Aveva 78 anni. Durante la Guerra Fredda, il 26 settembre 1983, non si fidò del sistema di difesa sovietico per cui missili atomici lanciati dagli Usa erano in arrivo: «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore». Non fu premiato ma richiamato
L’uomo che ha salvato il mondo è morto come è vissuto: nell’anonimato, senza riconoscimenti o quasi, in un misero appartamento di una cittadina satellite di Mosca. Per mesi, anzi, nessuno ne ha saputo nulla e la notizia è trapelata solo ora perché qualcuno l’ha cercato nell’anniversario di quel 26 settembre 1983. Fu allora che il tenente colonnello Stanislav Petrov (morto a 78 anni) decise che i segnali che arrivavano dai radar intercettori erano sbagliati, nonostante i tecnici giurassero il contrario.
Non era vero che gli Stati Uniti avevano lanciato decine di missili termonucleari contro l’Unione Sovietica; lui non seguì la procedura, non avvertì il Cremlino che avrebbe avuto meno di quindici minuti per decidere di reagire, facendo partire bombe atomiche dirette verso l’America e l’Europa. In quei pochi minuti che seguirono l’allarme dato a mezzanotte e quindici minuti, Petrov salvò il pianeta dall’olocausto nucleare.
I suoi superiori, quando poi si chiarì che si era trattato di un errore del sistema, non lo premiarono. Il colonnello, anzi, ricevette un richiamo per non aver seguito la procedura standard e la sua storia è rimasta segreta fino al crollo dell’Unione Sovietica. Ma anche dopo, in Russia non si è quasi mai parlato di Petrov. Il colonnello ha ricevuto qualche riconoscimento all’estero, ma nulla in patria.
Un anno fa lo siamo andati a trovare a Fryasino, la cittadina dove viveva a una ventina di chilometri dalla capitale. L’articolo uscito sul Corriere suscitò parecchio interesse in Italia, tanto che un gruppo di volontari, l’R 14 di Milano, decise di assegnargli un premio e un contributo economico che gli è stato utile negli ultimi mesi di vita.
Petrov abitava in uno dei tipici palazzi di cemento armato costruito in epoca kruscioviana per dare una casa, anche se di scarsa qualità, a tutti i sovietici. Una persona schiva, modesta, un uomo minuto e già segnato dalla malattia. Di poche parole. Quando lo incontrammo, si schermì subito «Noo!, che ho fatto? Niente di speciale, solamente il mio lavoro». Per aggiungere subito dopo: «Ero l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto».
In realtà è stata una fortuna per questo pianeta che Petrov non fosse un militare qualunque, uno dei tanti addetti alla sorveglianza a distanza dei silos americani nei quali sono custoditi i missili intercontinentali. Lui era un analista che quella notte si trovò quasi casualmente a fare un turno di guardia ai calcolatori, sostituendo uno dei militari professionisti. Un altro avrebbe semplicemente controllato i segnali in arrivo (cosa che lui fece) e si sarebbe limitato ad applicare il protocollo, informando i suoi superiori: «Missili americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione Sovietica fra 25/30 minuti». L’analista reagì invece diversamente, con grande professionalità.
Petrov non credeva che gli Stati Uniti potessero veramente attaccare. «E se pure l’avessero fatto, non avrebbero lanciato solo un grappolo di missili», ci disse un anno fa. Si convinse che fosse «un’avaria del sistema». Così non disse ai superiori che era in corso un vero attacco. E salvò il pianeta. La notte in questione era quella del 26 settembre 1983 alle 00,15. Venticinque giorni prima, il 1° settembre, un caccia sovietico aveva abbattuto un jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss.
Erano gli anni della gerontocrazia al comando, della paranoia e della profondissima crisi. Il gensek (segretario generale del partito) Jurij Andropov era permanentemente in ospedale. In quell’occasione, il 1° settembre, a controllare i radar non c’era un «Petrov», ma un militare disciplinato e ottuso che riferì ai suoi superiori: un apparecchio, probabilmente un aereo spia degli Stati Uniti, aveva violato il territorio della madrepatria. I generali e i politici applicarono le regole. In pochi minuti il maggiore Gennadij Osipovich che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine di abbattere l’intruso. «Non dissi alla base che era un Boeing, perché nessuno me lo aveva chiesto», si è giustificato in seguito.
Petrov no. Petrov non era ottuso. I tempi per rispondere ad un attacco nucleare sono strettissimi. I missili impiegano meno di mezz’ora per raggiungere la Russia dagli Usa. Alcuni minuti servono per controllare che tutti i parametri siano giusti. Poi la comunicazione telefonica a Mosca: l’informazione arriva ai vertici. Si sveglia il capo supremo (allora era il gensek, oggi sarebbe il presidente Putin) e a quel punto bisogna decidere subito. Militari, ex agenti del KGB (come Andropov, ma forse anche come Putin) non sono abituati a mettere in discussione le procedure.
In quelle settimane del 1983 la tensione era altissima, con Reagan che aveva bollato l’Urss come «Impero del male» appena sei mesi prima e Andropov che si diceva convinto della volontà di aggressione americana. A un attacco si sarebbe risposto quasi certamente con una massiccia rappresaglia: decine di missili sovietici lanciati verso gli Stati Uniti. E Washington avrebbe certamente replicato con il lancio (questa volta vero) delle sue testate nucleari. Per il globo sarebbe stata la fine. Ma Petrov non era ottuso. Al suo posto di controllo a Serpukhov-15, vicino Mosca, arrivò il segnale sempre atteso e tanto temuto: «Si accese una luce rossa, segno che un missile era partito. Tutti si girarono verso di me, aspettando un ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto», ci raccontò. Pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra. «Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa base», racconta. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi». Petrov era sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto. «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione» Così comunicò che c’era stato un malfunzionamento del sistema. “I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica».
In seguito si chiarì che il sistema era stato ingannato da riflessi di luce sulle nuvole. Non venne premiato: se lui aveva ragione, qualcun altro aveva sbagliato a progettare il sistema, magari qualche alto papavero. Così tutto venne insabbiato e finì tra le storie “soverscenno secretno”, top secret. “Alla fine, quando mi congedai, non mi concessero nemmeno la solita promozione a colonnello”, ha raccontato. A 76 anni, nel 2016, faceva la vita di sempre nel palazzo di Fryasino. Poi la salute è peggiorata. Il figlio Dmitrij lo ha ricoverato più volte in ospedale. Il 19 maggio di quest’anno è venuto a mancare. Ma anche noi lo abbiamo saputo solo adesso.