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martedì 26 maggio 2015

Per guarire



Vengo dal Cielo per indicarvi la strada da seguire: quella della preghiera e della penitenza.

Vengo dal Cielo per donarvi, figli miei ammalati, la medicina di cui avete bisogno per guarire: andate a lavarvi alla fontana.

Lavatevi alla fonte di acqua viva che scaturisce dal Cuore trafitto di mio Figlio Gesù e che la Chiesa ancora oggi vi dona coi suoi Sacramenti, specialmente con quello della riconciliazione.

Lavatevi spesso a questa fontana, perché ne avete bisogno per purificarvi dal peccato e per guarire dalle ferite che il male lascia nella vostra esistenza.
Lavatevi a questa fontana per diventare sempre più puri.

La vostra Mamma Immacolata, figli prediletti, vi ricopre del suo manto di Cielo e dolcemente vi aiuta a vivere la virtù della purezza.

Vi voglio puri di mente, di cuore, di corpo.  ...

mercoledì 24 settembre 2014

1. - UN REGALO ECCEZIONALE di EMMANUEL ANDRÈ

Di EMMANUEL ANDRÈ
Titolo originale: Traité du Ministère Ecclésiastique - Versione dal francese di D.C. Masetti OSB
Imprimatur: Monte Oliveto Maggiore, 29 Giugno 1979 - † Angelo M. Sabatini, Abate Ordinario

INTRODUZIONE



Il ministero ecclesiastico è un'opera straordinaria della bontà di Dio; perciò per scriverne convenientemente occorre possedere una grande fede per penetrare i disegni di Dio stesso, e una grande carità per scrivere intorno alle meravigliose invenzioni di Dio per l'eterna salvezza degli uomini. 


Pur sapendo quanto ci manca di questa fede e di questa carità osiamo trattare di un argomento così grande. Non lo faccio pero senza chiedere perdono al Signore dell'ardimento col quale, così imperfetti, ci avviciniamo a cose tanto perfette. Col perdono di Dio e concedendoci Egli l'assistenza del suo divino Spirito ci proponiamo di scrivere il presente Trattato del Ministero Ecclesiastico in quattro libri. Dei quali il primo sarà consacrato alla natura del Ministero ecclesiastico; il secondo dimostrerà come questo ministero può essere snaturato; il terzo farà conoscere il terreno sul quale si deve esercitare; e il quarto sarà un'esposizione delle virtù necessarie per la sua riuscita. 


"Ci aiuti la tua grazia, o Dio onnipotente, affinché noi, che abbiamo ricevuto il ministero sacerdotale, siamo capaci di servirti degnamente e devotamente con assoluta purezza e pura coscienza. E se, purtroppo, non possiamo mantenerci in una innocenza di vita così grande come sarebbe necessario, dacci almeno la grazia di piangere giustamente quello che abbiamo fatto di male e di dedicarci al tuo servizio in spirito di umiltà e con propositi di buona volontà, in modo più fervente di come abbiamo fatto per il passato. Amen". (Imitazione di Cristo, lib. IV, cap. XI)

LIBRO PRIMO

Natura del Ministero ecclesiastico


CAPITOLO I
ORIGINE DEL MINISTERO

Dio ha tanto amato il mondo che gli ha dato il suo Unico Figlio e mentre inviava nel mondo il suo Divino Figlio gli diede un grande ministero da compiere verso l'umanità decaduta. Egli doveva soddisfare, come Redentore, la giustizia di suo Padre e poi meritarci le grazie necessarie alla salvezza e creare un'istituzione che, attingendo continuamente dal tesoro dei suoi divini meriti, facesse giungere a tutti gli eletti le grazie che dovevano condurli alla vita eterna. Nostro Signor G.C. compì in modo pieno la missione ricevuta dal Padre e alla vigilia della sua morte poté affermare con tutta verità: "Io ti ho glorificato sulla terra compiendo l'opera che mi hai dato da fare" (Gv. 17,4) e ciò ripeterà più espressamente sulla croce un istante prima di morire esclamando: "Tutto è compiuto" (Gv. 19,30). Egli aveva formato i suoi Apostoli al ministero, aveva consegnato a loro ogni verità, rivelato ogni cosa e posto nelle loro mani i sacramenti. Però prima di metterli in azione per l'esercizio del ministero aveva dato a loro lo Spirito Santo. L'opera che gli Apostoli dovevano compiere, era opera divina, poteva essere compiuta soltanto con lo spirito di Dio, non essendo lo spirito dell'uomo acconcio a una simile fatica: e lo Spirito di Dio fu dato.

CAPITOLO II

Nostro Signore G. C. dopo aver creato ed esercitato egli stesso il santo ministero, lo affido agli Apostoli come coloro che dovevano continuare l'opera sua. A questo scopo concesse ad essi il potere d'ordine e di giurisdizione e, allo stesso tempo le virtù necessarie per il buon uso di questi terribili poteri. "Onus angelicis humeris formidandum", dice il Concilio di Trento.

Gesù creo gli Apostoli e li fece ministri perfetti. "Ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza" (2 Cor. 3,6) perché egli aveva altrettanta facilità nel dar loro i poteri.
Gli Apostoli trasmisero facilmente i poteri, avendo a loro disposizione i sacramenti, ma non poterono trasmettere le virtù. Ciò ci mostra come il ministero poté alle volte fallire e ci fa toccare con mano l'innata debolezza negli eredi degli Apostoli.
Senza anticipare vediamo ciò che era il ministero in mano agli Apostoli. Ce lo dice San Pietro in una sola parola: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4).
Si ha oggi questo concetto e del ministero e dell'ordine che bisogna seguire per compierli bene? Ne dubitiamo assai: perché, se non erriamo, ci sembra che oggi il grande affaccendarsi sia l'amministrazione dei sacramenti e poi la predicazione; mentre la preghiera è considerata come un'opera personale del sacerdote, anziché come l'opera principale del ministero. Un autentico rovesciamento dell'ordine stabilito da Dio.


CAPITOLO III
IL CORPO E L'ANIMA DEL MINISTERO

Nel ministero bisogna, come nella Chiesa, distinguere il corpo e l'anima: allo stesso modo dei composti nei quali si distingue la materia e la forma. Il corpo del Ministero è la parte esteriore, rituale: l'amministrazione dei sacramenti.

L'anima del ministero, è certamente la preghiera, l'unione interiore a nostro Signore; unione che ci deve far attingere da Dio lo spirito interiore, il solo capace di fecondare le opere esterne.
La predicazione appartiene al corpo del ministero; mentre se la si considera doversi ispirare, vivificarsi, animarsi nella preghiera e in essa attingere potenza ed efficacia, allora appartiene all'anima del Ministero. E questo ci rivela la profondità dell'affermazione di San Pietro citata più sopra: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4).


CAPITOLO IV
L'ORDINE VERO DELLE TRE GRANDI FUNZIONI DEL MINISTERO

Poiché il ministero secondo nostro Signore e gli Apostoli è contenuto principalmente in queste tre funzioni: preghiera, predicazione e amministrazione dei sacramenti, è necessario osservare che San Pietro ha messo prima di tutto la preghiera, dopo la predicazione e finalmente, come una risultante, l'amministrazione dei sacramenti.

Ecco l'ordine vero delle sante funzioni del ministero.
Innanzitutto è necessario entrare in relazione scambievole con Dio: punto principale, perché bisogna captare la grazia, divenirne familiare, come dice San Gregorio, e poi dedicarsi alle anime presso le quali si dovrà esercitare il ministero.
Dopo aver pregato bisogna predicare e istruire: e la predicazione fatta potente dalla preghiera che l'ha preceduta, conduce le anime a desiderare, a chiedere e poi a ricevere i sacramenti.
Questa l'economia nell'opera della salvezza delle anime, questo l'ordine col quale Nostro Signore vuole che si compiano le sante funzioni.


