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lunedì 15 marzo 2021

Notizie della 'Vita del Fratello laico Gerardo Maiella del SS. Redentore....


 
I MIRACOLI COMPIUTI DA SAN GERARDO MAIELLA A LACEDONIA

San Gerardo Maiella nacque a Muro Lucano, in provincia di Potenza, il 6 aprile del 1726, da
Domenico e da Benedetta Galella.
Il padre, sarto, riusciva a mantenere decorosamente tutta la famiglia, formata da sei persone: il
padre, la madre, tre figlie ed infine Gerardo.

Già da piccolo mostrava i segni della sua santità attraverso il suo comportamento in chiesa ed in
casa. In un angolo del’unico vano che serviva da abitazione, aveva costruito il so altarino con
l’immagine di San Michele Arcangelo e di altri Santi, presso il quale trascorreva lungo tempo in
preghiera. Aveva circa sei anni quando la famiglia venne a trovarsi in ristrettezze finanziarie, per
cui scarseggiava il cibo. Risale a quel periodo l’amicizia stretta fra Gerardo e il Bambinello della
chiesa di Capodigiano, che distava qualche chilometro dal paese. Qui si recava il piccolo Gerardo
ogni mattina da solo. Gesù bambino scendeva dalle braccia della madonna, giocava con Gerardo ed
infine gli offriva un bel panino bianco, che egli portava a sua madre. Interrogato sulla provenienza
di quel pane, rispondeva che glie lo aveva donato il figlio di “quella bella Signora”.

All’età di dodici anni rimase orfano di padre e si vide costretto a fare l’apprendista presso la sartoria
Pannuto per imparare lo stesso mestiere del genitore.
Nel 1740 ricevette la Cresima dal Vescovo di Lacedonia, Mosignor Claudio Albini, per fare visita
ai parenti. Invitato da quest’ultimo ad andare al suo servizio, accettò e nel 1741 venne presso il
seminario di Lacedonia, dove si trattenne fino alla morte del Vescovo, avvenuta nel 1744.
Ritornato a Muro, lavorò da sarto in qualità di apprendista presso la sartoria Mennona e l’anno dopo
si mise a lavorare per proprio conto.

Nel 1749, dopo molti tentativi falliti, a causa del suo fisico fragile che gli impediva di essere
accettato negli ordini religiosi, riuscì finalmente ad entrare nella Congregazione dei Redentoristi e
fu assegnato al convento di Deliceto.
Verso la fine di novembre del 1752 tornò a Lacedonia per la questua del grano e del vino e vi si
trattenne, dimorando in casa Cappucci, per qualche mese.
Nel febbraio del 1753, durante un viaggio da Melfi a Lacedonia, avendo smarrito la strada per via di
una furiosa tempesta, vi si fece condurre dal demonio apparsogli per spaventarlo. Nell’autunno del
1753 venne di nuovo a Lacedonia, chiamato dal Vescovo e dall’Arciprete, durante una epidemia
che aveva colpito la città.
Nel 1754 Gerardo fu oggetto della calunnia di Nerea Caggiano, la quale ritrattò dopo qualche mese.
All’alba del 16 ottobre del 1755 morì a Materdomini: le campane suonate a lutto rimandarono un
suono festoso.

IL MIRACOLO DELLA CHIAVE CADUTA NEL POZZO A LACEDONIA.
Il bordo del Pozzo del Miracolo – Museo diocesano San Gerardo Maiella
Alfonso Amarante, nel suo pregevole testo dal titolo “Gerardo Maiella - Strada Facendo”, a
proposito di Lacedonia si esprime in questi termini:
«Lacedonia è stata, ed è forse, la città più legata e cara a Gerardo, nella buona e nella cattiva
sorte. Sua residenza per quattro anni (1740 – 1744), l’ha frequentata, poi, spesso, a più riprese, per
diversi mesi...».

Nei fatti non si può che concordare con l’ottimo studioso, anche perché la storia della “santità” di
Gerardo trova proprio tra queste strade antiche, che si snodano nel centro storico tra case ormai
silenti perché abbandonate, taluni momenti fondamentali del suo farsi. A Lacedonia, infatti, San
Gerardo operò uno dei suoi più celebri miracoli, ancor più eclatante perché egli all’epoca era
giovanissimo e non era affatto tenuto in odore di santità, ma considerato per antonomasia portatore
quanto meno di dabbenaggine, per usare un vocabolo non troppo corrosivo. È tradizione che egli, in
altri termini, non fosse troppo acuto quanto ad intelletto e pertanto si dice che la gente comune non
perdesse occasione per prenderlo in giro, senza che però egli se ne avesse a male. E tuttavia il senno
del poi dimostra che veniva scambiata una visione delle cose troppo più alta rispetto alla media per
semplicità. E comunque, parafrasando il noto aforisma di Ennio Flaiano che recita «Il peggio che
possa capitare ad un genio è di essere compreso», dirò che non capita mai che un santo compreso
immediatamente, perché vede di solito oltre il banale sentire comune.

E dunque Gerardo era stato assunto in qualità di servitore dal Vescovo Albini, Episcopo della
diocesi di Lacedonia, essendo suo conterraneo. L’iconografia tradizionale ci mostra l’alto prelato
nelle vesti di uomo collerico e per nulla incline alla dolcezza, anzi piuttosto rude nei modi e 
addirittura manesco. Probabilmente tale tradizione amplifica le caratteristiche negative di tal pastore
d’anime per fare in modo che le virtù di pazienza e di spirito di sacrificio, che pure Gerardo
possedeva a profusione, rifulgano ancora di più nel confronto. Nei fatti, però, quella era un’epoca
nella quale l’educazione dei giovani passava attraverso la frusta e non è escluso che anche la
pedagogia dell’Albini si basasse sul celebre detto popolare “mazz’ e panell’ fann’ li figl’ bell’”
(bastone e pane rendono i figli belli).

Accadde dunque un giorno che, uscito il Vescovo, Gerardo chiuse la porta degli appartamenti
episcopali e si recò ad attingere acqua al sottostante pozzo. Poggiata la chiave sull’antica pietra
circolare che ne costituisce il bordo (oggi ancora visibile), questa gli cadde accidentalmente in
acqua poggiandosi sul fondo. Non fu certamente il timore della punizione a preoccupare Gerardo,
anche perché egli ricercava la penitenza in tutti i modi, e quando non la trovava in azioni altui se la
infliggeva da solo. Fu invece il pensiero che avrebbe dato un dispiacere al suo Vescovo ad intristirlo
oltremodo, al che fece la sola cosa che gli venne in mente in quel momento: decise come sempre di
affidarsi a Gesù. Corse nell’attigua cattedrale1
e staccata la statuetta di un bambinello dalle braccia
della statua di Sant’Antonio, la cinse alla vita con una corda e la calò nel pozzo pronunziando due
semplici parole: “Pensaci Tu”. Tra la meraviglia degli astanti, soprattutto delle numerose donne che
attendevano il loro turno per attingere acqua al pozzo, che all’epoca si trovava nella pubblica via e
non era ancora stato chiuso da mura, tirata su la statuetta, si vide che questa recava tra le mani la
chiave perduta.

Come già detto Gerardo all’epoca era giovanissimo e non era fatto oggetto di eccessiva stima.
Come è immaginabile, la percezione sociale sulla sua figura mutò in un batter d’occhi non appena,
come il vento, si sparse notizia dell’evento prodigioso, che le comari presenti divulgarono in un
battibaleno.
Il Pozzo è ancora là, al suo posto, se pure inglobato nei locali dell’Episcopio, che ospitano il museo
dedicato proprio al nome di San Gerardo Maiella, e sorprende non poco che esso non goda ancora
delle visite che merita, anche se, ad onor del vero, negli ultimi tempi esse si vanno facendo più
frequenti.


GLI ALTRI MIRACOLI OPERATI DA SAN GERARDO A LACEDONIA.
La storia di San Gerardo Maiella non è certamente qualcosa di inedito e nulla, rispetto alla marea di
scrittori che ne hanno fatto argomento di narrazione, è possibile aggiungere. Gli archetipi
gnoseologici risalgono più o meno all’epoca stessa nella quale visse San Gerardo, giacché i suoi
primi biografi, e di conseguenza quelli più attendibili, furono i suoi confratelli coevi, a cominciare
dal Padre Gaspare Caione, primo in assoluto, seguito Padre Antonio Maria Tannoia e Padre
Giuseppe Landi.
A tali fonti si sono rifatti in prima istanza tutti gli autori seguenti, naturalmente quelli successivi alla
beatificazione di San Gerardo avvenuta soltanto nel 1893 da parte di Leone XIII ed alla sua
definitiva consacrazione agli altari, datata al 1904 ad opera di Pio X, i quali hanno anche potuto
attingere notizie anche agli atti del lungo processo di canonizzazione e che pertanto risultano essere
oltremodo esaustivi. Ciò che varia, dall’uno all’altro degli agiografi, sono lo stile di scrittura ed il
focus narrativo puntato su determinati elementi biografici in dipendenza degli interessi particolari
coltivati da ciascuno. Ad esempio, non sono stati in pochi a soffermarsi soprattutto sul soggiorno di

1
La cattedrale è quella attuale.
San Gerardo nel convento di Materdomini, ove morì, per quanto egli vi sia vissuto per un tempo
molto breve rispetto a quello in cui dimorò in altri luoghi operando prodigi straordinari. Ancora
oggi, se a scrivere fosse qualcuno legato a Muro Lucano, porrebbe giustamente l’accento su quanto
il Santo, da bambino, fece nel suo paese di nascita. Ed ecco dunque che lo scrivente, impegnato a
redigere una storia di Lacedonia, non può che attenersi a tale regola prendendo in considerazione
soltanto i miracoli che egli ebbe a compiere in loco e, tra di essi, quelli più eclatanti.


II. 3, 1 GUARIGIONI MIRACOLOSE.
Lunghissimo sarebbe l’elenco, se mai dovessimo metterlo nero su bianco, di coloro i quali furono
guariti a Lacedonia per l’intercessione di Frate Gerardo già quando egli era ancora in vita. La fama
di tali suoi carismi era talmente diffusa, essendo riconosciuta anche dal clero, che nel 1754,
scatenatasi a Lacedonia una grave epidemia che stava mietendo innumerevoli vittime, il Vescovo
del luogo Niccolò Amato, accogliendo una richiesta esplicita dell’Arciprete Domenico Cappucci,
pregò il Superiore del convento di Deliceto, Padre Carmine Fiocchi, di inviare Gerardo ad offrire
sollievo e conforto spirituale agli ammalati. Nei fatti speravano entrambi che le sue preghiere
avrebbero prodotto guarigioni miracolose e che avrebbe arrestato il flagello epidemico, come poi
effettivamente avvenne.
Fu accolto dalla popolazione, memore dei prodigi che egli aveva già compiuto in città fin dai tempi
nei quali vi abitava da ragazzo, con manifestazioni di giubilo, «come angelo disceso dal cielo»,
secondo l’espressione usata dalla maggioranza dei suoi agiografi, quasi che con il suo semplice
arrivo il morbo fosse già stato sconfitto.
Tra i primi a trarre giovamento dall’azione taumaturgica di San Gerardo fu l’Arcidiacono Antonio
Saponiero, che si ritrovava in fin di vita: bastò un tocco ed una preghiera perché egli fosse restituito
immediatamente ad una salute perfetta.
Non trascorse molto tempo, peraltro, che l’epidemia stessa ebbe a dissolversi completamente,
accanto ai timori del popolo.
In altra occasione Frate Gerardo si trovava a Lacedonia per farvi la questua. Venuto a sapere che
una giovane donna, Lella Cocchia, era stata colpita da demenza, ragion per la quale proferiva una
gran quantità di parole oscene, mosso a compassione si fece accompagnare a casa della sventurata e
le restituì l’intelletto con un solo segno di croce. Subito la fanciulla prese a cantare le lodi del
Signore e della Beatissima Vergine, né mai più, come attestato negli atti per la beatificazione, ebbe
a pronunziare alcuna sconcezza.
Di altri simili eventi non si vuole fare cenno in queste pagine per non appesantirle troppo, essendo
esse largamente risapute.


