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martedì 29 ottobre 2019

Violenza e scene inaudite

“L’orrore in chat non ha confini”

A In Terris il Colonnello Stefano Di Pace racconta i risvolti investigativi e umani di “Shoah party”

GIACOMO GALEAZZI
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n tutta Italia sono circolate foto "di una violenza inaudita, con scene di brutalità inenarrabile". Alcuni ragazzini italiani si scambiavano video a luci rosse, immagini pedopornografiche, scritte inneggianti a Adolf Hitler, Benito Mussolini, all'Isis e postavano frasi choc contro migranti ed ebrei. Nella chat "The Shoah Party", disattivata dopo l'inchiesta dei carabinieri di Siena, sono stati trovati centinaia di filmati definiti "orribili" dagli investigatori che li hanno visionati "con ribrezzo". Numerosi i video che mostravano gli sgozzamenti dei terroristi dell'Isis. Tante anche le immagini di abusi sessuali su bambini e bambine: gli utenti minorenni del gruppo si sono scambiati anche un filmato in cui un uomo seviziava una neonata di nemmeno un anno. In un altro video  una bambina di 11 anni viene costretta brutalmente a fare sesso con due ragazzini, forse di poco più grandi di lei. La piccola, come mostrano le inquadrature, in quel momento ride. I commenti dei baby utenti della chat si sprecano e sono insultanti: "Sei solo una p…".  Giravano pure video di sevizie su galline e altri animali, con l'invito "a provarci anche noi". Numerose anche le foto di ragazzine nude e le scritte inneggianti al sesso tra minorenni, magari consumando droghe, e non solo gli spinelli. Il più “anziano” del gruppo ha compiuto da poco 19 anni, il più giovane ne ha 15. A

Mare magnum

A far parte della chat vi erano anche 6 ragazzi, poco più che bambini, tutti di età inferiore ai 14 anni, quasi tutti 13enni, e, per questo, ritenuti dalla legge non imputabili. Il Comandante Provinciale dei carabinieri di Siena, il Colonnello Stefano Di Pace lo definisce un “mare magnum”. E aggiunge a In Terris “non mi stupisce il fatto che il gruppo abbia ramificazioni in tutta Italia. Gli amministratori del gruppo sono di Torino, i 31 indagati hanno una provenienza diversa sul territorio nazionale, vivono in regioni tra loro lontane e in più ci sono 6 13enni non imputabili per ragioni d’età”. Oggi, precisa, “la socialità non è più riferita al luogo in cui si abita, bensì al modo nel quale si utilizzano i social network e il web”. Tra gli indagati esiste una “vicinanza virtuale, non fisica”. Si tratta di ragazzi che “avevano tutto il giorno lo smartphone in mano e che si erano fatti attirare in questa chat dai contenuti aberranti cliccando su un link trovato su Instagram, da lì sono entrati nel gruppo”. il Colonnello Stefano Di Pace richiama l’attenzione su un aspetto etico in particolare: “Dobbiamo chiederci come mai non si riesca a distinguere tra il lecito e l’illecito”. E’ ciò che “desta più allarme”. In questo caso, poi, “non c’è stata particolare negligenza nell’attività di controllo da parte dei genitori”, tanto più che “i telefonini sono sempre più sofisticati ed è sempre più semplice nascondere o rendere inaccessibile a occhi esterni quello che si fa con lo smartphone”.

Situazioni familiari difficili

Tra gli indagati, comunque, “ci sono situazioni delicate a livello famigliare e ragazzi non adeguatamente seguiti dagli adulti”. Questa, sottolinea il Colonnello Stefano di Pace, era “una chat seguita da oltre 300 persone, con una presenza media di 30-40 utenti al giorno, quindi significa che la maggioranza dei giovani sono usciti quando hanno visto il contenuto orripilante del gruppo”. Resta da accertare “se sono usciti spontaneamente o per intervento dei genitori”. Ciò si può scoprire “dai tempi di permanenza in chat: se si entra e si esce subito è una decisione autonoma, se si entra nel gruppo e se ne esce dopo due, tre giorni di permanenza è probabile che ciò sia accaduto su impulso di un adulto”. In particolare “i quattro ragazzi indagati nel contesto senese sono usciti dalla chat dopo un’azione perentoria da parte dei loro genitori”. La madre che ha sporto denuncia dopo aver visto quell’orrore lo ha fatto “come atto civico, di valenza sociale”, mentre “altri genitori si sono limitati a imporre ai figli di uscire dalla chat”. Per chi indaga “lo sconcerto umano non è attenuato dalla consapevolezza professionale”. Precisa il Colonnello Stefano di Pace: “Non ci può mai abituare a una mostruosità simile, anzi provare sgomento serve a non darsi mai per vinti”.  E "se non fosse stato per quella denuncia di quella madre a gennaio l'indagine non sarebbe partita né a Siena né altrove”, perché “un gruppo WhatsApp non conosce confini e quell'espressione degradante di malcostume ha interessato molte regioni d'Italia. Moltissimi ragazzini hanno potuto osservare le immagini di pedopornografia, di enorme violenza, di apologia del nazismo e dell'islamismo radicale che vi erano contenute".

