Visualizzazione post con etichetta Martiri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Martiri. Mostra tutti i post

martedì 1 gennaio 2013

*** Albulo




20 febbraio.
Albulo, Dacio, Illirico e altri 7.    

Non so come farò a scrivere tanto, perché sento che Gesù si vuole presentare col suo Evangelo vissuto ed io ho sofferto tutta la notte per ricordare la visione seguente, della quale ho scarabocchiato le parole udite, come potevo, per non dimenticarle.

Tempo di persecuzione, una delle più grandi persecuzioni perché i cristiani sono torturati in masse, non presi singolarmente. Il luogo è la cavea di un Circo (si chiamano così?). Insomma è un locale certo sito sotto le gradinate del Circo e adibito a ricovero dei gladiatori, bestiari ecc. ecc., di tutti gli addetti al
Circo, insomma. Premetto che dirò male i nomi perché sono 35 anni che non leggo nulla di storia romana e perciò...

In questo locale ampio, ma scuro - perché ha luce solo da una porta spalancata su un corridoio che certo porta all’interno del Circo, e forse all’esterno del
medesimo, e da una finestrella, direi una feritoia bassa, a livello del suolo del Circo, da cui vengono rumori di folla - sono ammassati molti e molti
cristiani di ogni età. Dai bambini di pochissimi anni, ancora fra le braccia delle madri - e due, per quanto sui due anni, ancora poppano all’esausta mammella materna - ai vecchi cadenti.

E vi sono anche dei gladiatori, già con l’elmo e quella relativa corazza che difende e non difende, perché lascia scoperte ancora parti vitali quale il giugulo e le parti dell’addome all’altezza e posizione del fegato e della milza.
Indossano questa parziale armatura sulla nuda pelle ed hanno in mano la corta elarga daga fatta quasi a foglia di castano. Sono bellissimi uomini, non tanto
per il volto quanto per il corpo robusto e armonico di cui noto ad ogni movimento il guizzare agile dei muscoli. Alcuni hanno cicatrici di vecchie ferite, altri non mostrano nessun segno di ferita. Parlano fra loro e rilevo che devono essere di paesi sottomessi a Roma, prigionieri di guerra certo, perché non usano che un latino molto bastardo e pronunciato con voce dura e gutturale, quando si rivolgono ai cristiani che in attesa della morte cantano i loro dolci e mesti inni.

Un gladiatore, alto quasi due metri - un vero colosso biondo come il miele e dai chiari occhi di un azzurro grigio, miti pur fra tanta ombra di ferro che riflette sul suo volto la visiera dell’elmo - si rivolge ad un vecchio tutto vestito di bianco, dignitoso, austero, più ancora: ascetico, che tutti i cristiani venerano col massimo rispetto.

“Padre bianco, se le bestie ti risparmiano io ti dovrò uccidere. Così è l’ordine. E me ne spiace perché in Pannonia ho lasciato un vecchio padre come te”.
“Non te ne dolere, figlio. Tu mi apri il Cielo. E da nessuno, nella mia lunga vita, avrò mai avuto dono più bello di quello che tu mi dài”.
“Anche nel Cielo, luogo dove certo è il tuo Dio come nel mio vi sono i nostri dèi ed in quello di Roma i loro, ancora è morte e lotta. Vuoi tu ancora soffrire
per odio di dèi come qui soffri?”.
“Il mio Dio non è che solo. Nel suo Cielo Egli regna con amore e giustizia. E chi là perviene non conosce che eterno gaudio”.
“L’ho udito dire da più e più cristiani durante questa persecuzione. E ho detto ad una fanciulla che mi sorrideva mentre calavo su lei la daga... e ho finto
d’ucciderla ma non l’ho uccisa per salvarla, perché era tenera e bionda come un’erica giovanetta dei miei boschi,... ma non m’è servito... Di qui non la potei portare fuori, e il giorno dopo... ai serpenti fu dato quel corpo di latte e rosa...”. L’uomo tace con aspetto mesto.

“Che le hai detto, figlio?” chiede il vecchio.
“Ho detto: ‘Lo vedi? Non sono cattivo. Ma è il mio mestiere. Sono schiavo di guerra. Se è vero che il tuo Dio è giusto digli che si ricordi di Albulo, mi chiamano così a Roma, e si faccia vedere col suo bene’. Mi ha detto: ‘Sì’. Ma è morta da giorni e nessuno è venuto”.
“Finché non sei cristiano, Dio non ti si mostra che nei suoi servi. E quanti di essi ti ha portato! Ogni cristiano è un servo di Dio, ogni martire un amico, tanto amico da vivere fra le braccia di Dio”.

“Oh! molti... e io, non solo io, anche Dacio e Illirico, e anche altri di noi, tristi nella nostra sorte, siamo stati presi dal vostro giubilo... e lo vorremmo. Voi siete in catene... noi no. Ma neppure il soffio ci è libero. Se
Cesare lo vuole, ecco ci incatenano l’alito dandoci morte. Ti fa ribrezzo parlarci di Dio?”.

“È l’unica mia gioia della terra, figlio, ed è ben grande. Ti benedica Gesù, mio Dio e Maestro, per essa. Sono prete, Albulo, ho consumato la vita nel predicarlo
e nel portare a Lui tante creature. E più non speravo di avere questa gioia. Odi...” e il vecchio, a lui e agli altri gladiatori assiepatisi intorno, ripete la vita di Gesù, dalla nascita alla morte di croce, e dice, schematicamente, le necessità essenziali della Fede. 
Parla seduto su un masso che fa da banchina,
pacato, solenne, tutto un candore nei capelli lunghi, nella barba mosaica, nella veste, tutto un ardore nello sguardo e nella parola. Si interrompe solo due volte per benedire due gruppi di cristiani tratti nell’arena per essere gettati, in giuochi nautici, in pasto ai coccodrilli. Poi riprende a parlare fra il cerchio dei robusti gladiatori, quasi tutti biondi e rosei, che l’ascoltano a bocca aperta.

Si chiama Crisostomo quel dottore della Chiesa. Ma che nome dare allora a questo che non si nomina?

Termina dicendo: “Questo l’essenziale da credere per avere il Battesimo e il Cielo”.
Le voci robuste dei gladiatori, una decina, fanno rimbombare la volta bassa:
“Lo crediamo. Dàcci il tuo Dio”.
“Non ho nulla per aspergervi, non una goccia d’acqua o altro liquido, e la mia ora è giunta. Ma troverete il modo... No! Dio me lo dice! Un liquido è pronto
per voi”.
“I cristiani ai leoni!” ordina il sorvegliante. “Tutti”.
Il vecchio prete in testa, dietro gli altri, fra cui le madri sul cui seno si sono addormentati i pargoli, entrano cantando nell’arena.

