Martin Buber
IL CAMMINO DELL’UOMO
RITORNO A SE STESSI
Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia,
era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che
condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a
Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il
comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e
immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece
pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con
lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto
leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: “Come bisogna interpretare che Dio
Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». “Credete voi - rispose il Rav -
che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e
tutti gli individui?”. “Sì, lo credo”, disse. “Ebbene - riprese lo zaddik - in
ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e
degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin
dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già
quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’”.
All’udire il numero esatto dei suoi anni,
il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed
esclamò: “Bravo!”; ma il cuore gli tremava.
Qual è il senso di questa storia?
A prima vista ci ricorda quei racconti
talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a
proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa
contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra
l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con
l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma non tardiamo a notare una differenza
significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa
differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La
risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata
formulata la domanda.
Il comandante cerca di smascherare una
pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli
ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande
analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla.
Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e
chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui:
dunque Dio non è l’onnisciente.
Ma, invece di spiegare il passo biblico e
risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di
partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero
per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di
serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua
anima. La domanda oggettiva - che, in fondo, per quanto qui sia posta senza
secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di
controversia - riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne
risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non
è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.
Ciò nonostante, esaminiamo il
racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto
biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo,
a dirgli: “Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’”.
Apparentemente non gli ha fornito nessun
chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la
risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo
interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo.
Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui
personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata
dell’interrogativo posto da Dio: “Dove sei?”, sia esso rivolto ad Adamo o a
chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è
perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece
provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una
simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo
da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere
conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde
ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire
alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata
in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo
sempre in questo nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola
sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una
nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento,
diventa sempre più problematica. E una situazione caratterizzabile con estrema
precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di
nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo
qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il
trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio:
vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli
vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente
desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che
l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà
all’orecchio, a chiunque “il cuore tremerà”, proprio come al comandante del
racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa
emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette
in pericolo la vita dell’uomo; è “la voce di un silenzio simile a un soffio”,
ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può
diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un
uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita
resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la
voce, riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”. Qui
inizia il cammino dell’uomo.
Il ritorno decisivo a se stessi è nella
vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano.
Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un
ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a
ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della
Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – “Quando ti incontrerà
Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il
gregge che ti precede?’” - disse ai suoi discepoli: “Osservate come le domande
di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose:
sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’.
Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre
se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche
Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo
nell’afflizione”.
Esiste una domanda demoniaca, una falsa
domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si
riconosce dal fatto che non si ferma al “Dove sei?” ma prosegue: “Nessun
cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito”. Esiste un
ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e
metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda
in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui
l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco,
dell’orgoglio della perversione.
IL CAMMINO PARTICOLARE
Rabbi Bär di Radoschitz supplicò un giorno
il suo maestro, il Veggente di Lublino: “Indicatemi un cammino universale al servizio
di Dio!”. E lo zaddik rispose: “Non si tratta di dire all’uomo quale cammino
deve percorrere: perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e
un’altra con la preghiera una con il digiuno e un’altra mangiando. E compito di
ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi
scegliere quello con tutte le forze”.
Questo ci dice innanzitutto quale deve
essere il nostro rapporto con il servizio autentico che è stato compiuto prima
di noi: dobbiamo venerarlo, trarne insegnamento, ma non imitarlo
pedissequamente. Quanto di grande e di santo è stato compiuto ha per noi valore
di esempio perché ci mostra con grande evidenza cosa sono grandezza e santità,
ma non e un modello da ricalcare. Per quanto infimo possa essere - se paragonato
alle opere dei patriarchi - ciò che noi siamo in grado di realizzare, il suo
valore risiede comunque nel fatto che siamo noi a realizzarlo nel modo a noi
proprio e con le nostre forze.
Un chassid chiese al Magghid di Zloczow:
“E detto: ‘Ognuno in Israele ha l’obbligo di dire: Quando la mia opera
raggiungerà le opere dei miei padri Abramo, Isacco e Giacobbe?’. Come si deve
intendere? Come possiamo ardire di pensare che potremmo eguagliare i padri?”.
