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giovedì 24 ottobre 2013

Commovente storia delle Apparizioni di Nostra Signora di COROMOTO. VENEZUELA.


La Storia

Nostra Signora di Coromoto è una Parrocchia unica nel suo genere perché il suo nome non indica un luogo bensì una persona a cui è apparsa la Madonna nel 1652. Si trattava di un capo indio di nome Coromoto che viveva in Venezuela, nei pressi di Guanare. Questa è la sua storia.

Poco dopo la fondazione della città di Guanare da parte di un capitano spagnolo (1591), si pose il problema di convincere gli indios, abituati a vivere in libertà, ad uscire dalla foresta e a coltivare la terra ma c’era una tribù, i Cospes, che dell’uomo bianco non ne voleva proprio sapere e preferì nascondersi tra le montagne. Di essi per vari decenni non si sentì più parlare, finchè al principio del 1652 (2 febbraio?) accadde qualcosa.

Il capo tribù, il cacicco chiamato Coromoto, un giorno camminava lungo il rio Guanare con la moglie, quando sulle acque apparve una bellissima signora, che teneva in braccio un bambino radioso di luce. Coromoto e la moglie rimasero come paralizzati dalla visione, ma la signora sorridendo li rassicurò rivolgendosi a essi nella loro stessa lingua. “Esci dal bosco”, disse a Coromoto, “e va nel posto dove abitano i bianchi per ricevere l’acqua sulla testa e poter così andare in cielo”. Queste parole furono pronunciate da Maria con tanta soavità e dolcezza che Coromoto si convinse immediatamente.




Quando poi l’estate seguente passò da quelle parti un coltivatore spagnolo, tale Juan Sanchez, l’indio gli si parò davanti per raccontargli quanto la bella Signora gli aveva ordinato un anno prima, aggiungendo che tutta la sua tribù desiderava ricevere l’acqua sulla testa. Dopo alcune lezioni di catechismo, gli indios furono battezzati, tutti tranne il cacicco, che rimpiangeva la vita della foresta e per amor di libertà non voleva legacci di sorta. A un capo indio, pensava, non si addiceva l’obbedienza all’uomo bianco, neanche davanti all’evidenza dell’apparizione cui aveva assistito.

La sera dell’8 settembre 1652, era un sabato, gli indios neoconvertiti erano tutti riuniti per pregare la S. Vergine. Lo spagnolo Juan Sanchez aveva invitato pure Coromoto, ma il capo indio, sdegnato, era andato a chiudersi nella sua capanna di paglia.Qui lo raggiunsero la moglie, la cognata e il figlioletto di quest’ultima, un piccolo indio di dodici anni. Erano passati solo pochi minuti quando l’umile capanna fu illuminata a giorno: all’ingresso c’era ancora quella Signora bellissima, che appariva luminosa come i raggi del sole a mezzogiorno. 

Coromoto credette che lei fosse venuta per impedirgli di tornare nella sua amata foresta e dentro di sé sentì crescere il disappunto. “Fino a quando mi perseguiterai?”, gridò. “Te ne puoi anche andare”, aggiunse, “perché io non farò mai quello che mi ordini!”. La moglie, vergognandosi di tanta mancanza di rispetto, lo ammonì: “Non parlare in questo modo alla bella Signora!”. Ma il cacicco, ormai in preda alla rabbia, afferrò il suo arco urlando: “Lascia che ti ammazzi!”. A questo punto la bella Signora, che finora era rimasta sulla soglia, entrò nella capanna. 

Il capo indio allora le si lanciò addosso, cercando di afferrarle il collo per strozzarla. Ma in quello stesso istante la visione celeste sparì e la capanna ripiombò nell’oscurità. L’apparizione era svanita, eppure Coromoto era sicuro di stringere qualcosa dentro il pugno. “L’ho presa!”, gridò alle due donne attonite. “La tengo qui nella mano!”. “Faccela vedere”, dissero queste. Il capo indio aprì allora le dita e la capanna fu di nuovo illuminata a giorno. La luce proveniva da un piccolo pezzo di pergamena su cui era impressa una immagine della Madonna col Bambino. Era grande non più di una moneta. Coromoto l’avvolse in una foglia e la nascose fra la paglia del letto. 

Il bambino indio di 12 anni, suo nipote, ebbe paura che lo zio volesse distruggere quella piccola pergamena e corse fuori della capanna fino alla casa di Juan Sanchez per raccontargli l’accaduto. Così lo spagnolo salvò l’immagine miracolosa.

Intanto però il cacicco aveva deciso di prendere la via dei monti, lontano dai bianchi e al sicuro, lui pensava, dalla bella Signora. Ma non riuscì ad allontanarsi dal villaggio: appena entrato nella foresta venne morso da un serpente velenoso. Era un castigo del cielo? Il capo indio lo interpretò come tale, e vedendosi ferito a morte decise finalmente di battezzarsi. Passava di lì per caso un creolo di Barinas, che – come è consentito a ogni cristiano in casi di estrema necessità – gli amministrò il battesimo. Coromoto entrò in agonia e morì di lì a poco, dopo aver raccomandato a tutti i suoi indios di rimanere con i bianchi.