Che folla! che luce! che rumore! quanti colori! È gremita inverosimilmente di popolo d’ogni ceto. Nella parte che il sole invade vi è popolo più basso e
rumoroso, nella parte all’ombra vi è il patriziato. Toghe e toghe, ventagli di struzzo, gioielli, conversazioni ironiche e a voce più bassa. Al centro della parte all’ombra, il podio imperiale col suo baldacchino purpureo, la sua balaustra infiorata e coperta di drappi e i suoi sedili soffici per il riposo
del Cesare e dei patrizi e cortigiani suoi invitati. Due tripodi in oro fumano ai lati estremi della balconata e spargono essenze rare.

I cristiani vengono spinti verso la parte al sole.

Dimenticavo una cosa. Al centro dell’arena è un... non so come dirlo. È una costruzione in marmo da cui salgono al cielo zampilli sottili, impalpabili di acqua, e sulla piattaforma di questa costruzione, di un ovale allungato, alta un due metri scarsi dal suolo, sono statuette di dèi in oro, e tripodi, in cui ardono incensi, sono davanti ad esse.

I cristiani sono dunque ammassati dalla parte solare. Faccio uno schizzo come so [grafico]. I leoni irrompono dal punto X. II vecchio prete si avanza solo, per
primo, a braccia tese. Parla: 

“Romani, per i miei fratelli e per me pace e
benedizione. Gesù, per la gioia che ci date di confessarlo col sangue, vi dia Luce e Vita eterna. Noi di questo lo preghiamo perché grati vi siamo della porpora eterna di cui ci vestite col...”.
Un leone ha preso il balzo dopo essersi avvicinato strisciando quasi al suolo, e lo atterra e azzanna alla spalla. La veste ed i capelli di neve sono già tutti
rossi.

È il segnale dell’attacco bestiale. La torma delle fiere a balzi si lancia sul gregge dei miti. Una leonessa con un colpo di zampa strappa ad una madre uno dei pargoli dormenti, ed è così feroce la zampata che asporta parte del seno della madre che si rovescia, forse lacerata fino al cuore, sull’arena e muore. La belva, a colpi di coda e di zampa, difende il suo tenero pasto e lo sgranocchia in un baleno. Una piccola macchia rossa resta sulla sabbia, unica traccia del pargolo martire, mentre la belva si alza leccandosi il muso.

Ma i cristiani sono molti e le belve poche in confronto. E forse già sazie. Più che divorare uccidono per uccidere. Atterrano, sgozzano, sventrano, leccano un
poco e poi passano altrove, ad altra preda.

Il popolo si inquieta perché manca la reazione nei cristiani e perché le bestie non sono feroci a sufficienza. Urla: “A morte! A morte! Anche l’intendente a morte! Non sono leoni questi, ma cani ben pasciuti! Morte ai traditori di Roma e di Cesare!”.

L’imperatore dà un ordine e le belve vengono ricacciate nei loro antri. Vengono fatti entrare i gladiatori per il colpo di grazia. La folla urla i nomi dei
preferiti: “Albulo, Illirico, Dacio, Ercole, Polifemo, Tracio” e altri ancora.
Non sono solo i soli gladiatori ai quali ha parlato il vecchio martire, che agonizza nell’arena con un polmone quasi scoperto da un colpo di zampa. Ma anche altri che entrano da altre parti.


Albulo corre al vecchio prete. La gente dice: “Fàllo soffrire! Alzalo, che si veda il colpo! Forza Albulo!”. Ma Albulo si china invece a chiedere al vecchio qualcosa e, avuto un cenno di assenso, chiama i compagni che hanno prima udito parlare il vecchio prete.
Non riesco a capire ciò che fanno, se si fanno benedire o che avviene, perché i loro robusti corpi fanno come un tetto sul vecchio prostrato. Ma lo capisco quando vedo che una mano senile già vacillante si alza sul gruppo di teste strette l’una all’altra e le asperge del sangue di cui si è fatta piena come una coppa. Poi ricade.
I gladiatori, spruzzati di quel sangue, scattano in piedi e alzano la daga che brilla nella luce. Urlano forte: “Ave, Cesare, imperatore. I trionfatori ti salutano” e poi, ratti come un fulmine, corrono a quella costruzione che è in mezzo al circo, balzano su essa, rovesciano idoli e tripodi, li calpestano.

La folla urla come impazzita. Chi vorrebbe difendere il gladiatore preferito, chi invoca morte atroce ai novelli cristiani. Che, per loro conto, tornati sull’arena, stanno allineati, sereni, magnifici come statue di giganti, con un sorriso nuovo sul volto fiero.

Cesare, un brutto, obeso, cinico uomo incoronato di fiori e vestito di porpora, si alza fra la corona dei suoi patrizi tutti in vesti bianche. Solo alcuni hanno
una balza rossa. La folla fa silenzio in attesa della sua parola. Cesare - chi sia non so questo viso rincagnato e vizioso - tiene tutti in sospeso per qualche minuto, poi rovescia il pollice in basso e dice: “Vadano a morte per i compagni”.

I gladiatori non convertiti, che intanto hanno sgozzato i malvivi cristiani con la metodicità con cui un beccaio sgozza gli agnelli, si rivoltano, e con la stessa automatica freddezza e precisione aprono ai compagni la gola, al giugolo.

Come manipolo di spighe che la roncola taglia stelo a stelo, i dieci neocristiani, aspersi del sangue del prete martire, si fanno veste di porpora eterna col loro sangue e cadono con un sorriso, riversi, guardando il cielo in cui si inalba il loro giorno beato.

Non so che Circo sia. Non so che età del cristianesimo. Non ho dati. Vedo e dico ciò che vedo. Io non ho mai messo piede in nessuna Arena o Circo o Colosseo; perciò non posso dare il menomo indizio. Per la folla e la presenza del Cesare direi essere a Roma. Ma non so. 

Mi rimane nel cuore la visione del vecchio prete martire e dei suoi ultimi battezzati, e basta.