Il Magghid spiegò: “Come i padri hanno istituito un nuovo servizio - ciascuno
un nuovo servizio secondo la propria natura: l’uno quello dell’amore, l’altro
quello della forza, il terzo quello dello splendore - così noi, ciascuno
secondo la propria modalità, dobbiamo istituire del nuovo alla luce dell’insegnamento
e del servizio di Dio; e non fare il già fatto, bensì quello ancora da fare”.
Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di
nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico. “Ciascuno in Israele
ha l’obbligo di riconoscere e considerare che lui è unico al mondo nel suo
genere, e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui: se
infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe
motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve
portare a compimento la propria natura in questo mondo. Perché, in verità, che
questo non accada è ciò che ritarda la venuta del Messia”.
Ciascuno è tenuto a
sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a
rifare ancora una volta ciò che un altro - fosse pure la persona più grande -
ha già realizzato. Quand’era già vecchio e cieco, il saggio Rabbi Bunam disse
un giorno: “Non vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che
ne verrebbe a Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il
cieco Bunam come Abramo?”. La stessa idea è stata espressa con ancora maggior
acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: “Nel mondo futuro non
mi si chiederà: ‘Perché non sei stato Mosè?’; mi si chiederà invece: ‘Perché
non sei stato Sussja?”‘.
Siamo qui in presenza di un insegnamento
che si basa sul fatto che gli uomini sono ineguali per natura e che pertanto
non bisogna cercare di renderli uguali. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio,
ma ciascuno ha un accesso diverso. E infatti la diversità degli uomini, la
differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la
grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella
molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è
riservato a un uomo.
Alcuni discepoli di un defunto zaddik si recarono dal
Veggente di Lublino e si meravigliavano che avesse usi diversi dal loro
maestro. “Che Dio è mai - esclamò il Rabbi - quello che può essere servito su
un unico cammino?”. Ma dato che ogni uomo può, a partire da dove si trova e
dalla propria essenza, giungere a Dio, anche il genere umano in quanto tale
può, progredendo su tutti i cammini, giungere fino a lui.
Dio non dice: “Questo cammino conduce fino
a me, mentre quell’altro no”; dice invece: “Tutto quello che fai può essere un
cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca
fino a me”. Ma in che cosa consista ciò che può e deve fare quell’uomo preciso
e nessun altro, può rivelarsi all’uomo solo a partire da se stesso. In questo
campo, il fatto di guardare quanto un altro ha fatto e di sforzarsi di imitarlo
può solo indurre in errore; comportandosi così, infatti, uno perde di vista ciò
a cui lui,
e lui solo, è chiamato. Il Baal-Shem dice:
“Ognuno si comporti conformemente al grado che è il suo. Se non avviene così, e
uno si impadronisce del grado del compagno e si lascia sfuggire il proprio, non
realizzerà né l’uno né l’altro”. Così il cammino attraverso il quale un uomo
avrà accesso a Dio gli può essere indicato unicamente dalla conoscenza del
proprio essere, la conoscenza della propria qualità e della propria tendenza
essenziale. “In ognuno c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro”.
Ma ciò che è prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie
veramente il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio
fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere.
E indubbio che l’uomo conosca spesso il
proprio sentimento più profondo solo nella forma della passione particolare,
nella forma della “cattiva inclinazione” che vuole sviarlo. Conformemente alla
sua natura, il desiderio più ardente di un essere umano, tra le diverse cose
che incontra, si focalizza innanzitutto su quelle che promettono di colmarlo. L’essenziale
è che l’uomo diriga la forza di quello stesso sentimento, di quello stesso
impulso, dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto: cosi
troverà il proprio cammino.
Uno zaddik insegna: “Alla fine di Qoelet
sta scritto: ‘Al termine delle cose si ode il tutto: temi Dio!’. Qualunque sia
la cosa a capo della quale tu arrivi, là, al suo termine, tu udrai
immancabilmente questo: ‘Temi Dio’ e questo è il tutto. Non esiste cosa al
mondo che non ti indichi un cammino verso il timore di Dio e il servizio di
Dio: tutto è comandamento”. Ma la nostra autentica missione in questo mondo in
cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle
alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore; al
contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la
santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in essi si
manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento. Il chassidismo
insegna che la gioia che si prova a contatto con il mondo conduce, se la
santifichiamo con tutto il nostro essere, alla gioia in Dio.
