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sabato 11 gennaio 2020

Quel grido, quell’«Io mi vergogno», risvegliò le coscienze...

Edoardo Dallari

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Se all’interno del dibattito pubblico stiamo assistendo a un ritorno prepotente del pensiero di Oriana Fallaci il merito è di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Le sue idee non hanno mai avuto chiaro colore politico. È tuttavia un fatto inequivocabile che, a partire dalla trilogia La Rabbia e l’Orgoglio, La forza della Ragione e Oriana Fallaci intervista se stessa, siano state abbracciate e portate avanti dagli ambienti legati alla destra italiana. La critica all’Islam culla del terrorismo, l’opposizione al pericolo dell’islamizzazione dell’Europa attraverso un’immigrazione di massa strumento dell’invasione «condotta all’insegna della clandestinità», la denuncia del fallimento del multiculturalismo e dell’idea di integrazione, l’attacco all’antisemitismo, la difesa della libertà occidentale, le posizioni pro vita («nascere è meglio di non nascere»), fanno sì che la Fallaci entri di diritto nel Pantheon intellettuale della Nuova Destra europea. Si trova così oggi accanto al comunitarista Alain De Benoist, all’ideologo dell’Eurasia Aleksandr Dugin, all’anti-islamista Michel Onfray. E questo accade nonostante fosse estranea, come ovvio, al dibattito contemporaneo globalisti-sovranisti, e il suo riferimento politico fosse la Destra storica liberale italiana dei Cavour e dei D’Azeglio, dei Gioberti e dei Cattaneo. E benché sia proprio il liberalismo a essere criticato da quegli autori «populisti».
Dalla Sinistra, quella Sinistra «confessionale», «ecclesiastica», «illiberale», «totalitaria», «anti-occidentale» come quell’Islam radicale antisemita che, apprezzando Khomeini e Arafat, ha difeso e sostenuto, Oriana è stata censurata, demonizzata, odiata. Proprio lei, che è nata antifascista e si è schierata contro la guerra in Vietnam, che ha fatto del femminismo una delle battaglie più importanti della sua vita. Quel grido, quell’«Io mi vergogno», risvegliò le coscienze, esaltando o indignando poco conta. Un grido che, insieme al «Wake up Occidente, sveglia!» testimonia tutta la sofferenza e la preoccupazione di chi sente che un’intera civiltà è al bivio decisivo: risorgere o tramontare. Senza boria dei dotti, contro le anime belle, contro ogni coscienza anestetizzata e sclerotizzata dal politically correct progressista dei maîtres à penser nostrani (le «cicale») che si diffonde come un morbo nella società.
L’11 settembre 2001, l’«Apocalisse» squarcia il velo dell’illusione della fine della storia preconizzato da Francis Fukuyama: la caduta del Muro di Berlino e dell’Urss non hanno decretato il trionfo della democrazia liberale, ma dato inizio a una nuova fase di incertezza. Non è più il socialismo reale a farsi carico ideologicamente delle istanze dei popoli poveri, ma l’Islam. E la Fallaci, con toni accesi, violenti, a tratti pericolosi, vede che l’11 settembre ha scoperchiato il vaso di Pandora: il Nemico pubblico dell’Occidente, il Nemico mortale, si è palesato.
L’Islam politico teocratico da un lato funge da veste ideologica dell’anti-occidentalismo che si diffonde in quel Medio-Oriente dove le potenze occidentali hanno fallito, dall’altro è l’humus del terrorismo globale. Per Samuel Huntington era l’inizio di un nuovo scontro di civiltà, per la Fallaci l’avvio di una «Crociata alla rovescia», la Jihad, che, attraverso una «penetrazione graduale», come sostiene anche Michel Houellebecq, altro autore caro al «populismo di destra», ha come mira finale la «sottomissione» della cultura occidentale a quella islamica, mercé l’introduzione della Sharia.
L’opposizione all’Eurabia è a un tempo per Oriana un’accusa a un’Europa stanca, smarrita, rassegnata e impotente, e a un Occidente nichilista incapace di affermare la sua identità e di ricordare le sue radici pagane e giudaico-cristiane. «Io sono un’atea cristiana» è un’invocazione all’orgoglio, a combattere una guerra che non si può vincere con la viltà del pacifismo e la retorica ipocrita dell’umanitarismo, e che non si può perdere, anche a costo di essere tacciati di razzismo. Il rispetto dell’altro non può voler dire abdicare ai propri valori, rinunciare a se stessi. È un’invocazione a lottare per la difesa del nostro Occidente, nonostante tutti i suoi limiti, gli errori e gli orrori che ha perpetrato. Whatever it takes.
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martedì 29 ottobre 2019

Il coraggio e ...l'arte di Oriana Fallaci nell'intervista ad Arafat

Yassir Arafat

Da Intervista con la storia, 1974

Amman, marzo 1972

Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che no, non poteva essere lui. Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel fluido misterioso che emana sempre da un capo investendoti come un profumo o uno schiaffo. Di impressionante non aveva che i baffi, folti e identici ai baffi che quasi ciascun arabo porta, e il fucile mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca mai. Certo lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso. Di statura era piccolo, un metro e sessanta direi. E anche le mani eran piccole, anche i piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità. Su tutto ciò si rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yassir Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino alla noia. Uno stranissimo, inconfondibile volto che avresti riconosciuto tra mille: nel buio. Il volto di un divo. Non solo per gli occhiali neri che ormai lo distinguevano quanto la benda del suo acerrimo nemico Moshe Dayan, ma per la sua maschera che non assomiglia a nessuno e ricorda il profilo di un uccello rapace o di un ariete arrabbiato. Infatti non ha quasi guance, né mento. Si riassume tutta in una gran bocca dalle labbra rosse e cicciute, poi in un naso aggressivo e due occhi che se non sono nascosti dietro lo schermo di vetro ti ipnotizzano: grandi, lucidi, sporgenti. Due macchie d’inchiostro. Con simili occhi ora mi guardava, educato e distratto. Poi con vocina gentile, quasi affettuosa, mormorò in inglese: «Buonasera, due minuti e sono da lei». La voce aveva una specie di fischio buffo. E un che di femminile.
Chi lo aveva incontrato di giorno, quando la sede giordana di Al Fatah era affollata di guerriglieri e di gente, giurava di aver visto intorno a lui un’eccitazione commossa: la stessa che egli solleva ogni volta che appare in pubblico. Ma il mio appuntamento era notturno e, a quell’ora, le dieci, non c’era quasi nessuno. Ciò contribuì a togliere al suo arrivo ogni atmosfera drammatica. Ignorando la sua identità, avresti concluso che l’uomo era importante solo perché accompagnato da una guardia del corpo. Ma quale guardia del corpo! Il bellone più bellone che avessi mai visto. Alto, snello, elegante, sai il tipo che indossa la tuta mimetizzata come se fosse un frac, e con un viso scavato: da rubacuori occidentale. Forse perché era biondo, con gli occhi azzurri, mi venne spontaneo pensare che il bellone fosse occidentale anzi tedesco. E, forse perché Arafat se lo portava dietro con tanto orgoglio, mi venne ancor più spontaneo pensare che il bellone fosse qualcosa di più che una guardia del corpo. Un amico molto affezionato, diciamo. Oltre a costui, che presto girò sui tacchi e scomparve, c’era un tipaccio in borghese che ti sbirciava brutto e col tono di dire: tocca-il-mio-capo-e-ti-uccido-a-mo’-di-un-colabrodo. Infine c’erano l’accompagnatore che avrebbe fatto da interprete e Abu George: incaricato di scrivere domande e risposte onde controllarle poi col mio testo. Questi ultimi due ci seguirono nella stanza scelta per l’intervista. Nella stanza c’erano alcune sedie e una scrivania. Arafat posò sulla scrivania il fucile mitragliatore e si sedette con un sorriso di denti bianchi, aguzzi come i denti di un lupo. Sulla sua giacca a vento, in tela grigioverde, spiccava un distintivo con due Marine del Vietnam e la scritta «Black Panthers against American Fascism. Pantere Nere contro il fascismo americano». Glielo avevano dato due ragazzuoli della California che si definivano americano-marxisti e che eran venuti col pretesto di offrirgli l’alleanza di Rap Brown, in realtà per fare un filmetto e ricavarci quattrini. Glielo dissi. Il mio giudizio lo toccò senza offenderlo. L’atmosfera era rilassata, cordiale, ma priva di promesse. Un’intervista con Arafat non serve mai, lo sapevo, ad ottenere risposte memorabili. Tantomeno a strappare informazioni su lui.
L’uomo più celebre della resistenza palestinese è infatti anche il più misterioso: la cortina di silenzio che circonda la sua vita privata è così fitta da farci chiedere se non costituisca un’astuzia per incrementarne la pubblicità, una civetteria per renderlo più prezioso. Perfino ottenere un colloquio con lui è difficilissimo. Col pretesto che egli si trova sempre in viaggio, ora al Cairo e ora a Rabat, ora al Libano e ora in Arabia Saudita, ora a Mosca e ora a Damasco, te lo fanno sospirare per giorni, per settimane, e se poi te lo danno è con l’aria di regalarti un privilegio speciale o un’esclusiva di cui non sei degno. Nel frattempo tu cerchi, ovvio, di raccoglier notizie sul suo carattere, sul suo passato. Ma, a chiunque tu ti rivolga, trovi un imbarazzato mutismo: solo in parte giustificato dal fatto che Al Fatah mantiene sui suoi capi il più fitto segreto e non ne fornisce mai la biografia. Confidenze sottobanco ti sussurreranno che non è comunista, che non lo sarebbe mai neanche se a indottrinarlo fosse Mao Tse-tung in persona: si tratta di un militare, ripetono, di un patriota, e non di un ideologo. Indiscrezioni ormai diffuse ti confermeranno che nacque a Gerusalemme, forse trentasei o forse quaranta o forse quarantacinque anni fa, che la sua famiglia era nobile e che la sua giovinezza fu agiata: suo padre possedeva un’antica ricchezza che le confische non avevano troppo intaccato. Tali confische, avvenute nel corso di un secolo e mezzo, erano state imposte dagli egiziani su certi latifondi e su certi immobili al centro del Cairo. E poi? Vediamo: poi, nel 1947, Yassir aveva combattuto contro gli ebrei che davano vita a Israele e s’era iscritto all’università del Cairo per studiare ingegneria. In quegli anni aveva anche fondato l’Associazione studenti palestinesi, la stessa da cui sarebbe fiorito il nucleo di Al Fatah. Ottenuta la laurea, era andato a lavorare nel Kuwait e qui aveva fondato un giornale che incitava alla lotta nazionalista, era entrato a far parte di un gruppo detto Fratelli Musulmani. Nel 1955 era rientrato in Egitto per frequentare un corso di ufficiali e specializzarsi in esplosivi, nel 1965 aveva contribuito in modo speciale alla nascita di Al Fatah assumendo il nome di Abu Ammar. Cioè Colui che Costruisce, Padre Costruttore. Nel 1967 era stato eletto presidente dell’OLP, Organizzazione di Liberazione Palestinese, movimento di cui fanno ormai parte i membri di Al Fatah, del Fronte Popolare, di Al Saiqa, eccetera: solo recentemente era stato scelto come portavoce di Al Fatah, suo messaggero. Ma a questo punto, se chiedevi perché, allargavano le braccia e rispondevano: «Boh, qualcuno doveva pur farlo, uno o l’altro non fa differenza». Della sua vita quotidiana non ti dicevano nulla fuorché il particolare che non ha nemmeno una casa. Ed era vero: quando non abitava in quella del fratello, ad Amman, dormiva nelle basi o dove capitava. Era anche vero che non fosse sposato. Non gli si conoscevano donne e, malgrado il pettegolezzo di un platonico flirt con una scrittrice ebrea che aveva abbracciato la causa araba, sembrava proprio che ne potesse fare a meno: come avevo sospettato vedendolo arrivare col bellone.
Guarda, il mio sospetto è che, salvo particolari utili a correggere le inesattezze, non vi sia altro da dire su Arafat. Quando un uomo ha un passato clamoroso lo senti anche se lo nasconde: perché il passato resta scritto sul volto, negli occhi. Sul volto di Arafat, invece, non trovi che quella strana maschera impostagli da madre natura: non da esperienze pagate. V’è qualcosa di insoddisfacente in lui, di non ancora fatto. Se ci pensi bene, del resto, ti accorgi che la sua fama esplose più per la stampa che per le sue gesta: dall’ombra lo tirarono fuori i giornalisti occidentali e in particolare americani, sempre bravissimi nell’inventar personaggi o montarli. Basti pensare ai bonzi del Vietnam, al venerabile Tri Quang. D’accordo: Arafat non può essere paragonato a Tri Quang. Della resistenza palestinese è davvero un artefice, o uno degli artefici, e uno stratega. O uno degli strateghi. Il portavoce di Al Fatah lo fa per davvero a Mosca. A Rabat e al Cairo ci va per davvero. Ma ciò non significa, tantomeno significava, che egli fosse il leader dei palestinesi in guerra. E, comunque, fra tutti i palestinesi che incontrai, Arafat resta quello che mi impressionò meno di tutti.
O dovrei dire quello che mi piacque meno di tutti? Una cosa è certa: egli non è un uomo nato per piacere. È un uomo nato per irritare. Avvertire simpatia per lui è difficile. Anzitutto per il silenzioso rifiuto che oppone a chi tenti un approccio umano: la sua cordialità è superficiale, la sua gentilezza è formale, e un nulla basta a renderlo ostile, freddo, arrogante. Si scalda solo quando si arrabbia. E allora la sua vocina diventa un vocione, i suoi occhi diventano polle di odio, e sembra che voglia sbranarti insieme a tutti i suoi nemici. Poi per la mancanza di originalità e di seduzione che caratterizza tutte le sue risposte. A mio parere, in un’intervista, non sono le domande che contano ma le risposte. Se una persona ha talento, puoi chiederle la cosa più banale del mondo: ti risponderà sempre in modo brillante o profondo. Se una persona è mediocre, puoi porle la domanda più acuta del mondo: ti risponderà sempre in modo mediocre. Se poi tale legge la applichi a un uomo combattuto tra il calcolo e la passione, guarda: dopo averlo ascoltato, non ti resta in mano che un pugno di mosche. Con Arafat mi trovai proprio con un pugno di mosche. Egli reagì quasi sempre con discorsi allusivi o evasivi, giri di frase che non contenevano nulla fuorché la sua intransigenza retorica, il suo costante timore di non persuadermi. E nessuna volontà di considerare, sia pure in un gioco dialettico, il punto di vista altrui. Né basta osservare come l’incontro tra un arabo che crede alla guerra e un’europea che non ci crede più sia un incontro immensamente difficile. Anche perché quest’ultima resta imbevuta del suo cristianesimo, del suo odio per l’odio, e l’altro invece resta infagottato dentro la sua legge dell’occhio-per-occhio-dente-per-dente: epitome di ogni orgoglio. Ma v’è un punto in cui tale orgoglio fa difetto, ed è laddove Yassir Arafat invoca la comprensione altrui o pretende di trascinare dentro la sua barricata chi è sconvolto dai dubbi. Interessarsi alla sua causa, ammetterne la fondamentale giustizia, criticarne i punti deboli e rischiare quindi la propria incolumità fisica e morale, non è cosa che a lui basti. A ciò reagisce anzi con l’arroganza che ho detto, l’alterigia più ingiustificata, e quell’inclinazione assurda ad attaccar lite su ogni parola, suppongo. E ciascuno di quei novanta minuti mi lasciò insoddisfatta sia sul piano umano che intellettuale o politico. Mi divertì però scoprire che gli occhiali neri non li porta anche di sera perché sono occhiali da vista. Li porta per farsi notare. Infatti, sia di giorno che di notte, ci vede benissimo. Coi paraocchi ma benissimo. Non ha fatto anche carriera negli ultimi anni? Non s’è fatto eleggere capo di tutta la resistenza palestinese e non se ne va in giro come un capo di Stato? Non pretende nemmeno più d’esser chiamato Abu Ammar.