L’immagine miracolosa della Vergine restò per più di un anno in casa di Juan Sanchez, finchè il primo febbraio 1654 fu trasferita con una solenne processione fino alla città di San Giovanni dello Spirito Santo di Guana Guanare. Lì è rimasta fino al 1949, quando è stata riportata sul luogo dell’apparizione, e dal 1985 si trova nella base di legno della statua della Madonna destinata al nuovo Santuario. È una pergamena in miniatura, grande 27 millimetri per 22, racchiusa dentro un ovale d’oro, e non dipinta da mani umane. Ho avuto la gioia di vederla con i miei occhi. Ultimamente però la reliquia fu trafugata.
Papa Pio XII, nel 1950, dichiarò Nostra Signora del Coromoto patrona del Venezuela. Il Papa Beato Giovanni Paolo II incoronò la statua nella sua visita al santuario mariano di Guanare e papa Benedetto XVI elevò il santuario nazionale di Nostra Signora di Coromoto al rango di basilica minore. 



lunedì 17 giugno 2013

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Benedetto XVI: il contenuto del nostro grande «sì», si esprime nei dieci Comandamenti, che non sono un pacco di proibizioni, di «no», ma presentano in realtà una grande visione di vita. Sono un «sì» a un Dio che dà senso al vivere (i tre primi comandamenti); «sì» alla famiglia (quarto comandamento); «sì» alla vita (quinto comandamento); «sì» all'amore responsabile (sesto comandamento); «sì» alla solidarietà, alla responsabilità sociale, alla giustizia (settimo comandamento); «sì» alla verità (ottavo comandamento), «sì» al rispetto dell’altro e di ciò che gli è proprio (nono e decimo comandamento)



SANTA MESSA NELLA CAPPELLA SISTINA E AMMINISTRAZIONE DEL SACRAMENTO DEL BATTESIMO

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Cari genitori, padrini e madrine,
Cari fratelli e sorelle!



Che cosa succede nel Battesimo? Che cosa ci si aspetta dal Battesimo? Voi avete dato una risposta sulla soglia di questa Cappella: aspettiamo per i nostri bambini la vita eterna. Questo è lo scopo del Battesimo. Ma, come può essere realizzato? Come il Battesimo può dare la vita eterna? Che cosa è la vita eterna?


Si potrebbe dire con parole più semplici: aspettiamo per questi nostri bambini una vita buona; la vera vita; la felicità anche in un futuro ancora sconosciuto. Noi non siamo in grado di assicurare questo dono per tutto l'arco del futuro sconosciuto e, perciò, ci rivolgiamo al Signore per ottenere da Lui questo dono.


Alla domanda: «Come accadrà questo?» possiamo dare due risposte. La prima: nel Battesimo ciascun bambino viene inserito in una compagnia di amici che non lo abbandonerà mai nella vita e nella morte, perché questa compagnia di amici è la famiglia di Dio, che porta in sé la promessa dell'eternità. Questa compagnia di amici, questa famiglia di Dio, nella quale adesso il bambino viene inserito, lo accompagnerà sempre anche nei giorni della sofferenza, nelle notti oscure della vita; gli darà consolazione, conforto, luce. Questa compagnia, questa famiglia gli darà parole di vita eterna. Parole di luce che rispondono alle grandi sfide della vita e danno l'indicazione giusta circa la strada da prendere. Questa compagnia offre al bambino consolazione e conforto, l'amore di Dio anche sulla soglia della morte, nella valle oscura della morte. Gli darà amicizia, gli darà vita. E questa compagnia, assolutamente affidabile, non scomparirà mai. 
Nessuno di noi sa che cosa succederà nel nostro pianeta, nella nostra Europa, nei prossimi cinquanta, sessanta, settanta anni. Ma, su un punto siamo sicuri: la famiglia di Dio sarà sempre presente e chi appartiene a questa famiglia non sarà mai solo, avrà sempre l'amicizia sicura di Colui che è la vita.



E così siamo arrivati alla seconda risposta. Questa famiglia di Dio, questa compagnia di amici è eterna, perché è comunione con Colui che ha vinto la morte, che ha in mano le chiavi della vita. Essere nella compagnia, nella famiglia di Dio, significa essere in comunione con Cristo, che è vita e dà amore eterno oltre la morte. E se possiamo dire che amore e verità sono fonte di vita, sono la vita - e una vita senza amore non è vita - possiamo dire che questa compagnia con Colui che è vita realmente, con Colui che è il Sacramento della vita, risponderà alla vostra aspettativa, alla vostra speranza.