Nel racconto del Veggente, il fatto che,
tra i vari cammini presi a esempio, accanto a quello che consiste nel mangiare,
ce ne sia anche uno che consiste nel digiunare sembra contraddire quanto appena
detto. Se tuttavia consideriamo questo nell’insieme dell’insegnamento
chassidico, ci accorgiamo che, se la presa di distanza dalla natura e
l’astinenza nei confronti della vita naturale possono effettivamente costituire
a volte l’inizio del cammino necessario a un uomo - così come lo stare in
disparte può essere indispensabile in certi momenti cruciali dell’esistenza -
esse non possono però mai rappresentare l’intero cammino. Ci sono uomini che
devono cominciare con il digiuno, e cominciare sempre da capo, perché è loro
peculiarità poter conseguire unicamente attraverso il mezzo dell’ascesi la
liberazione dall’asservimento al mondo, il più profondo ritorno a se stessi e,
di conseguenza, il legame con l’assoluto. Ma l’ascesi non deve mai pretendere
di dominare la vita dell’uomo. L’uomo deve allontanarsi dalla natura solo per
ritornarvi rinnovato e per trovare, nel contatto santificato con essa, il
cammino verso Dio.
“E stette sopra di loro, sotto l’albero,
mentre essi mangiavano”. Ecco come Rabbi Sussja spiegava questa frase della
Scrittura che descrive Abramo mentre serve da mangiare agli angeli: l’uomo -
diceva - sta sopra agli angeli perché conosce l’intenzione che santifica il
pasto, mentre essi non la conoscono. Abramo fece scendere sugli angeli, che non
erano adusi al cibo, l’intenzione attraverso la quale egli era solito
consacrarlo a Dio. Qualsiasi atto naturale, se santificato, conduce a Dio, e la
natura ha bisogno dell’uomo perché compia in lei ciò che nessun angelo può
compiere: santificarla.
RISOLUTEZZA
Un chassid del Veggente di Lublino decise
un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu
assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una
fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per
un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di
quella settimana. Non bevve e si allontano dalla fontana. Se ne andò fiero di
aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se
stesso: “E meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio
cuore soccomba all’orgoglio”. Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e
stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era
scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. “Un
rammendo!”, esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia.
Quando da giovane ascoltai per la prima
volta questa storia, fui addolorato per la durezza con la quale il maestro
aveva trattato quel discepolo zelante. Questi si impegna al massimo per
realizzare una difficile ascesi, si sente tentato di romperla e supera la
tentazione, e con tutto ciò non miete altro che un giudizio sfavorevole dal suo
maestro. Indubbiamente il primo inciampo veniva da un potere del corpo
sull’anima, cioè da un potere che bisognava spezzare, ma il secondo nasceva
dalla più nobile delle motivazioni: meglio fallire che soccombere all’orgoglio
per amore del successo! Com’è possibile essere rimproverati per una simile
lotta interiore? Non significa esigere troppo dall’uomo?
E stato solo molto più tardi (ma già un
quarto di secolo fa ... ), cioè all’epoca in cui mi ero messo a narrare a mia
volta questo racconto della tradizione, che ho capito che qui non si tratta
assolutamente di esigere qualcosa dall’uomo. Lo zaddik di Lublino, per
l’appunto, non aveva la reputazione di essere un sostenitore dell’ascesi, e il
suo discepolo non aveva certo intrapreso quello sforzo con l’intenzione di
fargli cosa gradita, ma piuttosto perché sperava di raggiungere così un grado
più elevato dell’anima; d’altronde non aveva forse ascoltato, dalla bocca del
Veggente stesso, che il digiuno può servire a questo fine nella fase iniziale
dello sviluppo personale e nei successivi momenti critici? Le parole che il
maestro rivolge ora al discepolo, dopo aver chiaramente osservato l’evolversi
dell’azzardato tentativo con autentica comprensione, significano senza alcun
dubbio questo: “In questo modo non è possibile raggiungere un grado più
elevato”. Mette in guardia il discepolo su una cosa che inevitabilmente gli
impedisce di realizzare il suo progetto; e questa ci appare chiaramente:
oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è
l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile. L’opposto del
“rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol
getto? Non in altro modo che con un’anima unificata.