ORIANA FALLACI. Abu Ammar, si parla tanto di lei ma non si sa quasi nulla di lei e...
YASSIR ARAFAT. Di me c’è solo da dire che sono un umile combattente palestinese. Da molto tempo. Lo divenni nel 1947, insieme a tutta la mia famiglia. Sì, fu quell’anno che la mia coscienza si svegliò e compresi quale barbara invasione fosse avvenuta nel mio paese. Mai una simile nella storia del mondo.

Quanti anni aveva, Abu Ammar? Glielo chiedo perché la sua età è controversa.
Niente domande personali.

Abu Ammar, le sto chiedendo esclusivamente quanti anni ha. Lei non è una donna. Può dirmelo.
Ho detto: niente domande personali.

Abu Ammar, se non vuole nemmeno dire l’età, perché si espone sempre all’attenzione del mondo e permette che il mondo guardi a lei come al capo della resistenza palestinese?
Ma io non ne sono il capo! Non voglio esserlo! Veramente, lo giuro. Io sono appena un membro del comitato centrale, uno dei tanti, e per precisione quello cui è stato ordinato di fare il portavoce. Cioè di riferire cosa decidono altri. È un grosso equivoco considerarmi il capo: la resistenza palestinese non ha un capo. Noi tentiamo infatti di applicare il concetto della guida collettiva e la cosa presenta difficoltà, ovvio, ma noi insistiamo poiché riteniamo indispensabile non affidare a uno solo la responsabilità e il prestigio. È un concetto moderno e serve a non recar torto alle masse che combattono, ai fratelli che muoiono. Se muoio, le sue curiosità saranno esaudite: lei saprà tutto di me. Fino a quel momento, no.

Non direi che i suoi compagni vogliano permettersi il lusso di lasciarla morire, Abu Ammar. E, a giudicare dalla sua guardia del corpo, direi che la ritengano molto più utile se resta vivo.
No. È probabile invece che io sia molto più utile da morto che da vivo. Eh, sì: la mia morte servirebbe molto alla causa, come incentivo. Aggiungerò anzi che io ho molte probabilità di morire: potrebbe accadere stanotte, domani. Se muoio, non è una tragedia: un altro andrà in giro pel mondo a rappresentare Al Fatah, un altro dirigerà le battaglie... Sono più che pronto a morire. Per la mia sicurezza non ho la cura che lei crede.

Capisco. D’altra parte, le linee per recarsi in Israele ogni tanto le passa anche lei: vero, Abu Ammar? Gli israeliani danno per certo che lei sia entrato in Israele due volte, sfuggendo alle loro imboscate. Ed aggiungono: chi riesce a far questo dev’essere assai furbo.
Ciò che lei chiama Israele è casa mia. Quindi non ero in Israele ma a casa mia: con tutto il diritto di andare a casa mia. Sì, ci sono stato, ma molto più spesso che due volte sole. Ci vado continuamente, ci vado quando voglio. Certo, esercitare questo diritto è abbastanza difficile: le loro mitraglie sono sempre pronte. Però è meno difficile di quanto essi credano: dipende dalle circostanze, dai punti che si scelgono. È necessaria scaltrezza, in ciò hanno ragione. Non a caso quei viaggi noi li chiamiamo «viaggi della volpe». Però li informi pure che quei viaggi i nostri ragazzi, i fedayn, li compiono quotidianamente. E non sempre per attaccare il nemico. Li abituiamo a passare le linee per conoscere la loro terra, per muovercisi dentro con disinvoltura. Spesso arriviamo, perché ciò l’ho fatto, fino alla striscia di Gaza e fino al deserto del Sinai. Portiamo anche le armi fin là. I combattenti di Gaza non ricevono mica le armi dal mare: le ricevono da noi, da qui.

Abu Ammar, quanto durerà tutto questo? Quanto a lungo potrete resistere?
Simili calcoli noi non ce li poniamo nemmeno. Siamo soltanto all’inizio di questa guerra. Incominciamo solo ora a prepararci per quella che sarà una lunga, lunghissima guerra. Certo una guerra destinata a prolungarsi per generazioni. Né siamo la prima generazione che combatte: il mondo non sa o dimentica che negli anni Venti i nostri padri combattevano già l’invasore sionista. Erano deboli, allora, perché troppo soli contro avversari troppo forti e sostenuti dagli inglesi, dagli americani, dagli imperialisti della terra. Ma noi siamo forti: dal gennaio 1965, cioè dal giorno in cui nacque Al Fatah, siamo un avversario pericolosissimo per Israele. I fedayn stanno acquistando esperienza, stanno moltiplicando i loro attacchi e migliorando la loro guerriglia: il loro numero aumenta precipitosamente. Lei chiede quanto potremo resistere: la domanda è sbagliata. Lei deve chiedere quanto potranno resistere gli israeliani. Giacché non ci fermeremo mai fino a quando non saremo tornati a casa nostra e avremo distrutto Israele. L’unità del mondo arabo renderà questo possibile.

Abu Ammar, voi invocate sempre l’unità del mondo arabo. Ma sapete benissimo che non tutti gli Stati arabi sono disposti a entrare in guerra per la Palestina e che, per quelli già in guerra, un accordo pacifico è possibile, anzi augurabile. Lo ha detto perfino Nasser. Se tale accordo avverrà, come auspica anche la Russia, voi cosa farete?
Non lo accetteremo. Mai! Continueremo a far guerra a Israele da soli, finché non riavremo la Palestina. La fine di Israele è lo scopo della nostra lotta, ed essa non ammette né compromessi né mediazioni. I punti di questa lotta, che piacciano o non piacciano ai nostri amici, resteranno sempre fissati nei princìpi che enumerammo nel 1965 con la creazione di Al Fatah. Primo: la violenza rivoluzionaria è il solo sistema per liberare la terra dei nostri padri; secondo: lo scopo di questa violenza è di liquidare il sionismo in tutte le sue forme politiche, economiche, militari, e cacciarlo per sempre dalla Palestina; terzo: la nostra azione rivoluzionaria dev’essere indipendente da qualsiasi controllo di partito o di Stato; quarto: questa azione sarà di lunga durata. Conosciamo le intenzioni di alcuni capi arabi: risolvere il conflitto con un accordo pacifico. Quando questo accadrà, ci opporremo.

Conclusione: voi non volete affatto la pace che tutti auspicano.
No! Non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra, la vittoria. La pace per noi significa distruzione di Israele e nient’altro. Ciò che voi chiamate pace, è pace per Israele e gli imperialisti. Per noi è ingiustizia e vergogna. Combatteremo fino alla vittoria. Decine di anni se necessario, generazioni.

Siamo pratici, Abu Ammar: quasi tutte le basi dei fedayn sono in Giordania, altre sono in Libano. Il Libano non ha molta voglia di fare la guerra e la Giordania ha una gran voglia di uscirne. Ammettiamo che questi due paesi, decisi a un accordo pacifico, decidano di impedirvi gli attacchi a Israele. In altre parole, impediscano ai guerriglieri di fare i guerriglieri. È già successo e succederà di nuovo. Di fronte a ciò cosa fate? Dichiarate guerra anche alla Giordania e al Libano?
Noi non possiamo combattere sulla base dei “se”. È diritto di ogni Stato arabo decidere ciò che vuole, compreso un accordo pacifico con Israele; è nostro diritto voler tornare a casa senza compromessi. Tra gli Stati arabi, alcuni sono incondizionatamente con noi. Altri no. Ma il rischio di restare soli a combattere Israele è un rischio che avevamo previsto. Basti pensare agli insulti che ci hanno buttato addosso all’inizio: siamo stati così maltrattati che ormai ai maltrattamenti non ci facciamo più caso. La nostra stessa formazione, voglio dire, è un miracolo: la candela che si accese nel 1965 brillò nel buio più nero. Ma ora siamo molte candele, e illuminiamo l’intera nazione araba. E al di là della nazione araba.

Questa è una risposta molto poetica e molto diplomatica, ma non è la risposta a ciò che le ho chiesto, Abu Ammar. Io ho chiesto: se la Giordania non vi vuole davvero più, dichiarate guerra alla Giordania?
Io sono un militare, e un capo militare. Come tale devo tenere i miei segreti: non sarò io a rivelarle i nostri futuri campi di battaglia. Se lo facessi, Al Fatah mi manderebbe alla corte marziale. Perciò tragga le sue conclusioni da ciò che ho detto prima. Io le ho detto che continueremo fino in fondo la marcia per la liberazione della Palestina, che ciò piaccia o non piaccia ai paesi in cui ci troviamo. Ci troviamo in Palestina anche ora.