REGINA MARTYRUM ORA PRO NOBIS!


mercoledì 5 dicembre 2012

‘I Vangeli della Fede’: Un rabbino, un teppista, un diacono


‘I Vangeli della Fede’

7 agosto.
Ieri sera ho avuto una singolarissima visione 
(La visione, che qui viene narrata con qualche incertezza e discontinuità, si ritroverà trascritta con maggior sicurezza e più ordine narrativo sul quaderno n. 100, e formerà l’episodio del “Martirio di Stefano” del ciclo della “Glorificazione” della grande opera sul Vangelo) 
che sul principio mi ha lasciata proprio sbalordita.
Poi ho capito che si riferiva alle prime persecuzioni verso
i cristiani, avvenute proprio in Gerusalemme. Ma questo l’ho capito poi, quando la visione si è animata, perché sul principio non vedevo che l’interno del Tempio, e precisamente quel portico in quel cortile presso al quale è la bocca del Tesoro, quel punto, insomma, presso il quale, appoggiato a una colonna, Gesù osservava la folla nella visione della vedova che dà i due piccioli.
Alla stessa colonna, proprio alla stessa - la riconosco per la sua posizione
presso le bocche del Tesoro e la scala che immette all’altro cortile - è un
autorevole personaggio. Un fariseo certo, tale me lo denunciano la veste e il mio interno ammonitore.


È un uomo sui sessant’anni, a giudicare dall’aspetto. Dai 55 ai 60. Alto, di nobile portamento e anche bello nei tratti fortemente semitici. La fronte deve essere alta, ma non è scoperta per un bizzarro copricapo che la copre sino a quasi le sopracciglia molto folte e dritte, che ombreggiano due occhi intelligentissimi, penetranti, neri, molto lunghi di taglio e incassati ai lati di un naso che scende diritto dalla fronte, lungo, sottile, dalle narici palpitanti, lievemente curvo in basso, alla punta. Guance di un avorio carico piuttosto incavate, non per emaciazione ma per conformazione del viso. Bocca piuttosto larga, dalle labbra sottili, ma bella, ombreggiata da baffi che non ne superano gli angoli e che si mescono ad una barba tagliata quadrata, che scende
non più di tre dita dal mento; i baffi e la barba, molto ben curati, sono di una brizzolatura tanto accentuata da esser più bianca che nera, come doveva essere inizialmente e come denunciano dei rari fili di un nero fin quasi azzurrognolo tanto è morato.
Ma quello che mi colpisce è l’abito. Sulla testa ha un copricapo fatto di un telo di lino piuttosto rigido, che cinge la fronte e si chiude sulla nuca come la cuffia delle infermiere di Croce Rossa. Il lembo libero ricade, al disopra della fermatura, sul collo e giunge alle spalle. È una specie di cappuccio, insomma, ma da adattarsi di volta in volta. L’abito invece è fatto così. Sotto, una lunga (fino a terra, a coprire i piedi, che infatti non vedo) veste di lino candidissimo, molto ampia, con maniche lunghe e larghe, tenuta a posto alla vita da una ricca cintura che è tutto un gallone di ricamo e di cordoni. La veste ha degli orli ricamati come a bordura, molto ampi.
Sopra questa vi è una specie di sopraveste curiosissima. Dietro pare una pianeta da Messa: un pezzo di stoffa tutta ricamata che pende dalle spalle sin verso il ginocchio, aperta ai lati, e che sul davanti scende a V fino all’altezza di dove finisce lo sterno facendo pieghe: 3 per parte, e sullo sterno è tenuta raccolta da una targa lavorata di metallo prezioso, che pare la borchia o chiusura di una cintura preziosa, che va ad allacciarsi ai lati posteriori della pianeta (la chiamerò così) ma non strettamente: appena quel tanto da tenere tutto a posto.
Oltre questa fibbia, la pianeta scende senza più pieghe fino al ginocchio.
Questo scarabocchio [grafico] vorrebbe essere la parte davanti di questa parte dell’abito del fariseo. Non rida di me. Tutto intorno ai suoi bordi, questa singolare casacca ha dei nastrini messi così [grafico] azzurri, fitti fitti.
Questi nastri messi a frangia si ritrovano anche sui bordi di un amplissimo
mantello di stoffa morbidissima, pare quasi una seta tanto è pieghevole e lieve, deve essere lino o lana del filato più fino, ma per la candidezza direi lino. Il mantello è tanto ampio che potrebbe bastare a coprire tre persone. Ora è aperto e pende dalle spalle sino a terra, dove si ammucchia con pieghe fastose.
Il fariseo ha le mani conserte sul petto, le braccia conserte, e guarda con
severità e direi con disgusto qualche cosa. Non è sprezzante però. Direi
addolorato.

Fin qui la prima parte della visione che ho descritto al presente per maggior vivezza, anche perché è tuttora presente alla mia vista come ieri sera. Se sapesse quanto ho studiato la veste del fariseo! Potrei dire e disegnare, se fossi capace, i ghirigori della fibbia preziosa e le greche dei bordi ricamati.

In un secondo tempo ho visto venire davanti al fariseo un giovinotto, un ebreo certo, dalle caratteristiche nette, e anzi un brutto ebreo. Bassotto, tarchiato, direi quasi un poco rachitico, con gambe molto corte e grosse, un poco divaricate ai ginocchi: le vedo bene perché ha veste corta come chi si appresta a viaggiare, me lo dice il mio ammonitore... Una veste grigiognola. Braccia pure corte e nerborute, collo corto e grosso che sostiene una testa piuttosto grossa, bruna, con capelli corti e ruvidi, dalle orecchie piuttosto sporgenti, labbra tumide, naso fortemente camuso, zigomi alti e grossi, fronte convessa e alta, occhi... tutt’altro che dolci. Piuttosto bovini ma dallo sguardo duro, iracondo.
Eppure questi occhi, nerissimi sotto i cespugli di sopracciglia arruffate, sono occhi bellissimi. Fanno pensare. Non ha barba lunga, ma le guance paiono affumicate dall’ombra di una barba foltissima e che deve esser ispida come i capelli. È un uomo decisamente brutto nel corpo e nel volto. Pare persino un poco gobbo nella spalla destra. Ma pure colpisce e attira nonostante abbia aspetto brutto e cattivo.

Va di fronte al fariseo e gli dice qualcosa, con le sue grosse labbra, che io
non capisco.
Il fariseo risponde: “Non approvo la violenza. Per nessun motivo. Da me non avrai mai adesione a un disegno violento. L’ho detto anche pubblicamente”.

“Sei forse protettore di questi bestemmiatori, seguaci del Nazareno?”

“Sono protettore della giustizia. E questa insegna ad esser cauti nel giudicare. L’ho detto: ‘Se è cosa che viene da Dio resisterà, se no cadrà da sé’. Ma io non voglio macchiarmi le mani di un sangue che non so se meriti morte”.

“Tu, fariseo e dottore, parli così? Non temi l’Altissimo?”