CAPITOLO V
PRIMA FUNZIONE DEL MINISTERO: LA PREGHIERA

Nostro Signore c'insegna che bisogna pregare sempre: "Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi mai" (Lc. 18,1). Il compimento di questo precetto, preso a rigor di termine, ci sarebbe impossibile: perciò i santi Padri lo hanno spiegato nel senso che bisogna pregare spesso perché l'anima sia continuamente sotto l'azione e sotto la protezione della preghiera fatta precedentemente.

A questo scopo lo Spirito Santo ha ispirato alla Chiesa di stabilire le ore della preghiera, e sono considerati sempre oranti coloro che sono fedeli alla preghiera nei tempi prescritti, nelle ore prescritte, e meglio, nelle ore canoniche. Infatti il Venerabile Beda dice che "semper orat qui statuta tempora non praetermittit orandi".
Le ore canoniche sono note. Gli Apostoli ci hanno dato l'esempio della preghiera nel corso delle ore canoniche: "verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inno a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli". Era una preghiera vocale, dal momento che era intesa da coloro che stavano in prigione con gli Apostoli (At. 16,25).
Nel giorno della Pentecoste la Chiesa nascente era riunita per la preghiera di Terza, quando discese lo Spirito Santo: "si trovavano tutti insieme nello stesso luogo... all'ora terza del giorno" (At. 2,1-15).
San Pietro sale a pregare in una stanza alta ed era l'ora di Sesta: "Salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare" (At. 10,9).
San Pietro e San Giovanni salgono al tempio per pregare all'ora di Nona: "Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio" (At. 3,1). Questo passo è estremamente importante: gli Apostoli avevano le loro ore fisse per pregare: "Horam orationis", e Nona era una di queste.
Il Centurione Cornelio, prima ancora di essere cristiano, pregava all'ora Nona, e fu allora che ricevette la visita dell'angelo che lo indirizzo a San Pietro: "Verso quest'ora, stavo recitando la preghiera delle tre del pomeriggio" (At. 10,30).
La tradizione della Chiesa è costante su questo punto così importante della preghiera nelle ore canoniche. Gli esempi dei Santi sono uniformi in tutti i secoli, e li vediamo tutti e sempre fare delle preghiere nelle ore canoniche il loro primo dovere. E come San Pietro diceva: "Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense" (At. 6,2), non volendo sacrificare la predicazione per un servizio esterno di carità, tanto meno egli avrebbe sacrificato la preghiera, che anteponeva alla predicazione, ad ogni altra cosa come ne fanno testimonianza le parole già citate: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4). Secondo San Pietro il Ministero consisteva innanzitutto nella preghiera, e, dopo nella predicazione; l'amministrazione dei sacramenti veniva dopo come una cosa secondaria. Una parte per così dire materiale che spesso gli Apostoli lasciavano ai diaconi per il battesimo e ai presbiteri per il battesimo e per gli altri sacramenti.
San Paolo pur avendo convertito numerosi abitanti di Corinto, in Corinto battezzo soltanto pochissime persone perché la massa dei fedeli era già stata battezzata da Apollo e da Cefa; ed egli dice chiaramente che nostro Signore non l'aveva inviato a battezzare, ma a predicare il Vangelo: "Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo" (1 Cor. 1,17). Ciò è di basilare importanza tanto più che oggi le idee sono diametralmente all'opposto di quelle degli Apostoli: i vescovi e i sacerdoti dopo aver somministrato i sacramenti credono volentieri di aver compiuto il loro ministero, mentre ne hanno compiuto soltanto la parte materiale, perché l'essenziale non consiste in questo.


CAPITOLO VI
SECONDA FUNZIONE DEL MINISTERO: LA PREDICAZIONE

La predicazione della parola di Dio non è un'opera umana. La scienza per quanto grande sia e l'eloquenza per quanto potente, non sono punto la predicazione della parola di Dio.

La scienza può essere utile, ed utile l'eloquenza, ma nella predicazione della parola di Dio c'è qualcosa più della scienza e meglio dell'eloquenza. Sottolineiamo bene l'espressione "Parola di Dio". Per parlare questa parola, bisogna averla ricevuta: e se è vero che la si riceve dalla Chiesa, non è men vero che essa diviene parola di vita grazie allo Spirito di Dio infuso in noi durante la preghiera. La parola che dobbiamo predicare deve perciò venire da Dio e deve essere annunziata dallo Spirito di Dio. Gli Apostoli hanno veramente predicato, la prima volta, nel giorno della Pentecoste: "Furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare..." (At. 2,4). Vi è perciò una distanza infinita tra il nostro insegnamento e gli insegnamenti umani. Gli uomini annunziano la parola dell'uomo, noi la parola di Dio: gli uomini parlano col loro spirito, noi abbiamo lo spirito di Dio: gli uomini intendono far nascere la scienza nei loro uditori, noi la fede. Quale differenza!
Ora, come per generare la scienza bisogna possedere la scienza, allo stesso modo per generare la fede nelle anime bisogna essere già se stessi penetrati dalla fede. La parola che noi annunciamo dev'essere la stessa parola della fede: "Verbum Fidei", dice San Paolo (Rom. 10,8), "Fides ex auditu" (Rom. 10,17).
Pertanto, noi non siamo dei professori di religione, ma i mezzi di Dio per far penetrare la fede nelle anime: "Come se Dio esortasse per mezzo nostro", dice ancora San Paolo ( 2 Cor. 5,20). perciò oltre il chiedere a Dio con la preghiera che la nostra parola sia veramente la sua parola; dobbiamo essere ricolmi dello Spirito di Dio per annunciare la divina parola, sapendo poi che in questo formidabile ministero facciamo un'opera eminentemente divina per cui ci occorre essere umili, oranti e supplichevoli, spogli di noi stessi, e in qualche modo di tutta la nostra umanità se vogliamo che l'opera nostra sia veramente l'opera di Dio che faccia nascere la fede nei nostri uditori: "Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato" (Gv. 6,29).


CAPITOLO VII
TERZA FUNZIONE DEL MINISTERO: I SACRAMENTI

Dopo aver pregato e parlato, l'uomo di Dio, "Homo Dei" (1 Tm. 6,11), vedendo la fede ormai nata nell'anima degli ascoltatori e operarvi le opere necessarie alla giustificazione, darà i sacramenti.

I sacramenti che elargiscono tanta grazia, non danno pero le disposizioni necessarie per riceverli. Ecco un punto capitale nella dottrina cristiana: e ciò dimostra quanto si sbagliano coloro che credono che tutto è salvo quando si sono ricevuti i sacramenti.
I sacramenti sono dei segni sensibili della grazia invisibile; e il sacerdote che amministra i sacramenti, pur stando attento al rito esterno, deve applicarsi interiormente a chiedere la grazia interiore: egli deve entrare in comunione con Dio che dà la grazia, con Nostro Signore Gesù Cristo che l'ha meritata e con l'anima che la riceve. 
Nella religione non c'è nulla che sia soltanto esteriorità. Dio è spirito, e in tutto ciò che viene da lui, come tutto ciò che a lui va, dev'essere spirito.
Noi siamo anima e corpo: Nostro Signore è Dio e uomo; i sacramenti hanno forma e materia: tutto questo in armonia l'un con l'altro. Si turberebbe quest'armonia dimenticando od omettendo nella nostra religione quanto Dio volle che vi fosse conservato.
L'uomo che dimenticasse la sua anima per non veder altro che il suo corpo; chi in nostro Signore vedesse soltanto l'umanità, imitando per così dire gli antichi Antropomorfiti; il sacerdote, che nei sacramenti non vedesse altro che il rito esterno, sarebbero fuori dalla verità. Ora, soltanto la verità salva: "La verità vi farà liberi" (Gv. 8,32).