Ma di nuovo ci si presenta l’interrogativo
di sapere se questo alle volte non significhi trattare con eccessiva durezza un
uomo. Le cose infatti vanno così nel nostro mondo: uno possiede - “per natura”
o “per grazia”, secondo come preferiamo esprimerci - un’anima unitaria,
un’anima d’un sol getto e, di conseguenza, realizza opere unitarie, d’un sol
getto, proprio perché la sua anima, così fatta, gliele ispira e gliele rende possibili;
un altro invece possiede un’anima molteplice, complicata, contraddittoria, che
naturalmente determina la sua azione: gli impedimenti e gli inciampi dell’agire
dipendono dagli impedimenti e gli inciampi dell’anima, l’inquietudine di questa
si manifesta nell’inquietudine di quello. Un uomo di questo genere cosa può mai
fare se non sforzarsi di superare le tentazioni che gli si presentano sul
cammino verso la meta prefissata? Cosa può fare se non, appunto, ogni volta,
nel corso dell’azione, “riprendersi” - come si usa dire -, cioè raccogliere la
propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla
sempre nuovamente verso la meta, pronto inoltre - com’è il caso del chassid del
nostro racconto -, nel momento in cui l’orgoglio lo tenta, addirittura a
sacrificare la meta pur di salvare l’anima?
Se riesaminiamo ancora una volta il nostro
racconto a partire da queste domande, scopriamo finalmente l’insegnamento
contenuto nella critica del Veggente. E l’insegnamento secondo il quale l’uomo
è in grado di unificare la propria anima. L’uomo che ha un’anima molteplice,
complicata, contraddittoria non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo
di quest’anima - la forza divina che giace nelle sue profondità - è in grado di
agire su di essa e trasformarla, può legare le une alle altre le forze in
conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di
unificarla. Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo
intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di
compierla in modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un
sol getto. E proprio questo che il Veggente rimprovera al chassid: di aver
corso l’azzardo con un’anima non unificata; nel corso dell’opera, infatti,
l’unificazione non riesce. Ma non bisogna nemmeno immaginarsi che l’ascesi
possa provocare l’unificazione: può purificare, può anche concentrare, ma non
può far sì che il risultato così ottenuto si mantenga fino al conseguimento
della meta, non può proteggere l’anima dalla sua propria contraddizione.
C’è tuttavia un aspetto che bisogna tenere
ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Come l’anima più
unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da difficoltà interiori,
così anche l’anima più accanita nella lotta per la propria unità non può mai
raggiungerla pienamente. Però ogni opera che compio con un’anima unificata
agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di una nuova e più elevata
unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse
deviazioni, a un’unità più costante di quella antecedente. Alla fine si
giunge così a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima perché il
suo grado di unità è ormai cosi elevato che essa supera la contraddizione come
per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una
vigilanza serena.
In uno dei giorni di Chanukkà, Rabbi
Nahum, figlio del Rabbi di Rizin, entrò all’improvviso nella ieshivà e
trovò gli studenti che giocavano a dama, com’è d’uso in quei giorni. Quando
videro entrare lo zaddik, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse
benevolmente la testa e chiese: “Ma conoscete anche le leggi del gioco della
dama?”. E siccome essi non aprivano bocca per la vergogna, si rispose da sé: “Vi
dirò io le leggi del gioco della dama. Primo: non è permesso fare due passi
alla volta. Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro.
Terzo: quando si è arrivati in alto, si può andare dove si vuole”.
Ma significherebbe fraintendere completamente
il significato di “unificazione dell’anima” il tradurre il termine “anima”
diversamente da “l’uomo intero”, corpo e spirito fusi insieme. L’anima è
realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del
corpo lo siano anch’esse. Il versetto della Scrittura: “Tutto ciò che la tua
mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze!” il Baal-Shem lo interpretava
così: “quello che si fa, va fatto con tutte le membra”, cioè: bisogna
coinvolgere anche tutto l’essere corporale dell’uomo, nulla di lui deve restare
fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme,
allora la sua opera è opera d’un sol getto.