Sì, il Battesimo inserisce nella comunione con Cristo e così dà vita, la vita. Abbiamo così interpretato il primo dialogo che abbiamo avuto qui, sulla soglia della Cappella Sistina. Adesso, dopo la benedizione dell'acqua, seguirà un secondo dialogo di grande importanza. Il contenuto è questo: il Battesimo — come abbiamo visto — è un dono; il dono della vita. Ma un dono deve essere accolto, deve essere vissuto. Un dono di amicizia implica un «sì» all'amico e implica un «no» a quanto non è compatibile con questa amicizia, a quanto è incompatibile con la vita della famiglia di Dio, con la vita vera in Cristo. E così, in questo secondo dialogo, vengono pronunciati tre «no» e tre «sì». Si dice «no» e si rinuncia alle tentazioni, al peccato, al diavolo. Queste cose le conosciamo bene, ma forse proprio perché le abbiamo sentite troppe volte, queste parole non ci dicono tanto. Allora dobbiamo un po' approfondire i contenuti di questi «no». A che cosa diciamo «no»?. Solo così possiamo capire a che cosa vogliamo dire «sì».


Nella Chiesa antica questi «no» erano riassunti in una parola che per gli uomini di quel tempo era ben comprensibile: si rinuncia — così si diceva — alla «pompa diabuli», cioè alla promessa di vita in abbondanza, di quell'apparenza di vita che sembrava venire dal mondo pagano, dalle sue libertà, dal suo modo di vivere solo secondo ciò che piaceva. 


Era quindi un «no» ad una cultura apparentemente di abbondanza di vita, ma che in realtà era una «anticultura» della morte. Era il «no» a quegli spettacoli dove  la morte, la crudeltà, la violenza erano diventati divertimento. Pensiamo a quanto si realizzava nel Colosseo o qui, nei giardini  di Nerone, dove gli uomini erano accesi come torce viventi. La crudeltà e la violenza erano divenuti un motivo di divertimento, una vera perversione della gioia, del vero senso della vita. Questa «pompa diabuli», questa «anticultura» della morte era una perversione della gioia, era amore della menzogna, della truffa, era abuso del corpo come merce e come commercio.


E se adesso riflettiamo, possiamo dire che anche nel nostro tempo è necessario dire un «no» alla cultura ampiamente dominante della morte. Un’«anticultura» che si manifesta, per esempio, nella droga, nella fuga dal reale verso l’illusorio, verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro, della solidarietà, della responsabilità per i poveri e per i sofferenti; che si esprime in una sessualità che diventa puro  divertimento senza responsabilità, che diventa una «cosificazione» - per così dire - dell’uomo, che non è più considerato persona, degno di un amore personale che esige fedeltà, ma  diventa merce, un mero oggetto. A questa promessa di apparente felicità, a questa «pompa» di una vita apparente che in realtà è solo strumento di morte, a questa «anticultura» diciamo «no», per coltivare la cultura della vita. Per questo il «sì» cristiano, dai tempi antichi fino ad oggi, è un grande «sì» alla vita. Questo è il nostro «sì» a Cristo, il «sì» al vincitore della morte e il «sì» alla vita nel tempo e nell’eternità.


Come in questo dialogo battesimale il «no» è articolato in tre rinunce, così anche il «sì» è articolato in tre adesioni: «sì» al Dio vivente, cioè a un Dio creatore, ad una ragione creatrice che dà senso al cosmo e alla nostra vita; «sì» a Cristo, cioè a un Dio che non è rimasto nascosto ma che ha un nome, che ha parole, che ha corpo e sangue; a un Dio concreto che ci dà la vita e ci mostra la strada della vita; «sì» alla comunione della Chiesa, nella quale Cristo è il Dio vivente, che entra nel nostro tempo, entra nella nostra professione, entra nella vita di ogni giorno.


Potremmo anche dire che il volto di Dio, il contenuto di questa cultura della vita, il contenuto del nostro grande «sì», si esprime nei dieci Comandamenti, che non sono un pacco di proibizioni, di «no», ma presentano in realtà una grande visione di vita. Sono un «sì» a un Dio che dà senso al vivere (i tre primi comandamenti); «sì» alla famiglia (quarto comandamento); «sì» alla vita (quinto comandamento); «sì» all'amore responsabile (sesto comandamento); «sì» alla solidarietà, alla responsabilità sociale, alla giustizia (settimo comandamento); «sì» alla verità (ottavo comandamento), «sì» al rispetto dell’altro e di ciò che gli è proprio (nono e decimo comandamento). 



Questa è la filosofia della vita, è la cultura della vita, che diviene concreta e praticabile e bella nella comunione con Cristo, il Dio vivente, che cammina con noi nella compagnia dei suoi amici, nella grande famiglia della Chiesa. Il Battesimo è dono di vita. È un «sì» alla sfida di vivere veramente la vita, dicendo il «no» all'attacco della morte che si presenta con la maschera della vita; ed è «sì» al grande dono della vera vita, che si è fatta presente nel volto di Cristo, il quale si dona a noi nel Battesimo e poi nell'Eucaristia.