CAPITOLO VIII
IL MINISTERO È UN MISTERO INTERIORE


Benché nel ministero ci siano diversi elementi esterni, tuttavia risponde a verità l'affermare che, preso nel suo insieme, il ministero è cosa interiore. Infatti, chiedere la grazia, concorrere al suo stabilirsi nelle anime, a conservarvisi e a farla sviluppare non è forse l'essenziale e il tutto del ministero? Chi non vede che tutte queste cose sono fatti interiori? E perché è così, come d'altronde non se ne può dubitare, si comprende sempre più chiaramente quant'è profonda l'affermazione del principe degli Apostoli che dice: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4). Egli pone in primo luogo la preghiera: perché il ministero, che agisce sugli uomini, manifesta la sua efficacia nella misura con la quale il ministero è entrato in comunicazione con Dio per mezzo della preghiera. Dio solo dà senza aver ricevuto, perché, essendo Dio, ha in se stesso ogni bene: noi che non siamo Dio, non possiamo dare se non dopo che abbiamo ricevuto. E quando si tratta dei mezzi di santificazione delle anime da chi li potremo ricevere se non da Dio; e come Dio ce li darà con la loro piena efficacia se noi non lo preghiamo, con umiltà, con fiducia e con perseveranza?
Quanto sono ammirevoli sotto quest'aspetto gli antichi missionarî benedettini nostri Padri! Quando arrivavano in un paese idolatra vi cercavano un luogo solitario e un sito inaccessibile dove si mettevano in preghiera, lottavano con i demoni, con le fiere; si costruivano una capanna di legno, cantando i salmi nelle ore canoniche del giorno e della notte... "Nos vero orationi instantes erimus". Quando poi avevano pregato, spesse volte per anni, andavano da loro contadini e pastori, domandavano chi erano, che cosa facevano e da lì alle prime lezioni di catechismo non c'era che un passo e col tempo i catecumeni... "Orationi et ministerio Verbi instantes erimus".
Poi sorgeva una comunità cristiana: poteva venire la persecuzione, ma era vinta e la fede trionfante piantata nelle anime perché tutto fluiva da un principio interiore: la preghiera, l'unione con Dio. In questa unione e in questa incessante comunione con Dio i cristiani ricevevano le grazie di luce e di conversione per le anime; e il ministero era benedetto da Dio.

DIVINA PASTORA ORA PRO NOBIS

lunedì 25 agosto 2014

Luce



"Se ci accorgiamo che un nostro fratello o una nostra sorella hanno smarrito la giusta strada, abbiamo il dovere di pregare per loro, così come abbiamo il dovere di pregare per i sacerdoti, i vescovi, i cardinali, le suore e per il Santo Padre. Christina precisa che quella di Nostra Signora non è solo una richiesta, è un nostro preciso dovere". (La veggente Christina Gallagher)

"Molti si preoccupano quando pregando la loro mente viene distratta da altri pensieri, per esempio qualcosa che è successo quel giorno. Questo è normale, ma è ben diverso da quando il diavolo cerca costantemente di allontanarci dalla preghiera. Se stiamo pregando il Rosario possiamo avere in questo caso molte difficoltà. Rabbia e fastidio possono nascere in famiglia fra chi vuole pregare il Rosario e chi no. Tutto ciò dipende dal diavolo che cerca di fermarci.
Tutte queste tentazioni del Maligno possono essere sconfitte dai sacramenti, dalla preghiera del cuore, dal digiuno, dai sacrifici e dall’amore. Tutte queste sono cose che Satana non sopporta". (La veggente Christina Gallagher)

"Dobbiamo accettare e non negare l’esistenza di Satana. Se neghiamo l’esistenza di Satana neghiamo anche il peccato. Se neghiamo il peccato neghiamo Cristo e il Suo Sacrificio di Redenzione sul Calvario, un sacrificio offerto per la nostra salvezza". (La veggente Christina Gallagher)

"Il valore della meditazione dei Misteri è la chiave del grande potere contenuto nel Rosario". (La veggente Christina Gallagher)

In un messaggio a Christina, la Madonna, parlando della recita del Rosario fatta col cuore, ha detto: "Offrite ogni Ave Maria come una bellissima rosa bianca o come un prezioso gioiello e il Padre Nostro come una rosa rossa molto delicata o un gioiello speciale, coi quali ricoprirmi. Ma dovete sapere che non potete avere gioielli preziosi che non brillano o bellissime rose che sono solo buone per essere gettate via. Figlia Mia se non pregate il Rosario col cuore, con amore e gioia, le rose e i gioielli che offrite per ricoprirmi saranno persi per sempre. Pregate il Rosario con amore e con gioia ed esso durerà per tutta l’eternità. Ti prego, figlia Mia, non deludermi. Fai che sia un indumento che risplende, …prega il Mio bellissimo Rosario". (22 maggio 1988, messaggio della Madonna a Christina Gallagher)

"...Il Santo Rosario, quando pregato col cuore, può sconfiggere il Maligno". (Da un messaggio della Madonna a Christina Gallagher)

domenica 27 aprile 2014

Spolverando documenti, spolveriamo la memoria. "E' necessario tornare al confessionale".


« È necessario tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare
il sacramento della riconciliazione, ma anche come luogo in
cui “abitare” più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia,
consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare
la presenza della misericordia divina, accanto alla presenza reale
nell’eucaristia ».1

Con queste parole, il Santo Padre Benedetto XVI si rivolgeva ai
confessori, durante il recente Anno Sacerdotale, indicando a tutti ed
a ciascuno l’importanza e la conseguente urgenza apostolica di riscoprire
il sacramento della riconciliazione, sia come penitenti, sia come
ministri.

Accanto alla quotidiana celebrazione eucaristica, la disponibilità
all’ascolto delle confessioni sacramentali, all’accoglienza dei penitenti
e, laddove richiesto, all’accompagnamento spirituale, sono la reale
misura della carità pastorale del sacerdote e, con essa, testimoniano la
lieta e certa assunzione della propria identità, ridefinita dal sacramento
dell’ordine e mai riducibile a mera funzione.

Il sacerdote è ministro, cioè servo e insieme prudente amministratore
della divina misericordia. A lui è affidata la gravissima responsabilità
di « rimettere o ritenere i peccati » (cf. Gv 20,23); attraverso di lui, i
fedeli possono vivere, nell’oggi della Chiesa, per la forza dello Spirito,
che è Signore e dà la vita, la gioiosa esperienza del figliol prodigo, il
quale, tornato nella casa del padre per vile interesse e come schiavo,
viene accolto e ricostituito nella propria dignità filiale.

Laddove c’è un confessore disponibile, presto o tardi arriva un
penitente; e laddove persevera, persino in maniera ostinata, la disponibilità
del confessore, giungeranno molti penitenti!

e come ministri, è la misura dell’autentica fede nell’agire salvifico di
Dio, che si manifesta più efficacemente nella potenza della grazia, che
nelle umane strategie organizzative di iniziative, anche pastorali, talvolta
dimentiche dell’essenziale.

1 BENEDETTO XVI, Allocuzione ai partecipanti al XXI corso sul foro interno organizzato
dalla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010.

venerdì 29 novembre 2013

Procedi ...felice.

Desiderata

Procedi con calma tra il frastuono e la fretta e ricorda quale pace possa esservi nel silenzio. Per quanto puoi, senza cedimenti, mantieniti in buoni rapporti con tutti. 

Esponi la tua opinione con tranquilla chiarezza e ascolta gli altri: pur se noiosi ed incolti, hanno anch’essi una loro storia. Evita le persone volgari e prepotenti: costituiscono un tormento per lo spirito. 

Se insisti nel confrontarti con gli altri rischi di diventare borioso ed amaro, perché sempre esisteranno individui migliori e peggiori di te.

Godi dei tuoi successi e anche dei tuoi progetti. Mantieni interesse per la tua professione, per quanto umile: essa costituisce un vero patrimonio nella mutevole fortuna del tempo. Usa prudenza nei tuoi affari, perché il mondo è pieno d’inganno. Ma questo non ti renda cieco a quanto vi è di virtù: molti sono coloro che perseguono alti ideali e dovunque la vita è colma di eroismo.