II. 3, 2 UN FENOMENO DI ESTASI MISTICA E CONTEMPORANEA LEVITAZIONE.
A molti Santi è accaduto, quando cadevano in stato di estasi, di sconfiggere la forza di gravità e di
volteggiare in aria. A tale fenomeno non era estraneo certamente Gerardo, che ne veniva colto senza
che neppure se ne accorgesse. Ospite un giorno in Casa Cappucci2
, fu condotto dal padrone di casa,
Costantino, ad ammirare alcuni quadri di argomento religioso, tra i quali quello raffigurante la
Vergine Maria. Immediatamente gli affiorò alle labbra una esclamazione che egli non trattenne:

2
Attuale Casa Pandiscia, che si trova di fronte al municipio e vicino alla cattedrale, naturalmente a
lacedonia.
«Quanto è bella! Mirate quanto è bella!». Quindi cadde in estasi e a vista di tutti si librò dal
pavimento fino a raggiungere l’altezza della tela, baciandola devotamente. I testimoni di tale scena,
che erano quasi tutti sacerdoti, ne rimasero impressionati fortemente ed altrettanto commossi.

II. 3, 3 UN FENOMENO DI BILOCAZIONE.

Anche la bilocazione apparteneva all’esistenza giornaliera di San Gerardo e in una occasione esso
ebbe a palesarsi anche a Lacedonia. Un uomo che lavorava al servizio della famiglia Di Gregorio,
nella cui casa San Gerardo si era fermato spesso, si ammalò in maniera molto grave e, mentre
giaceva a letto in preda a lancinanti dolori, corse con il pensiero proprio a Gerardo, esclamando: «O
fratello mio, Gerardo mio, dove sei? Perché non vieni ad aiutarmi?» Improvvisamente vide accanto
a sé la figura esile del fraticello redentorista il quale gli rispose: «Tu mi hai chiamato ed io sono
venuto ad aiutarti. Hai tu fede in Dio? Abbila e sarai guarito!» Lo segnò con la croce sulla fronte e
disparve. All’istante svanirono tutti i dolori e egli, che aveva ripreso le sue energie, si levò dal
giaciglio per ringraziarlo. Ma non lo trovò e, per giunta, in casa non c’era nessuno che lo avesse
visto arrivare o ripartire. In quegli stessi frangenti, infatti, si trovava impegnato in altre faccende nel
convento di Deliceto.

II. 3, 4 IN CASA DI GREGORIO TRAMUTA UNA BOTTE DI ACETO IN OTTIMO VINO.
Ritengo che per narrare il prodigio de quo le parole migliori sono quelle scritte negli atti del
processo tenuto per la beatificazione. Il passo recita, testualmente: «La madre delle monache Chiara
e Veronica Di Gregorio discorrendo un giorno col Servo di Dio di molte cose della casa, gli fece
intendere che aveva perduto una botte di vino che era convertito in forte aceto. Sorrise al racconto
Gerardo, e colei credendosi burlata lo invitò a scendere nella cantina per fargliela vedere. Vi
acconsentì il Servo di Dio, e come fu giunto presso la botte, muovendo la destra su quella, segnò
una croce. La buona signora, n’estrasse in un boccale circa una caraffa per fargli di fatto vedere che
il vino era aceto. Lo gustò Gerardo e disse che quello era ottimo vino e non aceto, e ciò dicendo la
invitava a gustarlo. Lo fece e restò attonita e meravigliata, osservando tutto il contrario di quello che
aveva sperimentato nei giorni precedenti con tutta la sua famiglia. Tutta Lacedonia fu informata di
questo nuovo prodigio del Servo di Dio».

II. 3, 5 LA SOTTOMISSIONE DEL DIAVOLO, COSTRETTO AD ACCOMPAGNARLO A LACEDONIA.
Mentre si trovava a Melfi gli fu ingiunto di partire, per quanto il clima non promettesse nulla di
buono. In omaggio alla “santa obbedienza”, alla quale mai egli si sarebbe sognato di derogare, non
ascoltò quanti lo sconsigliavano vivamente dal porsi in viaggio con quel tempo, ma salì in groppa
ad un ronzino e prese strada verso Lacedonia. Si scatenò quasi subito una vera tempesta, con tuoni,
lampi e violenti scrosci di acqua che lo colpivano violentemente: ma ciò non lo fece desistere dal
continuare, sia pure molto lentamente. E così giunse sulle sponde dell’Ofanto, che era in piena e in
quei frangenti stava rompendo gli argini essendo in procinto straripare. Tale situazione era molto
pericolosa e poteva costargli anche la vita, ma non per questo pensò di tornare indietro. Si fermò
tuttavia per comprendere in qual modo potesse guadare il fiume e quale strada gli convenisse
prendere, giacché entro poco tempo sarebbe calata la sera ed egli avrebbe corso il rischio concreto
di perdersi, considerato che già la pioggia e i nembi aveva fatto calare sulla terra una sorta di cappa
oscura. All’improvviso vide un’ombra che si materializzò in una figura umana ed 
contemporaneamente, mentre il cavalo sobbalzava, udì una voce cavernosa che pareva giungere
dagli abissi. Sghignazzando l’uomo, che aveva occhi come di brace, gli disse: «Ora non puoi più
nulla. Sei nelle mie mani!» ma San Gerardo, per nulla intimorito, replicò: «Ah, sei tu, bestia
d’inferno! Nel nome della Trinità ti ordino di prendere le briglie e guidarmi fino a Lacedonia!»
Digrignando violentemente i denti e quasi ruggendo alla stregua di belva domata, costretto da
volontà ben superiore alla sua, perché era quella del suo Creatore, il demone guidò tra boschi ed
impervi sentieri, nella tenebra, il santo fino all’ingresso di Lacedonia, ove sorge proprio la chiesa
dedicata alla Santissima Trinità3
. Indi, sempre nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
lo scacciò, recandosi che era notte piena presso la casa di Don Costantino Cappucci, il quale
sorpreso di vederlo in una notte di burrasca così intensa, ebbe a chiedergli, come è in uso
scherzosamente dire: «Ma chi ti ha accompagnato, il diavolo?»
Avrebbe senza dubbio taciuto se nulla gli fosse stato domandato, ma fatto segno di una domanda
diretta ed essendo aduso a dire in ogni occasione la verità, fu costretto a raccontare quanto aveva
vissuto al suo ospite, il quale, naturalmente, divulgò la storia, che si riseppe: altrimenti non sarebbe
mai stata conosciuta.

3 La chiesa della Santissima Trinità era stata costruita pochi decenni prima, ovvero agli inizi del 1700, dal Vescovo Giovan Battista La Morea.
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VITA MERAVIGLIOSA DI SAN GERARDO MAIELLA - pdf

file:///C:/Users/gmm/Documents/LA%20MERAVIGLIOSA%20VITA%20DI%20SAN%20GERARDO%20MAIELLA.pdf


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domenica 5 gennaio 2020

San Gerardo Maiella : Un’anima pura che ha visto Dio



san_gerardo_maiella_1.jpg
Mosaico della Parrocchia San Gerardo
Maiella, Fort Oglethorpe (Stati Uniti)



Come un cristallo purissimo attraversato da intensi raggi di Sole, l'anima di San Gerardo Maiella lasciò passare la luce divina senza opporLe resistenza. Per questo, egli ha potuto, mentre era ancora in questa valle di lacrime, "vedere Dio"!
Suor Clara Isabel Morazzani Arráiz, EP
"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5, 8). Forse questa è una delle più belle frasi del Vangelo, e una delle più conosciute. Tuttavia, non sempre troviamo il significato più profondo voluto dal Divino Maestro nel pronunciarla. Di certo non si riferiva solo alla purezza dei Santi nel Cielo, né a quella per cui il cuore, ancor qui sulla Terra, è continuamente alla ricerca di Dio, ma anche alla visione che l'innocente possiede di tutte le creature, discernendo in loro un riflesso del Creatore.
Ora, secondo Sant'Agostino, San Tommaso d'Aquino e altri Dottori, è possibile per un uomo cominciare a godere, ancora in questa vita, dei premi promessi nel Discorso della Montagna. Circa la ricompensa dei puri, scrive il Dottor Angelico: "Con la visione purificata dal dono dell'intelligenza, Dio può, in un certo modo, esser visto".1
Se tutti i Santi raggiungono questa singolare verginità di spirito, in alcuni essa sembra brillare con maggior splendore, servendo da modello da imitare. Così avviene con San Gerardo Maiella, che nella sua breve esistenza di soli 29 anni lasciò alla Chiesa un esempio vivo di questa beatitudine. "O mio Dio, di tutte le virtù che Ti sono gradite, la mia preferita è la purezza di cuore"2 – ha scritto.
Percorrendo la sua storia, analizzando le sue virtù, i suoi miracoli e, soprattutto, le terribili sofferenze che dovette affrontare, abbiamo l'impressione di contemplare un cristallo purissimo attraversato da intensi raggi di Sole: la sua anima lasciò passare la luce divina senza opporLe resistenza. Per questo, egli ha potuto, mentre era ancora in questa valle di lacrime, "vedere Dio"!
Un bambino predestinato
Ultimo figlio di una pia famiglia, Gerardo nacque nella piccola città di Muro Lucano, vicino a Napoli, nell'aprile del 1726. Fin da molto giovane diede manifestazioni di essere un'anima prediletta dalla Provvidenza: non chiedeva mai di mangiare e, in alcuni giorni della settimana, arrivava a rifiutarlo, preannunciando i digiuni che avrebbe più tardi praticato e la sua celebre massima: "L'amore a Dio non entra nell'anima se lo stomaco è pieno".3
Il suo principale passatempo consisteva nell'erigere piccoli altari, adornandoli con candele e fiori; ma il suo luogo preferito era la cappella di Capodigiano, dedicata alla Santissima Vergine, distante da Muro circa 2 km.
Da qui tornò, una volta, portando un piccolo pane bianco. Alla mamma che gli chiese chi gli avesse dato l'alimento, rispose: "Il figlio di una bella signora col quale ho giocato".4
Siccome il fatto si ripeté quotidianamente per vari mesi, una delle sue sorelle lo seguì un giorno, senza che lui se ne accorgesse, e poté testimoniare il seguente spettacolo: appena Gerardo si inginocchiò ai piedi della statua di Maria, il Bambino Gesù scese dalle braccia di sua Madre per giocare con lui e, al momento di salutarlo, gli consegnò un pezzo di pane.
concattedrale_di_san_nicola.jpg
Di notte, scalava il campanile della cattedrale per introdurvisi attraverso le arcate delle
campane e andare a pregare ai piedi del Santissimo Sacramento
La città di Muro, con in cima la Concattedrale di San Nicola
La sua Prima Comunione non fu meno straordinaria: avendo ricevuto dal parroco una categorica risposta negativa, perché era ancora troppo piccolo per ricevere il Pane dei forti, il piccolo Gerardo si mise a singhiozzare in fondo alla chiesa. Quella stessa notte gli apparve San Michele Arcangelo e gli amministrò la Sacra Eucaristia!