Ci troviamo in Giordania, Abu Ammar. E le domando: ma cosa significa Palestina? La stessa identità nazionale della Palestina s’è persa col tempo, e anche i suoi confini geografici si sono persi. C’erano i turchi, qui, prima del mandato britannico e di Israele. Quali sono dunque i confini geografici della Palestina?
Noi non ci poniamo il problema dei confini. Nella nostra costituzione non si parla dei confini perché a porre i confini furono i colonialisti occidentali che ci invasero dopo i turchi. Da un punto di vista arabo, non si può parlare di confini: la Palestina è un piccolo punto nel grande oceano arabo. E la nostra nazione è quella araba, è una nazione che va dall’Atlantico al Mar Rosso e oltre. Ciò che vogliamo da quando la catastrofe esplose nel 1947 è liberare la nostra terra e ricostruire lo Stato democratico palestinese.

Ma quando si parla di uno Stato bisogna pur dire entro quali limiti geografici si forma o si formerà questo Stato! Abu Ammar, le chiedo di nuovo: quali sono i confini geografici della Palestina?
Come fatto indicativo possiamo decidere che i confini della Palestina siano quelli stabiliti al tempo del mandato britannico. Se prendiamo l’accordo franco-inglese del 1918, Palestina significa il territorio che va da Naqurah, al nord, fino ad Akaba al sud e, poi, dalla costa del Mediterraneo che include la striscia di Gaza fino al fiume Giordano e al deserto del Negev.

Ho capito. Ma questo include anche un bel pezzo di terra che oggi fa parte della Giordania: cioè tutta la regione a est del Giordano. La Cisgiordania.
Sì. Ma i confini non hanno importanza, ripeto. Ha importanza l’unità araba e basta.

I confini hanno importanza se toccano od oltrepassano il territorio di un paese che esiste già, come la Giordania.
Ciò che lei chiama Cisgiordania è Palestina.

Abu Ammar, come è possibile parlare di unità araba se fin da ora si pongono simili problemi con alcuni paesi arabi? Non solo, quando neanche tra voi palestinesi andate d’accordo? Esiste una gran divisione perfino tra voi di Al Fatah e gli altri movimenti. Ad esempio col Fronte Popolare.
Ogni rivoluzione ha i suoi problemi privati. Anche nella rivoluzione algerina c’era più di un movimento e, ch’io sappia, anche in Europa durante la resistenza ai nazisti. Nello stesso Vietnam esistono più movimenti, i vietcong non sono che la stragrande maggioranza come noi di Al Fatah. Ma noi di Al Fatah raccogliamo il 97 per cento dei combattenti e siamo quelli che conducono la lotta all’interno del territorio occupato. Non a caso, quando decise la distruzione del villaggio di El Heul, e minò duecentodiciotto case a scopo punitivo, Moshe Dayan disse: «Bisogna chiarire chi controlla questo villaggio, se noi o Al Fatah». Citò Al Fatah, non il Fronte Popolare. Il Fronte Popolare... Nel febbraio del 1969 il Fronte Popolare si è scisso in cinque parti e quattro di esse sono già entrate a far parte di Al Fatah: lentamente, quindi, ci stiamo unendo. E se George Habash, il capo del Fronte Popolare, non è oggi con noi, si unirà presto a noi. Glielo abbiamo già chiesto: in fondo non c’è differenza di obiettivi tra noi e il Fronte Popolare.

Il Fronte Popolare è comunista. Voi dite di non esserlo per costituzione.
Tra noi vi sono combattenti di tutte le idee: li avrà incontrati. Quindi tra noi c’è posto anche per il Fronte Popolare. Dal Fronte Popolare ci distinguono solo alcuni sistemi di lotta. Infatti noi di Al Fatah non abbiamo mai dirottato un aereo e non abbiamo mai fatto esplodere bombe o causato sparatorie in altri paesi. Preferiamo condurre una lotta puramente militare. Ciò non significa, tuttavia, che al sistema dei sabotaggi non si ricorra anche noi: dentro la Palestina che lei chiama Israele. Ad esempio siamo quasi sempre noi che facciamo scoppiare le bombe a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Eilat.

Ciò coinvolge i civili, però. Non è una lotta puramente militare.
Lo è! Perché, civili o militari, sono tutti ugualmente colpevoli di voler distruggere il nostro popolo. Sedicimila palestinesi sono stati arrestati perché aiutavano i nostri commandos, ottomila case di palestinesi sono state distrutte, senza contare le torture cui vengono sottoposti i nostri fratelli nelle loro prigioni, e i bombardamenti al napalm sulla popolazione inerme. Noi facciamo certe operazioni, chiamate sabotaggi, per dimostrargli che siamo capaci di tenerli in mano con gli stessi sistemi. Ciò colpisce inevitabilmente i civili, ma i civili sono i primi complici della banda che governa Israele. Perché se i civili non approvano i sistemi della banda al potere, non hanno che dimostrarlo. Lo sappiamo benissimo che molti non approvano. Quelli ad esempio che abitavano in Palestina prima dell’emigrazione ebrea, e anche alcuni tra quelli che emigrarono con la precisa intenzione di rubarci le terre. Perché ci vennero da innocenti, con la speranza di scordare le antiche sofferenze. Gli avevano promesso il Paradiso, qui nella nostra terra, e loro vennero a pigliarsi il Paradiso. Troppo tardi si accorsero che era invece l’inferno: sapesse quanti di loro ora voglion fuggire da Israele. Dovrebbe vedere le domande di espatrio che giacciono presso l’ambasciata del Canada a Tel Aviv, o presso l’ambasciata degli Stati Uniti. Migliaia.

Abu Ammar, lei non mi risponde mai direttamente. Ma stavolta deve farlo: cosa pensa di Moshe Dayan?
È una domanda molto imbarazzante. Come rispondervi? Diciamo così: io spero che un giorno egli sia giudicato come criminale di guerra: sia che si tratti di un leader geniale sia che la patente di leader geniale se la sia attribuita da sé.

Abu Ammar, mi par d’aver letto che gli israeliani la rispettino più di quanto lei li rispetti. Domanda: è capace di rispettare i suoi nemici?
Come combattenti, anzi come strateghi... qualche volta sì. Bisogna ammettere che alcune delle loro tattiche di guerra sono rispettabili, intelligenti. Ma come persone, no: perché si comportano sempre da barbari, in essi non c’è mai un goccio di umanità. Si parla spesso delle loro vittorie, io ho le mie idee sulla loro vittoria del 1967 e su quella del 1956. Quella del 1956 non dovrebbe neanche esser chiamata vittoria, quell’anno essi fecero solo da coda agli aggressori francesi e inglesi. E vinsero con l’aiuto degli americani. Quanto alla vittoria del 1967, essa si deve all’aiuto degli americani. Il denaro viene elargito senza controllo dagli americani a Israele. E oltre al denaro vengono loro elargite le armi più potenti, la tecnologia più avanzata. Il meglio che gli israeliani posseggono viene da fuori: questa storia delle meraviglie che essi avrebbero compiuto nel nostro paese va ridimensionata con più senso della realtà. Noi conosciamo bene quale sia e quale non sia la ricchezza della Palestina: più di tanto non si ricava dalla nostra terra, dal deserto non si fanno i giardini. Quindi la maggior parte di ciò che posseggono viene da fuori. E dalla tecnologia che viene loro fornita dagli imperialisti.

Siamo onesti, Abu Ammar: della tecnologia essi hanno fatto e fanno buon uso. E, come militari, se la cavano bene.
Non hanno mai vinto pei loro lati positivi, hanno sempre vinto pei lati negativi degli arabi.

Anche questo rientra nel gioco della guerra, Abu Ammar. Del resto hanno vinto anche perché sono bravi soldati.
No! No! No! Non lo sono, no! Corpo a corpo, faccia a faccia, non sono neanche soldati. Hanno troppa paura di morire, non dimostrano alcun coraggio. Così accadde nella battaglia di Karameh e così accadde l’altro giorno nella battaglia di El Safin. Passate le linee, piombarono con quaranta carri armati su Wadi Fifa, con dieci carri armati su Wadi Abata, con dieci carri armati e venti jeep con mitraglie da 106 su Khirbet el Disseh. Fecero precedere l’avanzata da un pesante bombardamento di artiglieria e dopo dieci ore fecero intervenire gli aerei che bombardarono indiscriminatamente tutta la zona, poi gli elicotteri che lanciarono missili sulle nostre postazioni. Il loro obiettivo era raggiungere la vallata di El Nmeiri. Non la raggiunsero mai, dopo una battaglia di venticinque ore li ricacciammo al di là delle linee. Sa perché? Perché usammo più coraggio di loro. Li circondammo, li prendemmo alle spalle coi nostri fucili, coi nostri bazooka: faccia a faccia, senza paura di morire. È sempre la solita storia con gli israeliani: attaccano bene con gli aerei perché sanno che non abbiamo aerei, coi carri armati perché sanno che non abbiamo carri armati, ma quando trovano una resistenza faccia a faccia non rischiano più. Scappano. E cosa vale un soldato che non rischia, che scappa?

Abu Ammar, che ne dice delle operazioni effettuate dai loro commandos? Ad esempio quando i loro commandos vanno in Egitto a smontarsi un radar per portarselo via? Un po’ di coraggio ci vuole per simili imprese.
No, non ci vuole. Perché cercano sempre obiettivi molto deboli, molto facili. È la loro tattica che, ripeto, è sempre intelligente però mai coraggiosa in quanto consiste nell’impiegare forze enormi in un’impresa della cui riuscita sono sicuri al cento per cento. Non si muovono mai se non sono certi che andrà tutto benissimo e, se li cogli di sorpresa, non s’impegnano mai fino in fondo. Tutte le volte che hanno attaccato in forze i fedayn, gli israeliani sono stati sconfitti. Con noi i loro commandos non passano.

Con voi forse no, ma con gli egiziani sì.
Ciò che fanno in Egitto non è un’azione militare, è una guerra psicologica. L’Egitto resta il loro nemico più forte, quindi essi cercano di demoralizzarlo e di svalutarlo attraverso una guerra psicologica messa su dalla stampa sionista con l’aiuto della stampa internazionale. Il loro gioco consiste nel propagandare un’azione esagerandola. Ci cadono tutti perché posseggono un ufficio-stampa poderoso. Noi non abbiamo alcun ufficio-stampa, nessuno sa cosa fanno i nostri commandos, le nostre vittorie passano inosservate perché ci mancano i telex per trasmettere la notizia ai giornali che del resto non la pubblicherebbero. Così nessuno sa, ad esempio, che lo stesso giorno in cui gli israeliani rubarono il radar agli egiziani noi entrammo in una base israeliana e gli portammo via cinque grossi razzi.

Io non parlavo di voi, parlavo degli egiziani.
Non c’è differenza fra palestinesi ed egiziani. Entrambi facciamo parte della nazione araba.

Questa è una battuta molto generosa da parte sua, Abu Ammar. Soprattutto considerando che la sua famiglia fu espropriata proprio dagli egiziani.
La mia famiglia fu espropriata da Faruk, non da Nasser. Conosco bene gli egiziani perché in Egitto ho fatto l’università e con l’esercito egiziano ho combattuto nel 1951, nel 1952, nel 1956. Sono bravi soldati e sono miei fratelli.

Torniamo agli israeliani, Abu Ammar. Lei dice che con voi subiscono sempre immense perdite. Quanti israeliani pensa che siano stati uccisi, a tutt’oggi, da voi?
Una cifra esatta io non posso dargliela ma gli israeliani hanno confessato d’aver perso, nella guerra contro i fedayn, una percentuale di uomini che è superiore a quella degli americani in Vietnam: in rapporto, s’intende, alla popolazione dei due paesi. Ed è indicativo che, dopo la guerra del 1967, i loro morti in incidenti automobilistici si siano decuplicati. Insomma, dopo una battaglia o uno scontro con noi, si viene a sapere che un mucchio di israeliani sono morti in automobile. Tale osservazione è stata fatta dagli stessi giornali israeliani perché è noto che i generali israeliani non ammettono mai di perdere uomini al fronte. Però posso dirle che, stando alle statistiche americane, nella battaglia di Karameh essi persero 1.247 uomini tra morti e feriti.

Anche il prezzo che pagate voi è altrettanto pesante?
Le perdite per noi non contano, a noi non importa di morire. Comunque, dal 1965 a oggi, abbiamo avuto un po’ più di novecento morti. Però bisogna considerare anche i seimila civili morti nelle incursioni aeree e i nostri fratelli morti in prigione sotto le torture.

