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domenica 31 marzo 2019

Il peccato originale spiegato in parabola ai tre bambini. --- Seduta del Sinedrio e udienza da Pilato


DLIV. Il sabato ad Efraim, su un'isoletta nel torrente. Il peccato originale spiegato in parabola ai tre bambini. 

   12 gennaio 1947.

 1 «Alzatevi e andiamo lungo il torrente. Come gli ebrei fuori della loro patria e in luoghi dove non sono sinagoghe, celebreremo il sabato fra noi. Venite, fanciulli…», dice Gesù agli apostoli, oziosi nell'orto della casa, e tende la mano ai tre poveri bambini che stanno in gruppo in un angolo.
   Essi accorrono con una timida gioia sul visuccio precocemente pensoso di bambini che hanno visto cose troppo più grandi di loro, e i due più grandicelli mettono la loro manina in quella di Gesù, ma il più piccino vuole essere preso fra le braccia, e Gesù lo accontenta dicendo al più grande: «Tu mi starai al fianco ugualmente, mi terrai la veste come ieri. Ma Isacco è troppo stanco e piccino per fare da sé…». Il grandicello beve il sorriso di Gesù e accetta, contentandosi di camminare vicino a Gesù come un ometto.
   «Da' a me il fanciullo, Maestro. Tu devi essere ancora stanco di ieri, e Ruben ci soffre a non darti la mano…», dice Bartolomeo e fa per levargli il fanciullino, che si attacca al collo di Gesù.
   «È caparbio come tutta la razza!», esclama l'Iscariota.
   «No. È spaurito. Tu non capisci nulla di figli. I piccoli sono così. Quando sono afflitti o spaventati cercano rifugio nel primo che ha loro sorriso e dato conforto», ribatte Bartolomeo e, non potendo prendere in braccio il più piccolo, dà la mano al più grande dopo averlo accarezzato sui capelli e avergli sorriso paterno.


 2 Escono dalla casa, nella quale resta soltanto la donna, e vanno, seguendo il torrente oltre il paese. Sono belle le sue sponde che l'erba nuova ricopre e i fiori del prato costellano. L'acqua è limpida e chiacchierina fra i sassi e, sebbene sia poca, canta con note d'arpa e fruscia spezzandosi contro i sassi più grossi sparsi nel greto, o insinuandosi fra le frastagliature di qualche minuscola isola coperta di canne. Dalle piante presso le rive gli uccelli sfrecciano via con trilli di gioia, oppure si posano su qualche ramo in pieno sole e cantano le prime canzoni di primavera, o scendono, graziosi e vivaci, a cercare insetti e vermi nel suolo o a bere presso le rive. Due tortorine selvatiche fanno il loro bagno in una curva della riva e si sbeccuzzano tubando, poi se ne vanno a volo, tenendo nel becco un bioccolo di lana lasciato da qualche pecora contro una pianta di biancospino che comincia a fiorire nella cima.
   «Fanno così per fare il nido», dice il bambino più grande. «Hanno certo i tortorini…». China il capo basso basso e, dopo avere avuto una larva di sorriso alle prime parole, piange senza rumore asciugandosi gli occhi con la mano.
   Bartolomeo lo prende in braccio, comprendendo quale ferita hanno stuzzicato le due tortorelle con le loro cure. E sospira Bartolomeo, che ha l'animo buono di un buon padre di famiglia. Il bambino gli piange sulla spalla e l'altro, il secondo, vedendo quel pianto, si mette a piangere a sua volta, imitato dal terzo che chiama il padre con la sua vocina di piccolino che da poco sa parlare.
   «Oggi sarà questa la nostra orazione del sabato! Potevi lasciarli in casa! La donna è più adatta di noi in questi casi e…», osserva l'Iscariota.
   «Ma se non fa che piangere essa pure! Come del resto ho gran voglia di farlo io… Perché sono cose… che fanno piangere…», gli risponde Pietro prendendo in braccio il secondo bambino.
   «Sì. Sono cose che fanno piangere. È vero. E Maria di Giacobbe, povera vecchia afflitta, non è molto capace di consolare…», conferma lo Zelote.
   «Anche a noi non sembra che ci riesca molto. 


 3 L'unico che poteva consolare era il Maestro. E non lo ha fatto».
   «Non lo ha fatto? E che doveva fare di più? Ha persuaso i ladroni, ha fatto miglia coi bambini fra le braccia, ha provveduto ad avvertire i parenti loro…».
   «Tutte cose secondarie. Egli, che è Colui che comanda anche alla morte, poteva, anzi doveva scendere all'ovile e risuscitare il pastore. Lo ha pur fatto per Lazzaro, che non era utile a nessuno! Qui un padre, e vedovo per giunta, dei bambini che restano soli… Questa risurrezione era da farsi. Io non ti capisco, Maestro…».
   «E noi non si capisce te, così irrispettoso…».
   «Pace, pace! Giuda non comprende. Non è solo a non comprendere le ragioni di Dio e le conseguenze del peccato. Tu pure, Simone di Giona, non comprendi perché gli innocenti devono soffrire. Non vogliate perciò giudicare Giuda di Simone, che non comprende perché l'uomo non è risuscitato. Se Giuda rifletterà, lui che sempre mi rimprovera di andare solo e lontano, comprenderà che non potevo andare così lontano… Perché l'ovile era nella pianura di Gerico, ma oltre la città, verso il guado. Che avreste detto se fossi stato lontano almeno tre giorni?».
   «Potevi comandare col tuo spirito al morto di risorgere».
   «Sei tu da più dei farisei e scribi, che vollero la prova di un mor­­to già disfatto per poter dire che Io risuscito realmente i morti?».
   «Ma essi la volevano perché ti odiano. Io la vorrei perché ti amo e vorrei vederti schiacciare tutti i tuoi nemici».
   «Il tuo vecchio sentimento e il tuo disordinato amore. Non hai saputo sbarbare dal tuo cuore le piante vecchie per sostituirle con le nuove; e le vecchie, fertilizzate dalla Luce alla quale ti sei accostato, sono diventate ancor più robuste. Il tuo è l'errore di molti, presenti e futuri. Di quelli che, nonostante gli aiuti di Dio, non si trasformano perché non rispondono con eroico volere al soccorso di Dio».
   «Forse che costoro, che sono come me tuoi discepoli, hanno distrutto le vecchie piante?».
   «Le hanno almeno molto potate e molto innestate. Tu non lo hai fatto. Non hai nemmeno guardato con attenzione se esse meritavano innesti, potatura, o di essere levate. Sei un giardiniere improvvido, Giuda».
   «Solo per la mia anima, però. Perché per i giardini so fare».
   «Sai fare. Per tutte le cose terrestri sai fare. Ti vorrei vedere ugualmente capace per le cose del Cielo».
   «Ma la tua luce dovrebbe fare da sé ogni prodigio in noi! Non è forse buona? Se rende fertile il male e lo irrobustisce, allora non è buona, ed è colpa sua se noi non si diviene buoni».
   «Parla per te, amico. Io non trovo che il Maestro mi abbia fatto più forti le cattive tendenze», dice Tommaso.
   «E neppure io», «E io», dicono Andrea e Giacomo di Zebedeo.
   «A me, poi, la sua potenza mi ha liberato dal male e fatto nuovo. Perché parli così? Non rifletti a ciò che dici?», chiede Matteo.


