, lect. 6, n. 963). Comprendiamo bene perché san Tommaso e altri santi abbiano celebrato la Santa Messa versando lacrime di compassione per il Signore, che si offre in sacrificio per noi, lacrime di gioia e di gratitudine.
Cari fratelli e sorelle, alla scuola dei santi, innamoriamoci di questo Sacramento! Partecipiamo alla Santa Messa con raccoglimento, per ottenerne i frutti spirituali, nutriamoci del Corpo e del Sangue del Signore, per essere incessantemente alimentati dalla Grazia divina! Intratteniamoci volentieri e frequentemente, a tu per tu, in compagnia del Santissimo Sacramento!
Quanto san Tommaso ha illustrato con rigore scientifico nelle sue opere teologiche maggiori, come appunto la Summa Theologiae, anche la Summa contra Gentiles è stato esposto anche nella sua predicazione, rivolta agli studenti e ai fedeli. Nel 1273, un anno prima della sua morte, durante l’intera Quaresima, egli tenne delle prediche nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli. Il contenuto di quei sermoni è stato raccolto e conservato: sono gli Opuscoli in cui egli spiega il Simbolo degli Apostoli, interpreta la preghiera del Padre Nostro, illustra il Decalogo e commenta l’Ave Maria. Il contenuto della predicazione del Doctor Angelicus corrisponde quasi del tutto alla struttura del Catechismo della Chiesa Cattolica. Infatti, nella catechesi e nella predicazione, in un tempo come il nostro di rinnovato impegno per l’evangelizzazione, non dovrebbero mai mancare questi argomenti fondamentali: ciò che noi crediamo, ed ecco il Simbolo della fede; ciò che noi preghiamo, ed ecco il Padre Nostro e l’Ave Maria; e ciò che noi viviamo come ci insegna la Rivelazione biblica, ed ecco la legge dell’amore di Dio e del prossimo e i Dieci Comandamenti, come esplicazione di questo mandato dell'amore.
Vorrei proporre qualche esempio del contenuto, semplice, essenziale e convincente, dell’insegnamento di san Tommaso. Nel suo Opuscolo sul Simbolo degli Apostoli egli spiega il valore della fede. Per mezzo di essa, dice, l’anima si unisce a Dio, e si produce come un germoglio di vita eterna; la vita riceve un orientamento sicuro, e noi superiamo agevolmente le tentazioni. A chi obietta che la fede è una stoltezza, perché fa credere in qualcosa che non cade sotto l’esperienza dei sensi, san Tommaso offre una risposta molto articolata, e ricorda che questo è un dubbio inconsistente, perché l’intelligenza umana è limitata e non può conoscere tutto. Solo nel caso in cui noi potessimo conoscere perfettamente tutte le cose visibili e invisibili, allora sarebbe un’autentica stoltezza accettare delle verità per pura fede. Del resto, è impossibile vivere, osserva san Tommaso, senza fidarsi dell’esperienza altrui, là dove la personale conoscenza non arriva. È ragionevole dunque prestare fede a Dio che si rivela e alla testimonianza degli Apostoli: essi erano pochi, semplici e poveri, affranti a motivo della Crocifissione del loro Maestro; eppure molte persone sapienti, nobili e ricche si sono convertite in poco tempo all’ascolto della loro predicazione. Si tratta, in effetti, di un fenomeno storicamente prodigioso, a cui difficilmente si può dare altra ragionevole risposta, se non quella dell’incontro degli Apostoli con il Signore Risorto.
Commentando l’articolo del Simbolo sull’Incarnazione del Verbo divino, san Tommaso fa alcune considerazioni. Afferma che la fede cristiana, considerando il mistero dell’Incarnazione, viene ad essere rafforzata; la speranza si eleva più fiduciosa, al pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di noi, per comunicare agli uomini la propria divinità; la carità è ravvivata, perché non vi è segno più evidente dell’amore di Dio per noi, quanto vedere il Creatore dell’universo farsi egli stesso creatura, uno di noi. Infine, considerando il mistero dell’Incarnazione di Dio, sentiamo infiammarsi il nostro desiderio di raggiungere Cristo nella gloria. Adoperando un semplice ed efficace paragone, san Tommaso osserva: “Se il fratello di un re stesse lontano, certo bramerebbe di potergli vivere accanto. Ebbene, Cristo ci è fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un solo cuore con lui” (Opuscoli teologico-spirituali, Roma 1976, p. 64).
Presentando la preghiera del Padre Nostro, san Tommaso mostra che essa è in sé perfetta, avendo tutte e cinque le caratteristiche che un’orazione ben fatta dovrebbe possedere: fiducioso e tranquillo abbandono; convenienza del suo contenuto, perché – osserva san Tommaso – “è assai difficile saper esattamente cosa sia opportuno chiedere e cosa no, dal momento che siamo in difficoltà di fronte alla selezione dei desideri” (Ibid., p. 120); e poi ordine appropriato delle richieste, fervore di carità e sincerità dell’umiltà.
San Tommaso è stato, come tutti i santi, un grande devoto della Madonna. L’ha definita con un appellativo stupendo: Triclinium totius Trinitatis, triclinio, cioè luogo dove la Trinità trova il suo riposo, perché, a motivo dell’Incarnazione, in nessuna creatura, come in Lei, le tre divine Persone inabitano e provano delizia e gioia a vivere nella sua anima piena di Grazia. Per la sua intercessione possiamo ottenere ogni aiuto.
Con una preghiera, che tradizionalmente viene attribuita a san Tommaso e che, in ogni caso, riflette gli elementi della sua  profonda devozione mariana, anche noi diciamo: “O beatissima e dolcissima Vergine Maria, Madre di Dio..., io affido al tuo cuore misericordioso tutta la mia vita... Ottienimi, o mia dolcissima Signora, carità vera, con la quale possa amare con tutto il cuore il tuo santissimo Figlio e te, dopo di lui, sopra tutte le cose, e il prossimo in Dio e per Dio”.