Già nell'adolescenza, segno di contraddizione
A somiglianza di Nostro Signore Gesù Cristo, Gerardo fu, fin dai primi anni, un segno di contraddizione (cfr. Lc 2, 34) negli ambienti che frequentava. A causa della morte di suo padre, si vide obbligato a lavorare come apprendista di un sarto. Il padrone dello stabilimento si affezionò a lui; ma il capo dei dipendenti, al contrario, fu preso da antipatia per il giovinetto, proprio perché lo vedeva così pio. Lo accusava di essere un vagabondo, lo copriva di schiaffi, al punto che, una volta, gli fece perdere i sensi. Gerardo non si lamentava mai col padrone; anzi, era contento di patire per Gesù e ripeteva al suo carnefice: "Battimi, battimi ancora, che merito questo castigo"!5

Qualche tempo dopo, si mise a servizio di Mons. Albini, Vescovo di Lacedonia, noto per il suo carattere irascibile. Per tre anni Gerardo sopportò umiliazioni, reprimende, maltrattamenti... Una volta, fece cadere nella cisterna il mazzo di chiavi della residenza episcopale. Preso da una terribile afflizione, trovò solo una via d'uscita: fece scendere fino in fondo al pozzo, legata alla corda, una statua del Bambino Gesù, e nel contempo supplicava: "Solo Tu puoi aiutarmi... Se non vieni in mio soccorso, Monsignore mi sgriderà. Per favore, riportami la chiave!".6 Tirò la corda e – oh, meraviglia! – la statua aveva le chiavi in mano. Questo prodigio e la sua eroica pazienza gli valsero l'ammirazione di tutta la città, eccezion fatta per lo stesso prelato. E quando questi morì, Gerardo dimostrò con le sue lacrime quanto stimava colui che tanto lo faceva soffrire:
– Ho perso il mio migliore amico! – esclamava sconsolato.

"Più pazzo sei Tu, Signore"!
Ritornato a Muro, Gerardo aprì una sartoria. Mentre l'ago correva tra le sue agili dita, la sua anima si elevava alle altezze della contemplazione. Nutriva una filiale devozione per Maria Santissima, cui aveva consacrato la sua verginità, e gli bastava pronunciare il suo nome per sperimentare trasporti d'amore.
Inebriato dalla "stoltezza" della Croce (cfr. I Cor 1, 18), cercava di imitare in tutto le sofferenze del Salvatore: si flagellava fino a sanguinare, si comportava da pazzo per attirare il disprezzo dei suoi concittadini, passava giorni interi senza mangiare e, le notti, scalava il campanile della cattedrale per introdurvisi attraverso le arcate delle campane e andare a pregare ai piedi del Santissimo Sacramento. Se, da un lato, il demonio gli ordiva delle trappole, prendendo le sembianze di un cane furioso o provocando incidenti, dall'altro, il Signore lo ricompensava con numerose consolazioni.
Andreas F. Borchert (CC-3.0)    
san_gerardo_maiella_3.jpg
Non appena vide alcuni religiosi
redentoristi, Gerardo comprese
che quella era la sua vocazione
Sant'Alfonso de' Liguori - Cattedrale
di Carlow (Irlanda)
In una di queste lunghe veglie, una voce soave, proveniente dal tabernacolo, ruppe il silenzio notturno: "Pazzerello!".7 La risposta uscì rapida dalle sue labbra ardenti: "Più pazzo sei Tu, Signore, che per amore stai qui, prigioniero nel tabernacolo!".8

Nella Congregazione del Santissimo Redentore
Essere religioso era stato sempre il sogno di Gerardo; tuttavia, alla Provvidenza piacque provare la sua perseveranza prima di accettare la sua consegna. Non riuscì in due tentativi ad entrare nei Cappuccini e in una breve esperienza come anacoreta. Questo avrebbe scoraggiato qualunque altro, non il giovane Maiella!
Alcuni preti della Congregazione Redentorista, che era appena stata fondata da Sant'Alfonso de' Liguori, giunsero a Muro per predicare una missione. Non appena li vide, Gerardo comprese che questa era la sua vocazione, e chiese di essere ammesso. Il superiore, padre Paolo Cafaro, si rifiutò esplicitamente, allegando che lui non possedeva le forze necessarie per sopportare i rigori della vita religiosa. Siccome si era incaponito nella sua decisione e lo importunava incessantemente, padre Cafaro chiese a sua madre di chiuderlo a chiave in camera, il giorno della partenza dei missionari. Il giovane, però, usando una corda fabbricata con le lenzuola, scappò dalla finestra e corse dietro ai redentoristi, lasciando un biglietto per la famiglia: "Vado a farmi santo. Dimenticatemi".9
Li raggiunse per strada e li seguì fino alla città vicina, ricevendo sempre lo stesso rifiuto. Infine, la sua santa e serena tenacia poté più della determinazione ferrea del superiore: nel maggio 1749, a 23 anni, fu accolto, a titolo di prova, nel convento di Deliceto.

Instancabile apostolo, grande taumaturgo
Cominciava per Gerardo l'ultima tappa della sua vita: soltanto sei anni lo separavano dalla sua dipartita per l'eternità... sei anni fecondi in meriti, ricchi di fatti miracolosi e rapimenti celesti, inframmezzati da difficoltà e sofferenze quasi sovrumane.
Considerato inutile per qualsiasi lavoro a causa della sua estrema magrezza, non tardò a smentire questa fama. Il fuoco interiore che lo consumava suppliva alla mancanza di robustezza, al punto che i religiosi affermavano che rendeva per quattro persone. Si prodigava in attenzioni verso gli altri e assumeva su di sé gli incarichi più umili: giardiniere, sacrestano, collettore di elemosine, portinaio... La sua presenza fu contesa nelle diverse case della Congregazione.
Esimio nel compimento degli obblighi, si rivelò anche apostolo infaticabile e irresistibile nelle missioni. Scrive uno dei suoi biografi: "Il suo aspetto, la sua semplice presenza, raccontano i testimoni, valevano una predicazione; si sentiva Dio in lui. La sua parola ardente imprimeva nelle anime l'orrore per il peccato, l'ardore per la preghiera, l'amore a Gesù e a Maria, e la fedeltà ai doveri di stato. [...] Esalava dalla sua persona un non so che di divino che consolava i cuori, guariva le anime e trascinava alla virtù".10

Assecondato dal dono di miracoli concesso dalla Provvidenza, produceva abbondanti frutti di apostolato. Gli elementi, le malattie e i demoni obbedivano alla sua parola. Guarì un numero sterminato di infermi, tra i quali una bambina paralitica dalla nascita. In varie occasioni, moltiplicò il cibo e giunse ad aprire le acque di un fiume che gli impediva il passaggio.
Uno dei suoi più clamorosi prodigi fu quello realizzato a Napoli. Una folla riunita in riva al mare si affliggeva davanti allo spettacolo di un'imbarcazione piena di passeggeri che si dibatteva tra le onde, in mezzo a una furiosa tempesta. Passando per di lì, Gerardo si gettò in acqua e ordinò alla barca, in nome della Santissima Trinità, di fermarsi. Dopo la trascinò fino a terra, come se fosse paglia, e uscì dall'acqua con gli indumenti interamente asciutti. Tutto il popolo lo acclamava, volendo rendergli omaggio, ma egli fuggì di corsa per le vie della città.

Un serafino in carne e ossa
Tuttavia, dove più si faceva sentire l'aroma della sua santità era nel recinto sacro del convento. In tal modo in questo religioso esemplare rivaleggiavano le virtù, che sarebbe difficile indicarne una come la principale. Non c'era nessuno più umile, più obbediente, più osservante della regola! I suoi stessi maestri lo prendevano a modello e i confessori si confondevano davanti all'integrità di quel fratello laico, neofita nella vita religiosa e già elevato alle vette della perfezione. Alcuni suoi contemporanei giunsero ad affermare che sembrava non essere stato toccato dal peccato originale, come un serafino in carne e ossa!
I fenomeni mistici con cui fu graziato sono uno dei tratti più sorprendenti della sua spiritualità. "A quanto pare, tutti i favori concessi da Dio agli altri santi, nell'ordine mistico, Egli ha voluto riunirli nella persona del nostro serafico confratello",11 scrive il citato padre Saint-Omer. Infatti, in un secolo nel quale il razionalismo cercava di negare l'esistenza del soprannaturale e, in fondo, di Dio stesso, la vita di Gerardo mostrava come siano tenui i veli che ci separano dal mondo invisibile, per cui dobbiamo convincerci che siamo sempre sotto lo sguardo di Dio.

Visioni, estasi, levitazioni, dono di profezia, scienza infusa, discernimento degli spiriti, conoscenza a distanza, aureole, bilocazioni, invisibilità... Impossibile descrivere nell'esiguo spazio di un articolo ognuna di queste meraviglie!
cella_e_cappella_privata_di_sant_alfonso_de_liguori.jpg
All’improvviso, Gerardo fu chiamato a Pagani, dove allora risiedeva Sant’Alfonso de Liguori.
Era il primo incontro dell’umile frate col fondatore... e quanto doloroso!

Cella e cappella privata di Sant’Alfonso de’ Liguori, Pagani
cella_e_cappella_privata_di_sant_alfonso_de_liguori_2.jpg
Citiamo soltanto due esempi. In visita al Carmelo di Ripacandida, entrò improvvisamente in estasi e il suo corpo diventò incandescente al punto di sciogliere la grata di ferro che egli toccava con le mani. Gli accadde anche di sollevarsi dal suolo, contemplando un bel dipinto della Santissima Vergine, fino a raggiungere l'altezza del quadro e, baciandolo con ineffabile affetto, esclamare: "Come è bella! Guarda com'è bella!".12

Sotto il segno del dolore
Si farebbe comunque, un'idea sbagliata riguardo a Gerardo, chi credesse che egli sia stato un uomo quasi magico, immune dalle tentazioni e dalle sofferenze. Nulla di più contrario della realtà! Dal suo ingresso nella Congregazione, soffrì terribili privazioni spirituali, nelle quali si riteneva abbandonato da Dio, pronto a soccombere alla disperazione. La sua stessa descrizione, in una lettera a una religiosa, è più convincente di qualsiasi narrazione: "Sono sceso così in basso che non vedo più nemmeno la possibilità di uscire da questo precipizio... poco mi preoccuperei se per lo meno potessi amare Dio e piacerGli. Ma, ecco la spina che trafigge il mio cuore: mi sento che soffro senza Dio. [...] Mi vedo come sospeso sull'abisso della disperazione. Mi sembra che Dio sia scomparso per sempre, che le sue divine misericordie si siano esaurite, che sopra la mia testa aleggino minacciosi i fulmini della sua giustizia".13

Fatto curioso: nella misura in cui Gerardo progrediva in virtù, le angosce si facevano più frequenti e intense. Nel 1754, un anno prima della morte, sopravvenne la grande prova, terribile e spaventosa. All'improvviso, fu chiamato a Pagani, dove allora risiedeva Sant'Alfonso de Liguori. Era il primo incontro dell'umile frate col fondatore... e quanto doloroso! Dopo averlo salutato, Sant'Alfonso lesse a voce alta due lettere nelle quali qualcuno accusava il giovane religioso di un crimine commesso proprio contro la virtù che lui più amava: la castità!

