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domenica 5 agosto 2018

IL PIU' CRUDELE NEMICO



I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Peccato mortale (I) - dal sito:Totus tuus

Scritto da calogero 



1. Che cosa è il peccato.
2. Famiglia del peccato.
3. Il primo uomo ha commesso otto peccati.
4. Il peccato sta nella volontà.
5. Il peccato è cosa orrenda e turpe.
6. Il peccato è una febbre.
7. Il peccato è una paralisi.
8. Il peccato è un fuoco.
9. Il peccato mortale è un adulterio.
10. Il peccato mortale è un'idolatria.
11. Il peccato mortale è il sommo male.
12. Il peccato mortale allontana da Dio.
13. Il peccato mortale è grave disobbedienza a Dio.
14. Il peccato mortale è ingratitudine e disprezzo di Dio.
15. Il peccato mortale assale direttamente Iddio.
16. Di sua natura il peccato mortale è irreparabile.
17. Il peccato mortale è peggiore dell'inferno.
18. Similitudini del peccato mortale.
19. Il peccato mortale è la più terribile delle cadute.
20. Il peccatore è il più crudele nemico di se stesso.





1. CHE COSA È IL PECCATO. - Il peccato è una disobbedienza alla legge di Dio... Che cosa è il peccato? domanda il Crisostomo, e risponde: è l'abbandono spontaneo della nostra volontà al demonio, è una volontaria follia. - Che cosa è il peccato? è la completa degradazione dell'uomo, la somma sua miseria, il suo male supremo; perché pienamente opposto al bene supremo... Il peccato non è una sostanza, non è un essere, perché ogni essere è buono. Il peccato è la privazione dell'essere, è un non ente, come si esprime S. Agostino, un niente (Sentent.). Da ciò si comprende perché il profeta Amos dice ai peccatori, che essi si rallegrano nel niente (VI, 14).


Il peccato è chiamato la negazione dell'essere, il niente: 1° perché in se stesso è un non so che di spregevole, di vile; 2° perché il diletto del peccato passa in un baleno e scompare; 3° perché conduce chi lo commette ad una specie di niente, cioè alla morte presente ed all'eterna; 4° perché è la negazione dell'essere per riguardo alla virtù, ossia al bene morale; 5° perché è una privazione di bene; ora una privazione non è cosa reale e positiva, ma nominale e negativa, cioè un niente; 6° il peccato mortale separa l'uomo da Dio che è l'essere per eccellenza, il creatore di tutto, senza il quale niente fu fatto e niente vivrebbe; quindi ne risulta che il peccato mena al niente.


Signore, dice S. Agostino, siccome nessuna cosa è stata fatta senza di voi, facendo noi il peccato, che è il nulla; siamo divenuti un niente; fuori di voi pel quale fu fatta ogni cosa e senza il .quale niente fu fatto, noi siamo nulla. Misero me, divenuto così spesso un vero niente per causa del peccato! Io sono divenuto miserabile, sono stato ridotto al niente, e non l'ho saputo! Le mie iniquità mi hanno condotto al nulla. Non vi è niente di buono fuori del sommo bene; come la cecità non consiste che nella privazione della luce. Quindi il peccato è niente perché non è stato fatto. Ma se non è stato fatto, come mai può essere male? Perché il male è la privazione del Bene per il quale è stato fatto il bene. Essere senza il Verbo è male; è un non essere; senza il Verbo non c'è niente. Essere separato dal Verbo vuol dire essere senza via, senza verità, senza vita. Ecco perché senza di lui è il niente, e questo niente è il male, perché è separato dal Verbo, per il quale tutto ciò che è stato fatto è ottimo. Ma essere separato dal Verbo, per il quale ogni cosa fu fatta, non è altro che mancare, e dal fatto passare al non-fatto, poiché senza il Verbo non vi è niente (In Evang. S. Ioann.).


In se stesso e di natura sua il peccato è niente, perché commettendolo, l'uomo si attacca alle creature, e mette in loro la sua felicità, opponendole al Creatore e preferendole a Lui; ma paragonate al Creatore, le creature non sono che l'ombra dell'essere, e per conseguenza il nulla. Ecco infatti l'essenza e il nome di Dio: «Io sono colui che sono» (Exod. III, 14). Io sono colui che solo posseggo l'essere vero; intero, immenso, infinito, eterno; le creature partecipano di me come un'ombra, perché così povero, così mal fermo, così rapido è il loro essere, che paragonato al mio si deve chiamare un niente anziché un essere. Ora posto che le creature non hanno il vero essere, non hanno nemmeno il vero bene, ma solamente l'ombra del bene; perché l'essere reale ed il bene vanno insieme uniti, e secondo l'essere e il grado di essere, si trova il bene e il grado del bene; infatti, il bene è l'intima proprietà dell'essere. Il vero bene, come il vero essere, appartiene a Dio solo e non all'uomo; perciò Dio è chiamato, nella Scrittura, solo saggio, solo potente, solo Signore, solo immortale, solo buono, solo grande, solo giusto, solo pio, solo glorioso, perché egli solo ha la sapienza, la potenza, l'immortalità, il dominio, la bontà, la grandezza, la giustizia, la santità, la gloria vera, infinita, increata.