Novecento morti possono essere molti e pochi: dipende dal numero dei combattenti. Quanti sono i fedayn in tutto?
Per dirle questa cifra io dovrei chiedere il permesso del Consiglio militare, e non credo che tal permesso lo avrei. Però posso dirle che a Karameh noi eravamo solo 392 contro 15.000 israeliani.

Quindicimila? Abu Ammar, lei vuol dire forse millecinquecento.
No! No! No! Ho detto quindicimila, quindicimila! Inclusi, s’intende, i soldati impegnati con l’artiglieria pesante, i carri armati, gli aerei, gli elicotteri, e i paracadutisti. Solo come truppa essi avevano quattro compagnie e due brigate. Ciò che diciamo noi non viene mai creduto da voi occidentali, voi ascoltate loro e basta, credete a loro e basta, riferite ciò che dicono loro e basta!

Abu Ammar, lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.
Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.

Questa è la vostra guerra, Abu Ammar, non è la nostra. E in questa vostra guerra noi non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci d’essere contro gli ebrei e non deve stupirsi se in Europa, spesso, si vuol bene agli ebrei. Li abbiamo visti perseguitare, li abbiamo perseguitati. Non vogliamo che ciò si ripeta.
Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro. E volete pagarli col nostro sangue, con la nostra terra, anziché col vostro sangue, con la vostra terra. Continuate a ignorare perfino che noi non abbiamo nulla contro gli ebrei, noi ce l’abbiamo con gli israeliani. Gli ebrei saranno i benvenuti nello Stato democratico palestinese: gli offriremo la scelta di restare in Palestina, quando il momento verrà.

Abu Ammar, ma gli israeliani sono ebrei. Non tutti gli ebrei si possono identificare con Israele ma Israele non si può non identificare con gli ebrei. E non si può pretendere che gli ebrei di Israele vadano un’altra volta a zonzo per il mondo onde finire nei campi di sterminio. È irragionevole.
Così, a zonzo per il mondo volete mandarci noi.

No. Non vogliamo mandarci nessuno. Tanto meno voi.
Però a zonzo ci siamo noi, ora. E se ci tenete tanto a dare una patria agli ebrei, dategli la vostra: avete un mucchio di terra in Europa, in America. Non pretendete di dargli la nostra. Su questa terra noi ci abbiamo vissuto per secoli e secoli, non la cederemo per pagare i vostri debiti. State commettendo uno sbaglio anche da un punto di vista umano. Com’è possibile che gli europei non se ne rendano conto pur essendo gente così civilizzata, così progredita, e più progredita forse che in qualsiasi altro continente? Eppure anche voi avete combattuto guerre di liberazione, basta pensare al vostro Risorgimento. Il vostro errore perciò è volontario. L’ignoranza sulla Palestina non è ammessa perché la Palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un giorno la vostra coscienza si sveglierà. Ma fino a quel giorno è meglio non vederci.

Per questo, Abu Ammar, lei porta sempre gli occhiali neri?
No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra noi, io sono sempre sveglio dietro i miei occhiali. Dormo solo quando me li tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.

Solo una, Abu Ammar. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita. Vuol fare come Ho Ci-min o l’idea di vivere accanto a una donna le ripugna?
Ho Ci-min... No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più tempo. Ho sposato una donna che si chiama Palestina.

IOGD

martedì 22 ottobre 2019

Ecco un'intervista che durò 5 ore. Di Oriana F.

Giulio Andreotti

Da Intervista con la storia, 1974

Roma, marzo 1974

Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male. Lo fissai con rabbia. Sedeva a una scrivania sepolta sotto i fogli e dietro, sulla parete di velluto nocciola, teneva una Madonna con Bambin Gesù. La destra della Madonna scendeva verso il suo capo a benedirlo. No, nessuno lo avrebbe mai distrutto. Sarebbe stato sempre lui a distruggere gli altri. Con la calma, col tempo, con la sicurezza delle sue convinzioni. O dei suoi dogmi? Crede al paradiso e all’inferno. All’alba va a messa e la serve meglio di un chierichetto. Frequenta i papi con la disinvoltura di un segretario di Stato e guai, scommetto, a svegliare la sua ira silenziosa. Quando lo provocai con una domanda maleducata, il suo corpo non si mosse e il suo volto rimase di marmo. Però i suoi occhi s’accesero in un lampo di ghiaccio che ancora oggi mi intirizzisce. Dice che a scuola aveva dieci in condotta. Ma sotto il banco, scommetto tirava pedate che lasciavano lividi blu.
Ci sarebbe da comporre un saggio su Giulio Andreotti. Un saggio affascinante e inquietante perché tutto ciò che egli è va ben oltre il caso di un individuo. Rappresenta un’Italia. L’Italia cattolica, democristiana, conservatrice, contro cui tiri pugni che feriscono le tue nocche e basta. L’Italia di Roma col suo Vaticano, il suo scetticismo, la sua saggezza, la sua capacità di sopravvivere, sempre, di cavarsela, sempre, sia che vengano i barbari sia che vengano i marziani: tanto li porti tutti in San Pietro, a pregare. Alla politica non giunse di proposito: ignorava d’averne il talento. Al potere non giunse attraverso la lotta e il rischio: non aveva combattuto i fascisti. All’una e all’altro approdò per destino, vi rimase per volontà. La straordinaria invidiabile volontà che hanno gli sgobboni capaci di svegliarsi col buio: per lavorare. Ci comanda da circa trent’anni, cioè da quando ne aveva venticinque. Continuerà a comandarci in un modo o nell’altro, fino al giorno in cui gli impartiranno l’estrema unzione. Intimo di De Gasperi, membro della Consulta, deputato alla Costituente, alla Camera senza interruzioni, sei volte sottosegretario alla presidenza, segretario del Consiglio dei ministri, capogruppo parlamentare, ministro degli Interni, del Tesoro, due volte ministro delle Finanze e dell’Industria, sette volte alla Difesa, tre volte capo del governo. Lo sanno anche i bambini insieme alle storie che costruiscono il suo personaggio e che gli procurano tonnellate di voti: dai ricchi, dai poveri, dai giovani, dai vecchi, dai colti, dagli analfabeti. Ama il gioco del calcio, adora le corse dei cavalli, gli piace Rischiatutto, colleziona campanelli, ignora i vizi, è marito devoto e felice di una professoressa di lettere che gli ha dato quattro figli belli, buoni, studiosi. Ha un debole per l’America, per le corse dei cavalli, per le bionde esangui e brillanti come la buonanima di Carole Lombard. Quest’ultime platonicamente, s’intende. Possiede grandi qualità di scrittore e, giustamente, i suoi libri non passano mai inosservati. Peccato che scriva solo di cose da cui si leva un profumo d’incenso.
Ecco l’intervista. Avvenne nel suo ufficio del centro studi, si svolse in tre fasi, durò cinque ore. E per cinque ore, io che fumo disperatamente, accesi un’unica sigaretta. Da ultimo. Non osai farlo prima. Non sopporta il fumo. Nessun genere di fumo, figuriamoci poi il fumo del fuoco che brucia il vecchio per costruire il nuovo. Lo combatte con una candela, il fumo e il nuovo, neanche fosse Satana.

Gli Articoli - Oriana Fallaci

ORIANA FALLACI. Lei è il primo democristiano che affronto, onorevole, e sono un po’ preoccupata perché... Ecco, mettiamola così, perché non vi ho mai capito, voi democristiani. Siete un mondo così nebuloso per me, così gelatinoso. Un mondo che non riesco ad afferrare.
GIULIO ANDREOTTI. Lei mi ricorda un discorso di Giannini alla Camera quando disse: «Io mi rendo conto che rappresentate una forza politica ma, se dovessi dire d’aver capito la DC, mentirei». Poi raccontò la storia della badessa che aveva due cardellini, e sperava di metterli insieme per fargli far coppia, ma i due cardellini non facevan mai coppia, e la povera badessa non riusciva a capire se ciò avvenisse perché i due cardellini erano dello stesso sesso. Peggio, non riusciva a capire a quale sesso appartenessero i due cardellini, se erano dello stesso sesso. E un giorno esclamò esasperata: «Alla faccia del somaro! Con lui si vede subito se è maschio o femmina!». Raccontò proprio questa storia, Giannini, e conteneva una buona dose di verità. Perché vede, all’inizio era abbastanza chiaro cosa significasse essere democristiani: una linea di sociologia cristiana su una indiscutibile piattaforma democratica. Insomma, la linea di don Sturzo. Ma oggi non si può dire che le posizioni della DC siano altrettanto chiare e, forse perché i problemi si aggrovigliano e cambiano, forse perché un partito non può viver di rendita... Che c’è? Desidera qualcosa?

No, no. È che sono abituata a fumare ma so che lei non sopporta chi ha questo vizio e...
Una volta un papa ciociaro, Leone XIII, offrì a un cardinale del tabacco da annusare. E il cardinale disse: «Grazie, non ho questo vizio». E il papa rispose: «Se fosse un vizio, lei lo avrebbe».

E chi sarebbe il cardinale? Io o lei?
Dobbiamo rielaborare un programma della DC, dicevo. Magari partendo dalla piattaforma iniziale e cioè dalla relazione Gonella del 1946 che fu per noi una specie di Magna Charta. Dobbiamo vedere quel che è stato fatto o non fatto, esaminare i problemi sopravvenuti, e poi, sulla nuova piattaforma, costruire una linea politica con un orientamento preciso. Altrimenti si finisce per lasciare l’iniziativa agli altri e subire i gol di contropiede. Un po’ il problema dei socialisti italiani: la mancanza di chiarezza rappresenta un motivo di grossa crisi anche per loro. Come loro, bisogna far marcia indietro sulle correnti, il frazionismo, gli agglomerati di carattere personale...

Senta, Andreotti: nell’attesa di scoprire il sesso degli angeli, anzi dei cardellini, anzi dei democristiani, io vorrei dipingere il suo personaggio. Così, a ruota libera. Per esempio, e a parte il fatto che lei sia un gran bacchettone, mi piacerebbe sapere...
Bacchettone? Io, quella del bacchettone, ecco: è vero che, quando posso, vado alla messa. È vero che, quando posso, mangio di magro il venerdì. Ma che c’entra? Ho sempre fatto a quel modo, sono nato in una famiglia che faceva a quel modo. Non ho mai avuto ripensamenti, d’accordo. Non ho mai avuto voglia di comportarmi diversamente. Però non capisco. Se un arabo non beve alcoolici e non mangia carne di maiale, tutti dicono: che bravo musulmano! Se un cattolico vive come me, tutti dicono: che bacchettone! Non religioso. Bacchettone.

E va bene: religioso. A parte il fatto che lei sia tanto religioso, mi piacerebbe sapere perché divenne democristiano.
Per via di De Gasperi, direi. Non ero ancora democristiano quando conobbi De Gasperi nella biblioteca della Santa Sede dov’ero andato per fare una ricerca sulla Marina vaticana e De Gasperi mi disse: «Ma lei non ha nulla di meglio da fare? ». Non ero niente, non mi ero mai posto il problema di una scelta politica. Avevo diciannove anni. Ma l’incontro con quell’uomo, De Gasperi, fu una specie di scintilla. Aveva un tale fascino, una tale capacità di convinzione. E la scintilla mi rivelò cose in cui credevo senza che mi rendessi conto di crederci, mi condusse quasi naturalmente alla scelta. Voglio dire: non mi sorse mai il dubbio di poter fare un’altra scelta: entrare nel partito socialista, ad esempio, o nel partito liberale. Per carità, mai avuto tentazioni del genere. Quanto ai comunisti, già allora ero certo della non conciliabilità tra comunismo e democrazia. C’è una lettera a Franco Rodano, 16 ottobre 1943, che lo dimostra. Rodano apparteneva al gruppo dei comunisti cattolici: gente di cui ero amico e a cui volevo bene. E il papa, Pio XII, era piuttosto allarmato da quei comunisti cattolici. Così, quando all’inizio del’43 furono arrestati, mi preoccupai subito che egli non li sconfessasse in un certo discorso che doveva tenere agli operai nel mese di giugno. Oltretutto ciò avrebbe portato acqua al mulino di chi lo accusava di collusione coi fascisti. E mi recai subito da lui ma non lo trovai e gli lasciai un bigliettino. «Santo Padre, ero venuto a farLe visita perché ci sono questi ragazzi in prigione e vorrei pregarLa di non toccare quel tema...».