-------AMDG et BVM-------

BENEDETTO XVI , UDIENZA GENERALE, 16 giugno 2010 San Tommaso d'Aquino (2)


BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 16 giugno 2010

San Tommaso d'Aquino (2)
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei continuare la presentazione di san Tommaso d’Aquino, un teologo di tale valore che lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due documenti, il decreto Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle Università Cattoliche.
Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia. I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la "filosofia nostra". La parola "filosofia" non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa. Per san Tommaso l'incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova. 
La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della "filosofia nostra" dei Padri non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una "filosofia" completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la “teologia”, un pensare con la fede e nella fede. La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono? Non mancavano elementi che affermavano l'incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto della loro compatibilità - anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa. 
Questa è stata la grande “sorpresa” di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro. E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l'incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l'una e l'altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.
Insieme con l'accordo tra ragione e fede, si deve riconoscere, d'altra parte, che esse si avvalgono di procedimenti conoscitivi differenti. La ragione accoglie una verità in forza della sua evidenza intrinseca, mediata o immediata; la fede, invece, accetta una verità in base all’autorità della Parola di Dio che si rivela. Scrive san Tommaso al principio della sua Summa Theologiae: “Duplice è l’ordine delle scienze; alcune procedono da principi conosciuti mediante il lume naturale della ragione, come la matematica, la geometria e simili; altre procedono da principi conosciuti mediante una scienza superiore: come la prospettiva procede da principi conosciuti mediante la geometria e la musica da principi conosciuti mediante la matematica. E in questo modo la sacra dottrina (cioè la teologia) è scienza perché procede dai principi conosciuti attraverso il lume di una scienza superiore, cioè la scienza di Dio  e dei santi” (I, q. 1, a. 2).
Questa distinzione assicura l’autonomia tanto delle scienze umane, quanto delle scienze teologiche. Essa però non equivale a separazione, ma implica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione. La fede, infatti, protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricerca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si applica alla sfera soprannaturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro. Secondo san Tommaso, per esempio, la ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un unico Dio, ma solo la fede, che accoglie la Rivelazione divina, è in grado di attingere al mistero dell’Amore di Dio Uno e Trino.
D’altra parte, non è soltanto la fede che aiuta la ragione. Anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio che san Tommaso riassume nel proemio del suo commento al De Trinitate di Boezio: “Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede” (q. 2, a. 2). 
Tutta la storia della teologia è, in fondo, l’esercizio di questo impegno dell’intelligenza, che mostra l’intelligibilità della fede, la sua articolazione e armonia interna, la sua ragionevolezza e la sua capacità di promuovere il bene dell’uomo. La correttezza dei ragionamenti teologici e il loro reale significato conoscitivo si basano sul valore del linguaggio teologico, che è, secondo san Tommaso, principalmente un linguaggio analogico. La distanza tra Dio, il Creatore, e l'essere delle sue creature è infinita; la dissimilitudine è sempre più grande che la similitudine (cfr DS 806). Ciononostante, in tutta la differenza tra Creatore e creatura, esiste un'analogia tra l'essere creato e l'essere del Creatore, che ci permette di parlare con parole umane su Dio.

San Tommaso ha fondato la dottrina dell’analogia, oltre che su argomentazioni squisitamente filosofiche, anche sul fatto che con la Rivelazione Dio stesso ci ha parlato e ci ha, dunque, autorizzato a parlare di Lui. Ritengo importante richiamare questa dottrina. Essa, infatti, ci aiuta a superare alcune obiezioni dell’ateismo contemporaneo, il quale nega che il linguaggio religioso sia fornito di un significato oggettivo, e sostiene invece che abbia solo un valore soggettivo o semplicemente emotivo. Questa obiezione risulta dal fatto che il pensiero positivistico è convinto che l'uomo non conosce l'essere, ma solo le funzioni sperimentabili della realtà. Con san Tommaso e con la grande tradizione filosofica noi siamo convinti, che, in realtà, l'uomo non conosce solo le funzioni, oggetto delle scienze naturali, ma conosce qualcosa dell'essere stesso - per esempio conosce la persona, il Tu dell'altro, e non solo l'aspetto fisico e biologico del suo essere.