Quando pertanto il peccatore mette la sua felicità nelle creature, e non nel Creatore, gode di un'ombra, si rallegra del niente. - Ma quanto sembrano grandi all'uomo le ombre delle creature nelle tenebre di questa vita! Al tramontare del sole le ombre proiettate dai monti si allungano e coprono tutta la terra; così pure quando Iddio tramonta per un'anima, le ombre delle cose terrene si estendono sopra di essa e la involgono tutta; il mondano le ammira e loro tiene dietro, ma la sua voglia rimane digiuna. Deh! sorga, o Signore, il vostro giorno, il giorno della vostra eterna chiarezza, e si dileguino le ombre del giorno caliginoso di questo secolo, di questo giorno di vanità e di morte. Dissipate la nebbia che ci avvolge, affinché abbandoniamo le creature ed il peccato, e ci apprendiamo a voi che siete l'essere infinito ed il vero bene...


Che cosa è il peccato? è un dolce veleno che uccide di morte angosciosissima il peccatore...; è una goccia di miele appestato che si cangia in un mare di fiele...; è una ferita alla quale non si può sopravvivere...; è una febbre accompagnata da delirio, che reca subitanea morte...; è il più formidabile nemico dell'uomo, che lo separa da Dio e lo fa schiavo di Satana... «Il peccato, dice S. Agostino, è la cagione di tutti i nostri mali» (De Morib.). «Il morto, dice S. Ambrogio, è da preferirsi al vivo, perché ha cessato di peccare; e chi non è nato si deve preferire a chi è morto, perché non ha mai saputo peccare (Serm.)».


2. FAMIGLIA DEL PECCATO. - Il libero arbitrio si può chiamare il padre del peccato, e la concupiscenza abituale la sua madre; riuniti dànno origine ad ogni misfatto. Quando il peccato non è che in embrione o mezzo composto, si chiama peccato veniale: quando è interamente formato, cioè commesso con pieno consenso e perfetta avvertenza, allora si chiama peccato mortale. Il primogenito del peccato è la morte, sia presente, che futura ed eterna; perché il peccato ha generato quella che doveva punirlo; ha partorito la sua pena... Sotto un altro aspetto, il primo padre del peccato è stato Lucifero nel cielo, ed il serpente nel paradiso terrestre. I suoi primogeniti sono il peccato degli Angeli e il peccato originale.


3. IL PRIMO UOMO HA COMMESSO OTTO PECCATI. - Adamo commise otto peccati in uno solo: 1° peccato di orgoglio, volendo essere padrone di se stesso anziché restare soggetto alla potenza divina; 2° peccato di troppa condiscendenza verso la sua donna che non ebbe il coraggio di contrariare, quando gli offrì il fruttò vietato; 3° peccato di curiosità; 4° peccato d'incredulità, non prestando fede alle minacce del Creatore; 5° peccato di presunzione, facendo poco conto del precetto fatto gli di non toccare il frutto vietato; 6° peccato di gola; 7° peccato di disobbedienza; 8° peccato d'insolenza, cercando scuse invece di confessare umilmente la propria colpa... Ecco l'origine di tutti i mali che inondano la terra da circa seimila anni.


4. IL PECCATO STA NELLA VOLONTÀ. - «Talmente necessario è al peccato il concorso della volontà che, se questa manca, non vi è più peccato», dice S. Agostino (Retract. 1. I, c. XV). Tutto dipende dalla volontà, così il bene come il male. Senza la volontà non si dà né peccato né virtù..., senza la volontà, non merito; non salute, non cielo... Quindi quella sentenza di S. Bernardo: «Cessi la volontà propria, e non vi sarà più inferno (Serm. de Resurrect.)».