Ciò nonostante, senza far trasparire alcuna emozione, Gerardo rimase in silenzio. Tale atteggiamento equivaleva a un assenso... Sorpreso, il fondatore decise di non espellerlo, ma gli impose una durissima penitenza: privazione dell'Eucaristia e proibizione di trattare con persone esterne alla Congregazione. Per più di due mesi egli sopportò questa situazione vessatoria, sorvegliato dai superiori, oggetto di sospetto di quanti lo conoscevano. Quello che più gli faceva male, però, era la mancanza della Comunione. Gli costava contenere gli ardori del desiderio di ricevere un così augusto Sacramento. A un sacerdote che lo esortava a servire da accolito la sua Messa, rispose: "Non mi tentare, caro padre, potrei strapparti l'Ostia dalle mani!".14

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"Figlio mio, perché non hai parlato?
Perché non hai pronunciato neppure
una parola per difendere la tua
innocenza?"
Conversazione tra Sant'Alfonso
e San Gerardo - Santuario di
Pagani (Salerno)
Finalmente, la verità venne fuori: altre due lettere, che smentivano la calunnia delle precedenti, rivelarono a Sant'Alfonso la falsità dell'accusa alla quale il suo cuore di padre si rifiutava di dare interamente credito... Invitato, ancora una volta, a presentarsi davanti al fondatore, Gerardo fu ricevuto con queste parole: "Figlio mio, perché non hai parlato? Perché non hai pronunciato neppure una parola per difendere la tua innocenza?".15 Al che egli replicò: "Padre mio, come avrei potuto farlo, se la nostra regola non ammette scuse di fronte ai rimproveri dei superiori?".16

"La volontà divina e io siamo una cosa sola"
Gerardo non era più di questo mondo. Del resto, non lo era mai stato! Tuttavia, quella tribolazione lo aveva allontanato ancor più dalle cose terrene. Nell'agosto del 1755, durante una missione, ebbe la prima emottisi. Il suo superiore lo indirizzò al convento di Materdomini, affinché si ristabilisse. Lungi dal regredire, la malattia peggiorò rapidamente: sangue, febbre, malesseri infiniti. Nulla, tuttavia, riuscì a strappargli un solo lamento: "La volontà divina e io siamo una cosa sola",17 diceva con gioia. A costo di enorme sforzo lasciava il letto per passare alcune ore in ginocchio davanti al Crocefisso della sua cella.
Anche questo periodo fu segnato da fatti straordinari: dal suo corpo minato dalla tubercolosi emanava un profumo così penetrante che i visitatori identificavano la sua stanza con facilità. Più edificante ancora fu la sua obbedienza: avendo ricevuto l'ordine di guarire, si alzò subito e riprese la vita comunitaria per varie settimane.
Senza dubbio, la volontà di Dio era un'altra, e in ottobre la malattia lo attaccò con maggior rigore. Nei pochi giorni che gli restavano, patì, per uno speciale favore del Cielo, i tormenti della Passione di Cristo. Giunto il giorno 15, annunciò che sarebbe morto quella sera stessa. Ricevette la mattina il Viatico e, nel pomeriggio, recitò il Salmo Miserere. Due ore prima di morire, vedendo approssimarSi la Regina del Cielo, si inginocchiò sul letto ed entrò in estasi. Era circa la mezzanotte quando la sua anima abbandonò il corpo.

Immediatamente il suo volto inerte si trasfigurò, acquistando una bellezza angelica. E quando il campanaro del convento volle far suonare il rintocco dei defunti, sentì una forza irresistibile che lo obbligò a suonare il carillon delle grandi feste!

Nel 1893, Leone XIII elevò Gerardo Maiella all'onore degli altari, come Beato. Undici anni dopo, San Pio X iscrisse nel Catalogo dei Santi questo religioso esemplare che mantenne sempre intatta la sua purezza di cuore.

1 SAN TOMMASO D'AQUINO. Somma Teologica. I-II, q.69, a.2, ad 3.
2 DUNOYER, CSsR, Jean-Baptiste. Vie de Saint Gérard Majela, rédemptoriste. Saint-Étienne: Bureaux de "L'Apôtre du Foyer", 1943, p.103.
3 REY-MERMET, CSsR, Thèodule. San Gerardo Maiella, il "pazzerello" di Dio. Materdomini: Stampa Valsele, 1992, p.51.
4 SAINT-OMER, CSsR, Édouard. Le Thaumaturge du XVIIIe siècle ou la vie, les vertus et les miracles du Bienheureux Gérard-Marie Majela. Desclée de Brouwer et Cie, 1893, p.2.
5 DUNOYER, op. cit., p.21.
6 Idem, p.32.
7 REY-MERMET, op. cit., p.32.
8 Idem, ibidem.
9 Idem, p.46.
10 SAINT-OMER, op. cit., p.75.
11 Idem, p.80.
12 Idem, p.46.
13 DUNOYER, op. cit., p.276- 277.
14 REY-MERMET, op. cit., p.114.
15 Idem, p.115.
16 Idem, ibidem.
17 Idem, p.133.
(Rivista Araldi del Vangelo, Ottobre/2014, n. 138, p. 35 - 39)

AMDG et DVM

lunedì 15 ottobre 2018

San Gerardo Maiella

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            Religioso redentorista