“Più di te. Ma penso e ricordo... Tu non eri che un piccolo, non ancora figlio della Legge, ed io insegnavo in questo Tempio con il rabbino più saggio di questo tempo... E la nostra saggezza ebbe una lezione che ci fece pensare per tutto il resto della vita. Gli occhi del saggio si chiusero sul ricordo di quell’ora e la sua mente sullo studio di quella verità che si rivelava agli onesti. I miei hanno continuato a vigilare, e la mente a pensare, coordinando le cose... Io ho udito l’Altissìmo parlare dalla bocca di un fanciullo

(Gesù dodicenne fra i dottori nel Tempio: Luca 2, 41-50. Nell’analogo episodio
scritto da Maria Valtorta per l’opera sul Vangelo, si incontrano i personaggi di
Gamaliele  - il fariseo che qui parla - e di Hillel  -  il saggio rabbino
qui ricordato-).

che poi fu uomo e giusto e che fu messo a morte per esser giusto. E quelle parole hanno avuto conferma nei fatti... Misero me che non compresi avanti! Misero popolo d’Israele!”.

“Maledizione! Tu bestemmi! Non vi è più salvezza se i maestri d’Israele
bestemmiano il Dio vero”.

“Non io l’ho bestemmiato. Tutti! E lo continuavamo a bestemmiare. Giusto hai detto: non vi è più salvezza!”.

“Mi fai orrore”.

“Denunciami al Sinedrio come colui che fu lapidato. Sarà l’inizio felice della tua missione e io sarò perdonato, per il mio sacrificio, di non aver compreso il Dio che passava”.
Il brutto giovane va via sgarbatamente e la visione cessa lì. Stamane si
ripresenta nettissima alla memoria, ma con un anticipo (o antefatto)
che me la fa capire.


Vedo l’aula del Sinedrio, la stessa e messa nello stesso modo di quando accolse il mio Gesù nella notte fra il Giovedì e Venerdì. Il Sommo Sacerdote e gli altri sono sui loro scanni; al centro dell’aula, nello spazio vuoto dove era Gesù, è ora un giovane, direi sui 25 anni, alto e bello. Intorno a lui, sgherri e allievi del Sinedrio, non so se si chiamino così, ma mi paiono studenti alle dipendenze dei rabbini, perciò allievi.
Stefano deve avere già parlato (Atti d. Apostoli 7), perché il tumulto è al colmo e ha riscontro solo nella gazzarra assassina che accompagnò 1’uscita di Gesù dall’aula. Pugni, maledizioni e bestemmie sono tesi e lanciati contro il diacono Stefano e anche percosse brutali, per cui egli traballa, stiracchiato qua e là con ferocia.

Ma egli conserva calma e dignità. Più che calma, gioia. Con viso ispirato e luminoso, senza curarsi degli sputi che vengono a rigargli il viso né di un filo di sangue che scende dal naso violentemente colpito, egli alza gli occhi e sorride ad una vista nota a lui solo. Apre le braccia in croce e le tende come per un abbraccio e cade in ginocchio così, adorando ed esclamando: “Ecco, io vedo i Cieli aperti ed il Figlio dell’Uomo, Gesù Nazareno, il Cristo di Dio che voi avete ucciso, è alla destra di Dio!”

Allora la canea cessa di avere l’ultima parvenza di umanità e di legalità e, con la furia di una muta di mastini idrofobi, si scaglia sul diacono, lo morde, lo afferra, lo mette in piedi a suon di calci, lo spinge fuori a suon di pugni, tirandolo per i capelli, facendolo cadere e trascinandolo ancora, facendo ostacolo alla sua furia con la sua stessa furia, perché nella rissa chi cerca tirare il martire è ostacolato da chi lo calpesta.

Fra i più veementi e crudeli è il giovane brutto che ho visto parlare al rabbino e fariseo e che chiamano Saulo. Mi spiace per l’apostolo... ma pareva un teppista prima di esser di Cristo...

Vedo anche il fariseo e dottore il quale, uno dei pochi che non è partecipante alla zuffa, come è stato sempre silenzioso durante l’accusa e mentre è data condanna (e con lui mi pare vedere anche Nicodemo, in un angolo semi-scuro), il quale fariseo e dottore, disgustato della scena illegale e feroce, si ammanta nel suo amplissimo mantello e si dirige verso un’uscita opposta a quella verso la quale è diretta la turba dei carnefici.

La mossa non sfugge a Saulo che grida: “Rabbi, te ne vai?” e dato che l’altro mostra di non prendere per sé la domanda, Saulo specifica: “Rabbi Gamaliel, ti astrai da questo giudizio?”.
Gamaliele si volge tutto d’un pezzo e con sguardo altero e freddo risponde semplicemente: “Sì”. Ma è un “sì” che vale un intero discorso.
Saulo comprende e, lasciando la muta, corre a lui. “Non vorrai dirmi, maestro, che disapprovi la nostra condanna”.

Silenzio.

“Quell’uomo è doppiamente colpevole per aver rinnegato la Legge seguendo un samaritano posseduto da Belzebù e per averlo fatto dopo essere stato tuo allievo”.

Silenzio.

“Sei tu forse seguace del malfattore detto Gesù?”.

“Non lo sono. Ma se egli era colui che si diceva, io prego l’Altissimo che io lo divenga”.

“Orrore!”.

“Nessun orrore. Ognuno ha una intelligenza per adoperarla e una libertà per applicarla. Ognuno l’usi secondo quella libertà che Dio ha dato e quella luce che ci ha messo in cuore. I giusti l’useranno nel bene, i malvagi nel male. Addio”. E se ne va senza curarsi d’altro.

Saulo raggiunge gli aguzzini nel cortile ed esce con loro dal Tempio e dalle porte della città, sempre fra percosse e dileggi.
Fuori le mura, in uno spazio incolto e sassoso, i carnefici si allargano a
cerchio. Al centro è il condannato con le vesti lacere e già pieno di ferite
sanguinose. Tutti si levano le sopravvesti rimanendo in corte tuniche come quella di Saulo nella visione di ieri sera. Le vesti vengono date a Saulo che non prende parte alla lapidazione. Non so se perché troppo piccolo o conscio della sua incapacità di tiratore o se perché scosso dalle parole di Gamaliele.
Fatto è che Saulo resta con la veste lunga e il mantello a custodire le vesti
degli altri, i quali, a colpi di pietra (le pietre abbondano nel luogo, ciottoli
tondi e selci aguzze), finiscono il martire.