5. IL PECCATO È COSA ORRENDA E TURPE. - «Noi rinunziamo ai nascondigli della turpitudine» - scriveva S. Paolo ai Corinzi (II, IV, 2). La turpitudine ama le tenebre... Perciò la medicina del peccato sta nel peccato medesimo, cioè nella considerazione della sua laidezza, della macchia che imprime nell'anima e delle sue funeste conseguenze... Molte onte e molti mali contiene infatti il peccato; anzi può dirsi che li comprende tutti; cinque però gli sono tutti propri: 1° Esso va contro alla sana ragione, che ne è disonorata. 2° Ogni peccato si oppone a qualche virtù particolare, l'orgoglio, per esempio, assale l'umiltà; la lussuria distrugge, la continenza, e via dicendo; sotto un altro aspetto, ogni peccato assale tutte le virtù a un tempo. Ora nelle virtù sta il bene e la perfezione degli uomini e degli angeli... 3° Anche quaggiù il peccato attira sopra colui che lo commette, una miriade di mali: il disonore, le malattie, i castighi, ecc... 4° E’ un'offesa fatta a Dio, è il male supremo della divinità la quale esso oltraggia e provoca. Infatti col peccato l'uomo aderisce alle creature, ai piaceri, all'oro, ecc.; le preferisce al Creatore, e in esse pone, coll'intenzione, il sommo suo bene; nega, per conseguenza, quanto è in sé, la somma bontà ed eccellenza di Dio... 5° Il peccato ci priva della vita eterna. I teologi dimostrano che, compiuto l'atto del peccato, vi rimane nell'anima una macchia
schifosa ed abituale, la quale la rende infame ed abominevole agli occhi di Dio.
Oh! se avessero i cristiani quell'idea del peccato, che ne aveva il pagano Seneca, il quale così scrive: «Ancorché sapessi che gli uomini fossero per ignorare, e Dio per perdonarmi il peccato, non lo commetterei tuttavia, avuto riguardo alla sola turpitudine di esso (In Prov.)».


6. IL PECCATO È UNA FEBBRE. - In molte cose il peccato somiglia alla febbre: 1° la febbre indebolisce il corpo; il peccato indebolisce l'anima; 2° la febbre agita il sangue e gli umori; il peccato conturba i pensieri e gli affetti; 3° la febbre si conosce allo sregolamento del polso; lo stato del peccato si manifesta dalle sollecitudini e dalle preoccupazioni che s'impossessano dell'uomo...; 4°1a febbre cagiona una sete ardente; l'anima peccatrice brucia di desideri della concupiscenza, ed è consumata dal fuoco delle passioni...; 5° la febbre comincia da brividi e finisce in un intenso calore; la febbre dell'anima comincia con la tepidezza, la negligenza, l'accidia, l'inerzia, e va a terminare nello sviluppo e nell'ardore delle passioni: superbia, gola, lussuria, collera, ecc...; 6° la febbre deprava il gusto; il peccato dà la nausea della preghiera, della mortificazione, dei sacramenti, ecc...; 7° la febbre toglie all'uomo la forza, la bellezza, la ragione, ecc...; i medesimi effetti produce in senso spirituale il peccato; 8° la febbre cagiona pene, dolori e malessere in tutto il corpo; non altrimenti fa il peccato dell'anima; 9° nella febbre un accesso succede a un altro accesso; l'anima tra vagliata dalla febbre del peccato va di caduta in caduta, di colpa in colpa.


7. IL PECCATO È UNA PARALISI. - Il peccato può anche paragonarsi alla paralisi. Infatti: 1° la paralisìa lega, per così dire, il membro che ne è colpito; il peccato incatena l'anima... 2° La paralisi impedisce ogni movimento dei nervi e dei muscoli; il peccato mette ostacolo ai movimenti della grazia e della volontà... 3° La paralisi è conseguenza dell'apoplessia; l'immobilità dell'anima nel male è conseguenza della caduta nel peccato, che si può chiamare l'apoplessia dell'anima... 4° Per la paralisìa, il corpo diventa un peso inerte: per il peccato, l'anima sottostà ad un carico che l'opprime... 5° La paralisìa è malattia quasi incurabile: spesso anche avviene che lo stato in cui il peccato riduce l'anima diventa come incurabile a cagione della cattiva volontà, del peccatore, dell'ostinazione sua nel non correggersi, della privazione delle grazie.


8. IL PECCATO È UN FUOCO. - Anche al fuoco si può paragonare il peccato per questi due effetti: 1° Il fuoco indurisce certi corpi, e scotta, liquefà, consuma altri; così il peccato scotta, indura, consuma l'anima: il peccato mortale è come un ferro rovente che, dove tocca, lascia profonda piaga... 2° Il fuoco produce fiamme; il peccato sviluppa le fiamme della lussuria, della collera, dell'odio, ecc.; accende
le vampe dell'ira e della vendetta divina; dà esca al fuoco dell'inferno: «Avete acceso il fuoco, esclama Isaia, ed eccovi cinti da fiamme; camminate al chiarore dell'incendio da voi suscitato, in mezzo alle vampe da voi mantenute» (ISAI. L, 11).