La vita di San Gerardo

Gerardo Maiella, Missionario Redentorista, è invocato in tutto il mondo come il Santo delle mamme e dei bambini. Spentosi a Materdomini il 16 ottobre del 1755 alla giovane età di 29 anni, la sua breve esistenza sarà nota come la "Vita meravigliosa di san Gerardo Maiella"
Al pari di qualsiasi altro personaggio, san Gerardo Maiella bisogna prenderlo così com'è: una copia del Cristo sofferente, un fanatico della volontà di Dio, un carismatico cacciatore di anime, un mistico spesso in estasi, un seminatore di miracoli. Nascondere i suoi miracoli sarebbe come rifiutare la storia e scrivere un romanzo. Sarebbe come negare, in Gerardo, la virtù che fu poi la fonte di tutte le altre: "una fede capace di trasportare le montagne", secondo la promessa del Signore (Mt 17,20). Certo l'entusiasmo che un taumaturgo lascia dietro di sé; si ingrossa e si allarga sempre di più. Come in ogni altro Santo, è evidente che la luce irradiata da Gerardo non è autonoma: egli è solo luce riflessa del Cristo. La sua vita non ci parla d'altro che della forza del Redentore, il quale, con il dono dello Spirito, ci libera, ci guarisce, ci rinnova; il suo insegnamento è eco fedele del Vangelo; gli orizzonti, verso i quali ci proietta, sono quelli aperti dalla croce e dalla risurrezione del Cristo. Riferirsi a Gerardo significa voler fissare lo sguardo, in maniera sempre più intensa, su Cristo; riconoscere in lui il solo nostro maestro (cf Mt 23,10); ripetergli con Pietro: «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Scrive Giovanni Paolo II: «Non si tratta di inventare un "nuovo programma". Il programma c'è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. è un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace».
l'infanzia e l'adolescenza
Il «fratello inutile» era nato il 6 aprile 1726 a Muro Lucano (PZ), da Domenico Maiella e Benedetta Galella al battesimo lo chiamarono Gerardo. Ebbe un'infanzia difficile. La povertà era l'unica cosa che non mancava mai nella sua casa, e quando mancava il necessario egli andava a rifugiarsi nella cappella della Vergine a Capodigiano. «Il Figlio di quella bella Signora» pensava a Gerardo, e spesso si staccava dalle ginocchia della Mamma per donare al piccolo amico un panino bianco. Il fatto del pane bianco si ripeté; più volte, «per molto tempo». Solo più tardi, da religioso, Gerardo dirà a sua sorella Brigida: «Ora so che quel fanciullo che mi regalava quel pane era lo stesso Gesù».
L'incontro con Gesù presente nell'Eucaristia
Il dono del pane bianco lo aveva indotto a scoprire un altro pane, anch'esso bianco, benché; più piccolo. Lo scorgeva in chiesa, alla messa, quando i fedeli si accostavano alla balaustra. Qui aveva capito anzitempo che si trattava di Gesù. Andò anch'egli una mattina, ma il prete lo vide piccolo e lo rimandò a sedere. A otto anni, in quel tempo, si era piccoli per l'eucarestia, ma Gerardo s'era incamminato da tempo verso la conoscenza del suo Signore.
Le lacrime versate in chiesa continuarono a bagnare il lettino scarno della sua povera stanzetta. Il prete aveva detto no, ma Gesù avrebbe risposto sì al suo piccolo amico. Di notte gli inviò l'arcangelo Michele a porgergli il pane consacrato. Al mattino seguente, felice e trionfante, confessava candidamente: «Ieri il prete mi ha rifiutato la comunione, questa notte l'arcangelo san Michele me l'ha portata». Anche questo episodio, apparentemente fantastico, verrà confermato dallo stesso Gerardo vent'anni dopo.
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L'esperienza del lavoro
Il murese monsignor Albini cercava un domestico. Ne aveva avuti tanti, ma nessuno aveva resistito. Il carattere del prelato scoraggiava chiunque. Al contrario entusiasmò Gerardo. Forse non sapeva cosa l'aspettava, ma egli cercava l'imitazione del Crocifisso, e per lui, sacrifici e rimproveri erano grazia. All'episcopio di Lacedonia ne trovò in abbondanza.
Alle occasioni che gli offre monsignore aggiunge digiuni, flagellazioni, notti di preghiera: pallido e vacillante, ma sempre sereno e sorridente. Anche quando per una malaugurata distrazione si lascia sfuggire di mano la chiave dell'appartamento, mentre attinge acqua dal pozzo. «Cosa dirà monsignore?».
Imperturbato nella sua serenità, sfreccia verso la cattedrale, stacca da una nicchia una statuetta di Gesù bambino e la lega al posto del secchio. Poi ordina: «Va' giù, e riportami la chiave!». Gesù obbedisce a Gerardo, e torna con la chiave in mano. Per i presenti, accorsi ammirati, quello sarà «il pozzo di Gerardiello».
Presso monsignor Albini impiegò tre anni di assiduo servizio, felice di essere impegnato e vilipeso per il carattere poco dolce del suo pastore. Alla sua morte lo pianse sinceramente, forse lui soltanto, per «aver perduto il miglior amico». Ciò che effettivamente aveva perduto era l'occasione quotidiana di essere maltrattato e maltrattarsi. Tornato a Muro e fallito il progetto di farsi cappuccino, tentò con un amico l'esperienza del romitaggio. La solitudine e l'indigenza fecero ritirare il compagno sprovveduto, e Gerardo, rimasto solo, fu costretto anche lui al ritiro.
Di nuovo sarto
Si ricordò di essere stato sarto. Aprì bottega da solo. Non era bravo nel mestiere, e il desiderio della preghiera era più forte di quello del lavoro. Divenne noto come «il sarto fate voi», per la sua ridotta capacità e per il suo scarsissimo profitto.
Alla sua poca abilità però sopperiva con i prodigi: buono a nulla forse, ma santo. Perché; le ore le trascorreva più in chiesa che in bottega. Doveva farsi violenza per strapparsi dal suo Gesù, «prigioniero» del tabernacolo. Quando non poteva passare con lui le ore del giorno, approfittava della notte, sacrificando il sonno per conversare con il suo Amico. Una volta dal tabernacolo uscì una voce misteriosa di dolce rimprovero: «Pazzerello!». E Gerardo spontaneo: «Più pazzo siete voi, Signore, che per amore ve ne state prigioniero nel tabernacolo».
Pazzia d'amore che si manifestò in altra circostanza. La terza domenica di maggio, a Muro, si preparava la solenne processione della statua dell'Immacolata. Gli occhi della gente erano puntati sulla dolce immagine. Anche quelli di Gerardo, immobile ed estatico. Improvvisamente, egli saltò sulla pedana del trono, si tolse l'anello che aveva al dito e lo infilò al dito della Vergine, esclamando ad alta voce: «Mi sono fidanzato alla Madonna!».
Per attuare il suo progetto di santità l'ambiente di Muro non gli bastava.
Gerardo conosce i Missionari Redentoristi
Ai primi di agosto 1748 due religiosi redentoristi - abito talare ornato di una lunga corona alla cintura e collarino bianco - attraversata la Sella di Conza, salirono a Castelgrande e si diressero verso Muro Lucano. Ai loro occhi apparve una bianca cascata di case picchiettate di verde: qualcosa di fiabesco.
Dopo una pausa breve di ingenuo stupore, padre Francesco Garzilli e fratel Onofrio Ricca cominciarono a bussare alle porte questuando offerte per il santuario di Materdomini, a Caposele. Era in costruzione una nuova casa della Congregazione del Santissimo Redentore.
I Redentoristi erano stati ideati da Alfonso Maria de Liguori nel 1732 a Scala, sull'altopiano di Amalfi. Lassù, a oltre 1000 metri, questo nobile napoletano, già avvocato a sedici anni, poi sacerdote e missionario, nella solitudine di una chiesetta montana, Santa Maria dei Monti, ripensò alla sua città, teatro di sfarzi e di cultura, e sperimentò l'abbandono dei pastori in terre povere e desolate. L'impatto fra due realtà tanto stridenti fu l'ultima spinta alla sua «conversione». La Congregazione nascente avrebbe dovuto avere come scopo la cura delle anime più abbandonate, prive di qualsiasi soccorso spirituale. Furono costruiti così i collegi di Ciorani, Pagani, Deliceto. Ora si pensava a Caposele. L'arcivescovo di Conza, monsignor Giuseppe Nicolai, aveva offerto ad Alfonso il romitorio e la chiesetta di Materdomini per farne un centro di spiritualità nella diocesi.
Continuando il loro giro, i due ambasciatori di Alfonso de Liguori e della Vergine Materdomini, inconsapevoli apportatori di un messaggio divino, si imbatterono in un giovane alto e gracile, dalla testa grossa e dagli occhi profondi, che agucchiava nella sua botteguccia di sarto. Quel giovane, contro qualsiasi previsione umana, un giorno sarebbe stato redentorista.
Il 13 aprile 1749 alcuni Missionari Redentoristi intrapresero nella cittadina lucana una sacra missione. Scoccò l'ora della chiamata definitiva. L'ideale di santità vivente in quei missionari era il suo ideale: sentì che quella era la sua strada, la sua vocazione.
Però la sua richiesta ufficiale trovò l'ostacolo della sua gracile costituzione fisica. Padre Paolo Cafaro, uomo di virtù e d'intelligenza, lo fissò e fu inesorabile: «La nostra vita non è per te». Anche mamma Benedetta, per diverso motivo, era contraria alla decisione del figlio, e ne parlò al superiore della missione. Conoscendo bene la testardaggine del figlio, lo serrò in casa il giorno della partenza dei missionari. Poteva una porta chiusa fermare la volontà di Dio?
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Vado a farmi santo
Le campane di tutte le chiese suonavano a gloria il commiato del popolo di Muro agli evangelizzatori partenti. La gente si riversava sulle vie, porgeva un ultimo saluto, chiedeva l'ultima benedizione. Solo in casa, recluso, il giovane cercatore di Dio, dalla finestra al piano superiore ascoltava il tripudio delle campane e il brusio della folla. Smaniava. Ogni minuto rappresentava una distanza sempre più grande fra lui e i missionari. Due obbedienze combattevano nel suo animo: alla madre o a Dio? Il bivio tremendo esigeva pronta soluzione. Scrisse su un foglio: «Mamma, perdonami. Non pensare a me. Vado a farmi santo!». Annodò due lenzuola, scavalcò il davanzale e fu in strada, correndo da disperato. I missionari avevano lasciato l'abitato e si avviavano verso Rionero in Vulture.
Appena scorse i missionari, senza fermarsi, egli cominciò a gridare: «Padri, aspettatemi!». In mezzo alla via, nel sole e nella polvere, rinnovò la domanda. Padre Cafaro, dal canto suo, rinnovò il rifiuto: «Figliuolo, torna a casa; tu non puoi riuscire nel nostro Istituto». «Sperimentatemi, e poi mi licenzierete», insisteva logicamente il postulante.
L'insistenza aprì la mente al santo missionario che scelse una via di mezzo: lo spedì al superiore di Deliceto con questo foglio di presentazione: «Vi mando un fratello inutile, riguardo alla fatica, perché; è molto gracile di conformazione; per altro non ho potuto farne a meno, attesa la di lui insistenza e il credito di giovane virtuoso che gode nella città di Muro».
Gerardo entra nei Redentoristi
Da redentorista la sua vita cambiò. Entrato nella casa di Deliceto, in Puglia, vero eremitaggio, a Gerardo parve di entrare nell'anticamera del paradiso.
L'accoglienza che ebbe non fu incoraggiante: tutti, a vederlo, scrollarono il capo. Che ne avrebbero fatto di un soggetto che pareva reggere l'anima coi denti? Ma egli aveva chiesto di essere sperimentato; e il padre D'Antonio, che reggeva quella comunità, lo mise alla prova. Al bosco, alla cucina, al refettorio, al forno, alle costruzioni, alle pulizie, dovunque si faticasse, invariabilmente giocondo e volenteroso, era presente Gerardo. Un grande miracolo di volontà e di energia, durato sei mesi, quanti bastarono per far cambiare opinione ai confratelli sul suo conto. Come se avesse previsto breve il corso della sua vita, cercò di guadagnare in intensità ciò che poteva costruirsi in lunghi anni. Scelse il rigido padre Cafaro come modello e moderatore nella virtù. Ecco i suoi primi impegni:
«Primo proposito: posuit me Deus in paradiso voluptatis. Sappi, o Gerardo, che Dio ha strappato te dal mondo e ti ha posto qual novello Adamo in questo paradiso della Congregazione, al solo fine che operi e che metta in esecuzione i precetti e i consigli del suo santo Vangelo, che hai nelle regole. Misero te, se le trascuri.
Secondo proposito: avrò cura d'essere minuto osservatore d'ogni cosa delle regole, di perseverare e crescere nel bene, di impegnarmi principalmente nell'unione con Dio».
Nonostante questi propositi, ai confratelli Gerardo sembrò molte volte interprete libero delle regole della Congregazione. Egli era guidato dalla legge dello Spirito, che spesso lo liberava da quella scritta. Egli però riteneva di non essere ancora abbastanza sottomesso allo Spirito, quindi ce la metteva tutta per pregare e mortificarsi. Il suo direttore padre Cafaro insegnava: «Per farsi santo bisogna agonizzare e agonizzare sempre, attenendosi a mortificarsi in tutto, nel cibarsi, nel bere, nel dormire, e in ogni altra cosa». E Gerardo risolutamente si proponeva: «Una volta sola ho l'occasione di farmi santo; se la perdo, la perdo per sempre». Lo aiutarono in questo sforzo di imitazione del Maestro le circostanze ambientali. Già a Muro i ragazzi di strada avevano trovato in lui l'esca del divertimento. In seguito fu una guardia campestre del duca di Bovino a malmenarlo col calcio del fucile e a colpirlo fino ad offendergli una costola. I confratelli, che poco credettero alla sua santità, lo derisero chiamandolo fannullone e pazzo. Per non dire dell'abbandono in cui veniva lasciato, della solitudine dello spirito o dell'aridità. Il padre Antonio Tannoia, suo biografo e contemporaneo, racconta che si faceva stendere su una croce, a somiglianza di Gesù; che nella settimana santa si straziava con cardi, catenelle, discipline a sangue, veglie notturne e digiuni; che la sera di giovedì pareva entrare in un'agonia interna misteriosa e torturante. La sua cella, con un saccone riempito di sassi per giaciglio e teschi di morto intorno, era il suo paradiso, dove si flagellava con punte di ferro e dormiva fasciato da cilizi.
Obbedienza eroica
Tutto questo eroismo ha una spiegazione: Gerardo aveva indirizzato la sua vita su questa massima: «Amare assai Iddio, unito sempre a Dio. Far tutto per Dio. Amare tutto per Dio. Conformarmi sempre al suo santo volere. Patire assai per Dio. è pena infinita patire; e non patire per Dio. Patire tutto e patirlo per Dio, è niente».
Proprio così: quell'esemplare fratello era pervenuto a tal grado di rinunzia da non possedere più una volontà propria, ma da far vivere ed operare in lui la volontà di Dio. Di qui un'obbedienza cieca, alla lettera, fino a rasentare l'incredibile, l'impossibile.
Ecco a riguardo un altro suo proposito: «Dio mio, per amor vostro, io obbedirò ai miei superiori come mirassi in essi Voi stesso ed ubbidissi alla vostra divina persona. E sarò come non fossi più mio, ma quello che voi stesso siete nell'intelletto e nella volontà di chi mi comanda». Una decisione così radicale doveva sfociare in un'obbedienza eroica. E Dio rispondeva con i miracoli. Poiché; il suo pensiero assiduo era il Signore, lo si vedeva assorto e spesso estatico in contemplazione, tanto da sembrare trascurato e distratto. Però, ad un cenno del superiore, scattava come una molla: «Fratel Gerardo, mettiti subito in viaggio per Ascoli Satriano». E Gerardo parte immediatamente, vestito come si trova: uno straccio di tonaca e un paio di ciabatte che trascina per i pavimenti della casa.
Vita da Missionario
È così che padre Cafaro lo incarica alla portineria con questa consegna: «Appena senti suonare, lascia tutto e corri ad aprire». Ed ecco, dalla cantina dove si trova a spillare il vino, il suono del campanello della portineria. Con la brocca in mano corre alla porta. «Dove vai con quell'arnese?», dice padre Cafaro. «Hanno suonato e corro ad aprire». «Ma vatti ad infornare!». Una cosa per volta, pensa Gerardo. Prima va ad aprire, poi va a rannicchiarsi nel forno. Lo scopre, tra cenere e fumo, il fratello panettiere. «Cosa fai lì dentro?». «Ordine del Superiore!». Occorre un nuovo intervento del padre Cafaro per stanarlo da quel buco. A proposito. E la botte aperta? Tutti si precipitano in cantina. «Dio scherza con fratello Gerardo», esclama il Superiore. Infatti, la botte è senza zipolo, ma neppure una goccia di vino è stata versata.
Padre Cafaro andò oltre nello sperimentare l'obbedienza del suo novizio: impartiva ordini a distanza, e Gerardo, puntuale, a coglierli e a eseguirli. Lo sperimentò anche il suo successore, padre Fiocchi. Mandò Gerardo a Lacedonia per recapitare una lettera, ma dimenticò di inserire una notizia importante. «Se potessi farlo ritornare!», pensò. Passarono pochi minuti, ed ecco Gerardo tornare alla porta: «Altri ordini, padre?». La fama di santità di Gerardo raggiunse l'episcopio di Melfi. Monsignor Teodoro Basta, conversando un giorno con padre Fiocchi, espresse il desiderio di conoscere il santo fratello. «Un po' di pazienza, monsignore - dice padre Fiocchi - e Gerardo sarà qui». In quell'istante Gerardo si presenta al vicerettore di Deliceto e dice: «Devo partire; il rettore mi chiama a Melfi». Quando arriva al palazzo episcopale, padre Fiocchi finge di non sapere nulla. «Gerardo, perché; sei qui?». «Perché; vostra riverenza mi ha chiamato». «Ma non ti ho inviato nessun corriere». «So che Monsignore vuole vedermi. Ma cosa vuole vedere? Un verme di terra, un peccatore, un miserabile bisognoso della misericordia di Dio?». Certo è che monsignor Basta rimase estasiato dalla conversazione con fratello Gerardo. Lo trattenne per più giorni.
Domatore di demoni
Poi, dovette partire. Il tempo piovoso, l'ora tarda, la nebbia fitta... non importa. L'obbedienza obbliga. E giù per la valle fino all'Ofanto, verso Lacedonia. Ma proprio sulle rive dell'Ofanto straripato l'attende l'insidia del nemico. Gerardo prega, trema dal freddo, colpito da scrosci d'acqua. All'improvviso un'ombra; no, qualcuno. Il cavallo sobbalza, uno sghignazzare frenetico e una voce dall'abisso: «Ora non puoi più niente. Sei nelle mie mani». «Ah, sei tu, bestia d'inferno! Nel nome della Trinità ti ordino di prendere le briglie e guidarmi fino a Lacedonia». Ruggendo e digrignando, il demonio trascina tra selve e impervi sentieri il suo domatore fino all'ingresso del paese, dove sorge una cappella dedicata alla Santissima Trinità, appunto.
Altre volte Gerardo provoca l'apparizione del demonio per strappare le anime al peccato. Siamo a Deliceto. Un gentiluomo, che all'apparenza sembra di tutto rispetto e devozione, ma che nell'intimo nasconde passioni e peccati, viene avvicinato da Gerardo che smaschera il suo perbenismo. Alla difesa strenua della sua condotta, il Santo oppone un elenco interminabile di misfatti, fino a fargli vedere il demonio pronto a trascinarlo all'inferno. A un altro che nascondeva i peccati nella confessione toccò la stessa spaventosa visione. Leggeva nelle coscienze, riusciva a prevedere i pericoli, interveniva con la forza dello Spirito Santo.
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Apostolo a Corato
Nella primavera del 1753 lo troviamo a Corato, in Puglia. Sarà ospite della famiglia Papaleo, ma Gerardo non la conosce, né; sa dove abita. Come sempre si affida al buon Dio e al suo... cavallo. Infatti, abbandona le briglie e lascia che la bestia trovi la casa. Incredibile. Il cavallo, dopo aver attraversato diversi vicoli, si ferma davanti ad una porta. Gerardo domanda: «Don Felice Papaleo?». «Sì, abita qui».
È tempo di Quaresima e nella chiesa si prepara la Pasqua. Il clero di Corato si contende fratello Gerardo; è una missione prolungata. Il sacerdote don Francesco Saverio Scoppa, scrivendo a padre Fiocchi, dirà: «Reverendo Padre, non potete immaginarvi la folla che seguiva fratel Gerardo per la città. Il popolo non tralasciava di stargli vicino e di portarlo in trionfo come se egli fosse un santo disceso dal cielo. Poiché; non bastavano le giornate per trattenersi con lui, calata la sera, la casa del signor Felice Papaleo si riempiva di una folla di preti, di gentiluomini e di altri che, per il desiderio di ascoltare il santo fratello, non lo abbandonavano fino alle sei e alle sette di sera, stimolando sempre il buon fratello a parlare di Dio. Non so come spiegarvelo, caro padre, ma tutte le parole uscite dalle labbra di Gerardo, andavano diritte al cuore degli ascoltatori. Mentre parlava di Dio, tutti tacevano e si sentivano solo profondi sospiri. Nessuno possiede, come lui, il dono di intenerire e di toccare le anime più indurite».
Due fatti in particolare caratterizzarono il suo soggiorno coratino. Intervenne con coraggio per fare murare una finestra del monastero delle Domenicane, occasione di distrazione continua per le religiose, e liberò con un segno di croce un campo infestato da topi, che costituivano la disperazione dei contadini.
Il pellegrino di San Michele
È ancora la Puglia il campo d'azione di Gerardo. Deliceto è il faro d'irradiazione. Questa volta la spinta parte dall'interno. Sono i giovani studenti della sua comunità a chiedere l'intervento di Gerardo. Hanno espresso al superiore il desiderio di recarsi in pellegrinaggio al monte Gargano, per venerare il celebre santuario di San Michele. Le difficoltà sono sempre le stesse, quelle economiche. Nella cassa comune sono disponibili solo trenta carlini. E allora? Affidarsi a fratello Gerardo; lui ha una certa dimestichezza con la Provvidenza. Organizzarsi e partire: tredici persone, per nove giorni, con trenta carlini. Si suddivide il viaggio in tre tappe. Fino a Foggia è una bazzecola. Da Foggia a Manfredonia si comincia a sentire la stanchezza; è necessario noleggiare un carro. Così i carlini se ne vanno quasi tutti, e con i pochi rimasti comincia il gioco di Gerardo con la Provvidenza. Compera pochi garofani e invita la comitiva a salutare Gesù eucaristia. Rivolto al tabernacolo, dice: «Signore, noi abbiamo pensato a voi, voi pensate a questi giovani». Lo hanno ascoltato due sacerdoti. Uno offre la cena e l'alloggio per la notte, l'altro un buon gruzzolo.
Si scalano a piedi gli 843 metri di montagna e ci si immerge nel silenzio e nella preghiera davanti a San Michele. Stanchi, ma felici. Per Gerardo è un incontro con un caro amico. Ricorda la sua prima comunione, e va in estasi. Sulla via del ritorno si fermano per dissetarsi a un pozzo di campagna. In Puglia l'acqua vale oro. Il contadino ha nascosto secchio e catena, e senza scrupoli, allontana i pellegrini assetati. «Se tu neghi l'acqua al prossimo, il pozzo la negherà a te», ammonisce Gerardo e si allontana. Il pozzo secca a vista d'occhio. «Per carità, tornate; attingerò io stesso l'acqua per voi», implora il contadino. L'acqua ritorna e il contadino disseta uomini e bestie. Poi Gerardo l'esorta: «Fratello, sii buono e generoso, se vuoi che Dio lo sia con te!».
Messaggero di pace
Messaggero di pace, trovava modo di penetrare nella coscienza dei più duri. A Castelgrande, in Basilicata, riuscì a pacificare due famiglie in lotta per l'uccisione di un giovane, ricorrendo a uno stratagemma da consumato missionario. Dopo aver parlato di perdono per ore e notata la durezza di cuore delle parti, divenute sempre più rigide per l'aizzare dei parenti, Gerardo con voce autorevole e occhi lampeggianti ordinò: «O per amore, o per forza, voi dovete perdonare. Prima venni qui mandato da altri, ora è Dio che mi manda». Gli astanti lo guardavano cominciando a tremare. Egli si inginocchiò, trasse dalla cintola il suo Crocifisso, lo pose in terra, e disse al gruppo familiare: «Avanti, calpestatelo!». E poiché; quelli indietreggiavano, incalzò: «Non c'è via di mezzo: o perdonare, o calpestare Gesù; perché; conservare odio è come mettersi sotto i piedi Colui che ha comandato il perdono». La vittoria fu sua; i nemici si abbracciarono.