Stefano prende i primi colpi in piedi con un sorriso di perdono sulla bocca ferita. Prima, con quella bocca, ha salutato Saulo. Gli ha detto, mentre la muta si apriva a cerchio e Saulo era intento a ritirare le vesti: “Amico, io ti attendo sulla via di Cristo”. Al che Saulo aveva risposto, accompagnando gli epiteti con un calcio vigoroso: “Porco! Ossesso!”.




Poi Stefano vacilla, e sotto la grandine dei colpi cade in ginocchio dicendo: “Signore Gesù, ricevi lo spirito mio!”. Altri colpi sul capo ferito lo fanno stramazzare, e mentre cade e si adagia col capo nel suo sangue, fra i sassi, mormora spirando: “Signore, Padre,... perdonali... non tener loro rancore per il loro peccato. Non sanno quello che...”. La morte ferma la frase qui.
I carnefici lanciano un’ultima valanga di sassi sul morto, lo seppelliscono
quasi sotto questa grandinata di pietre. Si rivestono e vanno. Tornano al Tempio e i più accesi si presentano, ebbri di zelo satanico, al Sommo Sacerdote per aver carta libera a perseguitare.
Fra questi, il più acceso è Saulo. Avuta la lettera di autorizzazione - una
pergamena col sigillo del Tempio in rosso - esce. Non perde tempo. Si appresta subito al viaggio e alla persecuzione. Il sangue di Stefano gli ha fatto l’effetto del rosso a un toro e di un vino ad un demente per alcoolismo. Lo ha portato alla furia. È più brutto che mai. Mi scusi l’apostolo. Ma devo dire ciò che vedo.

Mentre attende non so chi, vede Gamaliele appoggiato alla colonna e va a lui. Ho l’impressione che Saulo fosse di quelli che non lasciavano cadere una disputa, ma con una insistenza da mosca tornasse sempre all’assalto. Nel male prima, nel bene poi.

Rivedo esattamente la scena di ieri sera, che perciò non ripeto. E null’altro.
Io non avevo riconosciuto Gamaliele, molto più vecchio del momento della disputa di Gesù fanciullo, e ora con quel copricapo che allora non aveva. Ma dico il vero. Fin da allora mi era piaciuto. Ora mi piace più ancora. Mi impone rispetto. Non so se sia morto cristiano (Nel 1951 Maria Valtorta scriverà l’episodio della conversione di Gamaliele al cristianesimo, che sarà uno degli ultimi capitoli della grande opera sul Vangelo). Ma vorrei lo fosse perché mi pare lo
meritasse. Era giusto.

Come lei vede, una visione proprio impensabile ad aversi, specie per quello che riguarda Gamaliele. Ma è così netta! Una delle più nette e insistenti. Potrei numerare persone, pietre e colpi, tanto sono esatti i particolari.
Per ora nessun commento da parte di Gesù.


Da ‘I QUADERNI’ ( 1944, 1945-50) di Maria Valtorta.


DOMINE JESU,
ACCIPE SPIRITUM MEUM,
ET NE STATUAS ILLIS HOC PECCATUM

giovedì 1 novembre 2012

“E il Pontefice?” chiedono in molti. “Egli vi manda il suo saluto e la sua benedizione. È vivo, per ora, e in salvo nelle catacombe. Fanno buona guardia i fossores. Egli verrebbe, ma Alessandro e Caio Giulio ci hanno avvisati che egli è troppo conosciuto dai custodi.



Imitación de Cristo
29 - 2 - 1944.


NOTA DEL CURATORE:
I BRANI CHE SEGUONO (e che potremmo chiamare "Vangeli della Fede") SONO SPESSO ‘VISIONI’ DI MARTIRIO, QUINDI
NECESSARIAMENTE CON IMMAGINI ASSAI CRUENTE, POCO INDICATE A GIOVANISSIMI E
PERSONE MOLTO SENSIBILI

Vedo un buio stanzone. Lo dico stanzone tanto per dire ambiente vasto e in muratura. Ma è un sotterraneo nel quale la luce entra a malapena da due feritoie a livello del suolo che servono anche per l’aerazione. Molto insufficiente, d’altronde, rispetto alla quantità di gente che è nell’ambiente e all’umidità dello stesso che trasuda dalle muraglie fatte di blocchi quasi quadrati di pietra connessa con calcina, ma senza alcun intonaco, e dal suolo di terreno battuto.
So che è il carcere Tullianum. Me lo dice il mio indicatore. So anche, per la
stessa fonte, che quella folla accatastata in così poco spazio è data da
cristiani imprigionati per la loro fede e in attesa d’esser martirizzati. È
tempo di persecuzione, e precisamente una delle prime persecuzioni, perché sento
parlare di Pietro e Paolo e so che questi sono stati uccisi sotto Nerone.
Non può credere con che vivezza di particolari io “veda” questo carcere e chi vi
è accolto. Potrei di ogni singolo descrivere età, fisionomia e vestito. Ma
allora non la finirei più. Mi limito perciò a dire le cose, i punti e i
personaggi che più mi colpiscono.
Vi sono persone di tutte le età e condizione sociale. Dai vecchi che sarebbe
pietoso lasciar spegnere dalla morte, ai bambini di pochi anni che sarebbe
giusto lasciar liberi e giocondi ai loro giochi innocenti e che invece languono,
poveri fiori che non vedranno mai più i fiori della terra, nella penombra
malsana di questa carcere.
Vi sono i ricchi dalle vesti curate ed i poveri dalle povere vesti. E anche il
linguaggio ha variazioni di pronuncia e di stile a seconda che esce da labbra
istruite di signori o da bocche di popolani. Si sentono anche, mescolate al
latino di Roma, parole e pronunce straniere di greci, di iberi, di traci, ecc.
ecc. Ma se diversi sono gli abiti e gli eloqui, uguale è lo spirito guidato da
carità. Essi si amano senza distinzione di razza e di censo. Si amano e cercano
d’esser l’un l’altro di aiuto.
I più forti cedono i posti più asciutti e più comodi - se comodo si può chiamare
qualche pietrone sparso qua e là a far da sedile e guanciale - ai più deboli. E
riparano questi con le loro vesti, rimanendo senza altra cosa che una tunica per
la pudicizia, usando toghe e mantelli a far da materasso e guanciale e da
coperta ai malati che tremano di febbre o ai feriti da già subìte torture. I più
sani sovvengono i più malati dando loro da bere con amore: un poco d’acqua
mesciuta da un orcio in un rustico recipiente, intridendo, nella stessa, strisce
di tela strappate alle loro vesti per fare da bende sulle membra slogate o
lacerate e alle fronti arse da febbre.
E cantano dentro per dentro 1. Un canto soave che è certo un salmo o più salmi, perché si alternano. Non sento il bel canto che accompagnò la sepoltura di Agnese2. Questi sono salmi. Li riconosco.
Uno di essi incomincia così: “Amo, perché il Signore ascolta la voce della mia preghiera” (S. 94)3.
Un altro dice: “O Dio, Dio mio, per Te veglio dalla prima luce. Ha sete di Te l’anima mia e molto più la mia carne. In una terra deserta, impraticabile e senz’acqua...” (S. 62).