Sii te stesso. Soprattutto non fingere negli affetti. Non ostentare cinismo verso l’amore, perché, pur di fronte a qualsiasi delusione e aridità, esso resta perenne come il sempreverde.

Accetta docile la saggezza dell’età, lasciando con serenità le cose della giovinezza. Coltiva la forza d’animo, per difenderti nelle calamità improvvise. Ma non tormentarti con delle fantasie: molte paure nascono da stanchezza e solitudine.

Al di là d’una sana disciplina, sii tollerante con te stesso. Tu sei figlio dell’universo non meno degli alberi e delle stelle, ed hai pieno diritto d’esistere. E, convinto o non convinto che tu ne sia, non v’è dubbio che l’universo si stia evolvendo a dovere.
Perciò sta in pace con Dio, qualunque sia il concetto che hai di Lui. E quali che siano i tuoi affanni e aspirazioni, nella chiassosa confusione dell’esistenza, mantieniti in pace col tuo spirito. 

Nonostante i suoi inganni, travagli e sogni infranti, questo è pur sempre un mondo meraviglioso. Sii prudente. Sforzati d’essere felice.
  

Manoscritto del 1692
trovato a Baltimora
nell'antica Chiesa di San Paolo

lunedì 4 novembre 2013

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI









MESSAGGIO DEL SANTO PADRE ALL’ARCIVESCOVO DI MILANO IN OCCASIONE DEL IV CENTENARIO DELLA CANONIZZAZIONE DI SAN CARLO BORROMEO, 04.11.2010



Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato all’Arcivescovo di Milano, Em.mo Card. Dionigi Tettamanzi, in occasione della celebrazione del IV Centenario della Canonizzazione di San Carlo Borromeo:


MESSAGGIO DEL 
SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Al venerato Fratello
Cardinale DIONIGI TETTAMANZI
Arcivescovo di Milano

Lumen caritatis. La luce della carità di san Carlo Borromeo ha illuminato tutta la Chiesa e, rinnovando i prodigi dell’amore di Cristo, nostro Sommo ed Eterno Pastore, ha portato nuova vita e nuova giovinezza al gregge di Dio, che attraversava tempi dolorosi e difficili. Per questo mi unisco con tutto il cuore alla gioia dell’Arcidiocesi ambrosiana nel commemorare il quarto centenario della canonizzazione di questo grande Pastore, avvenuta il 1° novembre 1610.

1. L’epoca in cui visse Carlo Borromeo fu assai delicata per la Cristianità. In essa l’Arcivescovo di Milano diede un esempio splendido di che cosa significhi operare per la riforma della Chiesa. Molti erano i disordini da sanzionare, molti gli errori da correggere, molte le strutture da rinnovare; e tuttavia san Carlo si adoperò per una profonda riforma della Chiesa, iniziando dalla propria vita. È nei confronti di se stesso, infatti, che il giovane Borromeo promosse la prima e più radicale opera di rinnovamento. La sua carriera era avviata in modo promettente secondo i canoni di allora: per il figlio cadetto della nobile famiglia Borromeo si prospettava un futuro di agi e di successi, una vita ecclesiastica ricca di onori, ma priva di incombenze ministeriali; a ciò si aggiungeva anche la possibilità di assumere la guida della famiglia dopo la morte improvvisa del fratello Federico.

Eppure, Carlo Borromeo, illuminato dalla Grazia, fu attento alla chiamata con cui il Signore lo attirava a sé e lo voleva consacrare al servizio del suo popolo. Così fu capace di operare un distacco netto ed eroico dagli stili di vita che erano caratteristici della sua dignità mondana, e di dedicare tutto se stesso al servizio di Dio e della Chiesa. In tempi oscurati da numerose prove per la Comunità cristiana, con divisioni e confusioni dottrinali, con l’annebbiamento della purezza della fede e dei costumi e con il cattivo esempio di vari sacri ministri, Carlo Borromeo non si limitò a deplorare o a condannare, né semplicemente ad auspicare l’altrui cambiamento, ma iniziò a riformare la sua propria vita, che, abbandonate le ricchezze e le comodità, divenne ricolma di preghiera, di penitenza e di amorevole dedizione al suo popolo. San Carlo visse in maniera eroica le virtù evangeliche della povertà, dell’umiltà e della castità, in un continuo cammino di purificazione ascetica e di perfezione cristiana.

Egli era consapevole che una seria e credibile riforma doveva cominciare proprio dai Pastori, affinché avesse effetti benefici e duraturi sull’intero Popolo di Dio. In tale azione di riforma seppe attingere alle sorgenti tradizionali e sempre vive della santità della Chiesa cattolica: la centralità dell’Eucaristia, nella quale riconobbe e ripropose la presenza adorabile del Signore Gesù e del suo Sacrificio d’amore per la nostra salvezza; la spiritualità della Croce, come forza rinnovatrice, capace di ispirare l’esercizio quotidiano delle virtù evangeliche; l’assidua frequenza ai Sacramenti, nei quali accogliere con fede l’azione stessa di Cristo che salva e purifica la sua Chiesa; la Parola di Dio, meditata, letta e interpretata nell’alveo della Tradizione; l’amore e la devozione per il Sommo Pontefice, nell’obbedienza pronta e filiale alle sue indicazioni, come garanzia di vera e piena comunione ecclesiale.

Dalla sua vita santa e conformata sempre più a Cristo nasce anche la straordinaria opera di riforma che san Carlo attuò nelle strutture della Chiesa, in totale fedeltà al mandato del Concilio di Trento. Mirabile fu la sua opera di guida del Popolo di Dio, di meticoloso legislatore, di geniale organizzatore. Tutto questo, però, traeva forza e fecondità dall’impegno personale di penitenza e di santità. In ogni tempo, infatti, è questa l’esigenza primaria e più urgente nella Chiesa: che ogni suo membro si converta a Dio. 

Anche ai nostri giorni non mancano alla Comunità ecclesiale prove e sofferenze, ed essa si mostra bisognosa di purificazione e di riforma. L’esempio di san Carlo ci sproni a partire sempre da un serio impegno di conversione personale e comunitaria, a trasformare i cuori, credendo con ferma certezza nella potenza della preghiera e della penitenza. 

Incoraggio in modo particolare i sacri ministri, presbiteri e diaconi, a fare della loro vita un coraggioso cammino di santità, a non temere l’ebbrezza di quell’amore fiducioso a Cristo per cui il Vescovo Carlo fu disposto a dimenticare se stesso e a lasciare ogni cosa. Cari fratelli nel ministero, la Chiesa ambrosiana possa trovare sempre in voi una fede limpida e una vita sobria e pura, che rinnovino l’ardore apostolico che fu di sant’Ambrogio, di san Carlo e di tanti vostri santi Pastori!

2. Durante l’episcopato di san Carlo, tutta la sua vasta Diocesi si sentì contagiata da una corrente di santità che si propagò al popolo intero. In che modo questo Vescovo, così esigente e rigoroso, riuscì ad affascinare e conquistare il popolo cristiano? È facile rispondere: san Carlo lo illuminò e lo trascinò con l’ardore della sua carità. "Deus caritas est", e dove c’è l’esperienza viva dell’amore, lì si rivela il volto profondo di Dio che ci attira e ci fa suoi.

Quella di san Carlo Borromeo fu anzitutto la carità del Buon Pastore, che è disposto a donare totalmente la propria vita per il gregge affidato alle sue cure, anteponendo le esigenze e i doveri del ministero ad ogni forma di interesse personale, comodità o tornaconto. Così l’Arcivescovo di Milano, fedele alle indicazioni tridentine, visitò più volte l’immensa Diocesi fin nei luoghi più remoti, si prese cura del suo popolo nutrendolo continuamente con i Sacramenti e con la Parola di Dio, mediante una ricca ed efficace predicazione; non ebbe mai timore di affrontare avversità e pericoli per difendere la fede dei semplici e i diritti dei poveri.