A Castelgrande Gerardo lasciò un'impronta indelebile. Padre Tannoia riassume i frutti spirituali della sua sosta: «La sua gita colà fu una missione per tutti. Assistendolo il dono di Dio, non lasciò di mettere avanti a tutti lo stato della loro coscienza. Furono così efficaci le sue parole, che in tutti si vide una mutazione. Fra l'altro convinse e guadagnò a Gesù Cristo quindici giovinastri, che col loro scandalo, rovinavano gli altri, e perché; prepotenti, non facevano conto di alcuno». Li convinse e li guidò lui stesso al santuario di Materdomini per farli confessare. I circa trenta chilometri che separano Castelgrande da Materdomini furono poi percorsi lietamente dal gruppo dei quindici giovani che scortavano il santo fratello. Strano e originale corteo che all'arrivo al santuario commosse il padre Cafaro e gli fece esclamare: «Dove arriva costui, porta la rivoluzione!».
Un quinto voto e tanta umiltà
Impegnato a tempo pieno nel servizio del Signore, sempre attento alla volontà dei Superiori, riusciva a conservare lo spirito di orazione anche disbrigando gli impieghi più umili e laboriosi. Era convinto di quanto si era proposto: «Da ora metti giudizio e pensa che non ti faresti santo con lo stare solo in continua orazione e contemplazione. La migliore orazione è stare come piace a Dio: essere attento al divino volere, cioè in continui impieghi per Dio. Veramente quanto si fa per Dio solo, tutto è orazione». A questo suo proposito egli rispose non soltanto con l'osservanza dei tre voti di consacrazione religiosa, povertà, castità e obbedienza, e col voto di perseveranza nella Congregazione, ma aggiungendone un quinto, quello «di scegliere il più perfetto in ogni cosa davanti a Dio». Apprezzava la consacrazione religiosa come un particolare dono dell'amore di Dio. La viveva con generosità ed eroismo, e ne parlava con entusiasmo: «Che bella cosa essere tutto di Dio! Lo sanno quelle benedette e beate anime che lo provano: provatelo voi pure e poi me lo direte. Che serve amare il mondo, se non per provare continuamente triboli ed amarezze? Or via, non ci vuol altro; il vostro cuore, da oggi avanti, ha da essere tutto di Dio ed in esso non ci ha da abitare altro che Dio solo; e quando vedete che ci vuole entrare qualche altra passione o altra cosa che non è di Dio, dite fra voi stesso: Il mio cuore è preso, se l'ha pigliato Dio, il mio caro». E Dio, da parte sua, rispondeva con i prodigi alla generosità del suo servo. «Signore, tu operi molte cose per mezzo di me peccatore; ma poi, perché; le fai sapere a tutti quanti?», lamentava Gerardo la fama che la sua santità diffondeva dovunque passava.
Per amore solo per amore
Ad una religiosa scriveva: «Considerate, vi prego, la brevità del mondo e la lunghezza dell'eternità; e riflettete che ogni cosa finisce. Finisce ogni cosa a chi visse nel mondo, come se mai fosse stato del mondo. Dunque a che serve appoggiarsi su di che non può sostenere? Ahi, tutte quelle cose che non ci portano a Dio, tutte sono vanità, che non ci possono servire per l'eternità. Povero chi confida nel mondo e non in Dio». E Dio, da parte sua, rispondeva con i prodigi alla generosità del suo servo. «Signore, tu operi molte cose per mezzo di me peccatore; ma poi, perché; le fai sapere a tutti quanti?», lamentava Gerardo la fama che la sua santità diffondeva dovunque passava.
Un giorno arrivò a Deliceto un giovane con una cancrena a una gamba; lo accompagnavano i suoi genitori che imploravano la guarigione da fratello Gerardo. Fu proprio lui, il Santo, ad aprire la porta. «Vogliamo vedere fratello Gerardo». «Cosa desiderate da lui?». «Veniamo a domandare di guarire nostro figlio». Gerardo scopre la piaga: uno spettacolo raccapricciante. La tenerezza per quell'ammalato lo improvvisa infermiere. Lava, medica, benda, bacia quella gamba e invita il giovane a riposare. Poi scompare. Poche ore dopo anche il male è sparito e il giovane non riesce ad incontrare più il provvidenziale infermiere per ringraziare.
Riconoscendosi ultimo tra i confratelli, era sollecito ad ogni servizio di comunità. Sceglieva sempre l'ultimo posto e la camera più angusta e disadorna; il pagliericcio conteneva più pietre che paglia.
Il grande gioco della croce
Ma fu la prova di una calunnia atroce, che lo vide mortificato e castigato dal fondatore sant'Alfonso, a fornire a Gerardo l'occasione di esprimere la sua umiltà e la capacità di silenzio sofferto e offerto. Il desiderio di vedere amato «il suo caro Dio» gli comunicava un particolare zelo per le anime consacrate. Quando notava un germe di vocazione monastica in qualche giovanetta, si prodigava a coltivarlo, impegnandosi perfino nel procurarle la dote per l'ingresso in monastero. Tra le Benedettine di Corato, le Carmelitane di Ripacandida, le Redentoriste di Foggia si trovavano ragazze guidate dallo zelo di Gerardo. Tra queste ultime, una certa Nerea Caggiano. Non era fatta per il monastero: resistette tre settimane, e furono molte. Bisognava giustificare il suo ritorno in famiglia, a Lacedonia: le suore... e quel benedetto fratello Gerardo... L'insinuazione fece nascere il sospetto; la gelosia completò l'iniquo disegno. Nerea accusava Gerardo di tenerezza per una sua coetanea, Nicoletta Cappucci. Anche don Benigno Benincasa credette a Nerea. Una lettera raggiunse sant'Alfonso. «Non è possibile!», esclamò il fondatore. Però la controfirma dell'amico sacerdote Benincasa faceva fede. Davanti a sant'Alfonso, Gerardo restò estasiato: «Padre, voi avete una faccia di paradiso!», gli disse, ma non sapeva cosa lo aspettava. Alla lettura della lettera, segue un grande silenzio. «Non ti dimetto, ma ti proibisco di parlare e di scrivere a chiunque, e ti proibisco di ricevere l'eucaristia». Gerardo tace ancora.
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L'innocenza riconosciuta