Un momento. E lei andava dal papa così, come io vo dal tabaccaio? Gli lasciava bigliettini così, come io li lascio alla mia segretaria?
Ma certo. Ero presidente della FUCI, andavo spesso dal papa. I grandi rami dell’Azione cattolica avevano un’udienza fissa col papa ogni due mesi e, in quel periodo, lo vedevo ancora più spesso. Era molto gentile con me, mi trattava con grande calore. Naturalmente non dimenticavo mai che lui era il papa e io uno studente di ventiquattr’anni, però... Insomma gli lasciai questo bigliettino e lui mi ascoltò. Nel suo discorso agli operai non fece allusione al gruppo dei comunisti cattolici e, due settimane dopo, quando tornai in Vaticano per accompagnare alcuni nostri dirigenti che venivano ricevuti in udienza generale, mi disse: «Sei contento?». Nessuno capì cosa intendeva dire ma io capii e risposi: «Molto contento ». Ah, Pio XII era un sant’uomo. Era un grande papa, il più grande di tutti. Solo a stargli accanto, a guardarlo, intuivi che era diverso: più illuminato, più ispirato, più eletto...

C’è chi dice il contrario. E poi sembra che picchiasse i cardinali.
Io non lo so. Se lo faceva, significa che lo meritavano.

Già. Però mi sorprende che preferisca Pio XII a Giovanni XXIII.
Ecco, sì. Perché vede... insomma... il tipo di comunicativa che aveva Giovanni XXIII lo costringeva a scendere dal piedistallo. Una volta portai da lui i miei bambini e, per metterli a loro agio, dopo averli fatti accomodare, gli disse: «Vedete quest’armadio? Prima era tutto aperto e io ci ho messo gli sportelli perché mi sembrava una cappelliera». Giovanni creava subito un clima familiare, si comportava con molta semplicità. Però credo che fosse una semplicità molto intelligente, cioè molto finalizzata... Per esempio: ricordo il giorno in cui a Roma, al Tuscolano, quartiere popolare, si fece dare un microfono per parlare alla gente in piazza. Non era previsto che parlasse, e gli portarono il microfono e ne venne fuori un discorso così: «Vedete, Roma è una città difficile perché è una città dove i meriti non vengono riconosciuti. Oppure dove si regalano meriti che le persone non hanno. Per esempio di me si dice che sono umile perché non voglio andare in sedia gestatoria. Ma non è che io non ci vada perché sono umile: non ci vado perché sono grasso e, sulla sedia gestatoria, ho sempre l’impressione di cadere». La risata che scoppiò! Ce l’ho ancora negli orecchi. E poi disse: «Sentite, giovani. Io vi prego d’esser gentili. E d’esser gentili con le vecchie perché con le giovani lo siete anche troppo». Mi spiego?! Queste due cose dette così, da un papa. Dopo fece anche dieci minuti di predicuccia come la fa un parroco di cappa e spada, intendiamoci. Però prima, la gente, l’aveva fatta ridere.

Ha conosciuto bene anche lui?
Oh, sì! Benissimo. Per ragioni di famiglia. Da giovane egli era stato amico intimo di uno zio di mia moglie, cioè il fratello di mia suocera, che era sacerdote archeologo qui a Roma. Eran rimasti molto legati e, per esempio, quando mio zio si ammalò, papa Giovanni venne a trovarlo. Poi, quando mio zio morì, andò a veder la sua tomba e... insomma lo incontravo spesso.

Perbacco! Conosce bene anche Paolo VI?
Oh, sì, certo! Benissimo. Era assistente della nostra organizzazione universitaria cattolica. Però lui da qualche tempo lo vedo poco. L’ultima volta, si figuri, l’ho visto il 2 gennaio scorso in udienza generale, accompagnando un gruppo di ciociari per il settimo centenario di San Tommaso d’Aquino. In genere evito di recarmi da lui. Sa, per non confondere il sacro col profano. Per ragioni politiche, mi spiego? Direi che in Vaticano ci andavo di più prima. Del resto, anche allora ci andavo con parsimonia. Oh, i nostri contatti col Vaticano sono minori di quanto la gente creda. Voglio dire: nelle grandi cose... negli interessi comuni come il Concordato... si capisce che... Ma per il resto... Pensi, in tutto il periodo di Pio XII, De Gasperi è stato in udienza solo due volte. Le altre volte ci è andato per partecipare a qualche manifestazione. Ad esempio per L’Annonce faite à Marie di Claudel. No, col Vaticano non abbiamo tutti i rapporti che crede.

Ah! Su questo mi permetta d’essere incredula. Specialmente nel suo caso. Lo sanno anche i bambini che se in Italia v’è un uomo legato agli ambienti ecclesiastici, questi è Andreotti. Papi a parte.
Rapporti personali, sì. Legami, sì. Ma la maggior parte di questa gente io la conosco da tempi in cui pensavo a tutto fuorché alla politica. E, comunque, il mio non è un rapporto clericale. Tanto per dirne una: le scuole religiose son piene di figli di persone che si considerano nemici irriducibili della Chiesa e a me, invece, non è mai venuto in mente di mandare i miei figli a studiare in una scuola religiosa. Il fatto d’essere un cattolico convinto non mi condiziona, ecco. Semmai mi permette di rimuovere ostacoli. Non è un mistero che per tanti anni, qui a Roma, non si riuscisse a fare una moschea perché ciò turbava-il-carattere-sacro-della-città. Poi, durante i pochi mesi del mio governo, venne re Feisal. Quello delle aranciate. Voglio dire quello che non beve alcoolici senza che nessuno gli dia del bacchettone. E mi parlò della faccenda, e mi sembrò talmente giusta che subito ottenni il permesso di costruire una moschea pei musulmani.

Senta, Andreotti: ha mai pensato di farsi prete?
È difficile dirlo. Forse avrei potuto, non so. Se ciò può darle un’idea, da ragazzo passavo sempre le vacanze insieme a due coetanei e uno di questi, ora, è nunzio apostolico: l’altro è arcivescovo a Chieti. Però mi son sempre trovato benissimo nella mia locazione di marito e padre di famiglia, mi è piaciuta sempre di più e non ho mai avuto rimpianti. Forse perché sono stato fortunato e ho avuto un’ottima moglie, ragazzi normali e studiosi... Comunque non posso dire d’aver mancato alla vocazione di prete. La mia sola vocazione mancata è quella di medico. Oh, fare il medico mi sarebbe piaciuto moltissimo. Ma non potevo permettermi sei anni di medicina. Non ero ricco. Mio padre, un maestro elementare, era morto quando ero appena nato: appena iscritto all’università, dovetti mettermi a lavorare. Mi iscrissi a legge, mi laureai con l’idea di fare il penalista. Con enorme rimpianto, però. Sì, enorme. Infatti ce l’ho ancora. Pazienza, ormai è andata. Il bello è che nessuno dei miei figli ha voluto studiar medicina. Uno si è laureato in filosofia, uno si laurea adesso in ingegneria, il terzo in legge, e la quarta fa il secondo anno di archeologia.

Bè, se avesse fatto il medico, oggi non sarebbe uno degli uomini più potenti d’Italia. Non vorrà negare infatti che, nel suo caso, la politica è sinonimo di potere.
Io direi di no. Nel mio caso non assocerei affatto la parola politica con la parola potere perché guardi: io, quando scrivo o partecipo a una discussione, mi sento più entusiasta politicamente di quando ho responsabilità di potere formale e concreto. La cosa che mi ha dato più soddisfazione in questi venticinque anni è stata fare il capogruppo alla Camera. Certo, bisogna stabilire la definizione di potere. Per la stampa, ad esempio, il potere è quello che si vede nel suo aspetto esterno. Se uno è ministro delle farfalle e dice che oggi è venerdì, subito riportano le sue parole con ossequio: «Il ministro delle farfalle ha dichiarato che oggi è venerdì». Se invece elabora una teoria o esprime un’idea, ha difficoltà a metterla in circolazione. In altre parole, se per potere si intende avere un dato peso e far valere certe idee, indurre gli altri a tenerne conto, allora mi sento abbastanza uomo di potere. Anche se a volte mancano gli strumenti del comando...

A chi? A lei?!? Lei che ha tanta influenza sulla polizia, sull’esercito, perfino sulla magistratura? Lei che è stato amico di tre papi, che fa di mestiere il ministro e possiede i dossier di tutti i politici italiani?!?
Queste sono leggende assolute. Se vuole consultare il mio archivio, glielo faccio vedere. È a sua disposizione, veramente. Certo, quando uno è stato per anni ministro della Difesa, conosce molta gente. E io conosco molta gente: non v’è dubbio. Ma non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra: mai meno di una cartellina. Se per caso una sera ho mal di testa e non scrivo, il giorno dopo riempio subito il vuoto. Così, se devo fare un articolo su qualcosa che accadde venti anni fa, consulto il mio diario e trovo cose che non troverei certo sui giornali. Certo, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all’infuori di me e son cose che tengo solo per me. Quello nessuno deve leggerlo all’infuori di me. È proprio segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno in cui morrò. Ma i miei fascicoli, creda, consistono solo in ritagli di giornale. Se vuole consultarne uno glielo do. Avanti, dica un nome. Lo dica.

Fanfani. Detto anche il padrone d’Italia. Non è il suo grande nemico, Fanfani? Non è forse vero che può ringraziare Andreotti per non essere diventato presidente della Repubblica?
No, non è vero. I voti del nostro gruppo li ebbe, salvo piccolissimi margini. La Democrazia cristiana i voti glieli dette. Ma da sola, si sa, la Democrazia cristiana non può eleggere il presidente della Repubblica e quel che mancò a Fanfani fu l’appoggio dell’opposizione. L’ostilità, che poi fu l’inizio della crisi del centro-sinistra, venne dai socialisti. Fecero il patto d’unità d’azione coi comunisti e... Avrebbero appoggiato Moro ma Fanfani non vollero sostenerlo in maniera assoluta. Quanto a definirlo padrone d’Italia, non so se sia un complimento: visto che le cose vanno come vanno... Fanfani è il segretario del partito più grande d’Italia ma da qui a definirlo come dice lei... Soprattutto in una fase di anarchia polverizzata come quella che stiamo vivendo... Ogni tanto i giornali gli attribuiscono ora un indirizzo e ora un altro ma io non ho motivo di credere che...

Insomma, siete o non siete nemici?
Io, guardi, credo che le possibilità di coagulo in seno alla Democrazia cristiana siano molto complesse perché ognuno ha le sue vedute, le sue grandi o piccole congreghe, i suoi interessi anche legittimi... Non parlo soltanto di ambizioni ingiuste o smodate... Fanfani oggi si trova in una posizione abbastanza favorevole rispetto agli altri perché ha una decina d’anni più di noi e ciò gli consente programmazioni che in fondo non disturbano nessuno... Inoltre ha dimostrato grandissime doti di recupero, una grossa volitività... Sotto questo aspetto rappresenta veramente un elemento di forza e... sarebbe assurdo non valorizzare i punti di forza per far prevalere altre considerazioni. Cosa vuol che le dica? Ho lavorato alcune volte con Fanfani però mai molto e mai a lungo... sicché non posso affermare d’aver avuto troppe occasioni per collaborare con lui e... Specie in attività di partito non ho esperienze di questo genere... Guardi, a me la situazione odierna appare tale che mi importa solo rimettere il carro sulla pista. Che ce lo rimetta l’uno o l’altro, per me è secondario. Chiunque può dare una mano è benvenuto.

Non mi riesce farla arrabbiare. Ma lei è sempre così controllato, così imperturbabile, così marmoreo?
Sì perché non vale la pena dar soddisfazione a chi ti fa arrabbiare. A che serve fare il cerino che s’accende e salta su? Del resto la gente che alza la voce e addirittura dice brutte parole mi dà un tale fastidio! Secondo me, è indice di scarse convinzioni. Se uno è convinto di qualcosa non ha mica bisogno di battere i pugni sul tavolo, sudare, eccitarsi! Sono ridicoli quelli che si arrabbiano e magari offendono. Poi devono far mille storie per scusarsi, eccedono nell’altro senso, si umiliano... In Italia c’è una tradizione di polemica clamorosa, gridata. Ma io sono romano e preferisco non drammatizzare oltre il necessario: esser romano aiuta molto a ridimensionare i problemi ed è un vero peccato che Roma non sia quasi mai riuscita ad essere governata da romani. Se pensa che prima di me non c’era mai stato un presidente del Consiglio romano, che erano stati sempre sudisti o nordisti... Il che include i toscani perché per noi la Toscana è già nord... Comunque guardi: anche quando vado alle partite di calcio, che mi divertono tanto, io resto calmo. E così quando vado alle corse dei cavalli. Sì, le corse dei cavalli mi piacciono ancora di più. Il movimento delle persone, il gioco dei colori, la suspense, la scommessa... Che vinca o che perda, nessuno si accorge se sono eccitato o nervoso. A parte il fatto che vinco quasi sempre perché son fortunato. Gioco poco, scommetto poco, ma in genere vinco.