San Carlo fu riconosciuto, poi, come vero padre amorevole dei poveri. La carità lo spinse a spogliare la sua stessa casa e a donare i suoi stessi beni per provvedere agli indigenti, per sostenere gli affamati, per vestire e dare sollievo ai malati. Fondò istituzioni finalizzate all’assistenza e al recupero delle persone bisognose; ma la sua carità verso i poveri e i sofferenti rifulse in modo straordinario durante la peste del 1576, quando il santo Arcivescovo volle rimanere in mezzo al suo popolo, per incoraggiarlo, per servirlo e per difenderlo con le armi della preghiera, della penitenza e dell’amore.

La carità, inoltre, spinse il Borromeo a farsi autentico e intraprendente educatore. Lo fu per il suo popolo con le scuole della dottrina cristiana. Lo fu per il clero con l’istituzione dei seminari. Lo fu per i bambini e i giovani con particolari iniziative loro rivolte e con l’incoraggiamento a fondare congregazioni religiose e confraternite laicali dedite alla formazione dell’infanzia e della gioventù.

Sempre la carità fu la motivazione profonda delle asprezze con cui san Carlo viveva il digiuno, la penitenza e la mortificazione. Per il santo Vescovo non si trattava solo di pratiche ascetiche rivolte alla propria perfezione spirituale, ma di un vero strumento di ministero per espiare le colpe, invocare la conversione dei peccatori e intercedere per i bisogni dei suoi figli.

In tutta la sua esistenza possiamo dunque contemplare la luce della carità evangelica, la carità longanime, paziente e forte che "tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (1Cor 13,7). Rendo grazie a Dio perché la Chiesa di Milano è sempre stata ricca di vocazioni particolarmente consacrate alla carità; lodo il Signore per gli splendidi frutti di amore ai poveri, di servizio ai sofferenti e di attenzione ai giovani di cui può andare fiera. L’esempio e la preghiera di san Carlo vi ottengano di essere fedeli a questa eredità, così che ogni battezzato sappia vivere nella società odierna quella profezia affascinante che è, in ogni epoca, la carità di Cristo vivente in noi.

3. Non si potrebbe comprendere, però, la carità di san Carlo Borromeo se non si conoscesse il suo rapporto di amore appassionato con il Signore Gesù. Questo amore egli lo ha contemplato nei santi misteri dell’Eucaristia e della Croce, venerati in strettissima unione con il mistero della Chiesa. L’Eucaristia e il Crocifisso hanno immerso san Carlo nella carità di Cristo, e questa ha trasfigurato e acceso di ardore tutta la sua vita, ha riempito le notti passate in preghiera, ha animato ogni sua azione, ha ispirato le solenni liturgie celebrate con il popolo, ha commosso il suo animo fino a indurlo sovente alle lacrime.

Lo sguardo contemplativo al santo Mistero dell’Altare e al Crocifisso risvegliava in lui sentimenti di compassione per le miserie degli uomini e accendeva nel suo cuore l’ansia apostolica di portare a tutti l’annuncio evangelico. D’altra parte, ben sappiamo che non c’è missione nella Chiesa che non sgorghi dal "rimanere" nell’amore del Signore Gesù, reso presente a noi nel Sacrificio eucaristico. Mettiamoci alla scuola di questo grande Mistero! Facciamo dell’Eucaristia il vero centro delle nostre comunità e lasciamoci educare e plasmare da questo abisso di carità! Ogni opera apostolica e caritativa prenderà vigore e fecondità da questa sorgente!

4. La splendida figura di san Carlo mi suggerisce un’ultima riflessione rivolta, in particolare, ai giovani. La storia di questo grande Vescovo, infatti, è tutta decisa da alcuni coraggiosi "sì" pronunciati quando era ancora molto giovane. A soli 24 anni egli prese la decisione di rinunciare a guidare la famiglia per rispondere con generosità alla chiamata del Signore; l’anno successivo accolse come una vera missione divina l’ordinazione sacerdotale e quella episcopale. A 27 anni prese possesso della Diocesi ambrosiana e dedicò tutto se stesso al ministero pastorale. Negli anni della sua giovinezza, san Carlo comprese che la santità era possibile e che la conversione della sua vita poteva vincere ogni abitudine avversa. Così egli fece della sua giovinezza un dono d’amore a Cristo e alla Chiesa, diventando un gigante della santità di tutti i tempi.

Cari giovani, lasciate che vi rinnovi questo appello che mi sta molto a cuore: Dio vi vuole santi, perché vi conosce nel profondo e vi ama di un amore che supera ogni umana comprensione. Dio sa che cosa c’è nel vostro cuore e attende di vedere fiorire e fruttificare quel meraviglioso dono che ha posto in voi. Come san Carlo, anche voi potete fare della vostra giovinezza un’offerta a Cristo e ai fratelli. Come lui, potete decidere, in questa stagione della vostra vita, di "scommettere" su Dio e sul Vangelo. Voi, cari giovani, non siete solo la speranza della Chiesa; voi fate già parte del suo presente! E se avrete l’audacia di credere alla santità, sarete il tesoro più grande della vostra Chiesa ambrosiana, che si è edificata sui Santi.

Con gioia Le affido, venerato Fratello, queste riflessioni, e, mentre invoco la celeste intercessione di san Carlo Borromeo e la costante protezione di Maria Santissima, di cuore imparto a Lei e all’intera Arcidiocesi una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 1° novembre 2010, IV Centenario della Canonizzazione di san Carlo Borromeo.

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana


martedì 8 ottobre 2013

La santa Comunione sulla lingua. Ragioni teologiche


La santa Comunione sulla lingua. Ragioni teologiche

di don Ivo Cisar

I sacramenti sono "segni e strumenti" o "segni pieni". Lo è soprattutto l’eucaristia, Corpo e Sangue di Gesù Cristo, "pieno di grazia" (Gv 1,14), nel quale "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col 2,9), "perché piacque a Dio di fare abitare in Lui ogni pienezza" (Col 1,19). Fa parte della ratio signi anche il rito.

I sacramenti "non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali (rebus) la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono, perciò vengono chiamati sacramenti della fede - fidei sacramenta" (Conc. Vaticano II, const.Sacrosanctum concilium 59, EV I 107).

Ora, la Comunione, data e ricevuta sulla lingua, è rito significativo che esprime la fede (e deve nutrirla e irrobustirla) sia nella divinità di Gesù Cristo, realmente e sostanzialmente presente sotto le specie eucaristiche, da distinguere dal cibo comune (che si prende con le proprie mani), sia nel sacerdozio ministeriale, essenzialmente differente da quello comune dei fedeli (Conc. Vaticano II, const.Lumen gentium 10b, EV I 312), significativamente espressa nella consacrazione (unzione) delle mani del sacerdote. Il sacerdozio ministeriale e l’eucaristia sono strettamente e intimamente collegati (cfr. Conc. Vaticano II, Presb. ordinis 5a-b, EV I 1252 s.).

Il rito deve essere aderente al mysterium fidei, e non deve essere lasciato all’arbitrio individuale e alla moda collettiva. Deve esserne garante il sacerdote, ministro dell’eucaristia, responsabile tanto dell’eucaristia, quanto della fede dei battezzati; egli è l’educatore dei fedeli (Conc. Vaticano II, Presb. ordinis 6).