COMINCIARE DA SE STESSI
Alcune persone eminenti di Israele erano
un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde
sull’importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa: “Tutto
volge al bene - dicevano - se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di
Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava”. Ma Rabbi Isacco non condivideva
l’opinione generale. “Ero anch’io dello stesso avviso - disse - finché il mio
maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da
giovane, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo
disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i
servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e
gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. ‘Perché ti rivolgi a me? -
rispose - Rivolgiti a te stesso!’. Dovetti riflettere a lungo su queste parole
prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole del
Baal-Shem: ‘Ci sono il pensiero, la parola e l’azione. Il pensiero corrisponde
alla moglie, la parola ai figli, l’azione ai servitori. Tutto si volgerà al
bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito’. Allora
compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me”.
Questo racconto tocca uno dei problemi più
profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del
conflitto tra gli uomini.
Abbiamo l’abitudine di spiegare le
manifestazioni del conflitto innanzitutto con i motivi che gli antagonisti
riconoscono coscientemente come origine della disputa, oppure con le situazioni
e i processi oggettivi che stanno alla base di questi motivi e nei quali le due
parti sono implicate; un’altra pista è invece quella di procedere in modo
analitico, cercando di esplorare i complessi inconsci, considerati allora come
i danni organici di una malattia di cui i motivi evidenti rappresentano i
sintomi. L’insegnamento chassidico si avvicina a quest’ultima concezione in
quanto rimanda anch’esso la problematica della vita esteriore a quella della
vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali, uno di principio e
l’altro, ancora più importante, di ordine pratico.
La differenza di principio risiede nel
fatto che l’insegnamento chassidico non tende a esaminare le difficoltà isolate
dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero. Non si tratta tuttavia di una
differenza quantitativa, ma piuttosto della constatazione che il fatto di
separare dal tutto elementi e processi parziali ostacola sempre la comprensione
della totalità, e che solo la comprensione della totalità in quanto tale può
comportare una trasformazione reale, una reale guarigione, innanzitutto
dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili (o, per usare un
paradosso: la ricerca del punto nodale sposta quest’ultimo e fa cosi fallire
l’intero tentativo di superare la problematica). Questo non significa
assolutamente che non si debbano prendere in considerazione tutti i fenomeni
dell’anima; ma nessuno di essi dev’essere posto al centro dell’esame, al punto
che tutto il resto possa esserne dedotto. E invece indispensabile considerare
tutti i punti, e non in modo separato ma proprio nella loro connessione vitale.
Quanto alla differenza pratica, consiste
nel fatto che l’uomo, invece di essere trattato come oggetto dell’analisi, è
sollecitato a “rimettersi in sesto”. Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto
lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo
conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi
deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi cosi
rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro
relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente, per sua natura, l’uomo
cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo
rapporto abituale con il mondo: allora ribatte all’autore di questa ingiunzione
- o alla propria anima, se è lei a intimargliela - che ogni conflitto implica
due attori e che perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto
interiore, si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in
questo modo di vedere - in base al quale l’essere umano si considera solo come
un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e non come una persona
autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo -
proprio qui risiede l’errore fondamentale contro il quale si erge
l’insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa
che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che
non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo mio
inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far
fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a
partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me
stesso. Se invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l’altro
là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale
mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente.
Cosi insegnava Rabbi Bunam: “I nostri
saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la pace in
altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. E detto nel salmo:
‘Non c’è pace nelle mie ossa a causa del mio peccato”. Quando l’uomo ha trovato
la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero”.
Ma il racconto che ho preso come punto di
partenza non si accontenta di indicare la vera origine dei conflitti esterni e
di attirare l’attenzione sul conflitto interiore in modo generico.
L’affermazione del Baal-Shem che vi si trova citata ci precisa anche
esattamente in cosa consiste il conflitto interiore determinante.
Si tratta del
conflitto fra tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo: il principio del
pensiero, il principio della parola e il principio dell’azione. Ogni conflitto
tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non
faccio quello che dico. In questo modo, infatti, la situazione tra me e gli
altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a
me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione,
sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo.
Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le
situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci
riducono in schiavitù. Per uscirne c’è una sola strada: capire la svolta
- tutto dipende da me - e volere la svolta - voglio rimettermi in sesto.