9. IL PECCATO MORTALE È UN ADULTERIO. - Commettendo il peccato, l'anima che era e doveva rimanere sposa di Gesù Cristo, lo rigetta, cede alle suggestioni del demonio, diventa adultera e si prostituisce al nemica capitale di Dio e degli uomini, adultero egli medesimo fin dal principio. O cielo, che abominazione! rapire l'anima propria a Gesù Cristo, quell'anima che egli l'i comprò a prezzo di tutto il suo sangue, e darla in braccio al diavolo! prometterla all'inferno! che demenza! che frenesia!

10. IL PECCATO MORTALE È UN'IDOLATRIA. - L'uomo che vive in peccato mortale abbandona il vero Dio e si sceglie un'altra divinità; e questa divinità è egli medesimo, è la sua volontà, sono le creature. L'avaro a.dora l'oro e l'argento; l'impudico adora la carne; il crapulone le vivande, ecc... Il peccatore si fa schiavo delle più ignobili e degradanti passioni... E non è questa una idolatria?
«Avete contaminato la mia terra, dice Iddio per bocca di Geremia ai peccatori, avete convertito la mia eredità in un luogo di abominazione» (II, 7); avete cambiato in un idolo quello che formava la vostra gloria. Stupite, o cieli, rattristatevi, o porte del cielo! Due mali ha commesso il mio popolo: ha lasciato me sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne ghiaiose che non possono tenere l'acqua» (Ib. 11-13).
Abbandonando Dio, sorgente di vita, ogni peccatore cerca acque limacciose e corrotte; infatti in ogni peccato mortale vi è: 1° allontanamento da Dio, bene increato ed infinito, e avvicinamento ai beni perituri e vili...; 2° disprezzo per Iddio e amore per le creature...; 3° rinunzia a Dio come fine ultimo e sostituzione delle creature al Creatore, perché siano nostro fine e sommo bene. E non è questa la più insolente, la più colpevole delle idolatrie?.. «Israele si è avvilito fino a Baal, dice Osea, ed è morto» (XIII, 1).

11. IL PECCATO MORTALE È IL SOMMO MALE. - Il peccato mortale è il sommo male di Dio, dell'angelo, dell'uomo, di tutte le creature, e perfino dell'inferno e dei dannati, dice il Bellarmino; perché ogni nuovo dannato aumenta i patimenti e il castigo di quelli che lo hanno preceduto nelle fiamme eterne, essendo l'uno all'altro di reciproco tormento (In Psalm.). «Peccando mortalmente, dice S. Anselmo, non solamente noi meritiamo di incorrere nella collera di Dio; ma oltraggiamo tutte le creature e le solleviamo contro di noi. La terra può dire: Invece dì sostenervi, io vi dovrei inghiottire, perché voi mi macchiate. Gli alimenti e le bevande possono dire: Invece di mantenervi la vita, noi dovremmo convertirci per voi in veleno; perché ci profanate peccando contro colui che vi ha creato. Il sole può dire: Io non devo illuminarvi per formare la vostra felicità, ma piuttosto per chiamare sopra di voi la vendetta del mio Dio che è la luce delle luci, e obbligato a punirvi» (Lib. de Simil. c. VI). Perciò dice la Scrittura, che nel gran giorno delle vendette l'universo combatterà con Dio contro gli insensati (Sap. V, 21).


12. IL PECCATO MORTALE ALLONTANA DA DIO. - «Finché noi non pecchiamo, dice il Savio, sappiamo, o Signore, che siamo numerati tra i vostri» (Sap. XV, 2). Ma se peccate, dice Isaia, le vostre colpe innalzano una barriera tra Dio e voi, vi nascondono la sua faccia e impediscono che siate esauditi (ISAI. LIX, 2). I peccatori si allontanano da Dio, e Dio si allontana da loro. E quelli che si allontanano. da Dio periranno, dice il Salmista (Psalm. LXXII, 26). La mano del Signore li scaglia da sé come quei feriti che dormono nei sepolcri, di cui ha cancellato ogni memoria dalla sua mente (Psalm. LXXXVII, 5). Geremia, parlando del popolo d'Israele che aveva peccato, diceva: «Poveri noi! l'ira tua, o Signore, ci ha investiti e rigettati e scagliati lungi da te» (Lament. V, 22).
Come la luce è opposta alle tenebre, il bello al brutto, la purezza all'immondizia, la verità alla menzogna, la sincerità alla doppiezza, la vita alla morte, la bontà alla malvagità; così la santità è opposta al peccato e Dio, santità per essenza, l'ha in orrore. Egli ama la santità di amore infinito e detesta per conseguenza di odio infinito il peccato mortale. Dice il Crisostomo che grande supplizio è il peccato anche se non ne fossimo puniti; perché il peccato ci separa da Dio. Chi pecca è il più infelice degli uomini; ma allora principalmente è più infelice, quando non è punito e non ha nulla da soffrire di penoso (Homil. ad pop.).