4 Pietro sta per parlare, ma preferisce andarsene, e si dà a camminare lesto col fanciullino in collo, imitando l'ondulare di una barca per farlo ridere, e nel passare prende per un braccio il Taddeo e grida: «Su, andiamo là, in quell'isola! È piena di fiori come un canestro. Venite, Natanaele, Filippo, Simone, Giovanni… Un bel salto e ci si è. Il torrente, così diviso, non è che due ruscelli al di qua e al di là dell'isola…».
   E salta per primo, posando piede su un'emergenza sabbiosa larga pochi metri, erbosa come un prato, fiorita dei primi fiori come un tappeto, al centro della quale è un solo pioppo alto e sottile che ondeggia la cima ad un venticello leggero. Lo raggiungono lentamente i chiamati, seguiti poi da quelli che erano più vicini a Gesù, che resta indietro parlando con l'I­sca­rio­ta.
   «Ma non ha ancora finito quello là?», chiede Pietro a suo fratello.
   «Il Maestro gli sta lavorando il cuore», risponde Andrea.
   «Eh! più facile che io riesca a far spuntare fichi su questa pianta che non nel cuore di Giuda venga giustizia».
   «E nel suo intelletto», rincara Matteo.
   «È stolto perché lo vuole essere, e in ciò che vuole», dice il Taddeo.
   «Soffre perché non è stato scelto per evangelizzare. Io lo so», spiega Giovanni.
   «Ma per me… Se vuole andare lui al mio posto… Non ci tengo proprio ad andare in giro!», esclama Pietro.
   «Nessuno di noi ci tiene. Ma lui sì. Invece mio fratello non lo vuole mandare. Questa mattina gliene ho parlato, perché avevo capito l'umore di Giuda e le cause di esso. Ma Gesù ha detto: "Proprio perché è un cuore così malato, lo tengo presso di Me. Sono i sofferenti e i deboli che hanno bisogno del medico e di chi li sorregge"».
   «Già!… Bene!… 

5 Venite, fanciulli. Ora prendiamo queste belle canne e ne facciamo delle barchettine. Vedete che belle! E dentro, a far da pescatori, ci mettiamo questi fiorellini. Guardate qui se non sembrano teste, con un copricapo bianco e rosso… Qui facciamo il porto e qui, ecco, le casette dei pescatori… Ora leghiamo le barche con queste belle erbe fini, e voi le fate andare in acqua, così…, e poi le tirate sulla riva dopo la pesca… Potete anche fare il giro dell'isola… e attenti agli scogli, eh!…». Pietro è ammirabile di pazienza. Ha lavorato di coltello su pezzi di canna, tagliando da nodo a nodo e scoperchiando un lato per trasformare le canne in barchette, ha messo a fare da pescatori delle pratoline ancora in boccio, ha scavato nella rena un porto lillipuziano e creato delle casette con la sabbia umida e, ottenuto lo scopo di ricreare i bambini, si siede soddisfatto mormorando: «Povere creature!…».
   Gesù pone piede sull'isola proprio quando i due fanciulletti iniziano il loro giuoco e li carezza deponendo a terra il più piccino, che si unisce al giuoco dei fratellini.
   «Eccomi a voi. E ora parliamo di Dio. Perché parlare di Dio e parlare a Dio è prepararsi alla missione. E dopo aver fatto orazione, ossia dopo aver parlato a Dio, parleremo di Dio che è presente in tutte le cose per istruire alle cose buone. Su, alzatevi e preghiamo», e intona dei salmi in ebraico, ai quali fanno coro gli apostoli.
   I fanciulli, che si erano allontanati con le loro barchettine, sospendono il cinguettio delle loro vocette e i loro giuochi, e si avvicinano sentendo cantare quegli uomini. Ascoltano attenti, con gli occhi fissi su Gesù che per loro è tutto, e poi, con lo spirito di imitazione dei bambini, prendono la stessa postura degli oranti e cercano di seguire il canto, con la sola voce, non sapendo le parole dei salmi. Gesù abbassa gli occhi e li guarda con un sorriso che aumenta il canto delle vocette innocenti. Si sentono approvati e si rincuorano…
   Il canto dei salmi ha fine. 


 6 Gesù si siede sull'erba e inizia a parlare:
   «Quando i re d'Israele, di Edom e di Giuda si riunirono per combattere il re di Moab e si rivolsero per consiglio a Eliseo profeta, egli rispose al messo dei re: "Se non avessi rispetto a Giosafat, re di Giuda, neppure ti avrei guardato. Ma ora conducetemi un suonatore d'arpa". E mentre l'arpista suonava, Dio parlò al suo profeta comandando di fare scavare fosse e fosse nel torrente arido, perché si empisse d'acqua per uomini e bestie. E all'ora del sacrificio del mattino il torrente, senza che fosse vento o pioggia, si empì come il Signore aveva detto. Quali, secondo voi, le lezioni di questo episodio? Parlate!».
   Gli apostoli si consultano fra loro. Chi dice: «Nel turbamento del cuore non parla Dio. Eliseo vuole placare il suo sdegno, sorto nel vedersi di fronte il re d'Israele, per potere sentire Dio». Chi invece dice: «È lezione di giustizia. Eliseo, per non punire l'innocente re di Giuda, salva anche il colpevole». Altri ancora: «È lezione di ubbidienza e di fede. Essi scavarono le fosse ubbidendo al comando in apparenza stolto e attesero con fede l'acqua benché fosse sereno e senza vento il cielo».
   «Avete risposto bene, ma non ampiamente bene. Nel turbamento del cuore non parla Iddio. È vero. Ma non necessitano arpe a calmare il cuore. Basta avere la carità, che è l'arpa spirituale che dà note di paradiso. Quando un'anima vive nella carità ha il cuore calmo e sente la voce di Dio e la comprende».
   «Allora Eliseo non aveva carità, perché era turbato».
   «Eliseo è del tempo della Giustizia. Bisogna saper trasportare al tempo della Carità gli episodi antichi e vederli non alla luce delle folgori ma a quella degli astri. Voi siete del tempo nuovo. Perché dunque tanto sovente siete più iracondi e turbati di quelli del tempo antico? Spogliatevi del passato. Lo ripeto, anche se a Giuda non piace sentirlo ripetere. Estirpate, potate, innestate, mettete piante nuove. Rinnovatevi, scavate le fosse dell'umiltà, dell'ubbidienza, della fede. Quei re lo seppero fare ed erano, due contro uno, non di Giuda, e non sentirono Dio, ma il profeta di Dio ripetere i voleri dell'Altissimo. Sarebbero morti di sete nell'aridità se non avessero saputo ubbidire. Ubbidirono e l'acqua empì le fosse scavate, e non solo furono salvi dalla sete ma vinsero i nemici. Io sono l'Acqua della Vita.
   Scavate fosse nei vostri cuori per poter ricevere Me. 


7 E ora ascoltate. Non faccio lunghi discorsi. Vi do delle sentenze perché voi le meditiate. Sarete sempre come questi fanciulli, e anche meno di loro, perché essi sono innocenti e voi non lo siete e perciò è più fosca in voi la luce spirituale, se non vi abituate a meditare. Sempre ascoltate, mai non ritenete, perché la vostra intelligenza dorme in luogo di essere attiva. Dunque sentite. Quando alla Sunamite morì il figlio, ella volle andare dal profeta nonostante che il marito le dicesse che non era il primo del mese e non era sabato. Ma ella sapeva di dover andare, perché per certe cose non sono ammesse dilazioni. E poiché seppe comprendere lo spirito delle cose, ebbe risuscitato il figlio. Che ne dite di questo fatto?».
   «Che esso è rimprovero a me per il sabato», dice l'Iscariota.
   «Vedi dunque, o Giuda, che quando vuoi sai capire? Apri dunque il tuo spirito alla giustizia».
   «Sì… ma Tu non hai violato il sabato per risuscitare l'uo­mo».
   «Ho fatto di più. Ho impedito la rovina, la morte di questi, la vera morte. E ho ricordato ai ladroni che…».
   «Oh! attendi a consolarti di aver fatto qualcosa! Io non credo che essi ti abbiano ubbidito…».
   «Se il Maestro lo dice…».
   «Anche Eliseo, nel racconto della Sunamite, dice: "Il Signore me lo ha tenuto nascosto". Dunque non sempre tutto si sa neanche da parte dei profeti», ribatte l'Iscariota.
   «Nostro fratello è da più di un profeta», osserva il Taddeo.
   «Lo so. È il Figlio di Dio. Ma è anche l'Uomo. Come tale può essere soggetto a non sapere cose secondarie, come questa di una conversione e di un ritorno… Maestro, sai proprio sempre, sempre tutto? Io me lo chiedo sovente…», incalza, tenace nel suo cuore, l'Iscariota.
   «E con quale spirito? Per darti pace, per darti consiglio, per darti turbamento?», chiede Gesù.
   «Ma… Non saprei. Me lo chiedo e…».
   «E sembri turbato anche nel chiedertelo», dice Tommaso.
   «Io? Certo la perplessità turba sempre…».
   «Quante sottigliezze! Io non me ne propongo tante. Credo sen­za indagare, e non sono perplesso e turbato per niente. Ma lasciamo parlare il Maestro. A me non piace questa lezione. Di' una bella parabola, Maestro. Piacerà anche ai fanciulli», dice Pietro.