Ma per essere all’altezza di questo grande
compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza
valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso,
non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che
vive con il mondo. E anche qui tutte le nostre abitudini ci sono di ostacolo.
Vorrei concludere questa riflessione con
un divertente aneddoto antico ripreso da uno zaddik. Rabbi Hanoch raccontava:
“C’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem. Quando
si alzava al mattino gli riusciva cosi difficile ritrovare gli abiti che alla
sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una
sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi,
annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente, si alzò tutto
contento e prese la sua lista: ‘Il berretto: là’, e se lo mise in testa; ‘I
pantaloni: lì, e se li infilò; e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Si,
ma io, dove sono? - si chiese all’improvviso in preda all’ansia - Dove sono
rimasto?’. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a trovarsi. Cosi succede
anche a noi”, concluse il Rabbi.
NON PREOCCUPARSI DI SÉ
Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in
matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze
si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai
siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho
barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “Ah, suocero - gli
rispose Rabbi Eleazaro - voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e
pensate al mondo!”.
Questo può sembrare contraddire tutto
quanto ho detto finora in queste pagine sull’insegnamento del chassidismo.
Abbiamo imparato che ogni uomo deve ritornare a se stesso, che deve abbracciare
il suo cammino particolare, che deve portare a unità il proprio essere, che
deve cominciare da se stesso; ed ecco che ora ci viene detto che deve dimenticare
se stesso! Eppure basta prestare un po’ più di attenzione per rendersi conto
che quest’ultimo consiglio non solo si accorda perfettamente con gli altri, ma
si integra nell’insieme come un elemento necessario, uno stadio indispensabile,
nel posto che gli compete. Basta porsi quest’unica domanda: “A che scopo?”; a
che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino
personale, a che scopo portare a unità il mio essere? Ed ecco la risposta: “Non
per me”. Perciò anche prima si diceva: cominciare da se stessi. Cominciare da
se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma
non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.
Il racconto ci presenta uno zaddik, un
uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non
aver ancora compiuto l’autentico ritorno. La risposta che riceve sembra nascere
dalla convinzione che egli sopravvaluti eccessivamente la gravità dei propri
peccati e che, d’altro canto, sminuisca altrettanto eccessivamente il valore
della penitenza fatta fino a quel momento. Ma le parole pronunciate vanno oltre
e, in modo assolutamente generale, affermano: “Invece di tormentarti
incessantemente per le colpe commesse, devi applicare la forza d’animo
utilizzata per questa autoaccusa all’azione che sei chiamato a esercitare sul
mondo. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare! “.
Dobbiamo innanzitutto capire bene cosa
viene detto qui a proposito del ritorno. Sappiamo che il ritorno si
trova al centro della concezione ebraica del cammino dell’uomo: ha il potere di
rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio,
al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il
quale non conosce l’abisso del peccato.
Ma ritorno significa qui qualcosa di
molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è
smarrito nel caos dell’egoismo - in cui era sempre lui stesso la meta
prefissata - trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino
verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale
Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. Il pentimento allora è
semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a
tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a
pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla
virata il meglio delle sue energie.
In una predicazione
pronunciata all’apertura del Giorno dell’Espiazione, il Rabbi di Gher usò parole
audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi
parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare
a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente,
si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla
cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa
rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui.
Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non
peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste
cose? Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia
del cielo! Perciò sta scritto: "Allontanati dal male e fa’ il bene ", volta
completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito
male? Contrapponi al male l’azione buona!”.
Ma l’insegnamento del nostro
racconto va oltre: chi si fustiga incessantemente per non aver ancora fatto
sufficiente penitenza si preoccupa essenzialmente della salvezza della propria
anima e quindi della propria sorte personale nell’eternità. Rifiutando questo
obbiettivo, il chassidismo non fa altro che trarre una conseguenza
dall’insegnamento dell’ebraismo in generale.
Uno dei principali punti su cui un
certo cristianesimo si è distaccato dall’ebraismo consiste proprio nel fatto
che quel cristianesimo assegna a ogni uomo come scopo supremo la salvezza della
propria anima. Agli occhi dell’ebraismo, invece, ogni anima umana è un elemento
al servizio della creazione di Dio.