Alla luce di questo insegnamento di san Tommaso, la teologia afferma che, per quanto limitato, il linguaggio religioso è dotato di senso - perché tocchiamo l’essere -, come una freccia che si dirige verso la realtà che significa. Questo accordo fondamentale tra ragione umana e fede cristiana è ravvisato in un altro principio basilare del pensiero dell’Aquinate: la Grazia divina non annulla, ma suppone e perfeziona la natura umana. Quest’ultima, infatti, anche dopo il peccato, non è completamente corrotta, ma ferita e indebolita. La Grazia, elargita da Dio e comunicata attraverso il Mistero del Verbo incarnato, è un dono assolutamente gratuito con cui la natura viene guarita, potenziata e aiutata a perseguire il desiderio innato nel cuore di ogni uomo e di ogni donna: la felicità. Tutte le facoltà dell’essere umano vengono purificate, trasformate ed elevate dalla Grazia divina.
Un’importante applicazione di questa relazione tra la natura e la Grazia si ravvisa nella teologia morale di san Tommaso d’Aquino, che risulta di grande attualità. Al centro del suo insegnamento in questo campo, egli pone la legge nuova, che è la legge dello Spirito Santo. Con uno sguardo profondamente evangelico, insiste sul fatto che questa legge è la Grazia dello Spirito Santo data a tutti coloro che credono in Cristo. A tale Grazia si unisce l’insegnamento scritto e orale delle verità dottrinali e morali, trasmesso dalla Chiesa. San Tommaso, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell’azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del “Sermone della Montagna” se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all’azione del suo Santo Spirito. Però – aggiunge l’Aquinate – “anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo” (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale. 
La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell’uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana. La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana.

Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità: “Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere” (n. 71).
In conclusione, Tommaso ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana, soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la dignità della persona, l'intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri. Non sorprende che la dottrina circa la dignità della persona, fondamentale per il riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo, sia maturata in ambienti di pensiero che hanno raccolto l’eredità di san Tommaso d’Aquino, il quale aveva un concetto altissimo della creatura umana. La definì, con il suo linguaggio rigorosamente filosofico, come “ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura, cioè un soggetto sussistente in una natura razionale” (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3).

La profondità del pensiero di san Tommaso d’Aquino sgorga – non dimentichiamolo mai – dalla sua fede viva e dalla sua pietà fervorosa, che esprimeva in preghiere ispirate, come questa in cui chiede a Dio: “Concedimi, ti prego, una volontà che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia e una fiducia che alla fine giunga a possederti”.

AMDG et BVM

BENEDETTO XVI UDIENZA GENERALE 2 giugno 2010 San Tommaso d'Aquino


BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 2 giugno 2010
 

San Tommaso d'Aquino

Cari fratelli e sorelle,
dopo alcune catechesi sul sacerdozio e i miei ultimi viaggi, ritorniamo oggi al nostro tema principale, alla meditazione cioè di alcuni grandi pensatori del Medio Evo. Avevamo visto ultimamente la grande figura di san Bonaventura, francescano, e oggi vorrei parlare di colui che la Chiesa chiama il Doctor communis: cioè san Tommaso d’Aquino. Il mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Fides et ratio ha ricordato che san Tommaso “è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia” (n. 43). Non sorprende che, dopo sant’Agostino, tra gli scrittori ecclesiastici menzionati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato chiamato anche il Doctor Angelicus, forse per le sue virtù, in particolare la sublimità del pensiero e la purezza della vita.

Tommaso nacque tra il 1224 e il 1225 nel castello che la sua famiglia, nobile e facoltosa, possedeva a Roccasecca, nei pressi di Aquino, vicino alla celebre abbazia di Montecassino, dove fu inviato dai genitori per ricevere i primi elementi della sua istruzione. Qualche anno dopo si trasferì nella capitale del Regno di Sicilia, Napoli, dove Federico II aveva fondato una prestigiosa Università. In essa veniva insegnato, senza le limitazioni vigenti altrove, il pensiero del filosofo greco Aristotele, al quale il giovane Tommaso venne introdotto, e di cui intuì subito il grande valore. Ma soprattutto, in quegli anni trascorsi a Napoli, nacque la sua vocazione domenicana. Tommaso fu infatti attratto dall’ideale dell’Ordine fondato non molti anni prima da san Domenico. Tuttavia, quando rivestì l’abito domenicano, la sua famiglia si oppose a questa scelta, ed egli fu costretto a lasciare il convento e a trascorrere qualche tempo in famiglia.

Nel 1245, ormai maggiorenne, poté riprendere il suo cammino di risposta alla chiamata di Dio. Fu inviato a Parigi per studiare teologia sotto la guida di un altro santo, Alberto Magno, sul quale ho parlato recentemente. Alberto e Tommaso strinsero una vera e profonda amicizia e impararono a stimarsi e a volersi bene, al punto che Alberto volle che il suo discepolo lo seguisse anche a Colonia, dove egli era stato inviato dai Superiori dell’Ordine a fondare uno studio teologico. Tommaso prese allora contatto con tutte le opere di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, che Alberto illustrava e spiegava.