1 dentro per dentro è espressione ricorrente nella scrittrice e significa ogni
tanto, di tanto in tanto
2 Nella visione del 20 gennaio, pag. 63.
3 Ma sembra il Salmo 116 A (volgata: 114), 1. Le indicazioni dei Salmi, che nel testo poniamo tra parentesi, sono aggiunte a matita dalla scrittrice.
Imitación de Cristo
Un bambino geme nella semi oscurità. Il canto sospende.
“Chi piange?” si chiede.
“È Castulo” si risponde. “La febbre e la bruciatura non gli dànno tregua. Ha
sete e non può bere perché l’acqua brucia sulle sue labbra arse dal fuoco”.
“Qui vi è una madre che non può più dare il latte al suo piccino” dice una
imponente matrona dall’aspetto signorile. “Mi si porti Castulo. Il latte brucia meno dell’acqua”.
“Castulo a Plautina” si ordina.
Si avanza uno che dalla veste giudicherei o un servo di famiglia cristiana, che
condivide la sorte dei padroni, o un lavoratore del popolo. È tarchiato, bruno,
robusto, coi capelli quasi rasati e una corta veste scura stretta alla vita da
una cinghia. Porta con cura sulle braccia, come su una barellina, un povero
bambino di sì e no otto anni. Le sue vesti, per quanto ormai sporche di terra e
di macchie, sono ricche, di lana bianca e fina, e ornate al collo, alle maniche
e al fondo, da una ricca greca ricamata. Anche i sandali sono ricchi e belli.
Plautina si siede su un sasso che un vecchio le cede. Plautina pure è tutta
vestita di lana bianca. Non ricordo il nome delle vesti romane con esattezza, ma
mi pare che questa lunga veste si chiami clamide e il manto palla. Però non
garantisco della mia memoria. So che questa di Plautina è molto bella e ampia e
l’avvolge con grazia facendo di lei una bellissima statua viva.
Ella si siede sul masso addossato alla muraglia. Vedo distintamente i pietroni
che la sovrastano, sui quali ella spicca col suo volto lievemente olivastro,
dagli occhi grandi e neri e dalle trecce corvine, e con la sua candida veste.
“Dàmmi, Restituto, e che Dio ti compensi” ella dice al pietoso portatore del
piccolo martire. E divarica un poco le ginocchia per accogliere, come su un
letto, il bambino.
Quando Restituto lo posa, vedo uno scempio che mi fa raccapricciare. Il viso del
povero bambino è tutto una bruciatura. Sarà stato bello forse. Ora è mostruoso.
Non più che pochi capelli sul dietro del capo; davanti la cute è nuda e mangiata
dal fuoco. Non più fronte né guance né naso come noi li pensiamo, ma una
tumefazione rosso-viva, rósa dalla vampa come da un acido. Al posto degli occhi,
due piaghe da cui colano rare lacrime che devono essere tormento alle sue carni
bruciate. Al posto delle labbra, un’altra piaga orrenda a vedersi. Si direbbe
che lo hanno tenuto curvo sulla fiamma col solo viso, perché l’arsione cessa
sotto il mento.
Plautina si apre la tunica e, parlando con amore di vera madre, spreme la sua
tonda mammella piena di latte e ne fa stillare le gocce fra le labbra del
bambino, che non può sorridere, ma che le carezza la mano per mostrarle il suo
sollievo. E poi, dopo averlo dissetato, fa cadere altro latte sul povero viso
per medicarlo con questo balsamo, che è un sangue di madre divenuto nutrimento e
che è amore di una senza più figli per uno senza più mamma.
Il bambino non geme più. Dissetato, calmato nel suo spasimo, ninnato dalla
matrona, si assopisce respirando affannosamente.
Plautina sembra una madre dei dolori per la posa e per l’espressione. Guarda il
poverino e certo vede in lui la sua creatura o le sue creature, e delle lacrime
rotolano sulle sue guance, e lei getta indietro il capo per impedire che cadano
sulle piaghe del piccolo.
Il canto riprende: “Ho aspettato ansiosamente il Signore ed Egli a me si è
rivolto ed ha ascoltato il mio grido”4.
“Il Signore è il mio Pastore, non mi mancherà nulla. Egli mi ha posto in luogo
di abbondanti pascoli, m’ha condotto ad acqua ristoratrice” (S. 22).
“Fabio è spirato” dice una voce nel fondo del sotterraneo. “Preghiamo”, e tutti
dicono il Pater ed un’altra preghiera che si inizia così: “Sia lode
all’Altissimo che ha pietà dei suoi servi e schiude il suo Regno all’indegnità
nostra senza chiedere alla nostra debolezza altro che pazienza e buona volontà.
Sia lode al Cristo che ha patito la tortura per coloro che la sua misericordia
poteva conoscere troppo deboli per subirla, e non ha loro richiesto che amore e
fede. Sia lode allo Spirito che ha dato i suoi fuochi per martirio ai non
chiamati alla consumazione del martirio e li fa santi della sua Santità. Così sia “ (Maranata) (non so se scrivo giusto).
“Fabio felice!” esclama un vegliardo. “Egli già vede Cristo!”
Noi pure lo vedremo, Felice, e andremo a Lui con la doppia corona della fede e del martirio. Saremo come rinati, senza ombra di macchia, poiché i peccati della nostra passata vita saranno lavati nel sangue nostro prima d’esser lavati nel Sangue dell’Agnello. Molto peccammo, noi che fummo per lunghi anni pagani, ed è grande grazia che a noi venga il giubileo del martirio a farci nuovi, degni del Regno”.

“Pace a voi, miei fratelli” tuona una voce che mi par subito di avere già udito.
“Paolo! Paolo! Benedici!”
Molto movimento avviene fra la folla. Solo Plautina resta immobile col suo pietoso peso sul grembo.
“Pace a voi” ripete l’apostolo. E si inoltra sin nel centro dell’androne.
“Eccomi a voi con Diomede e Valente per portarvi la Vita”.
“E il Pontefice?” chiedono in molti.
“Egli vi manda il suo saluto e la sua benedizione. È vivo, per ora, e in salvo
nelle catacombe. Fanno buona guardia i fossores. Egli verrebbe, ma Alessandro e Caio Giulio ci hanno avvisati che egli è troppo conosciuto dai custodi. Non sempre sono (5) di guardia Rufo e gli altri cristiani. Vengo io, meno noto e cittadino romano. Fratelli, che nuove mi date?”
“Fabio è morto”.
“Castulo ha subìto il primo martirio”.
“Sista è stata condotta ora alla tortura”.
“Lino lo hanno trasportato con Urbano e i figli di questo al Mamertino o al
Circo, non sappiamo”.