13. IL PECCATO MORTALE È GRAVE DISOBBEDIENZA A DIO. - Il carattere della ribellione del peccatore a Dio si rileva dalle seguenti parole di Geremia: «Udite quello che dice il Signore: Fermatevi nel vostro cammino, osservate e interrogate le strade antiche per conoscere quale sia la buona, e camminate per essa e troverete riposo alle anime vostre. Ma voi avete risposto: Non cammineremo. Ho stabilito sopra di voi delle scolte e vi ho detto: ascoltate il suono della tromba, e voi: Non ascolteremo... Già fin dal principio avete spezzato il mio giogo, rotto i miei legami, e detto: Non serviremo» (VI, 16-17), (Ib. II, 20).


La legge vi proibisce questa o quella azione, e voi, peccando, dite: Io la farò; vi ordina questa o quell'opera, e voi rispondete: Non voglio farla: Non serviamo il vostro Creatore vi comanda di vivere secondo i suoi precetti e voi rispondete: Non voglio: Non serviamo. Egli insiste ancora: Udite la mia voce, e voi rispondete: Non l'ascolto: Non audiemus.


Il Signore dice: Adorerai un solo Dio e lo amerai di tutto cuore; il peccatore ostinato risponde: Non voglio né adorarlo, né amarlo, ma dare il cuore e i pensieri miei alle creature. Non nominerai il nome di Dio invano: A me piace bestemmiare: Non serviam. Osserverai le feste: La mia libertà sarebbe inceppata per l'assistenza ai divini uffizi: Non serviam. Onorerai il padre e la madre, li obbedirai e aiuterai: Non sono più un ragazzo; la mia ragione reclama i suoi diritti; ognuno provveda a se stesso: Non serviam. Genitori, allevate i vostri figliuoli nel timor di Dio, custoditeli, correggeteli, edificateli: Oh questo è troppo grave; e i nostri affari, e i nostri piaceri? N ai pagheremo estranei e li metteremo nelle loro mani: Non serviamo Rispettate il corpo e l'anima del vostro prossimo: non risse, non odi, non vendette, non scandali: Oh! il mio onore vuole una riparazione; tanto peggio per quelli che si scandalizzano: Non serviamo Mantenetevi casti di corpo e di mente: Ah! questo supera le forze
della natura. La passione è troppo gagliarda perché io tenti anche solo di reprimerla: Non serviam. Rispettate quello che non vi appartiene: Ognuno provvede al suo meglio; la vita è una guerra dove solo i timidi e gli scrupolosi hanno torto: Non serviamo
Peccatori, Gesù Cristo vuole regnare sopra di voi con la sua legge, la sua grazia, la sua gloria; ma voi, simili ai Giudei, rispondete: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi» (Luc. XIX, 14).


14. IL PECCATO MORTALE È INGRATITUDINE E DISPREZZO DI DIO. - Dio è nostro creatore, nostro redentore, nostra provvidenza, nostro padre; ci colma di beni temporali e spirituali; ci promette una gloria e una felicità che non avranno mai fine. Ora, non è la peggiore ingratitudine servirsi dei doni di Dio per oltraggiarlo, e invece di testimoniargli riconoscenza, volgergli le spalle?
Che cosa fa l'uomo peccando? Prende la legge di Dio, risponde Abacuc, e la fa in brandelli (HABAC. I, 4); la disconosce, la disprezza, la deride, la conculca; si burla delle minacce e delle promesse di Dio. E non è questo un enorme sfregio alla divinità, un disprezzo formale di Dio medesimo?
Con la preferenza che il peccatore dà alle creature, mostra a Dio un sommo disprezzo, e rinnova il delitto di cui si resero colpevoli i Giudei preferendo Barabba a Gesù Cristo (IOANN. XVIII, 40). Preporre il male al bene, il vizio alla virtù, la terra al cielo, una turpe voluttà alle pure delizie della grazia, il niente a Dio, è tale traviamento e tale insulto di cui non può immaginarsi il più grande. Se ne lamenta amaramente Iddio: «A chi mi avete paragonato, e assomigliato?» (ISAI. XL, 25). «Udite, o cieli, e tu, o terra, ascolta: Io ho nutrito ed allevato dei figli ed essi mi hanno volto le spalle. Il bue conosce il suo padrone, e l'asino discerne la stalla del suo padrone; ma Israele non ha conosciuto me» (Ib. I, 2-3).
«Quando noi, scrive S. Agostino, commettiamo peccato o di pensieri, o di parole, o di opere, noi dirocchiamo il tempio di Dio, e facciamo ingiuria a colui che abita in noi (Lib. I Retract., c. XV)». Ma guai, egli dice, «guai a voi che mi disprezzate. Non sarete anche voi disprezzati alla vostra volta?» (ISAI. XXXIII, 1). «Chi disprezza, porta con sé chi lo giudicherà» (IOANN. XII, 48).