Come il sacerdote (sacra dans), "amico dello Sposo" (Gv 3,29), agendo in persona Christi capitis (Ecclesiae), "partecipando alla funzione dell’unico Mediatore Cristo" (Conc. Vaticano II, Lumen gentium, 28, EV I 354), offre l’eucaristia, a nome della Chiesa (cfr. Offertorio e Canone Romano), a Dio Padre, così egli, minister Christi et dispensator mysteriorum Dei (1Cor 4,1), la distribuisce, quale fidelis dispensator ac prudens, quem constituit Dominus supra familiam suam ut det illis in tempore opportuno (en kairo) tritici mensuram (cibum) (Lc 12,42; Mt 24,45), cioè la "manna celeste", "pane vivo" (Gv 6,31.51), quindi, per mantenere la ratio signi, sulla lingua (cibo!) che Cristo dà oggi come quando "spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla" (Mt 14,19; 15,36) solo agli apostoli li diede direttamente, dicendo, "prendete, mangiate": Mt 26,26).

"Nel distribuire la santa comunione, si conservi la consuetudine di deporre la particola del pane consacrato sulla lingua dei comunicandi, consuetudine che poggia su una tradizione plurisecolare", Congregazione per il Culto Divino,Eucharistiae sacramentum: De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra missam, 21 giugno 1973: EV IV 2531.







venerdì 4 ottobre 2013

Santa Ildegarda di Bingen


LETTERA APOSTOLICA


Santa Ildegarda di Bingen, Monaca Professa dell’ordine di San Benedetto, è proclamata Dottore della Chiesa universale

A perpetua memoria.

1. «Luce del suo popolo e del suo tempo»: con queste parole il Beato Giovanni Paolo II, Nostro venerato Predecessore, definì Santa Ildegarda di Bingen nel 1979, in occasione dell’800° anniversario della morte della Mistica tedesca. E veramente, sull’orizzonte della storia, questa grande figura di donna si staglia con limpida chiarezza per santità di vita e originalità di dottrina. Anzi, come per ogni autentica esperienza umana e teologale, la sua autorevolezza supera decisamente i confini di un’epoca e di una società e, nonostante la distanza cronologica e culturale, il suo pensiero si manifesta di perenne attualità.

In Santa Ildegarda di Bingen si rileva una straordinaria armonia tra la dottrina e la vita quotidiana. In lei la ricerca della volontà di Dio nell’imitazione di Cristo si esprime come un costante esercizio delle virtù, che ella esercita con somma generosità e che alimenta alle radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della Regola di San Benedetto: rifulge in lei in modo particolare la pratica perseverante dell’obbedienza, della semplicità, della carità e dell’ospitalità. In questa volontà di totale appartenenza al Signore, la badessa benedettina sa coinvolgere le sue non comuni doti umane, la sua acuta intelligenza e la sua capacità di penetrazione delle realtà celesti.

2. Ildegarda nacque nel 1089 a Bermersheim, presso Alzey, da genitori di nobile lignaggio e ricchi possidenti terrieri. All’età di otto anni fu accettata come oblata presso la badia benedettina di Disibodenberg, ove nel 1115 emise la professione religiosa. Alla morte di Jutta di Sponheim, intorno al 1136, Ildegarda fu chiamata a succederle in qualità di magistra. Malferma nella salute fisica, ma vigorosa nello spirito, si impegnò a fondo per un adeguato rinnovamento della vita religiosa. Fondamento della sua spiritualità fu la regola benedettina, che pone l’equilibrio spirituale e la moderazione ascetica come vie alla santità. In seguito all’aumento numerico delle monache, dovuto soprattutto alla grande considerazione della sua persona, intorno al 1150 fondò un monastero sul colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove si trasferì insieme a venti consorelle. Nel 1165, ne istituì un altro a Eibingen, sulla riva opposta del Reno. Fu badessa di entrambi.

All’interno delle mura claustrali curò il bene spirituale e materiale delle Consorelle, favorendo in modo particolare la vita comunitaria, la cultura e la liturgia. All’esterno s’impegnò attivamente a rinvigorire la fede cristiana e a rafforzare la pratica religiosa, contrastando le tendenze ereticali dei catari, promuovendo la riforma della Chiesa con gli scritti e la predicazione, contribuendo a migliorare la disciplina e la vita del clero. Su invito prima di Adriano iv e poi di Alessandro III, Ildegarda esercitò un fecondo apostolato — allora non molto frequente per una donna — effettuando alcuni viaggi non privi di disagi e difficoltà, per predicare perfino nelle pubbliche piazze e in varie chiese cattedrali, come avvenne tra l’altro a Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz, Bamberga e Würzburg. La profonda spiritualità presente nei suoi scritti esercita un rilevante influsso sia sui fedeli, sia su grandi personalità del suo tempo, coinvolgendo in un incisivo rinnovamento la teologia, la liturgia, le scienze naturali e la musica.
Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda, circondata dalle Consorelle, si spense in fama di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre 1179.
3.  Nei suoi numerosi scritti Ildegarda si dedicò esclusivamente a esporre la divina rivelazione e far conoscere Dio nella limpidezza del suo amore. La dottrina ildegardiana è ritenuta eminente sia per la profondità e la correttezza delle sue interpretazioni, sia per l’originalità delle sue visioni. I testi da lei composti appaiono animati da un’autentica «carità intellettuale» ed evidenziano densità e freschezza nella contemplazione del mistero della Santissima Trinità, dell’Incarnazione, della Chiesa, dell’umanità, della natura come creatura di Dio da apprezzare e rispettare.

Queste opere nascono da un’intima esperienza mistica e propongono una incisiva riflessione sul mistero di Dio. Il Signore l’aveva resa partecipe, fin da bambina, di una serie di visioni, il cui contenuto ella dettò al monaco Volmar, suo segretario e consigliere spirituale, e a Richardis di Strade, una consorella monaca. Ma è particolarmente illuminante il giudizio dato da San Bernardo di Chiaravalle, che la incoraggiò, e soprattutto da papa Eugenio III, che nel 1147 la autorizzò a scrivere e a parlare in pubblico. La riflessione teologica consente ad Ildegarda di tematizzare e comprendere, almeno in parte, il contenuto delle sue visioni. Ella, oltre a libri di teologia e di mistica, compose anche opere di medicina e di scienze naturali. Numerose sono anche le lettere — circa quattrocento — che indirizzò a persone semplici, a comunità religiose, a papi, vescovi e autorità civili del suo tempo. Fu anche compositrice di musica sacra. Il corpus dei suoi scritti, per quantità, qualità e varietà di interessi, non ha paragoni con alcun’altra autrice del Medio Evo. 

Le opere principali sono lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum. Tutte narrano le sue visioni e l’incarico ricevuto dal Signore di trascriverle. Le Lettere, nella consapevolezza delle stessa autrice, non rivestono una minore importanza e testimoniano l’attenzione di Ildegarda alle vicende del suo tempo, che ella interpreta alla luce del mistero di Dio. A queste vanno aggiunti 58 sermoni, diretti esclusivamente alle sue Consorelle. Si tratta delle Expositiones Evangeliorum, contenenti un commento letterale e morale a brani evangelici legati alle principali celebrazioni dell’anno liturgico. I lavori a carattere artistico e scientifico si concentrano in modo specifico sulla musica con la Symphonia armoniae caelestium revelationum; sulla medicina con il Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum e il Causae et curae; sulle scienze naturali con la Physica. Infine si notano anche scritti di carattere linguistico, come la Lingua ignota e le Litterae ignotae, nei quali compaiono parole in una lingua sconosciuta di sua invenzione, ma composta prevalentemente di fonemi presenti nella lingua tedesca.
Il linguaggio di Ildegarda, caratterizzato da uno stile originale ed efficace, ricorre volentieri ad espressioni poetiche dalla forte carica simbolica, con folgoranti intuizioni, incisive analogie e suggestive metafore.