In quel periodo, la cultura del mondo latino era stata profondamente stimolata dall’incontro con le opere di Aristotele, che erano rimaste ignote per molto tempo. Si trattava di scritti sulla natura della conoscenza, sulle scienze naturali, sulla metafisica, sull’anima e sull’etica, ricchi di informazioni e di intuizioni che apparivano valide e convincenti. Era tutta una visione completa del mondo sviluppata senza e prima di Cristo, con la pura ragione, e sembrava imporsi alla ragione come “la” visione stessa; era, quindi, un incredibile fascino per i giovani vedere e conoscere questa filosofia. Molti accolsero con entusiasmo, anzi con entusiasmo acritico, questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnovare vantaggiosamente la cultura, aprire totalmente nuovi orizzonti. Altri, però, temevano che il pensiero pagano di Aristotele fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo. 
Si incontrarono due culture: la cultura pre-cristiana di Aristotele, con la sua radicale razionalità, e la classica cultura cristiana. Certi ambienti erano condotti al rifiuto di Aristotele anche dalla presentazione che di tale filosofo era stata fatta dai commentatori arabi Avicenna e Averroè. Infatti, furono essi ad aver trasmesso al mondo latino la filosofia aristotelica. Per esempio, questi commentatori avevano insegnato che gli uomini non dispongono di un’intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto universale, una sostanza spirituale comune a tutti, che opera in tutti come “unica”: quindi una depersonalizzazione dell'uomo. Un altro punto discutibile veicolato dai commentatori arabi era quello secondo il quale il mondo è eterno come Dio. Si scatenarono comprensibilmente dispute a non finire nel mondo universitario e in quello ecclesiastico. La filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente semplice.

Tommaso d’Aquino, alla scuola di Alberto Magno, svolse un’operazione di fondamentale importanza per la storia della filosofia e della teologia, direi per la storia della cultura: studiò a fondo Aristotele e i suoi interpreti, procurandosi nuove traduzioni latine dei testi originali in greco. Così non si appoggiava più solo ai commentatori arabi, ma poteva leggere personalmente i testi originali, e commentò gran parte delle opere aristoteliche, distinguendovi ciò che era valido da ciò che era dubbio o da rifiutare del tutto, mostrando la consonanza con i dati della Rivelazione cristiana e utilizzando largamente e acutamente il pensiero aristotelico nell’esposizione degli scritti teologici che compose. In definitiva, Tommaso d’Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia. E questa è stata la grande opera di Tommaso, che in quel momento di scontro tra due culture - quel momento nel quale sembrava che la fede dovesse arrendersi davanti alla ragione - ha mostrato che esse vanno insieme, che quanto appariva ragione non compatibile con la fede non era ragione, e quanto appariva fede non era fede, in quanto opposta alla vera razionalità; così egli ha creato una nuova sintesi, che ha formato la cultura dei secoli seguenti.

Per le sue eccellenti doti intellettuali, Tommaso fu richiamato a Parigi come professore di teologia sulla cattedra domenicana. Qui iniziò anche la sua produzione letteraria, che proseguì fino alla morte, e che ha del prodigioso: commenti alla Sacra Scrittura, perché il professore di teologia era soprattutto interprete della Scrittura, commenti agli scritti di Aristotele, opere sistematiche poderose, tra cui eccelle la Summa Theologiae, trattati e discorsi su vari argomenti. Per la composizione dei suoi scritti, era coadiuvato da alcuni segretari, tra i quali il confratello Reginaldo di Piperno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, caratterizzata da una grande confidenza e fiducia. È questa una caratteristica dei santi: coltivano l’amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino, come Tommaso stesso ha spiegato in alcune quaestiones della Summa Theologiae, in cui scrive: “La carità è l’amicizia dell’uomo con Dio principalmente, e con gli esseri che a Lui appartengono” (II, q. 23, a.1).

Non rimase a lungo e stabilmente a Parigi. Nel 1259 partecipò al Capitolo Generale dei Domenicani a Valenciennes dove fu membro di una commissione che stabilì il programma di studi nell’Ordine. Dal 1261 al 1265, poi, Tommaso era ad Orvieto. Il Pontefice Urbano IV, che nutriva per lui una grande stima, gli commissionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, che celebriamo domani, istituita in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Tommaso ebbe un’anima squisitamente eucaristica. I bellissimi inni che la liturgia della Chiesa canta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nell’Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e alla sua sapienza teologica. Dal 1265 fino al 1268 Tommaso risiedette a Roma, dove, probabilmente, dirigeva uno Studium, cioè una Casa di studi dell’Ordine, e dove iniziò a scrivere la sua Summa Theologiae (cfr Jean-Pierre Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, Casale Monf., 1994, pp. 118-184).

Nel 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti - si può capire - erano entusiasti delle sue lezioni. Un suo ex-allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti seguiva i corsi di Tommaso, tanto che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con un’annotazione personale, che “ascoltarlo era per lui una felicità profonda”. L’interpretazione di Aristotele data da Tommaso non era accettata da tutti, ma persino i suoi avversari in campo accademico, come Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre per utilità e valore e serviva da correttivo a quelle di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle vivaci discussioni in atto, i Superiori lo inviarono ancora una volta a Napoli, per essere a disposizione del re Carlo I, che intendeva riorganizzare gli studi universitari.
Oltre che allo studio e all’insegnamento, Tommaso si dedicò pure alla predicazione al popolo. E anche il popolo volentieri andava ad ascoltarlo. Direi che è veramente una grande grazia quando i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d’altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.