A Ciorani, nella casa di noviziato, dove fu inviato per punizione, tutti guardavano «il colpevole», e si meravigliavano per la sua imperturbabilità. La vera sofferenza è restare senza 1'eucaristia. Un sacerdote lo invita a servire la messa: «No, padre - dice Gerardo - vi strapperei l'ostia dalle mani!». Qualcuno, conoscendolo bene, lo invita a manifestare la sua innocenza al fondatore: «Si muoia sotto il torchio della volontà di Dio - risponde Gerardo - io mi sono affidato ad un avvocato più potente». Ed ecco la verità. Nerea Caggiano e don Benigno Benincasa riscrivono a sant'Alfonso. La prima, tormentata dai rimorsi per aver calunniato un santo, il secondo, confuso per la sua imprudenza.
Questa volta è il fondatore a chiedere scusa all'umile fratello: «Ma perché; non mi hai parlato?». «Padre mio, come avrei potuto farlo? La regola non ammette che ci scusiamo davanti ai Superiori». Sant'Alfonso, che non era uno sprovveduto, comprese che stava trattando con un eccezionale eroe di santità.
Alla morte di Gerardo sarà lo stesso fondatore a ordinare di raccogliere notizie sulla vita e le virtù del Maiella.
Gli ultimi mesi di vita
Nel mese di giugno del 1754 il Santo viene inviato a Materdomini. La minuscola borgata aveva assunto il nome della Vergine «Madre del Signore», alla quale era dedicato un piccolo santuario costruito quasi a picco sulle sorgenti del Sele, fiume che alimenta l'Acquedotto Pugliese. Sant'Alfonso, inviandolo a Materdomini, pensò di fargli dimenticare i giorni tristi della «calunnia». Intanto padre Francesco Margotta, procuratore della Congregazione, dovendo trattenersi a Napoli per affari amministrativi, condusse con sé; fratello Gerardo. Da Napoli Gerardo scriveva: «Io mi trattengo in Napoli per compagnia di padre Margotta, e ora più che mai me la scialo col mio caro Dio!» (cioè me la spasso). Passava di chiesa in chiesa, dove si celebravano le Quarantore, e sostava ore e ore in preghiera. Il resto del tempo lo passava nella visita agli ammalati dell'ospedale «Incurabili», già frequentato da sant'Alfonso.
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E giunse anche il giorno del trionfo.
Nella baia di Napoli imperversava una tempesta. Gerardo era uscito di casa per le spese necessarie alla giornata. Al largo della «Pietra del pesce» un gruzzolo di gente urla e si dispera, attirando l'attenzione dei passanti e richiamando altra gente. «Sarà successo qualcosa di grave», pensa Gerardo. In effetti, una barca di pescatori fa fatica a raggiungere la riva, travolta da onde impetuose, che minacciano di capovolgerla.
Nessuno immagina come portare aiuto. Ci pensa fratello Gerardo. Una preghiera silenziosa, occhi al cielo, un segno di croce, il mantello sul braccio, e via: «In nome della Santissima Trinità» dice. Corre, camminando sull'acqua, e «con due ditelle» - come dirà lui stesso a padre Margotta - afferra la prua della barca e la trascina a riva.
La folla delira; dimentica barca e pescatori e va dietro al Santo, scandendo ad alta voce il suo nome. Ma Gerardo s'è già dileguato tra i vicoli del quartiere.
La notizia del miracolo volò sulle ali del vento, e Gerardo non riusciva più a mettere piede in strada, perché; tutti gli correvano dietro.
Ritirandosi a casa, sostava nelle botteghe degli artisti a San Biagio dei Librai. Apprese così a usar la cartapesta e, una volta ritornato a Materdomini, si esibì in un celebre Ecce Homo e in alcuni Crocifissi: immagini che si conservano come reliquie. Queste opere, forse poco artistiche, riflettono lo stato d'animo dell'autore. Il Cristo appassionato era stampato nel cuore di Gerardo fin dal tempo di Muro Lucano. Da giovane aveva già impersonato il Crocifisso in una rappresentazione del venerdì santo a Muro, suscitando commozione e lacrime negli astanti. In seguito, da religioso, si era impegnato con tutte le forze a trasformarsi progressivamente nell'immagine del Redentore. A Napoli, questa crocifissione mistica raggiunge i vertici. Aridità di spirito, desolazione interiore, abbandono, forse il ricordo della calunnia subita, certamente le sofferenze di una malattia che comincia a manifestarsi...
Il padre dei poveri
Trascorso velocemente il soggiorno a Napoli, ritornò a Materdomini. Qui Gerardo trovò un cantiere di lavoro che completava la fabbrica del collegio, e insieme religiosi e laici, ritirati in esercizi spirituali. Il superiore, padre Gaspare Caione, trovò subito l'impiego a fratello Gerardo: gli consegnò le chiavi della portineria. «Queste chiavi devono aprirmi le porte del Paradiso», profetizzò Gerardo. E Materdomini divenne un faro di fede e di carità. Correvano dai cento paesi della Valle del Sele per ascoltare la sua voce, perché; aveva «una bocca di Paradiso», che consolava e infondeva speranza; correvano sacerdoti e gentiluomini per consigli e preghiere; correvano soprattutto i poveri. Come il Maestro, passava facendo del bene. «La carità si deve fare sempre», esclamava, privando se stesso e la comunità per dare ai poveri. Il rimprovero del superiore e dei confratelli trovava immancabilmente questa risposta sulle sue labbra: «Dio provvederà». E provvedeva il Signore, come a Capodigiano, come a Monte Sant'Angelo, come tante volte, spalancando i granai dei benefattori al passaggio dell'umile fratello.
Durante l'inverno 1754-1755 a Materdomini «erano caduti tre palmi di neve», e i braccianti, pagati a giornata, restarono senza lavoro per diverse settimane. In quel terribile inverno sbocciò eroica la carità di Gerardo. Alla portineria del convento giungevano a frotte uomini, donne e bambini coperti di stracci, i piedi affondati nella neve. Anche il superiore della comunità restò toccato da quello spettacolo che si ripeteva ogni mezzogiorno. Diede licenza a Gerardo di pensare ai poveri. Non occorreva altro. Il santo portinaio cominciò a svestirsi dei suoi indumenti e, pian piano, svuotò il guardaroba e la dispensa. C'era qualcosa per tutti. I piccoli intenerivano maggiormente il suo cuore: «Noi abbiamo peccato - diceva - e questi innocenti ne portano la pena».
I confratelli notavano la sensibile diminuzione delle provviste e lanciarono l'allarme: «Qui manca tutto e i poveri aumentano!». E Gerardo con tono sicuro rispondeva: «Voi avete il cuore piccolo e non sapete quanto è grande Dio e quanto onnipotente è la sua mano. Se ne dubitate, mettiamolo alla prova: offriamo un pranzo di festa ai poveri, poi vedrete che cosa egli sa fare&rquo;. Il giovedì seguente Gerardò chiamò a raccolta più di cento poveri. La sua carità aveva contagiato i confratelli che gioiosi servivano a mensa. Al pari del profeta Elia, moltiplicò farina e olio, che non mancò per i confratelli, e i poveri continuarono ad affluire numerosi. Quell'umile fratello era diventato per quanti bussavano alla portineria di Materdomini «il padre dei poveri». Il suo motto era: «Dobbiamo sacrificare tutto per il povero che è l'immagine di Gesù Cristo». Dove non arrivava con le provvigioni, arrivava con le parole, con la presenza affabile e confortatrice.
Teologo improvvisato
Dio lo guidava per la strada ardua, e lo rendeva simile a sé;. Ricevette il carisma della profezia, riuscì a tirare peccatori sulla via del bene rivelando i segreti del cuore, e a guidare alla vita monastica e alla perfezione anime consacrate. Anche sacerdoti e teologi più scettici ammisero che la scienza di Gerardo era frutto della sapienza vera, alla quale lo Spirito lo aveva iniziato e alla quale lo guidava per la comprensione dei misteri di Dio. Aveva scritto nei suoi propositi: «Io mi eleggo lo Spirito Santo per unico mio consolatore e protettore del tutto. Egli sia il mio difensore e vincitore di tutte le mie difese. E tu, unica mia gioia, Immacolata Vergine Maria, tu ancora mi sii unica, seconda protettrice e consolatrice in tutto quello che mi accadrà. E sii sempre l'unica mia avvocata appresso Dio».
Al di là di carismi particolari, egli aveva buoni talenti. Durante una discussione con un reverendo di Muro, rivelò con franchezza: «Paesano, avete studiato teologia, ma non siete teologo: questa scienza si acquista con umiltà e orazione». Si capisce meglio così che la teologia in Gerardo, essendo dono che conserva tutto il dinamismo della fede, diventava azione di carità operante e anche azione pastorale. Ciò rendeva la sua opera di fratello coadiutore infaticabile; e faceva anche parte dell'opera pastorale dei padri Redentoristi, che venivano a lui per consigli e per direzione di coscienza.
Il medico Nicola Santorelli ci dà questa testimonianza, raccolta dal Tannoia: «Quando il fratello Gerardo si metteva a parlare dei divini misteri, usciva di sé;. Le cose più difficili si rendevano facili in bocca sua e le cose più oscure chiare faceva vedere e capibili. Io, trattandolo, restavo fuori di me, considerando come un povero laico e senza lettere, poteva entrare in sì profondi arcani, spiegarsi e farsi capire». Il segreto? Una fede vissuta in comunione col suo caro Dio, che provocava l'amore e lo guidava ad amare le creature e il mondo. Scriveva così: «Fede ci vuole ad amare Dio; ché;, chi manca di fede, manca a Dio. Io son già risoluto a vivere e morire impastato di santa fede. La fede mi è vita, e la vita mi è fede. Oh Dio, e chi vuol vivere senza la santa fede? Ed io vorrei sempre esclamare, e che fossi inteso per tutto l'universo mondo e così dire sempre: evviva la nostra fede del nostro caro Dio! Dio solo merita di essere amato. E come potrò vivere se manco al mio Dio?». Con letture ascetiche e meravigliose contemplazioni arricchì il patrimonio delle proprie cognizioni. La mano scarna, abituata all'ago o alla scopa, fu costretta alla penna. Prima bisogni personali, poi ragioni di apostolato, lo indussero a scrivere; e scrisse inconsapevolmente sulla carta tesori interiori.
Apostolato epistolare
Oltre al Regolamento di vita, scritto da Gerardo a Materdomini nel luglio del 1754 per ordine del padre Francesco Giovenale, conosciamo numerose sue lettere a candide anime claustrali, a peccatori nel vortice del mondo, a venerandi sacerdoti impegnati nel ministero della confessione, a confratelli.Particolarmente ebbe scambio di corrispondenza con le Benedettine di Atella, le Domenicane di Corato, le Clarisse di Muro Lucano, le Monache del Santissimo Salvatore di Foggia, prediligendo il monastero delle Teresiane di Ripacandida, cui non mancava una settimana che dirigesse, o da esse ricevesse, lettere spirituali, accendendosi e stimolandosi reciprocamente all'amore di Dio e all'acquisto della più eroica santità. Il padre Tannoia nota un vasto raggio di azione quando asserisce: «Tante e tante anime dell'uno e dell'altro sesso, già infangate nel vizio e da lui convertite a Dio, dirette da lui, non vivevano che una vita tutta santa. Non potendo di persona, anche per lettera le animava al bene, e sentendo taluno deviato non lasciava mezzo per raddrizzarlo».
In un manoscritto inedito, il padre Landi, altro contemporaneo, rivela: «Scriveva continuamente lettere ad anime tribolate e tentate, ed era meraviglioso il conforto che quelle anime ricevevano dalle sue risposte, le quali erano piene di una singolare devozione e di una dottrina appresa unicamente alla scuola dell'orazione». Le lettere e i frammenti epistolari pervenutici sono appena quarantasette, datati tra il 1751 e il 1755. Il numero esatto o approssimativo di quelle scritte è impossibile stabilirlo, essendo andate le altre disperse o distrutte; ma il chiaro riferimento dei contemporanei dice abbastanza che lo scrivere fu per Gerardo un aspetto particolare della sua missione, un'altra vocazione impostagli dal Signore.
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La bella volontà di Dio
Dai suoi scritti, carichi di dialettismi, traspare una dottrina umile e profonda, di un'anima serafica, ed è evidente l'immediatezza con cui riesce a comunicare il suo pensiero e ad essere ascoltato. Ma soprattutto emerge quella sua spiccata nota spirituale che lo rende singolare ed eroico: l'uniformità alla volontà di Dio. «Tutta la nostra perfezione consiste nell'amare il nostro amabilissimo Dio. Ma poi tutta la perfezione dell'amore consiste nell'unire la nostra alla sua santissima volontà», aveva scritto sant'Alfonso. Gerardo, iniziando il suo cammino di consacrato redentorista, formula questo proposito: «Mio caro ed unico amor mio e vero Dio, oggi e per sempre mi rassegno alla vostra divina volontà; e così in tutte le tentazioni e tribolaziòni dirò: Fiat voluntas tua. Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani che spargono su di me gemme preziose del suo divino volere».
Un santo incolto, che però diventa coltissimo mettendosi in docile ascolto della Parola, imparando a leggerla e interpretarla, e a percepire la gradualità delle infinite esigenze che essa comporta. Gerardo sempre, nella sua vita, con modalità tipiche, esprime la sua passione nel ricercare la volontà di Dio. In ogni sua lettera la invoca, esorta a cercarla, la descrive come «tesoro nascosto e senza prezzo». Per Gerardo «gran cosa è la volontà di Dio», perché; in essa si racchiude l'essenza dell'essere cristiano e della santità. Nello sforzo continuo di ricercare la volontà di Dio, egli riesce gradualmente a spogliarsi di tutto e a «stare indifferentissimo in tutto»; libero, povero e felice, gode di una grande pace che gli offre la «bella volontà di Dio».
Il questuante infermo
Sotto il torrido sole d'agosto del 1755 Gerardo era di nuovo in cammino per le aride vie polverose e gli acquitrini ronzanti di zanzare lungo la Valle del Sele per raccogliere fondi alle costruende casa e chiesa di Materdomini. Pallido e sparuto come sempre, non lamentava i suoi malanni, anzi vi scherzava per non destare apprensione. Durante la giornata aveva espettorati sanguigni, sintomi d'etisia che non erano sfuggiti al medico, Nicola Santorelli. A lui Gerardo medesimo aveva annunziato: «Non lo sai che burlando burlando quest'anno me ne muoio tisico?».
Quello che operò di bene e di prodigi durante la sua marcia può suonare esagerato, ma le testimonianze dei contemporanei, mitigando lo spirito critico del nostro tempo, possono far scoprire la potenza di Dio nell'uomo trasformato in sua immagine perfetta. La questua procedette bene fino alla sera del 21 agosto, malgrado la tosse e l'affanno; ma mentre stava inginocchiato nella chiesa di San Gregorio Magno ebbe uno sbocco forte di sangue. Salassato alla tempia da un medico inesperto, non vedendo miglioramento, pensò di far ritorno a Caposele. Arrivò a Buccino la sera dopo, il 22 agosto. Per trascorrere la notte riuscì a trascinarsi in canonica. Assalito ancora dalla tosse violenta, ebbe il secondo sbocco di sangue, e due medici lo salassarono al piede, consigliando subito il cambiamento d'aria. 
Raggiunse con sforzo Oliveto Citra. Dalla casa dell'arciprete Arcangelo Salvadore, informava il rettore padre Gaspare Caione: «Sappia vostra Riverenza che, mentre stavo inginocchiato nella chiesa di S. Gregorio, mi venne un butto di sangue. Andai con segretezza a ritrovare un medico e gli raccontai quanto era accaduto. Egli mi assicurò che il sangue non veniva dal petto, ma dalla gola; mi osservò che non avevo febbre, né; dolore di testa, e perciò mi replicò con molte espressioni che non era niente; mi fece salassare alla vena della testa, mentre io non mi sentivo veruno incomodo. Ieri sera, giunto a Buccino, mi venne la solita tosse e buttai sangue nella stessa maniera. Mandarono a chiamare i medici, i quali mi ordinarono certi medicamenti e fra l'altro mi fecero salassare il piede. Il sangue che buttai lo buttai senza dolori e senza incomodi. Mi dissero ancora che non viene dal petto, e mi ordinarono che subito, la mattina seguente, che è stata questa mattina, fossi partito da quell'aria sottile e mi consigliarono che mi fossi ritirato a Oliveto, tanto per l'aria, quanto per parlare col signor don Giuseppe Salvadore, uomo insigne per medicina. Io non l'ho trovato, ma mi dice l'arciprete suo fratello che viene questa sera. Tutto questo l'avviso a Vostra Riverenza per sapere come fare. Se volete che seguiti la questua, io la continuerò senza incomodo; perché; circa il petto io mi sento meglio di quando stavo in casa. Tosse non ne ho più. Or via, mandatemi un'ubbidienza forte, e sia come sia. Mi dispiace che Vostra Riverenza si metta in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente. Raccomandatemi a Dio, che mi faccia far sempre la sua divina volontà e il suo gusto divino».
Questo documento-relazione, calmo, misurato, preciso, cui non si può né; aggiungere né; togliere una parola, è una cronaca abbagliante. Rispecchia tutto intero Gerardo Maiella, che rivestito di cinque voti di perfezione, batte la sua strada inchiodato alla volontà di Dio, cadendo improvviso sotto la croce, ed esausto domanda la forza di riprendere il cammino.
Incontro alla morte
A padre Caione, che vedendolo - al ritorno a Materdomini - smunto e arso dalla febbre, non poté; trattenere le lacrime, disse: «Padre mio, è volontà di Dio; perciò state allegramente, perché; la divina volontà deve farsi sempre allegramente». All'esterno della sua porta fece appendere una tabella con la scritta: «Qui si sta facendo la volontà di Dio, come vuole Dio e per tutto il tempo che piace a Dio». Tra le quattro anguste pareti l'estasi della sofferenza lo innalzava a vertici di amore: «Se mi trovassi su un'alta montagna, vorrei incendiare il mondo con i miei sospiri», esclamava. E ancora a padre Caione: «Padre mio, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio, e che io vi stia inchiodato come se stessi inchiodato alla medesima volontà di Dio: anzi mi figuro io e la volontà di Dio siamo diventati la stessa cosa». Ecco un breve testamento pronunziato davanti a Cristo viatico: «Mio Dio, voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto l'ho fatto e detto per gloria vostra. Muoio contento, nella speranza di aver cercato solo la vostra gloria e la vostra santissima volontà».