4.  Con acuta sensibilità sapienziale e profetica, Ildegarda fissa lo guardo sull’evento della rivelazione. La sua indagine si sviluppa a partire dalla pagina biblica, alla quale, nelle successive fasi, resta saldamente ancorata. Lo sguardo della Mistica di Bingen non si limita ad affrontare singole questioni, ma vuole offrire una sintesi di tutta la fede cristiana. Nelle sue visioni e nella successiva riflessione, pertanto, ella compendia la storia della salvezza, dall’inizio dell’universo alla consumazione escatologica. La decisione di Dio di compiere l’opera della creazione è la prima tappa di questo immenso percorso, che, alla luce della Sacra Scrittura, si snoda dalla costituzione della gerarchia celeste fino alla caduta degli angeli ribelli e al peccato dei progenitori. A questo quadro iniziale fa seguito l’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, l’azione della Chiesa che continua nel tempo il mistero dell’incarnazione e la lotta contro satana. L’avvento definitivo del regno di Dio e il giudizio universale saranno il coronamento di questa opera.

Ildegarda pone a se stessa e a noi la questione fondamentale se sia possibile conoscere Dio: è questo il compito fondamentale della teologia. La sua risposta è pienamente positiva: mediante la fede, come attraverso una porta, l’uomo è in grado di avvicinarsi a questa conoscenza. Tuttavia Dio conserva sempre il suo alone di mistero e di incomprensibilità. Egli si rende intelligibile nel creato, ma questo, a sua volta, non viene compreso pienamente se viene distaccato da Dio. Infatti, la natura considerata in sé fornisce solo delle informazioni parziali, che non di rado diventano occasioni di errori e di abusi. Perciò anche nella dinamica conoscitiva naturale occorre la fede, altrimenti la conoscenza resta limitata, insoddisfacente e fuorviante.
La creazione è un atto di amore, grazie al quale il mondo può emergere dal nulla: dunque tutta la scala delle creature è attraversata, come la corrente di un fiume, dalla carità divina. Fra tutte le creature, Dio ama in modo particolare l’uomo e gli conferisce una straordinaria dignità, donandogli quella gloria che gli angeli ribelli hanno perduto. L’umanità, così, può essere considerata come il decimo coro della gerarchia angelica. Ebbene, l’uomo è in grado di conoscere Dio in se stesso, cioè la sua individua natura nella trinità delle persone. Ildegarda si accosta al mistero della Santissima Trinità nella linea già proposta da Sant’Agostino: per analogia con la propria struttura di essere razionale, l’uomo è in grado di avere almeno un’immagine della intima realtà di Dio. Ma è solo nell’economia dell’incarnazione e della vicenda umana del Figlio di Dio che questo mistero diventa accessibile alla fede e alla consapevolezza dell’uomo. La santa ed ineffabile Trinità nella somma unità era nascosta ai servitori della legge antica. Ma nella nuova grazia veniva rivelata ai liberati dalla servitù. La Trinità si è rivelata in modo particolare nella croce del Figlio.
Un secondo «luogo» in cui Dio si rende conoscibile è la sua parola contenuta nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Proprio perché Dio «parla», l’uomo è chiamato all’ascolto. Questo concetto offre a Ildegarda l’occasione di esporre la sua dottrina sul canto, in modo particolare quello liturgico. Il suono della parola di Dio crea vita e si manifesta nelle creature. Anche gli esseri privi di razionalità, grazie alla parola creatrice vengono coinvolti nel dinamismo creaturale. Ma, naturalmente, è l’uomo quella creatura che, con la sua voce, può rispondere alla voce del Creatore. E può farlo in due modi principali: in voce oris, cioè nella celebrazione della liturgia, e in voce cordis, cioè con una vita virtuosa e santa. L’intera vita umana, pertanto, può essere interpretata come un’armonia e una sinfonia: mentre l’armonia significa la restaurazione della relazione e la piena esperienza della redenzione, l’attuale esistenza umana con i suoi pericoli, contraddizioni e peccati, corrisponde a una sinfonia, a un insieme di suoni e di accordi allo stesso modo armoniosi e dissonanti. In questa sinfonia Dio fa ascoltare soprattutto la sua misericordia.
5. L’antropologia di Ildegarda prende inizio dalla pagina biblica della creazione dell’uomo (Gen 1, 26), fatto a immagine e somiglianza di Dio. L’uomo, secondo la cosmologia ildegardiana fondata sulla Bibbia, racchiude tutti gli elementi del mondo, perché l’universo intero si riassume in lui, che è formato della materia stessa della creazione. Perciò egli può in modo consapevole entrare in rapporto con Dio. Ciò accade non per una visione diretta, ma, seguendo la celebre espressione paolina, «come in uno specchio» (1 Cor 13, 12). L’immagine divina nell’uomo consiste nella sua razionalità, strutturata in intelletto e volontà. Grazie all’intelletto l’uomo è capace di distinguere il bene e il male, grazie alla volontà egli è spinto all’azione.
L’uomo è visto come unità di corpo e di anima. Si nota nella Mistica tedesca un apprezzamento positivo della corporeità e, anche negli aspetti di fragilità che il corpo manifesta, ella è capace di cogliere un valore provvidenziale: il corpo non è un peso di cui liberarsi e, perfino quando è debole e fragile, «educa» l’uomo al senso della creaturalità e dell’umiltà, proteggendolo dalla superbia e dall’arroganza. In una visione Ildegarda contempla le anime dei beati del paradiso, che sono in attesa di ricongiungersi ai loro corpi. Infatti, come per il corpo di Cristo, anche i nostri corpi sono orientati verso la risurrezione gloriosa, per una profonda trasformazione per la vita eterna. La stessa visione di Dio, nella quale consiste la vita eterna, non si può conseguire in modo definitivo senza il corpo.

L’uomo esiste nella forma maschile e femminile. Ildegarda riconosce che in questa struttura ontologica della condizione umana si radica una relazione di reciprocità e una sostanziale uguaglianza tra uomo e donna. Nell’umanità, però, abita anche il mistero del peccato ed esso si manifesta per la prima volta nella storia proprio in questo rapporto tra Adamo ed Eva. A differenza di altri autori medievali, che vedevano la causa della caduta nella debolezza di Eva, Ildegarda la coglie soprattutto nella smodata passione di Adamo verso di lei.
Anche nella sua condizione di peccatore, l’uomo continua ad essere destinatario dell’amore di Dio, perché questo amore è incondizionato e, dopo la caduta, assume il volto della misericordia. Perfino la punizione che Dio infligge all’uomo e alla donna fa emergere l’amore misericordioso del Creatore. In tal senso, la più precisa descrizione della creatura umana è quella di un essere in cammino, homo viator. In questo pellegrinaggio verso la patria, l’uomo è chiamato ad una lotta per poter scegliere costantemente il bene ed evitare il male.
La scelta costante del bene produce un’esistenza virtuosa. Il Figlio di Dio fatto uomo è il soggetto di tutte le virtù, perciò l’imitazione di Cristo consiste proprio in un’esistenza virtuosa nella comunione con Cristo. La forza delle virtù deriva dallo Spirito Santo, infuso nei cuori dei credenti, che rende possibile un comportamento costantemente virtuoso: questo è lo scopo dell’umana esistenza. L’uomo, in tal modo, sperimenta la sua perfezione cristiforme.

6.  Per poter raggiungere questo scopo, il Signore ha donato i sacramenti alla sua Chiesa. La salvezza e la perfezione dell’uomo, infatti, non si compiono solo mediante uno sforzo della volontà, bensì attraverso i doni della grazia che Dio concede nella Chiesa.

La Chiesa stessa è il primo sacramento che Dio pone nel mondo perché comunichi agli uomini la salvezza. Essa, che è la «costruzione delle anime viventi», può essere giustamente considerata come vergine, sposa e madre e, dunque, è strettamente assimilata alla figura storica e mistica della Madre di Dio. La Chiesa comunica la salvezza anzitutto custodendo e annunziando i due grandi misteri della Trinità e dell’Incarnazione, che sono come i due «sacramenti primari», poi mediante l’amministrazione degli altri sacramenti. Il vertice della sacramentalità della Chiesa è l’eucaristia. I sacramenti producono la santificazione dei credenti, la salvezza e la purificazione dei peccati, la redenzione, la carità e tutte le altre virtù. Ma, ancora una volta, la Chiesa vive perché Dio in essa manifesta il suo amore intratrinitario, che si è rivelato in Cristo. Il Signore Gesù è il mediatore per eccellenza. Dal grembo trinitario egli viene incontro all’uomo e dal grembo di Maria egli va incontro a Dio: come Figlio di Dio è l’amore incarnato, come Figlio di Maria è il rappresentante dell’umanità davanti al trono di Dio.