Gli ultimi mesi della vita terrena di Tommaso restano circondati da un’atmosfera particolare, misteriosa direi. Nel dicembre del 1273 chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comunicargli la decisione di interrompere ogni lavoro, perché, durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una rivelazione soprannaturale, che quanto aveva scritto fino ad allora era solo “un mucchio di paglia”. È un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l’umiltà personale di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infinitamente superato dalla grandezza e dalla bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pienezza nel Paradiso. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa meditazione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per prendere parte al Concilio Ecumenico indetto dal Papa Gregorio X. Si spense nell’Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevuto il Viatico con sentimenti di grande pietà.


La vita e l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino si potrebbero riassumere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella Cappella di San Nicola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sacrestano della chiesa, sentì svolgersi un dialogo. Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocifisso rispose: “Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?”. E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, amici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: “Nient’altro che Te, Signore!” (Ibid., p. 320).

SAN TOMMASO D'AQUINO

 
   

28 GENNAIO
SAN TOMMASO D'AQUINO

Sacerdote e dottore della Chiesa
(1225?- 1274)
Memoria
 
LETTURE: 1 Cor 2, 1-10a; Sal 18; Mt 5, 13-19
 
Nato nel castello di Roccasecca, presso Montecassino, entrò a 18 anni fra i Domenicani; fu studente e poi maestro di teologia a Parigi; insegnò pure nello « studio » della corte papale ad Anagni, a Orvieto, Roma, Viterbo, Napoli. Discepolo di sant’Alberto Magno, nutrito della dottrina della sacra Scrittura e dei Padri, si servì della filosofia, specialmente di Aristotile e dei suoi commentatori arabi ma anche di Platone: accoglieva la verità da chiunque fosse espressa per illustrarne la fede ma respingeva l’errore da chiunque proposto. Ogni verità, egli riteneva, viene da Dio. Poté così operare una grande sintesi dottrinale (Summa contra Gentes, Summa Theologiae, ecc.) nella quale la Chiesa riconosce tuttora una delle più perfette espressioni del suo insegnamento.
Il Vaticano II ha attinto abbondantemente al suo pensiero. E’ onorato col titolo di « Dottore Angelico ».
Semplice, servizievole, silenzioso, raccolto, si faceva amare da tutti; più di ogni altro intese lo studio e la scienza come strumenti di santificazione. Amante del popolo, predicava di preferenza alla povera gente con semplicità e bonarietà anche più volte al giorno, come afferma il suo primo biografo.
 
Nessun esempio di virtù è assente dalla croce

Dalle «Conferenze» di san Tommaso d'Aquino, sacerdote
(Conf. 6 sopra il «Credo in Deum»)

Fu necessario che il Figlio di Dio soffrisse per noi? Molto, e possiamo parlare di una duplice necessità: come rimedio contro il peccato e come esempio nell'agire.

Fu anzitutto un rimedio, perché è nella passione di Cristo che troviamo rimedio contro tutti i mali in cui possiamo incorrere per i nostri peccati.
Ma non minore è l'utilità che ci viene dal suo esempio.
La passione di Cristo infatti è sufficiente per orientare tutta la nostra vita.

Chiunque vuol vivere in perfezione non faccia altro che disprezzare quello che Cristo disprezzò sulla croce, e desiderare quello che egli desiderò. Nessun esempio di virtù infatti è assente dalla croce.

Se cerchi un esempio di carità, ricorda: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
Questo ha fatto Cristo sulla croce. E quindi, se egli ha dato la sua vita per noi, non ci deve essere pesante sostenere qualsiasi male per lui.

Se cerchi un esempio di pazienza, ne trovi uno quanto mai eccellente sulla croce. La pazienza infatti si giudica grande in due circostanze: o quando uno sopporta pazientemente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano.
Ora Cristo ci ha dato sulla croce l'esempio dell'una e dell'altra cosa. Infatti «quando soffriva non minacciava» (1 Pt 2, 23) e come un agnello fu condotto alla morte e non apri la sua bocca (cfr. At 8, 32). Grande è dunque la pazienza di Cristo sulla croce: «Corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia» (Eb 12, 2).

Se cerchi un esempio di umiltà, guarda il crocifisso: Dio, infatti, volle essere giudicato sotto Ponzio Pilato e morire.

Se cerchi un esempio di obbedienza, segui colui che si fece obbediente al Padre fino alla morte: «Come per la disobbedienza di uno solo, cioè di Adamo, tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19).