8 «Ho ancora da chiedere una cosa. Questa. Che significato ha per voi la farina che leva l'amaro alla minestra dei figli dei profeti?».
   Un profondo silenzio è la risposta alla domanda.
   «E che? Non sapete rispondere?».
   «Forse perché la farina assorbì l'amaro…», dice incerto Matteo.
   «Tutto sarebbe stato amaro, anche la farina».
   «Per un miracolo del profeta, che non voleva mortificato il servo», suggerisce Filippo.
   «Anche. Ma non per questo soltanto».
   «Il Signore volle far brillare la potenza del profeta anche sulle materie comuni», dice lo Zelote.
 «Sì. Ma non è ancora il significato giusto. Le vite dei profeti anticipano ciò che poi sarà nel tempo pieno: il mio; rispecchiano il mio giorno terreno sotto simboli e figure. Dunque…».
   Silenzio. Si guardano. Poi Giovanni curva il capo, divenendo acceso nel volto, e sorride.
   «Perché non dici il tuo pensiero, Giovanni?», lo interroga Gesù. «Non è mancanza di amore parlare, perché non lo fai per mortificare alcuno».
   «Penso che voglia dire questo. Che nel tempo della fame della Verità e della carestia della Sapienza, questo nel quale Tu sei venuto, ogni albero si è inselvatichito ed ha dato frutti amari, immangiabili come tossico per i figli degli uomini, che in tal modo invano li colgono e se li preparano per nutrirsene. Ma la bontà dell'Eterno manda Te, farina di grano eletto, e Tu con la tua perfezione levi il tossico da ogni cibo, rendendo novellamente buoni e gli alberi delle Scritture, che i secoli hanno snaturato, e i palati degli uomini, che la concupiscenza ha corrotto. In questo caso, colui che ordina di portare la farina e la versa nell'amara caldaia è il Padre tuo, e Tu sei la farina che si sacrifica per farsi cibo agli uomini. E dopo la tua consumazione nulla più di amaro sarà nel mondo, perché Tu avrai ristabilito l'amicizia con Dio. 


9 Posso aver sbagliato».
   «Non hai sbagliato. Questo è il simbolo».
   «Oh! e come hai fatto a pensarlo?», chiede stupito Pietro.
   Gli risponde Gesù: «Io te lo dico con le tue stesse parole di poc'anzi. Un bel salto e si è sull'isola pacifica e fiorita della spiritualità. Ma bisogna avere il coraggio di fare il salto, abbandonando la riva, il mondo. Saltare senza pensare se c'è chi può ridere per il nostro salto goffo o deridere per la nostra semplicità di preferire un isolotto solitario al mondo. Saltare senza paura di ferirsi o bagnarsi, o di essere delusi. Lasciare tutto per rifugiarsi in Dio. Mettersi sull'isola separata dal mondo e di là uscirne unicamente per distribuire, a quelli che sono rimasti sulle rive, i fiori e le acque pure raccolti nell'isola dello spirito, dove è un unico albero: quello della Sapienza. Standogli vicino, lontano dai fragori del mondo, se ne afferrano tutte le parole e si diviene maestri sapendo essere discepoli.
   Anche questo è un simbolo. 


10Ma ora racconteremo una bella parabola ai fanciullini. Venite qui ben vicino».
   I tre bambini vanno tanto vicino che gli si siedono addirittura sulle gambe. Gesù li cinge con le braccia e incomincia a narrare:
   «Un giorno il Signore Iddio disse: "Farò l'uomo, e l'uomo vivrà nel Terrestre Paradiso dove è il gran fiume che poi si divide in quattro capi, che sono il Fison, il Geon, l'Eufrate e il Tigri, che scorrono la Terra. E l'uomo sarà felice, avendo tutte le bellezze e bontà del Creato e il mio amore per gaudio del suo spirito". E così fece. Era come se l'uomo fosse su una grande isola, ma ancor più fiorita di questa e con piante di ogni specie e con tutti gli animali. E sopra lui fosse l'amore di Dio a far da sole per l'anima, e la voce di Dio era nei venti, più melodiosa di canto d'uccello.
   Ma ecco che in questa bell'isola fiorita, fra tutte le bestie e le piante, entrò strisciando un serpente diverso da quelli che erano stati creati da Dio e che erano buoni, senza veleno nei denti, senza ferocia nelle spire del corpo flessuoso. Anche questo serpente si era vestito della pelle dai colori di gemme che avevano gli altri, anzi si era fatto ancor più bello di questi, tanto che pareva un grande monile di re che andasse guizzando fra gli splendidi alberi del Giardino. Andò ad attorcigliarsi intorno ad un albero che sorgeva in mezzo al giardino, un albero bello, solitario, alto molto più di questo, coperto di foglie e frutti meravigliosi. E il serpente pareva un gioiello intorno al bell'albero, e scintillava al sole, e tutti gli animali lo guardavano perché nessuno si ricordava di averlo visto creare, né di averlo visto prima di allora. Ma nessuno gli si avvicinava, anzi tutti si allontanavano dall'albero, ora che aveva attorno al fusto il serpente.
   Soltanto l'uomo e la donna si avvicinarono là, la donna prima dell'uomo, perché le piaceva quella cosa lucente che brillava al sole e muoveva il capo simile ad un fiore ancor semichiuso, e ascoltò quello che diceva il serpente, e disubbidì al Signore e fece disubbidire Adamo. Soltanto dopo avere disubbidito, videro il serpente per ciò che era e compresero il peccato, perché ormai avevano perduto l'innocenza del cuore. E si nascosero a Dio che li cercava, e poi mentirono a Dio che li interrogava.
   Allora Dio mise degli angeli a confine del Giardino e cacciò gli uomini da esso. Fu come se gli uomini fossero, dalla riva sicura dell'Eden, gettati nei fiumi terrestri colmi d'acque come quando vengono le piene di primavera. E Dio lasciò però nel cuore degli scacciati il ricordo del loro destino eterno, ossia del passaggio dal bel Giardino, dove sentivano la voce e l'amore di Dio, al Paradiso dove avrebbero goduto di Dio completamente. E col ricordo lasciò lo stimolo santo a risalire verso il luogo perduto con una vita di giustizia.
   Ma, fanciulli miei, voi lo avete provato poco fa che, finché la barca scende seguendo la corrente, è facile il suo cammino, mentre quando risale la corrente fatica a stare a galla, a non esser travolta dall'onda, a non naufragare fra le erbe e le sabbie o le pietre del fiume. Se Simon Pietro non avesse legato le vostre barchettine con i giunchi sottili della riva, le avreste perdute tutte, così come è accaduto a Isacco per aver lasciato andare il giunco.
   Lo stesso succede degli uomini gettati sulle correnti della Terra. Devono stare sempre nelle mani di Dio, affidando la loro volontà, che è come il giunco, alle mani del buon Padre che è nei Cieli e che è Padre di tutti e specie degli innocenti, e devono avere l'occhio vigilante ad evitare le erbe ed i falaschi, le pietre, i mulinelli e il fango che potrebbero trattenere, frantumare o inghiottire la barca della loro anima, strappando il filo della volontà che li tiene uniti a Dio. Perché il Serpente, che non è più nel Giardino, è ora sulla Terra, e cerca proprio di far naufragare le anime, cerca di non farle risalire, per l'Eufrate, il Tigri, il Geon e il Fison, al Gran Fiume che scorre nel Paradiso eterno e alimenta gli alberi della Vita e Salute, che portano perpetui frutti, di cui godranno tutti coloro che hanno saputo risalire la corrente per riunirsi a Dio e agli angeli suoi senza avere mai più a soffrire di nulla».