Parla dei cavalli o della politica?
Non che i cavalli siano la mia sola evasione. Io mi diverto anche al cinematografo, o a guardar Rischiatutto, o a scrivere libri. Scrivere mi scarica, mi disintossica, mi fa dimenticare i decreti legge e gli ordini del giorno. Comunque tutti questi piaceri hanno un denominatore comune: calmarmi e aiutarmi a rinsaldar l’equilibrio. Sa, a me piace molto stare con gente che non si occupa di politica. Le racconto una cosa. Io per tanti anni ho fatto la cura a Montecatini. La prima volta che ci andai ero sottosegretario alla presidenza e il direttore delle terme venne a prendermi dicendo: «La accompagno allo stabilimento per mostrarle dove mettiamo i deputati e i senatori». E io risposi: «Bravo, mi ci porti subito, me lo indichi con grande esattezza, così io vado in un altro stabilimento». E così feci. Non per evitare i miei colleghi ma per non alimentare una specie di congregazione. La politica è una cosa che arrugginisce e guai a restarne anchilosati: si finisce per non vedere più nulla al di fuori di quella e con l’essere pessimi interpreti di chi ci elegge.

È questa la sua definizione della politica?
Io... guardi... io darei molto per definirla come gliel’hanno definita i miei colleghi: la politica è cultura, è morale, è missione, è storia dell’arte eccetera. Ma non ci riesco. D’altronde è come se chiedesse a un pesciolino di definire l’acqua in cui sta. Un pesce non sa definire l’acqua in cui sta, sa solo che la sua vita è quella. Le ho già detto, credo, che se m’avessero vaticinato la carriera politica quand’ero al liceo, io mi sarei messo a ridere. E, ancora oggi, essa non mi ha schematizzato. Infatti non appartengo al genere di coloro che si perdono in astrazioni e ad esempio dicono «il lavoratore non vuole la proprietà della casa, vuole il diritto di superficie ». Cosa significa? Perché parlano così? Hanno forse paura di non sembrare colti? Oppure hanno idee così poco chiare che non sanno esprimersi? Spesso sono quelli che dicono noi-che-siamo-vicini-ai-lavoratori: espressione stupenda perché sono sempre vicini e non lavorano mai. Oh, ha ragione mia madre quando afferma che, a sentirli parlare alla televisione, non si capisce nemmeno la metà di ciò che dicono. A me il vocabolario politico dà una noia mortale. D’accordo: la teoria deve esistere sennò si lavora sulla sabbia, però bisogna tener conto della gente che non trova il sale e lo zucchero e non vuole essere aggredita quando va a riscuotere la pensione... che c’è? Desidera qualcosa?

No, no. Cercavo automaticamente una sigaretta senza ricordare la storia di Leone XIII e del cardinale.
Mah! Se vuole proprio fumare, fumi. Guardi, accendo la candela. Vede, ho una candela apposta, speciale. Depura l’aria e mi evita il mal di testa. Non è ch’io non sopporti chi fuma: non sopporto il fumo. Alimenta il mio mal di testa e io soffro di mal di testa feroci, che mi mettono fuorigioco per tre o quattro ore. Non ho mai capito da cosa vengano. Forse, da un’eredità strutturale. Ne soffriva mio padre, e anche mia madre. O forse sono di natura reumatica. Però si manifestano anche quando sono stanco, quando mi sento teso, quando prendo umidità. Ma se proprio vuol fumare, fumi.

Dopo quel che mi ha detto? No, no. Continui, la prego.
Si parlava della politica vista come concretezza. Ebbene, da noi c’è sempre stato un disprezzo per chi dà peso alle cose di ordinaria amministrazione ma una delle cose che mi hanno soddisfatto di più nella mia vita è successa proprio in tema di ordinaria amministrazione, quand’ero ministro delle Finanze. C’era un enorme contrabbando di petrolio e io, invece di piagnucolare, feci una commissione.  Poi chiamai un comandante delle guardie di Finanza e gli dissi: «Voglio un giovane capace, sveglio». E lui mi dette un capitano che ora è colonnello. Il capitano si fece assumere come operaio in una raffineria e gli ci vollero appena sei mesi per scoprire la verità. Intorno a ogni raffineria c’è una grande apparecchiatura per portare l’acqua in caso di incendio. E loro, invece di portare dentro l’acqua, portavano fuori il petrolio. A un chilometro fuori del cancello non c’era più la Finanza, non c’era più controllo, così potevano caricare il petrolio sulle autocisterne e via. Feci un decreto legge con cui stabilivo che nessuno può portare la benzina su un’autocisterna se non ha un pezzo di carta che dica dove l’ha caricata e dove la scarica e... sa che quell’anno incassammo ventotto miliardi in più di imposta? Ah, se perdessimo meno tempo a farci lotta nei congressi, nei precongressi, nelle sezioni, nelle correnti, e ci occupassimo di più delle cose essenziali!

Scusi, Andreotti: ma se lei capisce queste cose, come mai ha combinato tanti guai col suo governo? Il crollo della lira, l’aumento dei prezzi...
A me sembra molto ingiusto dire quello che lei dice. Un governo è sempre figlio del governo che lo precede, padre del governo che lo segue, e il mio governo nacque perché era fallito il centro-sinistra. Era una vita quasi impossibile: avevamo margini così piccoli. Al Senato, per esempio, bisognava rifare i conti ogni giorno e questo ostacolava anche un minimo di programmazione. Dentro il governo di coalizione nei primi sei mesi, ci fu una certa compattezza: ma in gennaio una parte notevole dei ministri si mise a pensare più al futuro che al presente. E questo ci indebolì. Però certe decisioni furono prese coi piedi per terra: quelle sul doppio corso della lira, quelle per non far uscire nemmeno un grammo d’oro... Non è assolutamente vero che io sia il responsabile del crollo della lira. Al contrario, la lira sarebbe crollata se il mio governo non avesse preso certe decisioni. Non dimentichiamo i problemi internazionali: da parte di un paese produttore di petrolio subimmo speculazioni che, in un solo giorno, influirono sul prezzo della lira per un ammontare di duecento miliardi di lire. Se avessimo accettato la norma comunitaria per cui le transazioni valutarie fra i vari paesi della CEE devono esser pagate metà in oro e metà in moneta europea, entro un mese non avremmo più avuto né un grammo d’oro né un dollaro. E che se ne sarebbe fatta, l’Europa, di un’Italia distrutta finanziariamente?

Son portata a darle ragione ma questo governo dice che non fa che riparare ai guasti del governo Andreotti...
Mi sembra un discorso molto presuntuoso da parte loro. E gli rispondo così. Quand’ero bambino passavo l’estate in una casa di campagna dove le tubature dell’acqua versavano giorno e notte. E non veniva mai l’idraulico sebbene avere un idraulico, allora, non fosse difficile come lo è oggi. E si stava sempre con queste gocce d’acqua per terra. Poi, un giorno, arrivò l’idraulico. E ci fu gran festa, si levarono esclamazioni di gratitudine e gioia. E l’idraulico si mise al lavoro, circondato dalla nostra gratitudine e gioia, e... sfasciò tutto. Allagò la casa. Dunque non vorrei che gli attuali restauratori combinassero ciò che combinò quell’idraulico. Oh, non esistono soluzioni di centro-sinistra o di centro-destra o di centro. Esistono soluzioni valide e basta. Oggigiorno, tre quarti dei problemi hanno dimensioni così internazionali che non si rimedia alle gocce per terra con una martellata. Certo, se si va avanti così, se non si aumenta la produttività, se non si ottiene più valuta stimolando ad esempio il turismo...

Come? Coi cinema e i teatri che chiudono a mezzanotte, coi ristoranti che ti cacciano prima delle undici, con le domeniche senza automobile, col razionamento della benzina?
Io non voglio fare il Pierino della situazione ma, in questo, do ragione a lei. Non è certo bloccando le automobili la domenica che si risolve il problema. Nella percentuale globale della consumazione del greggio, ciò che si consuma per circolare in automobile raggiunge appena il 15 per cento. Ma per circolare sette giorni su sette, non la domenica e basta.

Oppure si potrebbe stimolare il turismo con un bollettino plurilingue sui nostri scandali, magari sostituendo l’attrazione del latin lover con quella del politico corrotto.
Forse non è ancora sera e bisogna aspettare la sera per arrivare a giudizi troppo catastrofici. Non vorrei apparire come l’eterno mediatore ma certe cose finiscono spesso con l’avere una funzione positiva e riequilibrare ciò che è storto. Insomma, potrebbe anche darsi che questo terremoto riassestasse molte faccende. Il mio timore è che serva soltanto alle speculazioni di parte: finché non c’è un processo e un verdetto e un appello e una sentenza definitiva non si può dire che una persona abbia violato la legge. No, non è giusto che nello spazio di una settimana un uomo si trovi già giudicato dal clamore di un’accusa. Perché dopo, anche se viene assolto con formula piena, la sua onorabilità è compromessa. E così quella del sistema. Noi abbiamo avuto casi formidabili di procedimenti contro personaggi politici che in sede d’appello, e perfino d’istruttoria, si sono risolti con tante scuse. Il fatto è che ci vuole un maggior rispetto del segreto istruttorio: in Italia, invece, il segreto istruttorio è una beffa. Ognuno dà conferenze stampa: dal questore al magistrato. E poi, magari, si dà la colpa al giornalista: ma-lei-come-fa-a-scrivere-questo. E gliel’ha detto il questore o il magistrato. Santa pace! In Inghilterra, se chiama assassino un assassino che è reo confesso ma non è stato ancora giudicato, egli può darle querela e chiederle i danni. Da noi invece...

D’accordo. S’è visto con Valpreda. «Ecco l’assassino» scrissero sulla copertina di un settimanale che si presenta come progressista. Ma io...
Lei sa che durante il mio governo uno degli atti che furono accusati di debolezza fu proprio la legge che consentì a Valpreda d’essere scarcerato? E quando alcuni vennero a dirmi «allora tu sei per Valpreda», risposi: «Io non so se Valpreda sia responsabile o no. Non spetta a me saperlo e si vedrà al processo. Ma se tuo figlio fosse in carcere con l’incertezza di un’imputazione, saresti contento se restasse lì due o tre anni ad aspettare che i giudici si mettano d’accordo su chi deve giudicarlo?». Mah! Forse deriva da un tipo di educazione, anzi di maleducazione. Forse ci manca una cultura basata sul rispetto della gente. Comunque sia, il nostro è un sistema che incita al linciaggio. E non tanto al linciaggio fisico quanto al linciaggio morale. Quello che c’è stato anche nel caso di Valpreda. Dico «anche» perché, quando lo definivano «un ballerino», a me veniva in mente il caso Piccioni. L’affare Montesi. Ricorda il giudice Sepe? Un giorno chiesi a Sepe: «Scusi, ma quali prove esistono che Piccioni abbia conosciuto la Montesi?». E Sepe: «Ma lei conosce Piero Piccioni?! Un compositore di jazz! L’amante di un’attrice!». Sicché mi seccai e risposi: «Scusi eccellenza, ma allora se si chiamasse Fanfani e Bertarelli come la ditta che vende corone da morto in piazza dell’Indipendenza, per lei sarebbe automaticamente una persona insospettabile!». V’è in Italia una brutta abitudine: prima farsi una convinzione e poi cercarne la prova. Il che è un capovolgimento del concetto di giustizia. Siamo tutti un po’ Sepe che si credeva l’inviato di Dio per pulire le stalle di Augia. Sepe!... Quando diventai ministro delle Finanze mi scrisse una lettera: voleva diventare il mio capufficio legislativo!