Se cerchi un esempio di disprezzo delle cose terrene, segui colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3). Egli è nudo sulla croce, schernito, sputacchiato, percosso, coronato di spine, abbeverato con aceto e fiele.
Non legare dunque il tuo cuore alle vesti ed alle ricchezze, perché «si sono divise tra loro le mie vesti» (Gv 19, 24); non gli onori, perché ho provato gli oltraggi e le battiture (cfr. Is 53, 4); non alle dignità, perché intrecciata una corona di spine, la misero sul mio capo (cfr. Mc 15, 17); non ai piaceri, perché «quando avevo sete, mi han dato da bere aceto» (Sal 68, 22).


http://iteadjmj.com/SANTO/tomasa.pdf

AMDG et BVM

lunedì 1 settembre 2014

COMMENTO ALL'AVE MARIA - S. Tommaso d'Aquino


COMMENTO ALL'AVE MARIA

Ave Maria, piena di grazia

    Nella preghiera dell'Ave si distinguono tre parti: 
la prima venne pronunziata dall'angelo, cioè: «Ave, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta tra le donne» (Lc 1, 28). 
L'altra da Elisabetta, madre di Giovanni Battista, quando disse: «Benedetto il frutto del seno tuo» (Lc 1, 42). La terza fu aggiunta dalla Chiesa: il vocativo «Maria» (215). Difatti l'angelo non disse: «Ave, Maria», bensì: «Ave, piena di grazia»; ma vedremo come il nome «Maria», nei suoi vari significati, si addica al saluto dell'angelo.
    In antico era considerato un grande onore il fatto che gli angeli si mostrassero agli occhi umani, e sommo titolo di lode l'essersi potuti prostrare dinanzi a quei messaggeri di Dio. Tant'è vero che a lode di Abramo vien detto che egli ospitò gli angeli nella propria tenda, rendendo loro la debita venerazione (216).
    Ma del tutto insolito risulta che sia stato un angelo a inchinarsi davanti a creatura umana, fino al momento in cui Gabriele salutò la beata Vergine, devotamente: «Ave» (217).

     La ragione per cui mai prima d'allora un angelo si era abbassato di fronte a persona umana è questa: che egli la sopravanza per tre motivi: quanto a dignità, a familiarità con Dio e al pieno splendore della grazia divina [che rifulge nelle sostanze angeliche].

    L'angelo è infatti di natura spirituale, come attesta il salmo 103: «Tu hai creato i tuoi messaggeri come spirito» (Sal 103, 4), mentre l'uomo è corruttibile per natura. Disse in tal senso Abramo: «Io, che sono polvere e cenere, parlerò al mio Signore?» (Gn 18, 27). Non era quindi opportuno che una creatura spirituale e incorruttibile si umiliasse dinanzi ad altra creatura, caduca, qual'è l'uomo.

    L'angelo è familiare con Dio; un suo assistente: «Mille migliaia [d'angeli] lo servivano, e miriadi di miriadi stavano in piedi di fronte a lui» (Dn 7, 10). Al contrario, l'uomo è come uno straniero, dopo essersi allontanato dal trono dell'Altissimo con la colpa d'origine. Ognuno di noi può ripetere: «Ecco, me ne son fuggito lontano» (Sal 54, 8). Perciò è assai più naturale che sia l'uomo a mostrarsi deferente nei confronti dell'angelo, intimo familiare del celeste sovrano.

    E infine, gli angeli partecipano largamente del lume divino. [Bildad lo Shukhita] si domandava: «E’ possibile far un censimento delle sue milizie? e c'è qualcuno tra loro che non è investito dal divino fulgore?» (218). Per questa ragione, l'angelo si manifesta sempre come un essere luminoso; gli uomini, invece, anche quando siano in qualche modo toccati da quel lume di grazia, restano in una sorta di semioscurità. Non era conveniente che l'angelo prestasse un atto d'ossequio o riverenza all'uomo finché non si fosse trovato nelle umane generazioni qualcuno che lo superasse - per spiritualità, familiarità con Dio e nel pieno splendore della grazia. Così fu l'angelo che rese omaggio a Maria, salutandola: «Piena di grazia».
    La beata Vergine, dunque, superò gli angeli per tre motivi, a cominciare dalla pienezza di grazia che, in lei, è superiore che non in qualunque spirito beato; e per sottolineare ciò, Gabriele le rese omaggio chiamandola: «Piena di grazia», quasi volesse dire: «Ti ossequio poiché mi vinci per sovrabbondanza di grazia».