15. IL PECCATO MORTALE ASSALE DIRETTAMENTE IDDIO. - Ma non solamente contro la legge divina, ma contro Dio medesimo si scaglia il peccatore; egli aguzza la spada, tende l'arco, scocca le saette sue contro l'Onnipotente... Insensato! colpevole soldato di Satana, anche il tuo capo volle combattere contro Dio. Or quale fu la sua sorte? Vinto, prostrato, maledetto, fu gettato per sempre nell'inferno! Deh! non imitate il demonio, se non volete dividerne l'irreparabile rovina...
Il peccato mortale è una specie di deicidio; se Dio potesse essere ucciso lo sarebbe dalla freccia avvelenata del peccato. Il Crisostomo asserisce che, almeno col desiderio, il peccatore uccide Dio (Homil. ad pop.). e S. Tommaso vede nel peccato mortale l'annichilimento di Dio (De Peccat.).


Sì, quando la potenza del peccatore corrispondesse alla sua volontà perversa, egli distruggerebbe Iddio... Ma non potendo annientarlo né nella sua essenza, né nel cielo, né nelle sue opere, lo annienta almeno nel suo proprio cuore. E l'uomo che così opera, non sopporterebbe Dio in nessun luogo... Se avesse qualche potere su di lui, desidererebbe che non vi fosse Dio, perché non vorrebbe che ci fosse né legge che l'obbligasse ad obbedire, né giustizia che lo punisse; ora questo desiderio porta con sé il desiderio dell'annientamento di Dio...
Quando il Figlio di Dio venne su la terra, non lo hanno forse crocefisso? Se venisse un'altra volta in mezzo a noi, i peccatori gli farebbero soffrire di nuovo tutti i dolori della passione; e se Gesù potesse ancora morire, il peccato mortale gli darebbe la morte... Ci pensate voi, miseri peccatori? dal punto in cui voi giacete in colpa grave, il vostro cuore è un patibolo sul quale immolate il vostro Salvatore.


Sì, il peccato mortale è stato la vera ed unica causa della morte di Gesù Cristo. Deh! riconoscete, o peccatori, quanto sono gravi le ferite del peccato, se Gesù per guarirle dovette essere crivellato di ferite e versare tutto il suo sangue! Ah! se non fosse mortale la piaga che fa all'anima il peccato, il Figlio di Dio non sarebbe morto per rimarginarla. Riconosci, o uomo, dice S. Agostino, quello che tu vali e quello che devi. Considerando l'alta dignità che ti ha conferito la redenzione, impara a temere ed a fuggire il peccato. Vedi come la Pietà è flagellata invece dell'empio; la Sapienza è derisa invece dell'insensato; la Verità è immolata invece del mentitore; la Giustizia è condannata in luogo del colpevole; la Misericordia è tormentata invece dell'insensibile; la Purità è abbeverata di aceto, e la dolcezza satollata di fiele, invece del malvagio e dell'iracondo; l'Innocenza prende il luogo del vero colpevole; la Vita muore per risuscitare colui ch'era morto (De Passione).


16. DI SUA NATURA IL PECCATO MORTALE È IRREPARABILE. - Così enorme è la malizia di un solo peccato mortale, tanto oltraggio fa alla Maestà divina, che tutte le preghiere; le umiliazioni, le austerità, le lodi, le adorazioni dei Santi e degli angeli non basterebbero per espiare un solo peccato mortale. Tutto ciò ch'essi potrebbero fare di bello e di meraviglioso, non potrebbe menomamente velare quello che vi è di brutto e di abominevole in una sola colpa grave. Insomma, di natura sua il peccato mortale è un male irreparabile. Un esempio ce lo farà comprendere: - Quando Nabucodonosor fece gettare nella fornace accesa i tre giovanetti ebrei, esso, per quanto dipendeva da lui li bruciò, sebbene Iddio li abbia salvati, Così, allorché noi pecchiamo gravemente, uccidiamo l'anima nostra; e benché Dio possa risuscitarci, noi spegniamo, per quanto dipende da noi, fin l'ultima scintilla di vita che vi è in noi e ci assicuriamo la dannazione eterna. Bisogna guardare quello che produce il peccato, non quello che può l'onnipotenza di Dio. Chi rinunzia una volta a Dio, vi rinunzia per sempre, perché sta nella natura del peccato il rendere eterna, per quanto è in sé, la nostra separazione da Dio.