L’informativa di reato

Tanti ragazzini dai 13 ai 17 anni sono rimasti invischiati più o meno consapevolmente in questa triste vicenda di pedopornografia; altri, dopo essere entrati in quello spazio ospitato dal noto social network ne sono subito usciti. "Ma nessuno di loro risulta aver denunciato la cosa", precisa il Colonnello. Autorizzati dai pubblici ministeri, i militari si sono introdotti all'interno del gruppo social, riuscendo a convincere gli amministratori della loro affidabilità con un giochetto da hacker. Dopo oltre cinque mesi di indagini si è poi risaliti agli amministratori del gruppo, quelli che lo hanno creato e alimentato, minorenni e maggiorenni, tutti residenti nella zona di Rivoli, le immagini e i video postati sono stati attribuiti singolarmente alla responsabilità di qualcuno di loro e alla fine ne è venuta fuori una documentata informativa di reato che è finita sul tavolo dei magistrati. A questo punto i magistrati hanno ritenuto necessario interrompere da subito "l'attività delittuosa" dei ragazzini. I carabinieri avevano ricostruito tutto, ma maggiori elementi potevano emergere solo dalle perquisizioni. Sono stati così emessi 25 decreti di perquisizione a carico degli indagati, che hanno permesso di bloccare la diffusione progressiva dei partecipanti al gruppo.

Segreto inconfessabile

Un insieme di minorenni che non si conoscevano tra di loro ma che condividevano l'inconfessabile segreto di provar gusto in maniera più o meno consapevole nell'osservare quelle immagini di orribili violenze. Nel corso delle perquisizioni sono stati sequestrati decine di telefonini e computer, che verranno affidati ad un consulente tecnico d'ufficio che ne farà delle copie forensi, riproduzioni attendibili dei contenuti spesso indescrivibili delle chat, necessarie per la promozione delle accuse in occasione del processo. Le indagini sulla creazione e la diffusione della chat "The Shoah Party" su WhatsApp vanno avanti, anche per capire se ci sono stati altri utenti del gruppo finora sfuggiti all'individuazione. Insieme all'approfondimento dei profili penali, la procura per i minori del Tribunale di Firenze, diretta dal procuratore capo Antonio Sangermano, aprirà un'inchiesta per valutare la idoneità dei contesti familiari, nell'ambito di un'indagine socio-familiare, come previsto dalla legge, visto che i ragazzi sono indagati per reati come la pedornografia e l'istigazione al razzismo. Saranno sentiti pertanto anche i genitori come testimoni. 

Allarme sociale

Alla fine degli accertamenti, sarà valutata anche la capacità dei genitori nell'esercizio della potestà genitoriale nei confronti dei figli indagati e in quel caso potrebbe essere avviato un percorso con gli assistenti sociali. “Il caso della chat di WhatsApp sulla quale un gruppo di ragazzi tra i 15 e i 19 anni scambiavano e diffondevano contenuti pedopornografici e razzisti riaccende i riflettori sui fenomeni di bullismo, cyberbullismo, violenza e abusi sui minori- osserva la presidente della commissione bicamerale per l'Infanzia e l'adolescenza e vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli-. Una storia che fa inorridire e che conferma la necessità di interventi normativi ad hoc che coinvolgano innanzitutto gli operatori del web nella salvaguardia dei minori, attraverso l’installazione di filtri e blocchi sui dispositivi informatici fissi e mobili, come previsto dal disegno di legge in materia a mia prima firma. La senatrice Ronzulli si appella ai ministri dell’Istruzione, dell’Innovazione, della Giustizia e della Famiglia perché “si attivino per un’azione sinergica finalizzata a contrastare con forza e determinazione questi fenomeni: servono risorse che il Governo ha il dovere di reperire prontamente, soprattutto per intervenire sul fronte della prevenzione che, per essere efficace, deve partire dalla cooperazione tra scuola e famiglie, oltre che da iniziative di sensibilizzazione, di formazione e da campagne informative che coinvolgano tutte quelle figure che a vario titolo sono responsabili dell’incolumità dei minori”. Quindi “bisogna intervenire subito, perché casi come quello emerso ora dimostrano che si è decisamente passato il segno. Non c’è più tempo da perdere”.