    I. La beata Vergine è detta «piena di grazia» innanzi tutto riguardo alla propria anima, satura di grazia divina. Tale dono viene concesso per due finalità: onde farci ben operare ed evitare il male. Maria ebbe il duplice ausilio in misura perfetta. Ella evitò il peccato meglio che qualunque altro santo, seconda soltanto rispetto al Cristo.
    Esiste il peccato, che è di due specie. Da quello originale Maria venne mondata fin dal grembo materno; e fu esente da qualsiasi peccato personale, anche il più lieve. Si legge nel Cantico dei Cantici: «Tu sei tutta bella, amica mia, e in te non è possibile trovare alcuna macchia!» (Ct 4, 7). E sant'Agostino, nel trattato su La natura e la grazia, aggiunge: «Esclusa la santa Vergine Maria, se la totalità dei santi e delle sante fosse stata interrogata durante la loro vita terrena, se si stimassero immuni da colpa, avrebbero esclamato concordi: 'Quando dicessimo di non avere in noi l'esperienza del peccato, inganneremmo noi stessi: non ci sarebbe la verità nelle nostre parole!' (I Gv I, 8). Tutti. Eccetto questa santa Vergine che, come dico, non dev'esser neppure nominata in tale questione, per l'onore dovuto a Dio. Sappiamo infatti che le venne concessa tanta grazia da poter vincere la minima tentazione, quanto ne richiedeva il suo merito di concepire e dare alla luce colui che di certo non conobbe ombra di peccato».
    Cristo, d'altronde, superò la beata Vergine: egli fu concepito senza la colpa d'origine mentre la Vergine santa, pur nascendo senza peccato, ne fu sfiorata appena, all'atto del concepimento [nel grembo di sua madre, Anna] (219).
    Ella esercitò inoltre tutte le virtù, invece i santi rifulsero solo in tal une di esse: chi fu particolarmente umile, chi casto, chi misericordioso; singolarmente considerati, essi ci son d'esempio per qualche virtù specifica (come san Nicola che vien citato a modello di misericordia, ecc.). La vergine Maria è esemplare in ogni singola virtù: difatti trovi in lei esempio d'umiltà, quando dice: «Eccomi, sono l'ancella del Signore... Egli ha guardato alla pochezza della sua serva» (Lc 1, 38; 48). Fu modello di castità («Non ho [né intendo avere] esperienze matrimoniali») (220); e così di seguito, per le rimanenti virtù. Sicché la beata Vergine fu piena di grazia sia in ordine al bene da compiere, sia quanto al male da evitare.

    2. Di più, ricevette la pienezza della grazia anche allo scopo di far ridondare l'eccesso [della medesima], dall'anima, nel proprio corpo.
    È già mirabile cosa che i santi abbiano quel tanto di grazia sufficiente a santificarli nell'anima; ma lo spirito della Vergine ne fu così ricolmo da traboccare nel suo fisico, da cui doveva prender inizio il concepimento del Figlio di Dio. Dice al riguardo Ugo da san Vittore: «Dato che l'amore dello Spirito Santo ardeva nell'animo suo in misura singolare, produsse meraviglie nella sua carne, facendo germinare da lei l'Uomo-Dio». È un appropriato commento a quanto aveva scritto san Luca: «Il bambino che da te nascerà sarà santo, e verrà chiamato 'figlio dell'Altissimo'» (Lc l, 35).

    3. Maria fu piena di grazia anche in ordine alla compartecipazione del dono a tutti gli uomini. Se è un fatto ammirabile che un santo abbia posseduto la grazia in misura tale da procurar la salvezza di molti altri, il possederne in quantità sufficiente da provvedere alla salvezza spirituale del mondo intero, questo equivarrebbe ad aver la grazia in grado massimo: ed è quel che si verifica in Cristo e nella Vergine beata.
    In qualunque frangente ti trovassi, tu potrai scamparne grazie alla gloriosa Vergine. Per simboleggiarne la potenza, può applicarsi a lei ciò che si può leggere nel Cantico. «Innumerevoli corazze - ossia ripari contro ogni pericolo - la circondano» (Ct 4, 4). E puoi averla al tuo fianco, ad aiutarti nel compimento di ogni opera virtuosa; in questo secondo senso è applicabile alla santa Vergine un'altra citazione biblica: «In me si trova ogni speranza [necessaria] alla vita e alla virtù» (Sir 24, 25).

    Dunque, Maria è piena di grazia, da eccedere per abbondanza gli angeli stessi. Perciò è chiamata convenientemente «Maria», che significa: «Colei che ha in sé la luce». La sua anima, infatti, per riportare alcune parole del profeta, «risplende nelle tenebre» (Is 58, 11): luce che si irradia sopra l'intera umanità. Ecco perché Maria vien rassomigliata al sole e alla luna.

    Ella supera gli angeli anche quanto a familiarità con Dio. Volle metterlo in risalto l'angelo: «Il Signore è con te»; quasi dica: «Ti rendo ossequio giacché tu sei più intima con Dio, di quanto non lo sia io stesso. Il Signore infatti è 'con te': Dio Padre e il suo Verbo!» Nessun angelo né alcun' altra creatura potrà ripetere altrettanto. «Colui che nascerà da te, sarà detto 'Figlio di Dio'» (Lc 1, 35). Nel tuo grembo, il Figlio unigenito del Padre. Perciò, Maria, «esulta e giubila... che abiterà in te, possente, il Santo d'Israele» (Is 12, 6).
    Il Signore sta con la beata Vergine anche in altro senso, rispetto al suo stare assieme agli angeli. [Diverso il rapporto:] Dio, che si rende figlio di Maria, resta Signore delle schiere angeliche.

    Lo Spirito Santo dimora in lei come in un tempio, sicché essa riceve giustamente l'appellativo di «tempio del Signore, sacrario dello Spirito Santo». Maria concepì [il Cristo] in virtù dello Spirito Santo, che scese su di lei con la potenza dell'Altissimo (cf. Lc 1, 35). Un'intimità col creatore più profonda di qualunque altra, cui possa aspirare una creatura: sono in lei Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, l'indivisa Trinità; per questo si canta della Vergine: «O nobile triclinio della Trinità» (221); e l'espressione: «Il Signore è con te» è la più nobile che si possa proferire. Giustamente l'angelo s'inchina davanti a Maria: è la madre del suo Signore, e dunque Signora lei medesima. Le si addice [anche] perciò il nome «Maria» che, in siriaco, viene interpretato «signora».