Inoltre, nessuno desidera di vedere la fine della propria felicità; ora, siccome il peccatore mette nel peccato la sua felicità, non vorrebbe mai separarsene, e quindi non porvi mai riparo, ma affondarvisi sempre di più, come osserva S. Gregorio: «Vorrebbero i peccatori, se potessero, vivere sempre per peccare sempre. Mostrano infatti che vogliono vivere sempre nel peccato, non cessando mai di peccare, mentre vivono. Non dicano adunque costoro: Perché un inferno eterno? Appartiene alla giustizia del Giudice supremo, il non porre mai termine al supplizio di coloro i quali, finché poterono, non vollero mai cessare dal peccato (De Poenit. cap. LX)».


Caduto nel peccato mortale, non poteva l'uomo aspettare né da sé né dagli angeli nessun rimedio che lo rimettesse nello stato d'innocenza e gli restituisse i beni che aveva perduto. Allora, nella sua misericordia, il Figlio di Dio, la sapienza increata, per cui tutto è stato fatto, prese una determinazione mirabile, ineffabile, incomprensibile agli Angeli e agli uomini; egli si unì alla nostra natura, e in essa e per essa ha riparato il genere umano, caduto tutto quanto nella degradazione.


17. IL PECCATO MORTALE È PEGGIORE DELL'INFERNO. - Osservato nel suo vero aspetto, il peccato è peggiore della morte, della riprovazione, dell'inferno; perché il peccato è in se stesso una macchia, un male; mentre la morte, la riprovazione, l'inferno non sono che la pena del peccato. L'inferno non è un male, ma ne è il giusto castigo: quello che è un male, è ciò che conduce all'inferno, cioè il peccato: «Se io vedessi, dice S. Anselmo, di qua il peccato mortale, di là l'inferno, e dovessi scegliere tra i due, preferirei lanciarmi nell'inferno, piuttosto che commettere il peccato (De Similit. , c. CXC)».


18. SIMILITUDINI DEL PECCATO MORTALE. - «Fuggi, figliuol mio, dal peccato, dice il Savio, come fuggiresti alla vista di un serpente; perché se tu lo avvicini, esso ti prenderà. Le sue zanne sono come denti di leone, che stritolano le anime» (Eccli. XXI, 1-3). Lo Spirito Santo paragona il peccato al serpente armato di veleno, i cui morsi sono nascosti e mortiferi; per indicarne i terribili effetti, ricorre alla similitudine dei denti del leone, i quali sbranano e stritolano la vittima...
Di un uomo caduto in peccato grave si può dire quello che esclamò il patriarca Giacobbe alla vista della tunica insanguinata di Giuseppe: «Una ferocissima belva l'ha divorato» (Gen. XXXVII, 33); oppure col Salmista: «Un cinghiale della foresta ha devastato la vostra vigna, o Signore, una fiera selvaggia l'ha desolata» (LXXIX, 14).
«Ogni iniquità è una spada a due tagli, alle cui ferite non c'è rimedio» (Eccli XXI, 4). Lo Spirito Santo, dopo di avere paragonato il peccato al serpente, al leone, al cinghiale, lo assomiglia ad una spada a due fendenti... Impariamo da questo, quanto grave e funesto sia il peccato mortale; perché egli nuoce infinitamente di più all'anima, che al corpo un serpente, un leone, una spada: o ad una vigna il cinghiale. Il peccato mortale uccide per sempre l'anima e talvolta anche il corpo.


19. IL PECCATO MORTALE È LA PIÙ TERRIBILE DELLE CADUTE. - Appena che l'anima, compagna dei santi e degli Angeli, sposa di Gesù Cristo, ha commesso un peccato mortale, già é discesa dalle altezze del cielo, e precipitando in una fogna, vive tra le bestie immonde e i rettili velenosi; si avvoltola nel fango e se ne ciba. Al contrario, l'anima esente da colpa grave è un cielo in cui l'intelligenza è il sole; la fede e la continenza, la luna; le altre virtù, sono le stelle. Tutte le virtù brillano in mezzo alle avversità di questo secolo, come gli astri nel firmamento durante la notte, dice S. Bernardo (Serm. in Psalm.).