 11«Lo diceva anche la mamma», dice il più grandicello dei bambini.
   «Sì, lo diceva», cinguetta il più piccolo.
   «Tu non puoi sapere. Io sì, perché sono grande. Ma se dici le cose non vere, tu nel Paradiso non ci entri».
   «Il padre però diceva che non era vero niente», obbietta quello di mezzo.
   «Perché lui non credeva nel Signore della mamma».
   «Non era samaritano tuo padre?», chiede Giacomo d'Alfeo.
   «No. Era di altri luoghi. Ma la mamma lo era, e noi lo siamo perché lei ci voleva come lei. E ci raccontava del Paradiso e del Giardino, ma non bene come hai detto Tu. Io avevo paura del serpente e della morte, perché la mamma diceva che uno era il diavolo e perché il padre diceva che la morte finisce tutto. Per questo ero tanto infelice di essere solo, e anche dicevo che è inutile essere buoni ormai, perché, finché c'era la madre e il padre, si dava gioia a essere buoni, ma ora non c'era più nessuno da far godere con le nostre bontà. Invece ora so… E sarò buono. Non leverò mai il mio filo dalle mani di Dio per non essere portato via dalle acque della Terra».
   «Ma la mamma è andata in su o in giù?», chiede con perplessità il secondo fanciullo.
   «Che vuoi dire, fanciullo?», chiede Matteo.
   «Dico: dove è? È andata al fiume del Paradiso eterno?».
   «Speriamolo, fanciullo. Se era buona…».
   «Era samaritana…», dice con sprezzo l'Iscariota.
   «E allora non c'è Paradiso per noi, perché si è samaritani? Allora non avremo Dio, noi? Lui lo ha chiamato: "Padre di tutti". A me orfano piaceva pensare che ho un Padre ancora… Ma se per noi non c'è…», china il capo afflitto.
   «Dio è il Padre di tutti, fanciullo mio. Ti ho forse amato meno Io, perché sei samaritano? Ti ho conteso ai ladroni, e ti contenderò al demonio, nello stesso modo con cui contenderei il piccolo figlio del Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme, se egli non riputasse obbrobrio che il Salvatore salvasse la sua creatura. Anzi, più ancora contendo te, perché sei solo e infelice. Non c'è differenza per Me fra lo spirito di un giudeo e quello di un samaritano. E fra poco non ci sarà più divisione fra Samaria e Giudea, perché il Messia avrà un unico popolo, che porterà il suo Nome e nel quale saranno tutti quelli che lo ameranno».
   «Io ti amo, Signore. Ma mi porti dalla mia mamma?», dice il più grande dei tre fanciulli.
   «Tu non sai dove è. Lo ha detto quell'uomo lì, che è solo da sperare…», dice il secondogenito.
   «Io non lo so, ma il Signore lo sa. Ha saputo anche dove eravamo noi, e noi invece non sappiamo neppure dove eravamo».
   «Coi ladroni… Ci volevano ammazzare…». Il terrore torna sul visetto del secondogenito.
   «I ladroni erano come i demoni. Ma Lui ci ha salvati, perché i nostri angeli lo hanno chiamato».
   «Anche la mamma l'hanno salvata gli angeli. Io lo so, perché me la sogno sempre».
   «Tu sei bugiardo, Isacco. Non puoi sognarla. Non la ricor­di».
   Il piccolino piange dicendo: «No. No. Io la sogno. La sogno io…».
   «Non dire bugiardo al tuo fratello, Ruben. La sua anima può ben vedere la mamma, perché il buon Padre dei Cieli può concedere che l'orfanello la sogni e la conosca parzialmente, così come concede di conoscere Lui stesso. Perché da questa conoscenza limitata venga una buona volontà di conoscerlo perfettamente, cosa che si ottiene con l'essere sempre molto buoni. 


12E ora andiamo. Abbiamo parlato di Dio, e il sabato si è santificato». Si alza in piedi e intona altri salmi.
   Della gente di Efraim, sentendo il coro, viene a quella volta e attende con rispetto la fine del salmo per salutare, e dice a Gesù: «Hai preferito venire qui anziché da noi? Non ci ami dun­que?».
   «Nessuno di voi mi aveva invitato. Sono perciò venuto qui coi miei apostoli e coi fanciulli».
   «È vero. Ma credevamo che il tuo discepolo ti avesse detto il nostro desiderio».
   Gesù guarda Giovanni e Giuda. E Giuda risponde: «Me ne sono dimenticato di dirlo ieri, e oggi, con questi fanciulli, me ne sono distratto».
   Gesù intanto lascia l'isoletta e passa il braccio minuscolo d'acqua, andando presso quelli di Efraim. Gli apostoli lo seguono, mentre i fanciulli si attardano per slegare le due superstiti barchettine di canna, e a Pietro che li sollecita spiegano: «Le vogliamo tenere per ricordarci la lezione».
   «E io? Io l'ho perduta! E non ricorderò. E non andrò in Paradiso», piange il più piccino.
   «Aspetta! Non piangere. Te la faccio subito la barchettina. Sicuro. Anche tu ti devi ricordare la lezione. Eh! Bisognerebbe farsela tutti una barchettina col suo giunco legato a prua per ricordare. Più noi, uomini, di voi fanciulli! Mah!», e Pietro taglia e forma la barchettina col suo giunco e prende in braccio, una bracciata sola, i tre fanciulli e salta il rio andando presso Gesù.
   «Sono questi?», interroga Malachia di Efraim.
   «Questi».
   «E son di Sichem?».
   «Così diceva il pastorello: che i parenti erano delle campagne».
   «Poveri fanciulli! Ma se i parenti non venissero, che fare­sti?».
   «Li terrei meco. Ma verranno».
   «Quei ladroni… Non verranno essi pure?».
   «Non verranno. Ma non temete per essi. Anche se venissero… Io sarei il loro predatore, e non essi i vostri predatori. Ho già strappato loro quattro prede e spero aver strappato un poco della loro anima al peccato, almeno in qualcuno».
   «Ti aiuteremo per questi fanciulli. Questo ce lo concederai».
   «Sì. E non perché sono della vostra regione, ma perché sono innocenti, e l'amore per gli innocenti è via che conduce rapidamente a Dio».
   «Ma Tu solo non fai distinzione fra innocenti e innocenti. Un giudeo non avrebbe raccolto questi piccoli samaritani, e neppure un galileo. Non siamo amati. E il disamore per noi lo hanno anche per quelli che neppur sanno ancora cosa è essere samaritani e giudei. E questa è cosa crudele».
   «Sì. Ma non sarà più così quando si seguirà la mia Legge. Lo vedi, Malachia? Essi sono fra le braccia di Simon Pietro, di mio fratello e di Simone Zelote. Nessuno di essi è samaritano, né padre. Eppure, neppure tu stringi sul cuore con tanto amore i tuoi figli come questi miei discepoli fanno con gli orfani di Samaria. L'idea messianica è questa: riunire tutti nell'amore. Questa è la verità dell'idea messianica. Un solo popolo sulla Terra sotto lo scettro del Messia. Un solo popolo in Cielo sotto lo sguardo di un solo Dio».
   Si allontanano, parlando, verso la casa di Maria di Giacobbe.



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DXLIX. Seduta del Sinedrio e udienza da Pilato. 

   27 dicembre 1946.