Questo ho detto come breve commento alle parole che nel dialogo battesimale interpretano quanto si realizza in questo Sacramento. Oltre alle parole, abbiamo i gesti ed i simboli, ma sarò molto breve nell'indicarli. Il primo gesto lo abbiamo già compiuto: è il segno della croce, che ci viene dato come scudo che deve proteggere questo bambino nella sua vita;  è come un «indicatore» per la strada della vita, perché la croce è il riassunto della vita di Gesù. Poi vi sono gli elementi: l'acqua, l'unzione con l'olio, il vestito bianco e la fiamma della candela. L'acqua è simbolo della vita: il Battesimo è vita nuova in Cristo. L'olio è simbolo della forza, della salute, della bellezza, perché realmente è bello vivere in comunione con Cristo. Poi il vestito bianco, come espressione della cultura della bellezza, della cultura della vita. Ed infine la fiamma della candela, come espressione della verità che  risplende nelle oscurità della storia e ci indica chi siamo, da dove veniamo e dove dobbiamo andare.


Cari padrini e madrine, cari genitori, cari fratelli, ringraziamo in questo giorno il Signore, perché Dio non si nasconde dietro le nuvole del mistero impenetrabile, ma, come ha detto il Vangelo di oggi, ha aperto i cieli, si è mostrato, parla con noi ed è con noi; vive con noi e ci guida nella nostra vita. Ringraziamo il Signore per questo dono e preghiamo per i nostri bambini, perché abbiano realmente la vita, quella vera, la vita eterna. Amen.

Cappella Sistina
Festa del Battesimo del Signore, 8 gennaio 2006


© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana


Vita dolcezza speranza nostra,
salve!

giovedì 30 maggio 2013

*Vangelo della Fede. Santa Petronilla e Santa Felicola.


4 marzo 1944.

Il martirio di S. Petronilla e S. Felicola.

Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera ardentissima che deve proprio
penetrare nei cieli. Una è più matura. Pare quasi sui trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute tutte e due. 
Poi si alzano e preparano un piccolo altare su cui dispongono lini preziosi e fiori.
Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto una borsa dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una Messa. Poi si riveste delle vesti sacerdotali e
inizia il Sacrificio.
Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello di Marco: “E gli presentarono dei bambini... chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo non c’entrerà”  Marco 10, 15; Luca 18, 17.
 Le due giovani, inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente.

Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a comunicare le due fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di ardore. 
Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo in profonda preghiera e
sembra restino così per pura devozione.
Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare collocato su una
pedana di legno - dopo la celebrazione del rito, che è uguale a quella di Paolo nel Tullianum . Solo qui il celebrante parla più piano, date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo  - una soltanto delle giovani si
muove. L’altra rimane prostrata come prima. La compagna la chiama e la scuote.
Si china anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la bocca respira a fatica.
Ma che beatitudine in quel viso!
La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso una finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano soccorrerla. Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accenna al cielo e non dice che due parole:
“Grazia... Gesù” e senza spasimi spira.

Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata alla colonna che ho visto
questa notte e che, per quanto molto più pallida e smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite che ora piange presso la
morta. E resto così, nella mia incertezza, per qualche ora.

Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente prima, ora ritta presso la
fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.

La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu insista, o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per la mia amica morta. 
Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla è morta, segno era che non
doveva essere tua sposa. Ma io neppure. Tante sono le fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le signore della tua casa. Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”.
“Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci di un pugno d’ebrei?”.
“Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre nozze”.
“E se io ti volessi?”.
“Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti, vorrai forzare la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai  seguire il mio desiderio avendo
per me la buona amicizia che io ho per te”.
“Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”.
“Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore, non è fuga di uno ad un
destino. Ella non s’è uccisa. È morta...”.
“Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi come a mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora nella mia casa e lasciare il culto demoniaco del tuo povero dio, anziché conoscere il rigore di Roma che non permette siano insultati i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice. Altrimenti...”.
“Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio Dio. Non posso adorare
gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di Dio ed io non la vendo per le gioie della tua casa”.
“È la tua ultima parola?”.
“L’ultima”.

 “Sai che il mio amore può mutarsi in odio?”
“Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come fratello e pregherò per il tuo bene”.
“Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata. Allora mi invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle dottrine stolte di cui ti nutri”.
“Comprenderò che il mondo, per non avere più dei Flacchi, ha bisogno di queste
dottrine. E farò il tuo bene pregando per te dal Regno del mio Dio”.
“Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il tuo Cristo se lo può”.

Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco sia né più né meno che
un segugio del Questore di Roma perché, quando la visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la giovane legata alla colonna, vedo che è un tribunale come quello in cui fu giudicata Agnese. Ben poche sono le differenze e che, anche qui, vi è un brutto ceffo che giudica e condanna, e che Flacco gli fa da aiutante e aizzatore.

Felicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo alla sala. Appare
sfinita di forze ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la luce l’abbacini, debole
come è e abituata ormai al buio carcere, si tiene eretta e sorride. Le solite
domande e le solite offerte seguite dalle solite risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che non sia il mio Signore Gesù Cristo”.

Viene condannata alla colonna.
Le strappano le vesti e nuda, alla presenza del popolo, la legano con le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per fare ciò le slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere atroce. E non basta, ma
torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono sul petto e sul ventre
nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire.
Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Felicola, con voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino, volete che io lo perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio amore compiuto. Dolci nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua! Sogno di tutta la mia vita!”.

Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per terra. Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate ai polsi dalla fune che ha fatto due
braccialetti di sangue vivo, pendono come morte. I piedi, pure lacerati ai malleoli sino a mostrare i nervi e i tendini, appaiono chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il volto è pieno di una felicità d’angelo.

Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio ride assorto in una visione
che l’estasia.
I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci, e a calci la spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser toccato, verso la predella del Questore.
“Ancor viva sei?”.
“Sì, per volontà del mio Signore”.
“Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?”
“Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni, Amore eterno!”.
“Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”.
I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle membra spezzate deve essere
atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue vesti, non per pudicizia ma per
impedirle di reggersi in acqua. Inutile cura! Con degli arti in quello stato, non si nuota. Solo la testa emerge dal viluppo delle vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un carnefice, pende come fosse già morta. Ma ella sorride alla luce delle fiaccole, perché ormai è sera.
Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi, la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle quali ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido.


Dice Gesù:

«Ti ho voluto far conoscere la mia martire Felicola per dare a te ed a tutti qualche insegnamento.
Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di Petronilla, compagna e maestra di Felicola di cui era molto più anziana, e il frutto di una santa
amicizia.

Petronilla, figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva parola del
mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori della sua evangelizzazione
romana.

Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma Colui che non mente gli
aveva fatto trovare in questa fanciulla - e in maniera sovrabbondante, colma,
premuta, secondo le mie promesse Luca 6, 38. - conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io
a Betania, egli in casa di Petronilla trovava aiuti, ospitalità e soprattutto amore. La donna è uguale, nel suo bene e nel suo male, sotto tutti i cieli e in
tutte le epoche. Petronilla fu la Maria (Maria di Magdala, sorella di Lazzaro e Marta di Betania) di Pietro, con in più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione angelica.


Maria, ascolta.
Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se stessa senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare questo amore, aveva pregato il
suo Dio di fare di lei una crocifissa. E Dio la esaudì. La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella lunga infermità sul terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia.
Ascolta ancora, Maria. Quando fu necessario, la sua malattia conobbe una sosta.
Per mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi, finito il momento, tornò a crocifiggerla.

Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo Maestro, come Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi, sii forte” e cessato il bisogno del Maestro non torni una povera inferma in perpetua agonia?
Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di Dio.

La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste ricordare. Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi. Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute, vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più ricordarvi che quella vita, rifiorita quando già la
carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla nel Bene.
Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbita  inutilmente la mia Dottrina. Essa
è come sale che preserva dal male, dalla
corruzione, è fiamma che scalda e
illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa sicuri.
Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo. Petronilla prega. Chiama Dio.
Vuol essere di Dio. Il mondo la vuole? Dio la difenda dal mondo.
Il Cristo l’ha detto: “Se avete tanta fede quanto un granello di senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati a va’ più in là’ ” (Matteo 17, 20; Marco 11, 23; Luca 17, 6).
 Pietro glie l’ha detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi.
Chiede a Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci. E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In un’estasi, Maria, prima che la prova la schiacci.
Ricordala questa cosa, piccola discepola mia 


(Maria Valtorta, della cui vita viene fatto qui un parallelo con quella di Petronilla, morì dopo un lungo periodo di smemorato isolamento, che per molti è rimasto misterioso).

Felicola era amica, più che amica figlia o sorella, data la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza santificarsi con chi è
santo. Come ci si guasta convivendo con chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo invece trascura i santi o li sevizia, e
segue i satana divenendo sempre più satana.

La fermezza e la dolcezza di Felicola l’hai vista. Che è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il Martire del Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita?
È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Felicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio che la vedono ilare in Cielo dietro l’Agnello
divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.

Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”, e pensa che anche per te ho suscitato un Nicomede 
(È il nome del presbìtero che recuperò il corpo della santa martire Felicola, le cui notizie storiche sembrano corrispondere al racconto sulla martire Felicola, qui presentato. Il “Nicomede” della scrittrice, suscitato per il suo recupero spirituale, è Padre Migliorini),
per salvare dalle acque delle passioni il tuo io che
volevo per Me, e per raccogliere quanto di te merita d’esser conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del bene all’anima dei fratelli.»