4 Salmo 40 (volgata: 39), 2.
5 sono è nostra correzione da è
Imitación de Cristo
“Preghiamo per loro: vivi e morti. Che il Cristo dia a tutti la sua Pace”.
E Paolo, con le braccia aperte a croce, prega - basso, bruttino anziché no, ma
un tipo che colpisce - in mezzo al sotterraneo 6. È vestito, come fosse un servo
lui pure, di una veste corta e scura, ed ha un piccolo mantelletto con cappuccio
che per pregare si è buttato indietro. Alle sue spalle sono i due che ha
nominato, vestiti come lui, ma molto più giovani.
Finita la preghiera, Paolo chiede: “Dove è Castulo?”
“In grembo a Plautina, là in fondo”.
Paolo fende la folla e si accosta al gruppo. Si curva e osserva. Benedice.
Benedice il bambino e la matrona. Si direbbe che il bambino si sia risvegliato
ai gridi salutanti l’apostolo, perché alza una manina cercando toccare Paolo, il quale gli prende allora la mano fra le sue e parla: “Castulo, mi senti?”
“Sì” dice il piccino muovendo a fatica le labbra.
“Sii forte, Castulo. Gesù è con te”.
“Oh! perché non me l’avete dato? Ora non posso più!” E una lacrima scende a invelenire le piaghe.
“Non piangere, Castulo. Puoi inghiottire una briciola sola? Sì? Ebbene, ti darò il Corpo del Signore. Poi andrò dalla tua mamma a dirle che Castulo è un fiore del Cielo. Che devo dire alla tua mamma?”
“Che io son felice. Che ho trovato una mamma. Che mi dà il suo latte. Che gli occhi non fanno più male. (Non è bugia dirlo, non è vero? per consolare la mamma?). E che io ‘vedo’ il Paradiso ed il posto mio e suo meglio che se avessi questi occhi ancora vivi. Dille 7 che il fuoco non fa male quando gli angeli sono con noi, e che non tema. Né per lei, né per me. Il Salvatore ci darà forza”.
“Bravo Castulo! Dirò alla mamma le tue parole. Dio aiuta sempre, o fratelli. E lo vedete. Questo è un bambino. Ha l’età in cui non si sa sopportare il dolore di un piccolo male. E voi lo vedete e l’udite. Egli è in pace. Egli è pronto a tutto subire, dopo aver già tanto subito, pur di andare da Colui che egli ama e che lo ama perché è uno di quelli che Egli amava: un fanciullo, ed è un eroe della Fede. Prendete coraggio da questi piccoli, o fratelli. Torno dall’aver portato al cimitero Lucina, figlia di Fausto e Cecilia. Non aveva che quattordici anni, e voi lo sapete se era amata dai suoi e debole di salute.
Eppure fu una gigante di fronte ai tiranni. Voi lo sapete che io mi faccio
passare, con questi, per fossor 8, per potere raccogliere quanti più corpi posso
e deporli in suolo santo. Vivo perciò presso i tribunali e vedo, come vivo
presso i circhi e osservo. E m’è conforto pensare che io pure nella mia ora - faccia Iddio sollecita - sarò da Lui sorretto come i santi che ci hanno
preceduto. Lucina fu torturata con mille torture. Battuta, sospesa, stirata,
attanagliata. E sempre guariva per opera di Dio. E sempre resisteva a tutte le minacce. L’ultima delle torture, avanti il supplizio, fu volta al suo
spirito. Il

6 sotterraneo è nostra correzione da sotterraneo
7 Dille è nostra correzione da Digli
8 fossor (singolare) è nostra correzione da fossores (plurale)
Imitación de Cristo

tiranno, vedendola presa di amore per il Cristo, vergine che aveva legata se stessa al Signore Iddio nostro, volle ferirla in questo suo amore. E la condannò ad esser di un uomo. Ma uno, due, dieci che si accostarono e dieci che perirono, percossi da folgore celeste. Allora, non potendo in nessun modo spezzare e distruggere il suo giglio, il tiranno ordinò fosse legata e sospesa in modo da rimanere come seduta e poi calata precipitosamente su un cuneo puntuto che le
squarciò le viscere. Credette così il barbaro di averle levato la verginità
tanto amata. Ma mai tanto, come sotto quel bagno di sangue, il suo giglio fiorì
più bello e dalle viscere squarciate si espanse per esser colto dall’angelo di Dio. Ora ella è in pace. Coraggio, fratelli. Ieri l’avevo nutrita del Pane
celeste e col sapore di quel Pane ella andò all’ultimo martirio. Ora darò anche a voi quel Pane perché domani è giorno di festa sovrumana per voi. Il Circo vi attende. E non temete. Nelle fiere e nei serpenti voi vedrete aspetti celesti poiché Dio compierà per voi questo miracolo, e le fauci e le spire vi parranno abbracci d’amore, i ruggiti e i sibili voci celesti, e come Castulo vedrete il Paradiso che già scende per accogliervi nella sua beatitudine”.
Imitación de Cristo
I cristiani, meno Plautina, sono tutti in ginocchio e cantano: “Come il cervo
anela al rivo così l’anima mia anela a Te. L’anima mia ha sete di Dio. Del Dio
forte e vivente. Quando potrò venire a Te, Signore? Perché sei triste, anima
mia? Spera in Dio e ti sarà dato di lodarlo. Nel giorno Dio manda la sua grazia
e nella notte ha il cantico di ringraziamento. La preghiera a Dio è la mia vita.
Dirò a Lui: ‘Tu sei la mia difesa’ (S. 41). Venite, cantiamo giulivi al Signore;
alziamo gridi di gioia al Dio nostro Salvatore. Presentiamoci a Lui con gridi di
giubilo. Perché il Signore è il gran Dio. Venite, prostriamoci ed adoriamo Colui
che ci ha creati. Perché Egli è il Signore Dio nostro e noi il popolo da Lui
nutrito, il gregge da Lui guidato” (S. 94).