L’uomo può giungere perfino a sperimentare Dio. Il rapporto con lui, infatti, non si consuma nella sola sfera della razionalità, ma coinvolge in modo totale la persona. Tutti i sensi esterni e interni dell’uomo sono interessati nell’esperienza di Dio: «Homo autem ad imaginem et similitudinem Dei factus est, ut quinque sensibus corporis sui operetur; per quos etiam divisus non est, sed per eos est sapiens et sciens et intellegens opera sua adimplere. [...] Sed et per hoc, quod homo sapiens, sciens et intellegens est, creaturas conosci; itaque per creaturas et per magna opera sua, quae etiam quinque sensibus suis vix comprehendit, Deum cognoscit, quem nisi in fide videre non valet» (Explanatio Symboli Sancti Athanasii: pl 197, 1066). Questa via esperienziale, ancora una volta, trova la sua pienezza nella partecipazione ai sacramenti.

Ildegarda vede anche le contraddizioni presenti nella vita dei singoli fedeli e denunzia le situazioni più deplorevoli. In modo particolare, ella sottolinea come l’individualismo nella dottrina e nella prassi da parte tanto dei laici quanto dei ministri ordinati sia un’espressione di superbia e costituisca il principale ostacolo alla missione evangelizzatrice della Chiesa verso i non cristiani.

Una delle vette del magistero di Ildegarda è l’accorata esortazione a una vita virtuosa che ella rivolge a chi si impegna in uno stato di consacrazione. La sua comprensione della vita consacrata è una vera «metafisica teologica», perché fermamente radicata nella virtù teologale della fede, che è la fonte e la costante motivazione per impegnarsi a fondo nell’obbedienza, nella povertà e nella castità. Nel realizzare i consigli evangelici la persona consacrata condivide l’esperienza di Cristo povero, casto e obbediente e ne segue le orme nell’esistenza quotidiana. Questo è l’essenziale della vita consacrata.
7. L’eminente dottrina di Ildegarda riecheggia l’insegnamento degli apostoli, la letteratura patristica e gli autori contemporanei, mentre trova nella Regola di San Benedetto da Norcia un costante punto di riferimento. La liturgia monastica e l’interiorizzazione della Sacra Scrittura costituiscono le linee-guida del suo pensiero, che, concentrandosi nel mistero dell’Incarnazione, si esprime in una profonda unità stilistica e contenutistica che percorre intimamente tutti i suoi scritti.
L’insegnamento della santa monaca benedettina si pone come una guida per l’homo viator. Il suo messaggio appare straordinariamente attuale nel mondo contemporaneo, particolarmente sensibile all’insieme dei valori proposti e vissuti da lei. Pensiamo, ad esempio, alla capacità carismatica e speculativa di Ildegarda, che si presenta come un vivace incentivo alla ricerca teologica; alla sua riflessione sul mistero di Cristo, considerato nella sua bellezza; al dialogo della Chiesa e della teologia con la cultura, la scienza e l’arte contemporanea; all’ideale di vita consacrata, come possibilità di umana realizzazione; alla valorizzazione della liturgia, come celebrazione della vita; all’idea di riforma della Chiesa, non come sterile cambiamento delle strutture, ma come conversione del cuore; alla sua sensibilità per la natura, le cui leggi sono da tutelare non da violare.
Perciò l’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarda di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne. In Ildegarda risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura, sia nell’ottica della ricerca scientifica sia in quella dell’azione pastorale. La sua capacità di parlare a coloro che sono lontani dalla fede e dalla Chiesa rendono Ildegarda una testimone credibile della nuova evangelizzazione.
In virtù della fama di santità e della sua eminente dottrina, il 6 marzo 1979 il Signor Cardinale Joseph Höffner, Arcivescovo di Colonia e Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, insieme con i Cardinali, Arcivescovi e Vescovi della medesima Conferenza, tra i quali eravamo anche Noi quale Cardinale Arcivescovo di Monaco e Frisinga, sottopose al Beato Giovanni Paolo II la Supplica, affinché Ildegarda di Bingen fosse dichiarata Dottore della Chiesa universale. Nella Supplica, l’Em.mo Porporato metteva in evidenza l’ortodossia della dottrina di Ildegarda, riconosciuta nel XII secolo da Papa Eugenio III, la sua santità costantemente avvertita e celebrata dal popolo, l’autorevolezza dei suoi trattati. A tale Supplica della Conferenza Episcopale Tedesca, negli anni se ne sono aggiunte altre, prima fra tutte quella delle Monache del monastero di Eibingen, a lei intitolato. Al desiderio comune del Popolo di Dio che Ildegarda fosse ufficialmente proclamata santa, dunque, si è aggiunta la richiesta che sia anche dichiarata «Dottore della Chiesa universale».
Con il nostro consenso, pertanto, la Congregazione delle Cause dei Santi diligentemente preparò una Positio super Canonizatione et Concessione tituli Doctoris Ecclesiae universalis per la Mistica di Bingen. Trattandosi di una rinomata maestra di teologia, che è stata oggetto di molti e autorevoli studi, abbiamo concesso la dispensa da quanto disposto dall’art. 73 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus. Il caso fu quindi esaminato con esito unanimemente positivo dai Padri Cardinali e Vescovi radunati nella Sessione Plenaria del 20 marzo 2012, essendo Ponente della Causa l’Em.mo Card. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nell’Udienza del 10 maggio 2012 lo stesso Cardinale Amato Ci ha dettagliatamente informati sullo status quaestionis e sui voti concordi dei Padri della menzionata Sessione Plenaria della Congregazione delle Cause dei Santi. Il 27 maggio 2012, Domenica di Pentecoste, avemmo la gioia di comunicare in Piazza San Pietro alla moltitudine dei pellegrini convenuti da tutto il mondo la notizia del conferimento del titolo di Dottore della Chiesa universale a Santa Ildegarda di Bingen e san Giovanni d’Ávila all’inizio dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi e alla vigilia dell’Anno della Fede.
Oggi, dunque, con l’aiuto di Dio e il plauso di tutta la Chiesa, ciò è fatto. In Piazza San Pietro, alla presenza di molti Cardinali e Presuli della Curia Romana e della Chiesa cattolica, confermando ciò che è stato fatto e soddisfacendo con grande piacere i desideri dei supplicanti, durante il sacrificio Eucaristico abbiamo pronunziato queste parole: 
«Noi accogliendo il desiderio di molti Fratelli nell’Episcopato e di molti fedeli del mondo intero, dopo aver avuto il parere della Congregazione delle Cause dei Santi, dopo aver lungamente riflettuto e avendo raggiunto un pieno e sicuro convincimento, con la pienezza dell’autorità apostolica dichiariamo  San Giovanni d’Avila, sacerdote diocesano, e Santa Ildegarda di Bingen, monaca professa dell’Ordine di San Benedetto, Dottori della Chiesa universale, Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Queste cose decretiamo e ordiniamo, stabilendo che questa lettera sia e rimanga sempre certa, valida ed efficace, e che sortisca e ottenga i suoi effetti pieni e integri; e così convenientemente si giudichi e si definisca; e sia vano e senza fondamento quanto diversamente intorno a ciò possa essere tentato da chiunque con qualsivoglia autorità, scientemente o per ignoranza. 

Dato a Roma, presso San Pietro,
col sigillo del Pescatore, 
il 7 ottobre 2012, anno ottavo 
del Nostro Pontificato.

BENEDICTUS PP. XVI