Felicola, santa, martire di Roma, la passio di Nereo e Achilleo la vuole sorella di latte di S. Petronilla. Sepolta al VII miglio della via Ardeatina, nel 1112 venne scoperta dal presbitero Benedetto e traslata a S. Lorenzo in Lucina. Il suo corpo qui ritrovato nel 1605 è conservato presso l’altare maggiore. Il primo rinvenimento dei resti avvenne, secondo la lapide del 1112, insieme alle spoglie del martire Gordiano.

[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
Antico Martirologio Romano, 13 giugno - A Roma, sulla via Ardeatina, il natale di santa Felicola, Vergine e Martire. Non volendo maritarsi a Flacco, ne sacrificare agli idoli, fu data in mano ad un Giudice, il quale, perseverando essa nella confessione di Cristo, dopo tenebroso carcere e lunga fame, tanto tempo la fece tormentare nell'eculeo, finchè essa non rese lo spirito, e così finalmente la fece deporre e gettare in una cloaca. Il suo corpo, estratto da san Nicomede Prete, fu sepolto sulla medesima via.

Martirologio Romano, 13 giugno: A Roma al settimo miglio della via Ardeatina, santa Felícola, martire

domenica 5 maggio 2013

E’ morta.


  • Un’anima che perde la grazia perde tutto. Per lei inutilmente il Padre l’ha creata, per lei inutilmente il Figlio l’ha redenta, per lei inutilmente lo Spirito Santo l’ha infusa dei suoi doni, per lei inutilmente sono i Sacramenti. E’ morta. (….)
    Se un’anima sapesse conservarsi come è dopo il Battesimo e dopo la Confermazione, ossia quando essa è imbibita letteralmente dalla grazia, quell’anima sarebbe di poco minore a Dio. 6/6/43
  • Non tutte le anime in grazia possiedono la grazia nella stessa misura, (…) perché in diversa maniera voi la sapete conservare in voi.
    Il peccato mortale distrugge la grazia, il peccato veniale la sgretola, le imperfezioni la anemizzano. 6/6/43
Sancta Maria, ora pro nobis!

martedì 1 gennaio 2013

*** Albulo




20 febbraio.
Albulo, Dacio, Illirico e altri 7.    

Non so come farò a scrivere tanto, perché sento che Gesù si vuole presentare col suo Evangelo vissuto ed io ho sofferto tutta la notte per ricordare la visione seguente, della quale ho scarabocchiato le parole udite, come potevo, per non dimenticarle.

Tempo di persecuzione, una delle più grandi persecuzioni perché i cristiani sono torturati in masse, non presi singolarmente. Il luogo è la cavea di un Circo (si chiamano così?). Insomma è un locale certo sito sotto le gradinate del Circo e adibito a ricovero dei gladiatori, bestiari ecc. ecc., di tutti gli addetti al
Circo, insomma. Premetto che dirò male i nomi perché sono 35 anni che non leggo nulla di storia romana e perciò...

In questo locale ampio, ma scuro - perché ha luce solo da una porta spalancata su un corridoio che certo porta all’interno del Circo, e forse all’esterno del
medesimo, e da una finestrella, direi una feritoia bassa, a livello del suolo del Circo, da cui vengono rumori di folla - sono ammassati molti e molti
cristiani di ogni età. Dai bambini di pochissimi anni, ancora fra le braccia delle madri - e due, per quanto sui due anni, ancora poppano all’esausta mammella materna - ai vecchi cadenti.

E vi sono anche dei gladiatori, già con l’elmo e quella relativa corazza che difende e non difende, perché lascia scoperte ancora parti vitali quale il giugulo e le parti dell’addome all’altezza e posizione del fegato e della milza.
Indossano questa parziale armatura sulla nuda pelle ed hanno in mano la corta elarga daga fatta quasi a foglia di castano. Sono bellissimi uomini, non tanto
per il volto quanto per il corpo robusto e armonico di cui noto ad ogni movimento il guizzare agile dei muscoli. Alcuni hanno cicatrici di vecchie ferite, altri non mostrano nessun segno di ferita. Parlano fra loro e rilevo che devono essere di paesi sottomessi a Roma, prigionieri di guerra certo, perché non usano che un latino molto bastardo e pronunciato con voce dura e gutturale, quando si rivolgono ai cristiani che in attesa della morte cantano i loro dolci e mesti inni.

Un gladiatore, alto quasi due metri - un vero colosso biondo come il miele e dai chiari occhi di un azzurro grigio, miti pur fra tanta ombra di ferro che riflette sul suo volto la visiera dell’elmo - si rivolge ad un vecchio tutto vestito di bianco, dignitoso, austero, più ancora: ascetico, che tutti i cristiani venerano col massimo rispetto.