Mentre essi cantano sono entrati anche dei soldati romani e dei carcerieri, i
quali montano anche la guardia perché non entrino persone nemiche.
Paolo si appresta al rito. “Tu sarai il nostro altare” dice a Castulo. “Puoi
tenere il calice sul tuo petto?”
“Sì”.
Viene steso un lino sul corpicino del bimbo e sul lino sono appoggiati 9 il
calice e il pane.
E assisto alla Messa dei martiri che viene celebrata da Paolo e servita dai due
preti che l’accompagnano. Però non è la Messa come è ora 10. Mi pare che abbia
parti che ora non ha e non abbia parti che ora ha. Non ha epistola, per esempio,
e dopo la benedizione: “Vi benedica il Padre, il Figlio, lo Spirito
Santo” (dice così)

9 sono appoggiati è nostra correzione da appoggiato
10 Secondo il messale in vigore ai tempi della scrittrice, poi riformato dal Concilio Vaticano II. 

non ha altro11. Però dal Vangelo alla Consacrazione sono uguali a ora. Il Vangelo letto è quello delle Beatitudini 12.
Vedo il lino palpitare sul petto di Castulo il quale, per ordine di Paolo, tiene
fra le dita la base del calice perché non cada. Vedo anche che quando Paolo
dice: “Questa consacrazione del Corpo...” un fremito di sorriso scorre sul volto
piagato del piccolino e poi la testolina si abbatte subito con una pesantezza di
morte che sempre cresce.
Plautina ha come un sussulto ma si domina. Paolo procede come non notasse nulla.
Ma quando, franta l’Ostia, sta per curvarsi sul piccolo martire per comunicarlo
per primo con un minuscolo frammento, Plautina dice: “E’ morto”, e Paolo sosta
un attimo, dando poi alla matrona il frammento destinato al bambino, che è
rimasto con le ditine serrate sul piede del calice nell’ultima contrazione, e
glie le devono sciogliere per poter prendere il calice e darlo agli altri.
Poi, distribuita la Comunione, la Messa ha termine. Paolo si spoglia delle vesti
e ripone queste e il lino e il calice e la teca delle ostie in una sacca che
porta sotto il mantello. Poi dice: “Pace al martire di Cristo. Pace a Castulo santo”.
E tutti rispondono: “Pace!”
“Ora lo porterò altrove. Datemi un manto, ché ve lo avvolga. Lo porterò senza attendere la sera. Questa sera verremo per Fabio. Ma questo... lo porterò come un bambino addormentato. Addormentato nel Signore”.
Uno dei soldati dà il suo mantello rosso; e vi depongono il piccolo martire e ve
lo avvolgono, e Paolo se lo prende in braccio (a sinistra) come fosse un padre
che trasporta altrove il figlioletto dormiente, col capo curvo sulla spalla
paterna.
“Fratelli, la pace sia con voi, e ricordatevi di me quando sarete nel Regno”. Ed
esce benedicendo.

Dice Gesù:

«Non è Vangelo, ma voglio che sia considerato uno dei “vangeli della fede” 13 per voi che temete.
Anche delle persecuzioni temete. Non avete più la tempra antica. È vero. Ma Io sono sempre Io, figli. Non dovete pensare che Io non possa darvi un cuore intrepido nell’ora della prova. Senza il mio aiuto nessuno, anche allora, avrebbe potuto rimanere fermo davanti a tanto supplizio. Eppure vecchi e bambini, giovinette e madri, coniugi e genitori, seppero morire, incuorando a morire, come andassero a festa. E festa era. Eterna festa!

11 L’intero ultimo periodo è aggiunto dopo dalla scrittrice, che ha inserito Non
ha epistola, per esempio su una parte di rigo rimasta in bianco, ed ha messo
tutto il resto in calce alla pagina richiamando con una crocetta.
12 Matteo 5, 1-12; Luca 6, 20-23.
13 Vedi il brano del 28 febbraio, pag. 152.

Morivano, e il loro morire era breccia nella diga del paganesimo. Come acqua che
scava e scava e scava e rompe lentamente ma inesorabilmente le più forti opere
dell’uomo, il loro sangue, sgorgando da migliaia di ferite, ha sgretolato la
muraglia pagana e come tanti rivoli si è sparso nelle milizie di Cesare, nella
reggia di Cesare, nei circhi e nelle terme, fra i gladiatori e i bestiari, fra
gli addetti ai pubblici bagni, fra i colti e i popolani, dovunque, incessabile e
invincibile.
Il suolo di Roma è imbibito di questo sangue e la città sorge, potrei dire che è
cementata col sangue e la polvere dei miei martiri. Le poche centinaia di
martiri che voi conoscete sono un nulla rispetto ai mille e mille ancora sepolti
nelle viscere di Roma e agli altri mille e mille che bruciati sui pali nei
circhi divennero cenere sparsa dal vento, o sbranati e inghiottiti da fiere e da
rettili divennero escremento che fu spazzato e gettato come concime.
Ma se voi non li conoscete, questi miei eroici sconosciuti, Io li conosco tutti,
e il loro annichilimento totale, sin dello scheletro, è stato quello che ha
fecondato più di qualunque concime il suolo selvaggio del mondo pagano e lo ha
fatto divenire capace di portare il Grano celeste.
Ora questo suolo del mondo cristiano sta ritornando pagano e germina tossico e
non pane. È perciò che voi temete. Troppo vi siete staccati da Dio per avere in
voi la fortezza antica.
Le virtù teologali sono morenti là dove già non sono morte. E quelle cardinali
neppure le ricordate. Non avendo la carità, è logico non possiate amare Dio sino
all’eroismo. Non amandolo, non sperate in Lui, non avete in Lui fede. Non avendo
fede, speranza e carità, non siete forti, prudenti, giusti. Non essendo forti,
non siete temperanti. E non essendo temperanti, amate la carne più dell’anima e
tremate per la vostra carne.
Ma Io so ancora fare il miracolo. Credete pure che in ogni persecuzione i
martiri sanno esser tali per aiuto mio. I martiri: ossia coloro che mi amano
ancora. Io, poi, porto il loro amore alla perfezione e ne faccio degli atleti
della fede. Io soccorro chi spera e crede in Me. Sempre. In qualunque evenienza.
Il piccolo martire che resta con le manine strette al calice, anche oltre la
morte, vi insegna dove è la forza. Nell’Eucarestia. Quando uno si nutre di Me,
secondo il detto di Paolo 14, non vive più per sé ma vive in lui Gesù. E Gesù ha
saputo sopportare tutti i tormenti, senza flettere. Perciò chi vive di Me sarà come Me. Forte. Abbiate fede.»

14 Galati 2, 20.


<<Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis>>