    Infine, la beata Vergine supera gli angeli nella purezza, dal momento che fu pura non soltanto in se stessa, ma dispensatrice di purezza per tanti altri. Fu purissima sia quanto alla minima colpa - giacché non contrasse il peccato d'origine, né commise alcun peccato, mortale o veniale -, sia quanto alla pena (222).
    A causa del peccato [d'origine] erano stati comminati tre generi di castigo
La donna avrebbe concepito d'allora in poi con pregiudizio della verginità, portato avanti nel disagio la gravidanza, e partorito tra le doglie.
    Ma la beata Vergine fu esente da tutto ciò: concepì senza danno della propria integrità, tutta consolata portò in grembo il Figlio e tra gaudi inenarrabili diede alla luce colui che è il Salvatore. Le si possono adattare le parole d'Isaia: «Si coprirà di fiori..., fiorirà simile al narciso; esulterà piena di contentezza e cantando laudi» (Is 35, 2).

    Altra pena, data all'uomo: avrebbe dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Ne fu esclusa la Vergine beata, secondo la sentenza dell'Apostolo: «Le vergini si danno pensiero [unicamente] delle cose che riguardano il Signore» (1 Cor 7, 34).

    La terza è comune agli uomini e alle donne, il cui corpo deve tornare [a risolversi] in polvere. La beata Vergine ne fu risparmiata, essendo stata assunta in cielo, anima e corpo, quasi aderendo all'invito: «Lèvati, Signore, verso la tua dimora: tu, e l'arca tua santa» (Sal 131, 8).

    Insomma, ella fu libera da ogni genere di maledizioni; «benedetta tra le donne », lei che - tolta di mezzo la maledizione - ci donò la benedizione [nel Cristo] e aprì l'accesso al paradiso. Le si addice così il nome di «Maria» nel significato di «stella del mare». Come infatti, grazie alla stella [polare], i naviganti si orientano ritrovando la rotta verso il porto, similmente i cristiani son guidati da Maria alla patria celeste.


Benedetto il frutto del tuo seno (Lc I, 42)

    Talvolta il peccatore cerca nei beni un godimento che non gli riesce d'ottenere, mentre il medesimo viene concesso al giusto. E detto nel libro dei Proverbi: «Le sostanze dell'empio sono serbate per l'uomo retto» (Prv 13, 22). Eva, ad esempio, mangiò del frutto [proibito] senza tuttavia trovarci quanto aveva sperato. La beata Vergine invece trovò nel frutto del proprio grembo ciò che Eva aveva cercato invano.

    I. Il diavolo le aveva ingannevolmente promesso che [lei e Adamo] si sarebbero tramutati in dèi, capaci di 'conoscere il bene e il male': «Sarete - promise quel bugiardo - simili alla deità» (Gn 3, 5). Naturalmente mentiva, poiché è menzognero, ispiratore d'ogni falsità.
    L'aver mangiato del frutto vietato non rese Eva simile a Dio, bensì dissimile, giacché peccando s'allontanò dall'unico che poteva salvarla. Venne cacciata dal paradiso.
    Il contrario accadde alla beata Vergine ed a ciascun cristiano: in forza della nostra unione al Cristo (223) siamo congiunti e resi simili a Dio: « Quando in noi sarà attuale [lo splendore della vita divina], saremo simili a lui, e lo vedremo quale egli è» (I Gv 3, 2).

    2. Ancora. La donna aveva sperato di appagare il proprio desiderio mangiando di quel frutto che le sembrava così appetibile. Ma non ne trasse piacere, perché all'istante si ritrovò spogliata [di tanti doni] e in preda all'angoscia. Nel frutto della Vergine [madre] troviamo invece soavità e salute. L'ha detto la Verità incarnata: «Chi mangia la mia carne, partecipa della vita eterna» (Gv 6, 55).
     3. Il frutto bramato da Eva, infine, era bello all'apparenza, ma assai più bello è il frutto della Vergine Maria, tanto che gli angeli bramano di poterlo contemplare. Di lui canta il salmista: «Tu splendi per bellezza tra i figli dell'uomo; soffuse di grazia sono le tue labbra» (224), ed è un effetto della gloria del Padre.

     Eva, al pari d'ogni altro peccatore, non poté conseguire ciò che sperava dal peccato. E allora, quel che desideriamo cerchiamolo nel Figlio della Vergine. È un frutto benedetto da Dio, che lo arricchì d'ogni grazia, tanto da farla traboccare sino a noi appena gli porgiamo il nostro ossequio. «Egli ci ha benedetti in Cristo, dall'alto dei cieli, con ogni genere di benedizioni spirituali» (Ef I, 3). E benedetto dagli angeli: «Lode, gloria; sapienza, rendimento di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio, nei secoli dei secoli!» (Ap 7, 12). Benedetto dagli uomini, che ripetono: «Ogni lingua riconosca che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 11), e: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Gv 12,13; cf. Sal 117, 26).

     Benedetta di sicuro la Vergine santa, ma ancor più benedetto il frutto del suo grembo.