Sì, sì, sì. Verità sacrosante. Ma ciò non cambia l’indiscutibile vergogna che esista una gran corruzione in Italia. Lei ha sviato il discorso. Lo scandalo esiste ed anche i partiti ne sono rimasti coinvolti.
Ho detto che non è ancora sera. Per esempio, dei comunisti non s’è parlato ancora ma anche loro come vivono finanziariamente? Che ricevano aiuti dall’estero non è una malignità: è un fatto. E tra i personaggi che potrebbe interpellare c’è Eugenio Reale che è stato loro amministratore. Forse qualcosina potrebbe dirgliela. Via, scopriamo l’America a dire che ogni partito riceve aiuti esterni! O si arriva davvero al finanziamento statale... Ma è il caso di crederci al finanziamento statale? De Gasperi, ad esempio, non ci credeva. Diceva che l’opinione pubblica non lo avrebbe accettato o vi avrebbe reagito con grande disagio: «Non suona bene dare i soldi dello Stato ai partiti». Forse, se si potesse convincerli davvero a rendere pubblico il loro bilancio e a non avere segreti sulle entrate e sulle spese... Ma i partiti non rivelano mai i loro bilanci. Nemmeno agli iscritti. Io faccio parte della direzione della DC e, in trent’anni, non ho mai visto un bilancio. Negli altri partiti credo che avvenga lo stesso. Nel 1945 e ’46 ai congressi c’era la relazione del segretario amministrativo ma ora non c’è più nemmeno quella.

Andreotti, poco fa lei m’ha detto che questo terremoto potrebbe assestare le cose. Però dovrebbe saperlo che i terremoti, in Italia, non assestano nulla perché, dopo il fracasso iniziale, non se ne parla più.
Forse perché si mette troppa roba al fuoco in una volta sola. Nell’enorme calderone che ne consegue, si perdono di vista le cose essenziali. Vede, ogni governo parte con un programma che non basterebbero quindici anni per attuarlo. Non si fa più come Nitti che faceva un governo per nazionalizzare le assicurazioni sulla vita e basta. Era un programma limitato, certo, ma era anche un programma chiaro e consentiva di controllare i risultati. Non si fa più come De Gasperi che buttava sul tappeto la riforma agraria, ne tirava fuori una legge e l’applicava: che poi piacesse o no. Oppure come Vanoni che fece la riforma tributaria, e la gente brontolò, però quando si vide in mano il modulo Vanoni concluse che in bene o in male egli aveva fatto qualcosa. Oggi c’è un dialogo astratto tra i partiti, io-sono-più-avanzato-di-te, no-sono-io-più-avanzato- di-te, io-son-più-bello-di-te, tu-sei-più-brutto-di-me... non in senso fisico, s’intende, giacché in quel senso resteremmo tutti buscherati... Comunque non si parla più delle cose pratiche. I governi non hanno il tempo di fare nulla perché, quando un governo nasce, non si sa mai se il giorno dopo ci sarà. Prenda l’intercettazione telefonica...

Ha il telefono controllato anche lei?!
Non lo so. Spero di no. Ma non lo so mica. Perché, ha mai visto la copertina dell’elenco telefonico di Roma 1972-73? Eccola, guardi. Proprio in copertina: «Detective privato Tony Ponzi. Premio Maschera d’oro. Opera personalmente per controlli, indagini industriali e private, anche con apparecchiature elettroniche miniaturizzate. Ovunque». D’altronde, se uno fa il quarantotto perché il suo telefono è controllato, la malignità comune può dire: sarà-che-non-voglia-farsi-sentire-perché-ha-qualcosa-da-nascondere?

Bel discorso. Ma lei, quand’era al governo, cosa fece contro questo schifo del telefono controllato?
Io, come stavo per dirle, denunciai il problema e incaricai i miei ministri di tirar fuori un progetto. Il progetto fu preparato ma poi dovemmo andarcene e... si torna al ragionamento di prima: come si fa a fare le cose se non ci danno il tempo? Bisognerebbe dire a un governo, qualsiasi governo: «Tu rimani in carica due anni. Se alla fine dei due anni non hai realizzato nemmeno due o tre cose fondamentali, se non ci sei riuscito, ti mando a spasso e ti interdico. Per dieci anni non potrai più partecipare a un governo». Invece accade quello che accade, senza contare che il capo del governo deve passar la giornata a occuparsi del prezzo del miglio o della conferenza di Copenaghen. E la giornata dura soltanto ventiquattr’ore.

Impiegatele meglio le vostre ventiquattr’ore. Non occupatevi del prezzo del miglio. Non ci andate alla conferenza di Copenaghen. Ben per questo non funziona nulla in Italia e rischiamo di assistere al suicidio della libertà.
Forse lei esagera. Non voglio negare che vi sia qualche fondamento in ciò che lei afferma un po’ brutalmente ma non è giusto dire che in Italia non funziona nulla. Anzitutto, se si pretende di far funzionare tutto, si chiede una ricetta che non esiste. E poi non potrebbe darsi che si vedesse solo ciò che non funziona ignorando ciò che funziona? Qualcosa funziona. C’è un numero notevole di persone che fanno il proprio dovere, che lavorano regolarmente, che studiano regolarmente e si laureano bene. Bisogna stare attenti a non distruggere tutto. Può condurre non dico ai colonnelli ma a un Giannini, cioè a uno stato di scontentezza perenne che non rafforza la democrazia. Non possiamo dire di trovarci all’anno zero. Non voglio ricorrere a statistiche imbonitorie ma sant’Iddio! Per me è già molto che in venti anni la popolazione scolastica sia salita da un milione a sei milioni e mezzo, quella universitaria da duecentomila a ottocentomila, e il livello di vita sia così migliorato, e si mangi bene, e... La democrazia è un sistema faticoso: pieno di lentezze, di trabocchetti. Richiede pazienza e anche errori.

È vero. Ma l’autocompiacimento è il sale delle dittature, la critica è il sale della democrazia. E le chiedo come uomo di potere, come classe politica dirigente, può affermare d’aver la coscienza tranquilla?
Ecco, la coscienza tranquilla uno non può averla mai perché pensa sempre che avrebbe potuto far meglio e di più. E poi il gioco politico non è mai un gioco individuale: come al foot-ball, si lavora in squadra. Se ognuno di noi dovesse rispondere a se stesso e basta...

Non ho detto Giulio Andreotti e basta. Ho detto Giulio Andreotti come rappresentante del potere e della classe politica dirigente.
Allora mi lasci dir questo: come classe politica, noi siamo partiti da una grande inesperienza. Se vent’anni fa avessimo potuto impostare la ricostruzione dell’Italia con l’esperienza che abbiamo oggi, avremmo fatto meno errori e il triplo di cose buone. Suvvia, non sapevamo nemmeno parlare in pubblico! Eravamo così impreparati! A me, per vedere la differenza tra ieri e oggi, basta guardare i giovani delle forze armate: sanno perfino parlare in pubblico, quelli. Dunque, se giudica tutto dalle piccole cose, dalle nostre miseriole, dai nostri sbagli quotidiani, ha ragione a dire che siamo con le gomme a terra. Ma, se guarda in prospettiva storica, deve concludere che non ce la caviamo male. Io sono ottimista.

Beato lei.
Sì perché non guardo mai le cose con uno stato d’animo eccitato. Non serve ed è pericoloso. Ed anche se sono preoccupato mantengo un certo distacco. Per esempio: nelle altre interviste lei ha discusso il fatto che gli italiani siano fondamentalmente anarchici. Lo sono. Ciascuno di noi è una piccola culla del diritto, ciascuno di noi rifiuta di stare al posto suo: i sindacati vogliono occuparsi del referendum, le regioni vogliono occuparsi del Vietnam... E, sebbene la Costituzione parli di diritti e di doveri, ognuno parla di diritti e mai di doveri. È considerato antidemocratico parlare di doveri. Siamo bambini in quel senso. Però... siamo anarchici e andiamo a votare più che in qualsiasi altro paese. Siamo anarchici e, quando ci viene chiesto di non usare l’automobile, andiamo a piedi. Non ci piace l’ordine e ci scandalizziamo per il disordine... Insomma non ritengo, come lei, che la nostra libertà sia in pericolo. Oh, lo so che rischio di sembrare melenso ma prenda l’esempio di Italia Nostra. Sembrava che tutti si sentissero autorizzati a deturpare il paesaggio come volevano e invece Italia Nostra ha riequilibrato la situazione.

Andreotti, io parlo di libertà e lei mi parla di paesaggio. Se avvenisse un golpe in Italia...
Io non credo a queste cose complicate. Certe cose presuppongono un letargo e in Italia non c’è affatto letargo. C’è una grande vitalità delle istituzioni.

Se lo dice lei, mi sento più tranquilla. Perché sa qual è la voce che corre? È che se avvenisse un golpe in Italia, il primo a saperlo sarebbe lei.
Io penso di no. Io penso che sarei tra i primi ad essere arrestato. E, comunque, le ripeto che al golpe non ci credo. La mia paura è un’altra: è che la gente perda la sensazione che questo sistema, il sistema democratico, garantisce una vita tranquilla e normale. La posta che non arriva, la criminalità che aumenta... Al farmacista vicino a casa mia, stanotte, hanno svaligiato il negozio e certo lui non è contento dello status quo. Comunque non credo ch’io sarei il primo a sapere una cosa brutta come quella che dice lei.

Anche questo mi solleva. Senta, Andreotti: lei lo sa, vero, che la definiscono uomo di destra. Rifiuta o no tale definizione?
Direi che la rifiuto perché la qualifica uomo-di-destra in Italia non viene data per collocare una persona ma per metterle il piombo alla sella, per crearle ostacoli. Il nominalismo è un’altra malattia degli italiani e v’è una tale ipocrisia nelle parole destra e sinistra. Preferisco che mi chiamino conservatore. In molti sensi, e sia pure in termini di preoccupazione democratica, sono un conservatore. Infatti mi accorgo che, quando si vogliono cambiare le cose, si finisce quasi sempre per cambiarle in peggio. Quindi è meglio tenersele così come sono. Del resto credo di averle già detto che non ho mai avuto tentazioni socialiste. Neanche in gioventù. Uhm... Non si capisce bene cosa uno intenda per socialismo. Le riforme? Se sono buone, piacciono anche a me ma spesso sono una chiacchiera e basta. Ottengono solo di peggiorare le cose, come la riforma ospedaliera, o di lasciare il tempo che trovano. Io posso anche fare una riforma perché lei diventi regina d’Inghilterra. Ma poi non lo diventa.

Non voglio diventare regina d’Inghilterra, non mi piace Filippo. E io alludevo ad altre cose, Andreotti. Al suo abbraccio col maresciallo Graziani, per esempio.
Gliela racconto subito quella storia, subito. C’era stato un convegno del MSI ad Arcinazzo, e Graziani era presidente del MSI. Ciò mi aveva preoccupato perché in Ciociaria non v’era famiglia che non avesse ricevuto da Graziani un piccolo favore e non mi piaceva che Graziani raccogliesse voti. Così indissi una specie di controraduno democristiano e, appena giunsi, trovai il questore pallidissimo: «Tra la folla c’è il maresciallo Graziani!». Risposi che non me ne importava nulla e feci il mio comizio spiegando che la democrazia non si discuteva. Finito il comizio, si alzò un vocione: «Posso parlare?». Ed è lui. «Prego, parli pure. Siamo in democrazia », gli dico. E lui viene al microfono e dice: «Ah, io non m’intendo di politica ma devo ammettere che se si è fatto opera di rimboschimento su queste montagne, su queste vallate, lo si deve a De Gasperi». Roba da operetta. Infatti si fa avanti un vecchietto, un democristiano, e replica: «Marescià, allora perché dite che la DC è il nemico numero uno?». E Graziani: «Chi dice così è un coglione». E il vecchino: «Marescià! L’ha detto De Marsanich». E Graziani: «È un coglione anche De Marsanich». Tutto qui. L’abbraccio non ci fu in nessun senso: né fisico né morale. La storia di quell’abbraccio è la più grossa fandonia che abbia mai udito.