 1 Se la notizia della morte di Lazzaro aveva scosso e agitato Gerusalemme e buona parte della Giudea, la notizia della sua risurrezione finisce di scuotere e di penetrare anche là dove non aveva dato agitazione la notizia della morte.
   Forse i pochi farisei e scribi, ossia i sinedristi presenti alla risurrezione, non ne avranno parlato al popolo. Ma certo i giudei ne hanno parlato, e la nuova s'è sparsa in un baleno, e da casa a casa, da terrazzo a terrazzo, voci di donne se la ripetono, mentre in basso il popolino la diffonde con un giubilo grande per il trionfo di Gesù e per Lazzaro. La gente ripopola le strade correndo qua e là, credendo di arrivare sempre prima a dare la notizia, ma resta delusa perché essa si sa in Ofel come in Bezeta, in Sion come al Sisto. Si sa nelle sinagoghe e negli empori, nel Tempio e nel palazzo di Erode. Si sa all'Antonia e dall'Antonia dilaga, o viceversa, ai posti di guardia alle porte. Empie i palazzi come i tuguri: «Il Rabbi di Nazaret ha risuscitato Lazzaro di Betania, che è morto il dì avanti il venerdì ed è stato messo nel sepolcro avanti l'inizio del sabato ed è risorto all'ora di sesta di oggi». Le acclamazioni ebraiche al Cristo e all'Altissimo si intrecciano agli svariati «Per Giove! Per Polluce! Per Libitina!» ecc. ecc. dei romani.

 2 Gli unici che non vedo nella folla che parla nelle vie sono quelli del Sinedrio. Non ne vedo neppure uno, mentre vedo Cusa e Mannaen uscire da uno splendido palazzo, e sento Cusa dire: «Grande! Grande! Ho mandato subito la notizia a Giovanna. Egli è realmente Dio!»; e Mannaen gli risponde: «Erode, venuto da Gerico ad ossequiare… il padrone, Ponzio Pilato, pare pazzo nella reggia, mentre Erodiade è frenetica e lo incalza perché egli ordini l'arresto del Cristo. Essa trema del suo potere. Egli dai rimorsi. Batte i denti dicendo ai più fidi di difenderlo… dagli spettri. Si è ubbriacato per darsi coraggio e il vino gli turbina nel capo illuminandogli fantasime. Urla dicendo che il Cristo ha risuscitato anche Giovanni, il quale ora gli urla vicino le maledizioni di Dio. Io sono fuggito da quella Geenna. M'è bastato di dirgli: "Lazzaro è risorto per opera di Gesù Nazareno. Bada a te di toccarlo, perché Egli è Dio". Gli mantengo quella paura perché non ceda alle voglie omicide di lei».
   «Io ci dovrò andare, invece… Ci devo andare. Ma prima ho voluto passare da Eliel e Elcana. Vivono a sé, ma sono sempre grandi voci in Israele! E Giovanna è contenta che io li onori. E io…».
 «Una buona protezione per te. È vero. Ma non mai quale l'amo­re del Maestro. Quella è l'unica protezione che abbia valore…».
   Cusa non ribatte parola. Pensa… Li perdo di vista.

 3 Da Bezeta viene avanti Giuseppe d'Arimatea tutto frettoloso. Lo fermano. Sono un gruppo di cittadini, incerti ancora se la notizia è da credersi. E lo chiedono a lui.
   «Vera. Vera. Lazzaro è risorto ed è guarito anche. Ho visto coi miei occhi».
   «Ma allora… Egli è proprio il Messia!».
   «Le sue opere sono tali. La sua vita è perfetta. I tempi son quelli. Satana lo combatte. Ognuno concluda in cuor suo ciò che è il Nazareno», dice, prudente e nello stesso tempo giusto, Giuseppe. Saluta e se ne va.
   Quelli discutono e finiscono per concludere: «Egli è proprio il Messia».

 4 Un gruppo di legionari parla: «Se domani posso, vado a Betania. Per Venere e Marte, i miei dèi preferiti! Potrò girare l'Orbe dai deserti ardenti alle gelate terre germaniche, ma trovarmi dove uno, morto da giorni, risuscita, non mi accadrà più. Lo voglio vedere come è uno che torna da morte. Sarà nero dell'onda dei fiumi d'oltre tomba…».
   «Se era virtuoso sarà livido, avendo bevuto all'onda cerula dei Campi Elisi. Non c'è soltanto lo Stige, là…».
   «Ci dirà come sono i prati d'asfodelo dell'Ade… Ci vengo io pure…».
   «Se Ponzio vorrà…».
   «Oh! che vuole! Ha subito spedito un corriere a Claudia, ché venga. Claudia ama queste cose. L'ho sentita più di una volta, con le altre e coi suoi liberti greci, discutere d'anima e d'immortalità».
   «Claudia crede nel Nazareno. Per lei è maggiore a ogni altro uomo».
   «Sì. Ma per Valeria è più che uomo. Dio è. Una specie di Giove e di Apollo per potenza e bellezza, dicono, ed è più sapiente di Minerva. L'avete visto voi? Io sono venuto con Ponzio per la prima volta qui, e non so…».
   «Credo che sei giunto in tempo per vedere molte cose. Poco fa Ponzio urlava come Stentore dicendo: "Qui si deve tutto cambiare. Devono comprendere che Roma comanda, e che essi, tutti, sono servi. E più grandi sono, più servi sono, perché più pericolosi". Credo fosse per quella tavoletta che gli era stata portata dal servo di Anna…».
   «Già. Non li vuole ascoltare… E ci cambia tutti perché… non vuole amicizie fra noi e loro».
   «Fra noi e loro? Ah! Ah! Ah! Con quei nasuti che san di becco? Ponzio digerisce male il troppo porco che mangia. Se mai… l'amicizia è con qualche donna che non disdegna il bacio di bocche rasate…», ride uno malizioso.
   «Il fatto è che, dopo le turbolenze dei Tabernacoli, ha chiesto e ottenuto il cambio di tutte le milizie, e che a noi ci tocca andare…».
   «Ciò è vero. Già era segnalato a Cesarea l'arrivo della galera che porta Longino e la sua centuria. Graduati nuovi, milizie nuove… e tutto per quei coccodrilli del Tempio. Io ci stavo bene qui».
   «Io stavo meglio a Brindisi… Ma mi abituerò», dice quello da poco arrivato in Palestina.
   Si allontanano essi pure.

 5 Delle guardie del Tempio passano con delle tavolette cerate. La gente li osserva e dice: «Il Sinedrio si raduna di urgenza. Che vorrà fare?».
   Uno risponde: «Saliamo al Tempio e vediamo…».
   Si avviano verso la via che va al Moria.
   Il sole scompare dietro alle case di Sion e ai monti occidentali. Cala la sera, che presto sgombra le strade dai curiosi. Quelli che sono saliti al Tempio ne scendono inquieti, perché sono stati cacciati via anche dalle porte, dove si erano attardati per vedere passare i sinedristi.