“Padre bianco, se le bestie ti risparmiano io ti dovrò uccidere. Così è l’ordine. E me ne spiace perché in Pannonia ho lasciato un vecchio padre come te”.
“Non te ne dolere, figlio. Tu mi apri il Cielo. E da nessuno, nella mia lunga vita, avrò mai avuto dono più bello di quello che tu mi dài”.
“Anche nel Cielo, luogo dove certo è il tuo Dio come nel mio vi sono i nostri dèi ed in quello di Roma i loro, ancora è morte e lotta. Vuoi tu ancora soffrire
per odio di dèi come qui soffri?”.
“Il mio Dio non è che solo. Nel suo Cielo Egli regna con amore e giustizia. E chi là perviene non conosce che eterno gaudio”.
“L’ho udito dire da più e più cristiani durante questa persecuzione. E ho detto ad una fanciulla che mi sorrideva mentre calavo su lei la daga... e ho finto
d’ucciderla ma non l’ho uccisa per salvarla, perché era tenera e bionda come un’erica giovanetta dei miei boschi,... ma non m’è servito... Di qui non la potei portare fuori, e il giorno dopo... ai serpenti fu dato quel corpo di latte e rosa...”. L’uomo tace con aspetto mesto.

“Che le hai detto, figlio?” chiede il vecchio.
“Ho detto: ‘Lo vedi? Non sono cattivo. Ma è il mio mestiere. Sono schiavo di guerra. Se è vero che il tuo Dio è giusto digli che si ricordi di Albulo, mi chiamano così a Roma, e si faccia vedere col suo bene’. Mi ha detto: ‘Sì’. Ma è morta da giorni e nessuno è venuto”.
“Finché non sei cristiano, Dio non ti si mostra che nei suoi servi. E quanti di essi ti ha portato! Ogni cristiano è un servo di Dio, ogni martire un amico, tanto amico da vivere fra le braccia di Dio”.

“Oh! molti... e io, non solo io, anche Dacio e Illirico, e anche altri di noi, tristi nella nostra sorte, siamo stati presi dal vostro giubilo... e lo vorremmo. Voi siete in catene... noi no. Ma neppure il soffio ci è libero. Se
Cesare lo vuole, ecco ci incatenano l’alito dandoci morte. Ti fa ribrezzo parlarci di Dio?”.

“È l’unica mia gioia della terra, figlio, ed è ben grande. Ti benedica Gesù, mio Dio e Maestro, per essa. Sono prete, Albulo, ho consumato la vita nel predicarlo
e nel portare a Lui tante creature. E più non speravo di avere questa gioia. Odi...” e il vecchio, a lui e agli altri gladiatori assiepatisi intorno, ripete la vita di Gesù, dalla nascita alla morte di croce, e dice, schematicamente, le necessità essenziali della Fede. 
Parla seduto su un masso che fa da banchina,
pacato, solenne, tutto un candore nei capelli lunghi, nella barba mosaica, nella veste, tutto un ardore nello sguardo e nella parola. Si interrompe solo due volte per benedire due gruppi di cristiani tratti nell’arena per essere gettati, in giuochi nautici, in pasto ai coccodrilli. Poi riprende a parlare fra il cerchio dei robusti gladiatori, quasi tutti biondi e rosei, che l’ascoltano a bocca aperta.

Si chiama Crisostomo quel dottore della Chiesa. Ma che nome dare allora a questo che non si nomina?

Termina dicendo: “Questo l’essenziale da credere per avere il Battesimo e il Cielo”.
Le voci robuste dei gladiatori, una decina, fanno rimbombare la volta bassa:
“Lo crediamo. Dàcci il tuo Dio”.
“Non ho nulla per aspergervi, non una goccia d’acqua o altro liquido, e la mia ora è giunta. Ma troverete il modo... No! Dio me lo dice! Un liquido è pronto
per voi”.
“I cristiani ai leoni!” ordina il sorvegliante. “Tutti”.
Il vecchio prete in testa, dietro gli altri, fra cui le madri sul cui seno si sono addormentati i pargoli, entrano cantando nell’arena.

Che folla! che luce! che rumore! quanti colori! È gremita inverosimilmente di popolo d’ogni ceto. Nella parte che il sole invade vi è popolo più basso e
rumoroso, nella parte all’ombra vi è il patriziato. Toghe e toghe, ventagli di struzzo, gioielli, conversazioni ironiche e a voce più bassa. Al centro della parte all’ombra, il podio imperiale col suo baldacchino purpureo, la sua balaustra infiorata e coperta di drappi e i suoi sedili soffici per il riposo
del Cesare e dei patrizi e cortigiani suoi invitati. Due tripodi in oro fumano ai lati estremi della balconata e spargono essenze rare.

I cristiani vengono spinti verso la parte al sole.

Dimenticavo una cosa. Al centro dell’arena è un... non so come dirlo. È una costruzione in marmo da cui salgono al cielo zampilli sottili, impalpabili di acqua, e sulla piattaforma di questa costruzione, di un ovale allungato, alta un due metri scarsi dal suolo, sono statuette di dèi in oro, e tripodi, in cui ardono incensi, sono davanti ad esse.