E poi alludevo all’accusa secondo cui, in diverse occasioni, lei avrebbe accettato i voti dei missini.
È un’altra fandonia. Cifre alla mano. Noi della DC facemmo l’azione contro Almirante proprio nel momento in cui ci opprimeva una scarsezza di voti. Per arrivare al suo processo, io personalmente mandai una lettera al mio gruppo parlamentare. No, non è vero che i missini mi abbiano dato i loro voti. I missini non avevano interesse, oltretutto, ad appoggiare il mio governo. Gli serviva più appoggiare il centro-sinistra per poi dire ve-lo-avevamo-detto-che-la- DC-pende-a-sinistra. Oh! Mi si accusa anche di esser stato tepido in quel dibattito televisivo con Almirante perché, al solito, non ho gridato e ho badato solo alla sostanza di ciò che dicevo. Del resto ciò che dicevo non era diretto ad Almirante ma a una parte dei nostri elettori che, non essendo fascisti o neofascisti, avevano votato per lui. Mi premeva recuperarli. Io, sa, ritengo che i voti ai missini non dipendano dalla loro capacità ma dalle nostre incapacità. A volte glieli offriamo su un piatto d’argento, come frutto dei nostri errori. Pensi a Napoli.

Andreotti, le rivolgo una domanda che ho rivolto anche a Malagodi: non rimpiange di non aver fatto, in gioventù, un antifascismo attivo?
Io sì. Certamente. Una delle radici anzi la radice di quel che s’è fatto bene in Italia nei primi dieci anni di democrazia consiste proprio nella spinta morale di coloro che fecero un antifascismo attivo. La battaglia del 1948 ad esempio non fu un rozzo scontro frontale: fu il recupero di una capacità di battersi democraticamente. E quella capacità ci venne anche dal CLN. Il CLN fu una gran cosa. Fu una scuola di democrazia.

Allora le chiedo un’altra cosa che chiedo spesso a chi non è fascista. Ma lei riesce a parlarci coi missini?
Guardi, quando uno sta venticinque anni in Parlamento e vede sempre le stesse persone, finisce col parlarci e magari bere insieme un caffè. E quando va alla partita di calcio nella tribuna dei deputati, come fa a negare un buongiorno? M’è capitato di parlare con Almirante, ovvio. Niente discorsi approfonditi ma... Del resto, parlare agli avversari non è una caratteristica di ogni parlamentare civile? Io parlo con chiunque. Senza repulsione, senza disagio. Scambiarsi idee o informazioni non significa mica tendersi trabocchetti o fare del proselitismo. È lo stesso pei comunisti. Io, quando si discuteva la legge sul divorzio, ho avuto incontri molto approfonditi coi comunisti. A parte il fatto che alcuni li conosco fin da ragazzo e di altri sono amico. Mario Melloni, ad esempio, resta uno dei miei amici più cari. Era direttore del «Popolo», era un democristiano. La crisi che s’è operata in lui non mi ha condotto davvero all’incomunicabilità. Vi sono comunisti con cui è piacevolissimo stare. Pensi a Pajetta. Pensi a Bufalini.

E Berlinguer?
Lui lo conosco poco. Appartiene a una generazione più giovane della mia. Conoscevo meglio suo padre che era del Partito d’Azione e poi socialista. Però so che è un giovane molto riservato, un buon padre di famiglia, e questo conta molto per me. Rappresenta un elemento di equilibrio. Guardi, il mio rapporto coi comunisti è abbastanza chiaro. Infatti rispetto moltissimo il patrimonio di sacrificio che hanno accumulato, la dedizione che dimostrano nel lavoro, il loro stesso metodo di lavoro. È vero che sono seri. In parlamento non li trovi mai impreparati, la loro presenza è più diligente della nostra, hanno gruppi di studio che funzionano bene, hanno fede... Come oppositori, inoltre, sono straordinari. E a me dà più soddisfazione un oppositore costante e preparato che un sostenitore il quale viene lì per darti il voto e basta. Però... Ecco: però sono convinto che il comunismo sia una dittatura. Quindi bisogna impedire in maniera assoluta che abbia successo. Suvvia, la dittatura del proletariato non è mica un accessorio, non è mica una partecipazione agli utili o alla gestione delle fabbriche! È una logica come, per la Chiesa, l’esistenza di Dio. E così come un papa non può dire che all’esistenza di Dio si crede nei mesi dispari e basta, non è sufficiente che un comunista creda alla dittatura del proletariato nei mesi dispari e basta. Mi spiego? Bisogna distinguere tra comunisti e comunismo. E questa distinzione io la faccio. Pajetta ad esempio ce lo vedo poco in una dittatura del proletariato. Penso che lo fucilerebbero subito. Ma non sarebbe mica una consolazione esser fucilati con lui.

Mi sembra di capire che lei non si presterebbe a favorire il compromesso storico, come invece sostengono alcuni.
Eh, no! Coi comunisti ci parlo ma non per fare il Kerenski. Poi guardi: secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista. Molta gente dice boh, i comunisti esistono e sono molti e contano: quindi potrebbero mettere disciplina e ordinare al loro elettorato di comportarsi bene eccetera. Ebbene, mi sembra il caso di aprire un po’ gli occhi a chi dice così. Il nostro sistema è impostato su vari partiti, e tra questi conta in modo particolare il Partito socialista. Il compromesso storico significherebbe non solo la liquidazione dei vari partiti ma, in modo particolare, del Partito socialista. Il PSI ritiene, spesso, di poter parlare anche a nome delle masse comuniste ed afferma che la sua forza è superiore a quella rappresentata dai voti. Si arroga insomma funzioni di intermediario. Ma il giorno in cui i comunisti parlassero in proprio, non ci sarebbe più bisogno dell’intermediario. Il Partito comunista è portato per sua natura a risucchiare gli altri e persegue tale obiettivo coerentemente, non per calcolo subdolo o estemporaneo. Come ogni dittatura, del resto. All’inizio, le dittature si servono tatticamente di tutti, però non possono fare a meno di mirare a un punto dove esista solo il partito dominante. A me non sembra offensivo dire che la logica del comunismo è lo stalinismo. L’esperienza dei paesi comunisti non ci dimostra che, appena schiudono le porte, si tirano addosso un mucchio di guai e son costretti a fare marcia indietro? Mi fanno sorridere quelli che si scandalizzano per Solgenitsin. Non lo sapevano che in Russia non c’è libertà di pensiero e di espressione? No, non ci credo, a questo compromesso storico. Non mi piace.

Eppure non pochi democristiani ci credono.
Magari quelli che dicono siccome-il-papa-ha-mandato-via-Mindszenty vuol dire che-è-possibile-fare-la-repubblicaconciliare. Chi non è comunista e considera quell’opportunità, commette lo stesso errore che commisero i liberali e i popolari quando, nel 1922, si affiancarono al fascismo nell’illusione di poterlo condizionare. Durò pochi mesi quell’errore storico. Ma essi furono sufficienti a dimostrare che collaborare col dittatore è una illusione assurda. Il dittatore ti spreme e poi ti butta via. Guardi, forse tra cinquant’anni le cose andranno diversamente: però oggi stanno così e non mi sembra il caso che si faccia da cavie per formule tanto pericolose. Ecco le conclusioni cui giungo per il rispetto che ho verso i cattolici e, se mi è consentito, verso i comunisti. L’idea di Berlinguer è stata una mossa sbagliata. Suggestiva finché vuole per gli sprovveduti che dicono almeno-avremo-ordine-e-tranquillità: ma sbagliata. E sa perché? Perché a gente semplice non abboccherà.

Speriamo. Ma la gente semplice non conta.
Chi lo dice?

La gente semplice.
Nei momenti essenziali conta. Lei mi crede cinico ma in questo non sono cinico per niente. E dico: la garanzia maggiore che abbiamo nelle cose di fondo è proprio la gente semplice perché, senza saper teorizzare sulla libertà, la libertà se la difende sul serio. Io son convinto che una parte notevole dell’elettorato comunista difende un tipo di vita che nel sistema comunista non potrebbe avere.

Vedremo come la maneggerete al referendum per il divorzio, la gente semplice. Se la rispettate tanto, la gente semplice, perché non incominciate a chiederle scusa di presentarvi a quel referendum accanto ai missini?
Noi non ne facciamo una questione di partiti. Infatti non abbiamo chiesto di abrogare la legge Fortuna in Parlamento. Avremmo potuto, volendo, perché in Parlamento, dopo la caduta del PSIUP, la maggioranza divorzista non c’è più. La maggioranza, oggi, la raggiungeremmo noi insieme al MSI. Ma questa somma di voti avrebbe avuto un significato politico e così non abbiamo voluto.

Andreotti! Se dovessimo cambiare tutte le leggi ogni volta che cambia una legislatura, staremmo freschi. La legge sul divorzio esiste, non passò per un capriccio di Satana ma per una maggioranza democratica, e la Corte costituzionale l’ha giudicata valida due volte.
La Corte costituzionale ha detto che il divorzio non è contro il Concordato, ma la Corte costituzionale non può impedire l’abrogazione di una legge. Se la Camera vuole abrogare una legge, può farlo in qualsiasi momento. Secondo me, la legge sul divorzio è sbagliata per un mucchio di ragioni. Se avesse stabilito che il giudice può sospendere la procedura di divorzio quando da esso deriva un danno irreparabile pei figli o per uno dei coniugi... Se avesse fissato una posizione economica giusta per il coniuge divorziato anziché la storia degli alimenti che funziona così male... Insomma, se fosse stata una legge migliore, per noi sarebbe stato difficile farne una questione solo di principio. Ma, stando le cose come stanno, a me pare una questione di principio. A parte il fatto, s’intende, ch’io sono contro il divorzio in generale. E non solo come cattolico. Infatti, se è vero che il divorzio può sanare alcune cose, è anche vero che impallina l’istituto matrimoniale.

Senta, Andreotti: ma perché vuole imporre il suo credo cattolico a tutti? Finora non ha fatto che inneggiare alla libertà e ora vorrebbe togliere la libertà di divorziare a chi non la pensa come lei. Mi sembra una grossa incoerenza, anzi una grossa prepotenza. Se il divorzio non le piace, non lo usi! Non è mica obbligatorio, sa?
Vi sono momenti in cui vanno introdotte innovazioni legislative: va bene. Vi sono paesi civili che hanno sempre avuto il divorzio: va bene. In Italia non se n’è abusato: va bene. La legge può essere corretta: va bene. Conosco le contestazioni. Però dico: non era opportuno introdurre il divorzio in una fase di assestamento psicologico così difficile, mentre il paese subisce il permissivismo che ha invaso il mondo. Questo permissivismo aberrante. Secondo me era sbagliato anche il momento in cui è stato posto il problema. Guardi, non è che mi rifaccia a un dogma. Il mio timore è che il divorzio indebolisca il senso del matrimonio mentre si sta manifestando tanta discrasia sociale, spirituale... Dico: per tanti anni non abbiamo avuto il divorzio. Si poteva aspettare ancora un poco, no? Che urgenza c’era? Non era il momento giusto, no.

Ah! Non è un’argomentazione degna di lei, Andreotti. E quando viene il momento giusto per cambiare le cose?! Se stessimo ad aspettare il momento giusto, saremmo ancora nelle caverne a chiederci se è il caso di costruire la ruota!
Non si scherza col matrimonio. Non si può dire: divorzio, faccio un altro matrimonio, e poi un altro ancora. Non si deve.

E gli annullamenti della Sacra Rota, allora? Ma se la Chiesa cattolica annulla matrimoni da cui sono nati figli! Basta avere i soldi e un nome potente.
Secondo me, il cammino che dovrebbe fare la Chiesa è un cammino inverso. E cioè di un maggior rigore, di una minore permissività. Dovrebbe annullare meno matrimoni, la Chiesa.

Questo è proprio essere più papista del papa. Meno male che lei non ha fatto il prete e non è diventato papa. Meno male che un mucchio di democristiani la pensano come me e non come lei.
E tanta gente democristiana la pensa come me, non come lei.

Guardi che, se mi fa arrabbiare, io accendo la sigaretta.
E io accendo la candela.

D’accordo. Tanto il mal di testa le viene lo stesso.
No, no. Sono meno delicatino di quanto sembri. Sembro delicatino perché ho il torace stretto. Infatti, per via del torace stretto, non mi fecero fare l’allievo ufficiale. Pensi, da giovanotto non raggiungevo neanche il minimo di circonferenza toracica. Il maggiore che mi visitò disse: «Lei non durerà sei mesi». Eh! Eh! Quando diventai ministro della Difesa, cercai subito quel maggiore. Volevo prendermi il gusto di invitarlo a colazione per dimostrargli che ero vivo. Ma non fu possibile. Era morto lui.

Lo avrei scommesso.