 6 L'interno del Tempio, vuoto, deserto, avvolto nella luce della luna, pare immenso. I sinedristi si radunano lentamente nella sala del Sinedrio. Ci sono tutti, come per la condanna di Gesù, però non sono presenti quelli che allora facevano come da scrivani. Non ci sono che i sinedristi, parte ai loro posti, parte a crocchi presso le porte.
   Entra Caifa con la sua faccia e il suo corpo da rospo obeso e cattivo, e va al suo posto.
   Cominciano subito a discutere sui fatti avvenuti, e tanto li appassiona la cosa che presto la seduta diviene movimentata. Lasciano i seggi, scendono nello spazio vuoto gesticolando e parlando forte.
   Qualcuno consiglia la calma e di ben ponderare prima di prendere delle decisioni.
   Altri rimbeccano: «Ma non avete sentito quelli venuti qui dopo nona? Se perdiamo i giudei più importanti, che ci serve più accumulare le accuse? Più Egli vive e meno saremo creduti se lo accusiamo».
   «E questo fatto non lo si può negare. Non si può dire ai molti che erano là: "Avete visto male. È una finzione. Eravate ebbri". Il morto era morto. Putrido. Sfatto. Il morto era deposto nel chiuso sepolcro, e il sepolcro era ben murato. Il morto era sotto le bende e i balsami da più giorni. Il morto era legato. Eppure è uscito dal suo posto, è venuto da solo senza camminare sino all'apertura. E liberato che fu, nel suo corpo non era più morte. Respirava. Non c'era più corruzione. Mentre prima, da vivo, era piagato, e da morto era tutto corrotto».
   «Avete sentito i più influenti giudei, quelli che avevamo spinto là per conquistarli a noi del tutto? Sono venuti a dirci: "Per noi è il Messia". Quasi tutti sono venuti! Il popolo poi!…».
   «E questi maledetti romani pieni di fole! Dove li mettete? Per essi Egli è Giove Massimo. E se entrano in quell'idea! Ci hanno fatto conoscere le loro storie, e fu maledizione. Anatema su chi volle l'ellenismo in noi e per adulazione ci profanò con costumi non nostri! Ma però ciò serve anche a conoscere. E conosciamo che presto fa il romano ad abbattere e ad innalzare con congiure e colpi di stato. Ora, se alcuno, qui, di questi folli, si entusiasma del Nazareno e lo proclama Cesare, e perciò divino, chi più lo tocca?».
   «Ma no! Ma chi vuoi che faccia questo? Essi se ne ridono di Lui e di noi. Per grande che sia ciò che compie, per essi è sempre "un ebreo". Perciò un miserabile. La paura ti fa stolto, o figlio di Anna!».
   «La paura? Hai sentito come ha risposto Ponzio all'invito di mio padre? Egli è scosso, ti dico. Egli è scosso da quest'ultimo fatto e teme il Nazareno. Miseri noi! Quell'uomo è venuto per nostra rovina!».


 7 «Almeno non fossimo andati là, e là non avessimo quasi comandato che andassero i più potenti giudei! Se Lazzaro fosse risorto senza testimoni…».
   «Ebbene? Che mutava? Non potevamo certo farlo sparire per far credere che fosse sempre morto!».
   «Questo no. Ma potevamo dire che era stata una falsa morte. Testimoni pagati per dire il falso se ne trovano sempre».
   «Ma perché tanto agitati? Non ne vedo la ragione! Egli ha forse fatto atto di eccitazione contro il Sinedrio e il Ponteficato? No. Si è limitato a compiere un miracolo».
   «Si è limitato?! Ma sei stolto, o venduto a Lui, Eleazaro? Non ha eccitato contro il Sinedrio e il Ponteficato? E che vuoi di più? La gente…».
   «La gente può dire ciò che vuole, ma le cose sono come le dice Eleazaro. Il Nazareno non ha che fatto un miracolo».
   «Ecco l'altro che lo difende! Non sei più un giusto, Nicodemo! Non sei più un giusto! Questo è un atto contro di noi. Contro di noi, capisci? Nessuna cosa più persuaderà la folla. Ah! miseri noi! Io oggi fui beffato da alcuni giudei. Io beffato! Io!».
   «E taci là, Doras! Tu non sei che un uomo. Ma è l'idea che è colpita! Le nostre leggi! Le nostre prerogative!».
   «Bene dici, Simone, e occorre difenderle».
   «Ma come?».
   «Offendendo, distruggendo le sue!».
   «Presto detto, Sadoc. Ma con che le distruggi se non sai, di tuo, far rivivere un moscerino? Qui ci vorrebbe un miracolo più grande del suo. Ma nessuno di noi lo può fare, perché…». Colui che parla non sa dire perché.
   Giuseppe d'Arimatea termina la frase: «Perché noi siamo uomini, soltanto uomini».
   Gli si avventano contro chiedendo: «Ed Egli chi è, allora?».
   Il d'Arimatea risponde sicuro: «Egli è Dio. Se ne avessi avuto ancora dei dubbi…».
   «Ma non li avevi i dubbi. Lo sappiamo, Giuseppe. Lo sappiamo. Dillo pure apertamente che tu lo ami!».


 8 «Nulla di male se Giuseppe lo ama. Io stesso lo riconosco come il più grande Rabbi d'Israele».
   «Tu! Tu, Gamaliele, dici questo?».
   «Lo dico. E di essere… detronizzato da Lui mi onoro, perché sin qui io avevo conservato la tradizione dei grandi rabbi, l'ultimo dei quali fu Illele, ma dopo me non avrei saputo chi poteva raccogliere la sapienza dei secoli. Ora me ne vado contento, perché so che essa non morrà, ma anzi diventerà più grande, perché aumentata dalla sua, alla quale certo è presente lo Spirito di Dio».
   «Ma che dici, Gamaliele?».
   «La verità. Non è chiudendosi gli occhi che si può ignorare ciò che noi siamo. Noi non siamo più sapienti, perché principio della sapienza è il timor di Dio, e noi siamo peccatori senza timore di Dio. Se avessimo questo timore, non conculcheremmo il giusto e non avremmo la stolta ingordigia per le ricchezze del mondo. Dio dà e Dio toglie. A seconda dei meriti e dei demeriti. E se Dio ora ci leva ciò che ci aveva dato, per darlo ad altri, sia benedetto, perché santo è il Signore e sante sono tutte le sue azioni».
   «Ma noi parlavamo di miracoli e volevamo dire che nessuno di noi li può fare perché con noi non è Satana».
   «No. Perché con noi non è Dio. Mosè separò le acque e aprì la rupe, Giosuè fermò il sole, Elia risuscitò il fanciullo e fece cadere la pioggia, ma con essi era Dio. Vi ricordo che sei sono le cose che Dio odia, ed esecra la settima: gli occhi superbi, la lingua bugiarda, le mani che spargono sangue innocente, il cuore che medita disegni malvagi, i piedi che corrono rapidi al male, il falso testimonio che dice menzogne e colui che mette discordie tra i fratelli. Noi facciamo tutte queste cose. Noi, dico. Ma voi solo le fate. Perché io me ne astengo dal gridare "Osanna" e dal gridare "Anatema". 

 9 Io attendo».
     «Il segno! Già! Tu attendi il segno! Ma quale segno attendi da un povero folle, se proprio vogliamo dargli tutti i perdoni?».
   Gamaliele alza le mani e, le braccia in avanti, gli occhi chiusi, il capo lievemente chinato, ieratico quanto mai, parla lentamente e con voce lontana: «Ho interrogato ansiosamente il Signore perché mi indicasse la verità, ed Egli mi ha illuminato le parole di Gesù figlio di Sirac. Queste: "Il Creatore di tutte le cose mi parlò e mi diede i suoi ordini, e Colui che mi creò riposò nel mio Tabernacolo e mi disse: 'Abita in Giacobbe, tuo retaggio sia in Israele, getta le tue radici tra i miei eletti'"… E ancora mi illuminò queste, e le ho riconosciute: "Venite a me, voi tutti che mi bramate, e saziatevi dei miei frutti, perché il mio spirito è più dolce del miele e il mio retaggio più del favo. Il ricordo di me durerà nelle generazioni dei secoli. Chi mi mangia avrà di me fame e chi beve di me avrà di me sete, e chi mi ascolta non avrà da arrossire e chi lavora per me non pecca, e chi mi illustra avrà la vita eterna". E la luce di Dio crebbe sul mio spirito mentre leggevano i miei occhi queste parole: "Tutte queste cose contiene il libro della Vita, il testamento dell'Altissimo, la dottrina della Verità… Dio promise a Davide di far nascere da lui il Re potentissimo, che deve stare assiso in eterno sul trono della gloria. Egli ridonda di sapienza come il Fison e il Tigri al tempo dei nuovi frutti, come l'Eufrate ridonda d'intelligenza e cresce come il Giordano al tempo della messe. Egli diffonde la sapienza come la luce… Egli per primo l'ha perfettamente conosciuta". Questo mi ha fatto illuminare Dio! Ma, ahi! che dico, che la Sapienza che è fra noi è troppo grande perché noi la si comprenda e si accolga ciò che è pensiero più vasto dei mari e consiglio più profondo del grande abisso. E noi lo sentiamo gridare: "Io come canale d'acque immense sgorgai dal Paradiso e dissi: 'Inaffierò il mio giardino', ed ecco il mio canale divenire fiume, e il fiume mare. Come l'aurora io irraggio a tutti la mia dottrina, e la farò conoscere ai più lontani. Penetrerò nelle parti più basse, getterò lo sguardo sui dormenti, illuminerò quelli che sperano nel Signore. E ancor spanderò la mia dottrina come profezia e la lascerò a quelli che cercano la sapienza, non cesserò d'annunziarla sino al secolo santo. Non ho lavorato per me soltanto, ma per tutti quelli che cercano la verità". Questo mi ha fatto leggere Jeovè, l'Altissimo», e riabbassa le braccia alzando il capo.
   «Ma allora per te è il Messia?! Dillo!».
   «Non è il Messia».
   «Non è? E allora cosa è per te? Demonio, no. Angelo, no. Messia, no…».
   «È colui che è».
   «Tu deliri! Dio è? Dio è per te, quel folle?».
   «È colui che è. Dio sa ciò che Egli è. Noi vediamo le sue opere. Dio vede anche i suoi pensieri. Ma non è il Messia, perché per noi Messia vuol dire Re. Egli non è, non sarà re. Ma è santo. E le sue opere sono da santo. E noi non possiamo alzare la mano sull'innocente, a meno di non commettere peccato. Io non sottoscriverò al peccato».
   «Ma con quelle parole tu quasi lo hai detto l'Atteso!».
   «L'ho detto. Finché durò la luce dell'Altissimo, io lo vidi tale. Poi… non tenendomi più la mano del Signore alto levato nella luce sua, io tornai uomo, l'uomo d'Israele, e le parole non furono più che parole alle quali l'uomo d'Israele, io, voi, quelli prima di noi e, Dio non lo permetta, quelli dopo di noi, danno il significato del loro, del nostro pensiero, non il significato che hanno nel Pensiero eterno che le ha dettate al suo servo».