I cristiani sono dunque ammassati dalla parte solare. Faccio uno schizzo come so [grafico]. I leoni irrompono dal punto X. II vecchio prete si avanza solo, per
primo, a braccia tese. Parla: 

“Romani, per i miei fratelli e per me pace e
benedizione. Gesù, per la gioia che ci date di confessarlo col sangue, vi dia Luce e Vita eterna. Noi di questo lo preghiamo perché grati vi siamo della porpora eterna di cui ci vestite col...”.
Un leone ha preso il balzo dopo essersi avvicinato strisciando quasi al suolo, e lo atterra e azzanna alla spalla. La veste ed i capelli di neve sono già tutti
rossi.

È il segnale dell’attacco bestiale. La torma delle fiere a balzi si lancia sul gregge dei miti. Una leonessa con un colpo di zampa strappa ad una madre uno dei pargoli dormenti, ed è così feroce la zampata che asporta parte del seno della madre che si rovescia, forse lacerata fino al cuore, sull’arena e muore. La belva, a colpi di coda e di zampa, difende il suo tenero pasto e lo sgranocchia in un baleno. Una piccola macchia rossa resta sulla sabbia, unica traccia del pargolo martire, mentre la belva si alza leccandosi il muso.

Ma i cristiani sono molti e le belve poche in confronto. E forse già sazie. Più che divorare uccidono per uccidere. Atterrano, sgozzano, sventrano, leccano un
poco e poi passano altrove, ad altra preda.

Il popolo si inquieta perché manca la reazione nei cristiani e perché le bestie non sono feroci a sufficienza. Urla: “A morte! A morte! Anche l’intendente a morte! Non sono leoni questi, ma cani ben pasciuti! Morte ai traditori di Roma e di Cesare!”.

L’imperatore dà un ordine e le belve vengono ricacciate nei loro antri. Vengono fatti entrare i gladiatori per il colpo di grazia. La folla urla i nomi dei
preferiti: “Albulo, Illirico, Dacio, Ercole, Polifemo, Tracio” e altri ancora.
Non sono solo i soli gladiatori ai quali ha parlato il vecchio martire, che agonizza nell’arena con un polmone quasi scoperto da un colpo di zampa. Ma anche altri che entrano da altre parti.


Albulo corre al vecchio prete. La gente dice: “Fàllo soffrire! Alzalo, che si veda il colpo! Forza Albulo!”. Ma Albulo si china invece a chiedere al vecchio qualcosa e, avuto un cenno di assenso, chiama i compagni che hanno prima udito parlare il vecchio prete.
Non riesco a capire ciò che fanno, se si fanno benedire o che avviene, perché i loro robusti corpi fanno come un tetto sul vecchio prostrato. Ma lo capisco quando vedo che una mano senile già vacillante si alza sul gruppo di teste strette l’una all’altra e le asperge del sangue di cui si è fatta piena come una coppa. Poi ricade.
I gladiatori, spruzzati di quel sangue, scattano in piedi e alzano la daga che brilla nella luce. Urlano forte: “Ave, Cesare, imperatore. I trionfatori ti salutano” e poi, ratti come un fulmine, corrono a quella costruzione che è in mezzo al circo, balzano su essa, rovesciano idoli e tripodi, li calpestano.

La folla urla come impazzita. Chi vorrebbe difendere il gladiatore preferito, chi invoca morte atroce ai novelli cristiani. Che, per loro conto, tornati sull’arena, stanno allineati, sereni, magnifici come statue di giganti, con un sorriso nuovo sul volto fiero.

Cesare, un brutto, obeso, cinico uomo incoronato di fiori e vestito di porpora, si alza fra la corona dei suoi patrizi tutti in vesti bianche. Solo alcuni hanno
una balza rossa. La folla fa silenzio in attesa della sua parola. Cesare - chi sia non so questo viso rincagnato e vizioso - tiene tutti in sospeso per qualche minuto, poi rovescia il pollice in basso e dice: “Vadano a morte per i compagni”.

I gladiatori non convertiti, che intanto hanno sgozzato i malvivi cristiani con la metodicità con cui un beccaio sgozza gli agnelli, si rivoltano, e con la stessa automatica freddezza e precisione aprono ai compagni la gola, al giugolo.

Come manipolo di spighe che la roncola taglia stelo a stelo, i dieci neocristiani, aspersi del sangue del prete martire, si fanno veste di porpora eterna col loro sangue e cadono con un sorriso, riversi, guardando il cielo in cui si inalba il loro giorno beato.

Non so che Circo sia. Non so che età del cristianesimo. Non ho dati. Vedo e dico ciò che vedo. Io non ho mai messo piede in nessuna Arena o Circo o Colosseo; perciò non posso dare il menomo indizio. Per la folla e la presenza del Cesare direi essere a Roma. Ma non so. 

Mi rimane nel cuore la visione del vecchio prete martire e dei suoi ultimi battezzati, e basta.


REGINA MARTYRUM ORA PRO NOBIS!