Ma le ultime ore del crocifisso con Cristo non erano senza sofferenze. Il dolore e il lamento rassegnato del Figlio di Dio riecheggiavano sulle labbra morenti dell'uomo: «Signore, aiutatemi in questo purgatorio in cui mi avete posto!... Sto sempre dentro le piaghe di Gesù Cristo, e le piaghe di Gesù Cristo stanno dentro di me!... Patisco continuamente le pene e i dolori della passione di Gesù Cristo!... Patisco assai, ma tutto è poco, o mio Dio, per voi che moriste per me!». Le ultime parole udite furono: «Mio Dio, mi pento... Voglio morire per fare la vostra volontà!». Aveva desiderato morire abbandonato da tutti, e l'aveva ottenuto. Per una casuale coincidenza il confratello che lo assisteva s'era allontanato per prendere dell'acqua da lui richiesta. Gli altri di comunità non prevedevano imminente la fine. Quando il fratello ritornò con l'acqua, Gerardo boccheggiava, piegato su un fianco. Era l'una e mezza di notte del 16 ottobre 1755.

La notizia della scomparsa del santo fratello volò sulle ali del vento. Una grande folla assalì la chiesetta e si strinse intorno al feretro. Si piangeva per impetrare protezione con la certezza di avere un nuovo protettore in cielo. Piangeva di commozione fratel Carmine Santaniello, incaricato di suonare le campane a morto; alla vista di tale spettacolo di fede lo tradì la commozione e dalle sue mani uscirono scampanii di gloria che si diffusero echeggianti nella vallata del Sele. Con quel suono iniziava una nuova alba pasquale.

Quello che conosciamo di san Gerardo Maiella lo dobbiamo ai suoi confratelli, ma anche alle numerose testimonianze di amici e devoti che lo conobbero in vita o sperimentarono il suo patrocinio dopo la morte. Il suo sepolcro divenne subito meta di pellegrini.
Insieme alla tomba si cominciò a venerare la sua stanza, testimone di preghiere, di penitenze, di sofferenze, di estasi e della visione confortatrice della Vergine Maria prima di volare al cielo. Padre Francesco Santoli la descrive così: «Piccola e disadorna: misurava m. 4 di lunghezza e 3 di larghezza e di altezza. Al lato sinistro un lettino formato da due cavalletti di ferro, sormontati da due rozze tavole di castagno e un duro pagliericcio (saccone di cartocci di granturco). In un altro angolo un tavolo dozzinale con lucerna ad olio e qualche libro spirituale. Un paio di sedie in legno ed un catino per l'acqua. Alle pareti sospese quattro immagini cartacee... Fra la mobilia di Fr. Gerardo non mancava anche un teschio da morto sul tavolo, per il ricordo continuo di sorella morte temporale».

AMDG et DVM