 10«Noi parliamo, divaghiamo, perdiamo tempo. Ed il popolo intanto si agita», gracchia Canania.
   «Bene dici! Occorre decidere e fare per salvarsi e trion­fa­re».
   «Voi dite che Pilato non ci ha voluti ascoltare quando chiedevamo il suo aiuto contro il Nazareno. Ma se noi gli facessimo sapere… Avete detto prima che, se le milizie si esaltano, possono proclamarlo Cesare… Eh! Eh! Buona idea! Andiamo a prospettare al Proconsole questo pericolo. Avremo onori come a fedeli servi di Roma e… se egli interverrà noi saremo sbarazzati del Rabbi. Andiamo, andiamo! Tu, Eleazaro di Anna, che gli sei più di tutti amico, sii nostro duce», ride serpentino Elchia.
   Vi è un poco di titubanza, ma poi un gruppo dei più fanatici esce per recarsi all'Antonia. Resta Caifa insieme agli altri.
   «A quest'ora! Non saranno ricevuti», obbietta uno.
   «No, anzi! È la migliore. Ponzio è sempre di buon umore quan­do ha bevuto e mangiato come beve e mangia un pagano…».


 11Li lascio là a discutere e mi si illumina la scena dell'Antonia.
   Il breve tragitto è presto fatto e senza difficoltà, tanto è limpida la luna che fa gran contrasto con la luce rossa dei lumi accesi nel vestibolo del palazzo pretorio.
   Eleazaro riesce a farsi annunciare a Pilato, e vengono fatti passare in una sala grande e vuota. Assolutamente vuota. Vi è soltanto una sedia pesante, bassa di spalliera, coperta di un drappo porpureo, che spicca vivamente nel candore assoluto della sala. Stanno raggruppati, un poco timorosi, infreddoliti, ritti sul marmo candido del pavimento. Non viene nessuno. Il silenzio è assoluto. Però, a intervalli, una musica lontana rompe questo silenzio.
   «Pilato è a mensa. Certo è con amici. Questa musica è suonata nel triclinio. Ci saranno danze in onore degli ospiti», dice Eleazaro di Anna.
   «Corrotti! Domani mi purificherò. La lussuria trasuda da queste pareti», dice con ribrezzo Elchia.
   «Perché ci sei venuto, allora? Tu lo hai proposto», gli ribatte Eleazaro.
   «Per l'onore di Dio e il bene della Patria so fare qualsiasi sacrificio. E questo è grande! Mi ero purificato per aver avvicinato Lazzaro… e ora!… Giornata tremenda, oggi!…».
   Pilato non viene. Il tempo passa. Eleazaro, pratico del luogo, tenta le porte. Sono tutte chiuse. Lo spavento si impadronisce dei presenti. Paurose storie riaffiorano. Rimpiangono di essere venuti. Si sentono già perduti.

 12Finalmente ecco, nel lato opposto al loro, che sono presso la porta dalla quale sono entrati, e perciò presso l'unica sedia dell'ambiente, ecco aprirsi una porta ed entrare Pilato, candido nella sua veste come è candida la sala. Entra parlando con dei convitati. Ride. Si volge ad ordinare ad uno schiavo, che tiene sollevata la tenda oltre l'uscio, di gettare essenze in un braciere e di portare profumi e acque per le mani, che uno schiavo venga con specchio e pettini. Degli ebrei non si cura, come non ci fossero. Quelli si arrovellano, ma non osano gesti…
   Laggiù, intanto, vengono portati i bracieri, sparse le resine sui fuochi e versate acque profumate sulle mani romane. E uno schiavo, con mosse esperte, ravvia i capelli secondo la moda dei ricchi romani del tempo. E gli ebrei si arrovellano.
   I romani ridono fra loro e scherzano, guardando ogni tanto il gruppo che attende là in fondo, e uno parla a Pilato che non si è mai voltato a guardare; ma Pilato scrolla le spalle facendo un gesto annoiato e batte le mani per chiamare uno schiavo, al quale ordina a voce alta di portare dolciumi e di far entrare le danzatrici. Gli ebrei fremono d'ira e di scandalo. Pensare ad un Elchia costretto a vedere delle danzatrici! Il suo volto è un poema di sofferenza e di odio.
   Vengono gli schiavi coi dolciumi in coppe preziose, e dietro essi le danzatrici incoronate di fiori e appena coperte da tele così leggere da parere veli. Le carni bianchissime traspaiono dalle vesti leggere, tinte di rosa e di azzurro, quando esse passano davanti ai bracieri ardenti e ai molti lumi messi là in fondo. I romani ammirano la grazia dei corpi e delle movenze, e Pilato chiede ancora un passo di danza che gli è particolarmente piaciuto. Elchia — e i suoi compari lo imitano — si volge sdegnato contro al muro per non vedere le danzatrici trasvolare come farfalle fra un ondeggiare di vesti scomposte.
   Finita la breve danza, Pilato le congeda, mettendo in mano di ognuna la coppa colma di dolciumi, nella quale getta con noncuranza un bracciale. 


 13E finalmente si degna di voltarsi a guardare gli ebrei, e dice agli amici con voce annoiata: «E ora… dovrò dal sogno passare alla realtà… dalla poesia alla… ipocrisia… dalla grazia alle laide cose della vita. Miserie del­l'esser Proconsole!… Salve, amici, e abbiate compassione di me».
   Resta solo e lentamente si avvicina agli ebrei. Si siede, si osserva le mani ben curate e scopre qualche cosa che non va sotto un'unghia. Se ne occupa e preoccupa traendo fuor dalla veste un sottile e aureo bastoncino, col quale rimedia al gran danno di un'unghia imperfetta…
   Poi, bontà sua, gira il capo lentamente. Sogghigna vedendo gli ebrei ancora curvi in un inchino servile, e dice: «Voi! Qui! E siate brevi. Non ho tempo da sciupare in cose senza valore».
   Gli ebrei si avvicinano sempre servili nell'atto, finché un: «Basta! Non troppo vicini» li inchioda al suolo. «Parlate! E state diritti, ché solo degli animali è stare piegati verso il suolo», e ride. Gli ebrei si raddrizzano sotto lo scherno e stanno impettiti.
   «Dunque? Parlate! Avete voluto venire per forza. Ora che siete qui, parlate».
   «Volevamo dirti… Ci risulta… Noi siamo servi fedeli di Roma…».
   «Ah! Ah! Ah! Servi fedeli di Roma! Lo farò sapere al divo Cesare e ne sarà felice! Felice sarà! Parlate, buffoni! E svelti!».
   I sinedristi fremono, ma non reagiscono. 


14Elchia prende la parola per tutti: «Devi sapere, o Ponzio, che oggi in Betania è stato risuscitato un uomo…».
   «Lo so. Per dirmi questo siete venuti? Lo sapevo già da molte ore. Felice lui, che già sa cosa è il morire e cosa è l'altro mondo! E che ci posso fare se Lazzaro di Teofilo è risorto? Forse mi ha portato un messaggio dall'Ade?». È ironico.
   «No. Ma la sua risurrezione è un pericolo…».
   «Per lui? Certo! Pericolo di dover morire di nuovo. Operazione poco gradevole. Ebbene? Che ci posso fare? Sono Giove io?».
   «Pericolo non per Lazzaro. Ma per Cesare».
   «Per?… Domine! Ma forse ho bevuto! Avete detto: per Cesare? E che può nuocere Lazzaro a Cesare? Forse temete che il puzzo del suo sepolcro possa corrompere l'aria che respira l'Imperatore? Datevi pace! Troppo lontano!».
   «Non questo. È che Lazzaro risorgendo può far detronizzare l'Imperatore».
   «Detronizzare? Ah! Ah! Ah! Questa è più grande del mondo! Ma allora l'ebbro non sono io, ma voi siete ebbri. Forse lo spavento vi ha sconvolto la mente. Vedere risorgere… Credo, credo che possa turbare. Andate, andate a letto. Un buon riposo. E un bagno caldo. Molto caldo. Salutare contro i deliri».
   «Non deliriamo, Ponzio. Ti diciamo che, se non provvedi, tu passerai ore tristi. Sarai punito certo, se anche non sarai ucciso dall'usurpatore. Fra poco il Nazareno sarà proclamato re, re del mondo, capisci? I tuoi legionari stessi lo faranno. Essi sono sedotti dal Nazareno, e il fatto di oggi li ha esaltati. Che servo sei di Roma se non ti preoccupi della sua pace? Vuoi dunque vedere l'Impero sconvolto e diviso in causa della tua inerzia? Vuoi vedere vinta Roma e abbattute le insegne, ucciso l'Imperatore, tutto distrutto…».
   «Silenzio! Parlo io. E vi dico: siete dei pazzi! Più ancora. Siete dei mentitori. Dei malandrini siete. Meritereste la morte. Uscite di qui, laidi servi del vostro interesse, del vostro odio, della vostra bassezza. Servi voi. Non io. Io sono cittadino romano, e i cittadini romani non sono servi a nessuno. Io sono il funzionario imperiale e lavoro per le patrie fortune. Voi… siete i soggetti. Voi… voi siete i dominati. Voi… voi siete i galeotti legati alle bancate e fremete inutilmente. La sferza del capo vi sta sopra. Il Nazareno!… Vorreste che io uccidessi il Nazareno? Vorreste che lo imprigionassi? Per Giove! Se per la salute di Roma e del divo Imperatore io dovessi imprigionare i soggetti pericolosi, o ucciderli qui dove io governo, il Nazareno e i suoi seguaci, solo essi, dovrei lasciare liberi e vivi. Andate. Sgombrate e non tornatemi mai più davanti. Turbolenti! Sobillatori! Ladri e manutengoli di ladri! Non uno dei vostri armeggii mi è ignoto. Sappiatelo. E sappiate anche che armi fresche e legionari novelli hanno servito a scoprire le vostre trappole e i vostri strumenti. Strillate per le imposte romane. Ma quanto vi è costato Melchia di Galaad, e Giona di Scitopoli, e Filippo di Soco, e Giovanni di Betaven e Giuseppe di Ramaot, e tutti gli altri che presto saranno presi? E non andate verso le grotte della valle, perché vi sono più legionari che pietre, e la legge e la galera sono uguali per tutti. Per tutti! Capite? Per tutti. E spero di vivere tanto da vedervi tutti in catene, schiavi fra schiavi sotto il tallone di Roma. Uscite! Andate e riferite — anche tu, Eleazar di Anna, che non desidero vedere più nella mia casa — che il tempo della clemenza è finito, e che io sono il Proconsole e voi i sudditi. I sudditi. E io comando. In nome di Roma. Uscite! Serpi notturne! Vampiri! E il Nazareno vi vuole redimere? Se Egli fosse Dio, fulminarvi dovrebbe! E dal mondo sarebbe sparita la macchia più schifosa. Via! E non osate fare congiure, o conoscerete il gladio e il flagello».
   Si alza e se ne va sbatacchiando la porta davanti agli allibiti sinedristi, che non hanno tempo di rinvenire, perché entra un drappello armato che li caccia fuori dalla sala e dal palazzo come tanti cani.


 15Ritornano all'aula del Sinedrio. Raccontano. L'agitazione è somma. La notizia dell'arresto di molti ladroni e delle battute nelle grotte per prendere gli altri turba fortemente tutti i rimasti. Perché molti, stanchi di attesa, se ne sono andati.
   «Eppure non possiamo lasciarlo vivere», urlano dei sacerdoti.
   «Non possiamo lasciarlo fare. Egli fa. Noi non facciamo. E giorno per giorno perdiamo terreno. Se lo lasciamo libero ancora, Egli continuerà a fare miracoli e tutti crederanno in Lui. E i romani finiranno a venirci contro e a distruggerci del tutto. Ponzio dice così. Ma se la folla lo acclamasse re, oh! allora Ponzio ha il dovere di punirci, tutti. Non lo dobbiamo permettere», strilla Sadoc.
   «Va bene. Ma come? La via… legale romana è fallita. Ponzio è sicuro sul Nazareno. La via… legale nostra è… resa impossibile. Egli non pecca…», obbietta uno.
   «Si inventa la colpa, se colpa non c'è», insinua Caifa.
   «Ma è peccato fare questo! Giurare il falso! Far condannare un innocente! È… troppo!…», dicono con orrore i più. «È un delitto, perché sarà la morte per Lui».
   «Ebbene? Ciò vi spaventa? Siete degli stolti e non vi intendete di nulla. Dopo ciò che è avvenuto, Gesù deve morire. Non riflettete voi tutti che è meglio per noi che muoia un uomo anziché molti uomini? Perciò Egli muoia per salvare il suo popolo, onde non perisca tutta la nostra nazione. Del resto… Egli lo dice di essere il Salvatore. Perciò si sacrifichi per salvare tutti», dice Caifa ributtante di odio freddo e astuto.
   «Ma Caifa! Rifletti! Egli…».
 «Ho detto. Lo Spirito del Signore è su me, Sommo Sacerdote. Guai a chi non rispetta il Pontefice d'Israele. Le folgori di Dio su lui! Basta di attesa! Basta di orgasmi! Ordino e decreto che chiunque sappia dove si trova il Nazareno venga e ne denunci il luogo, e anatema su chi non ubbidirà alla mia parola».
   «Ma Anna…», obbiettano alcuni.
   «Anna mi ha detto: "Tutto ciò che farai sarà santo". Leviamo la seduta. Venerdì, fra terza e sesta, tutti qui per deliberare. Tutti, ho detto. Fatelo sapere agli assenti. E siano chiamati tutti i capi delle famiglie e delle classi, tutto il fior di Israele. Il Sinedrio ha parlato. Andate».
   E si ritira per il primo da dove è venuto, mentre gli altri se ne vanno da altre parti, e parlando a voce sommessa escono dal Tempio andando alle loro case.

AMDG et DVM