20. IL PECCATORE È IL PIÙ CRUDELE NEMICO DI SE STESSO. - Il peccato è il sommo male della natura, dell'uomo, della società. Né l'uomo, né il demonio, né Dio medesimo possono, fare ad un uomo tanto male, quanto se ne fa egli medesimo allorché pecca mortalmente. Qui è veramente il caso di dire col Crisostomo: «Nessuno si ferisce se non da se stesso» (Hom. ad pop.); avendo la sapienza di Dio, come osserva S. Agostino, così ordinato le cose riguardo al peccato, che quello che ha formato il diletto del peccatore diventi nelle mani del Signore strumento di punizione (Lib. Confess).
«Ognuno è tormentato in quello in cui ha peccato» (Sap. XI, 17), dice il Savio; ossia ogni vizio porta con sé una pena tutta sua propria; e donde viene il peccato, deriva il supplizio che l'aspetta (CRYSOST. Homil ad pop.). Ah! voi, o Signore, avete stabilito che ogni anima sregolata sia di supplizio a se stessa, e così è (Lib. Confess). Le cose di cui abusiamo peccando, si cambiano d'ordinario in verghe che ci frustano, dice Ruperto Abate, e S. Paolino da Nola con espressiva immagine, raffigura la vita di colui che pecca, ad un molino dov'egli macina il grano del suo nemico, il demonio, il quale se ne mangia l'anima come pane (Epist. IX).

«Le iniquità dell'empio, leggiamo nei Proverbi, sono tranelli tesi ai suoi piedi, i suoi peccati sono corde che lo legano» (V, 22). «Quelli che si abbandonano al male, sono nemici della loro anima», dice Tobia (XII, 10). Quando si vive nel peccato, la vita piena della nobiltà della virtù, che è la vera vita, scompare; la specie di vita che rimane, non è altro che una vera morte con apparenza di vita. Infatti, dice il Damasceno, il peccato è la morte dell'anima immortale: - Peccatum est immortalis animae mors (SURIUS. In Vita). Il peccatore porta continuamente con sé il pesante fardello del suo peccato; e dove trovare giogo più opprimente? Perciò avverte S. Gregorio, che il peccatore perde la felicità sia a cagione del vizio, sia per le pene che vanno congiunte al vizio (Moral.).

«Il peccato, scrive S. Tommaso, è chiamato vanità: 1° perché chi lo commette si elegge un bene immaginario; 2° chiedere la durata a questo bene, è un chiederla a qualche cosa essenzialmente transitoria e fantastica; 3° aspettarne qualche felice esito, è un illudersi; 4° attaccarvisi è cosa infruttuosa; di modo che sta bene in bocca al peccatore quel detto d'Isaia: «Invano e senza scopo ho lavorato; mi sono logorato le forze per correre dietro ad un fantasma (De peccat.)». 
Chiunque commette l'iniquità può ripetere con Geremia: «Il peccato mi ha condotto per un deserto, in mezzo ad una landa inospita e selvaggia, su cui non è stampata orma di piede umano, né scorre filo d'acqua» (IEREM. II, 6). Il peccatore che abbandona Dio e vive nel peccato, l°vedrà dileguarsi ogni sua speranza di benessere; 2° non produrrà frutto; 3° sarà privo della celeste rugiada della grazia e della sapienza; 4° sarà abbandonato da Dio e dagli uomini; 5° sarà esposto in vendita come uno schiavo e comprato dai demoni e dalle passioni tiranniche.

«Il peccatore, dice Geremia, avrà la sorte della felce del deserto; non vedrà mai stilla che lo rinfreschi, ma abiterà nella siccità del deserto, in un suolo seminato di sale e inabitabile» (IEREM. XVII, 6). Notate i tre effetti del peccato qui accennati dal Profeta: 1° il deserto, cioè l'allontanamento di Dio e della sua grazia; degli Angeli e dei Santi; 2° la siccità, cioè la mancanza di grazie, di virtù, di forza; 3° la sterilità, perché il peccatore non produce più buone opere.

«Gerusalemme, dice il medesimo Profeta, si è tuffata nel peccato, perciò divenne instabile; tutti quelli che la lodavano l'hanno disprezzata, perché ne videro L'ignominia» (Lament. I, 8). La prima causa dell'instabilità del peccatore viene dal suo allontanamento da Dio... La seconda sta nell'incostanza naturale al cuore dell'uomo che, essendo vastissimo e capace di molti oggetti, nutrisce una folla sterminata di desideri. Ma, per ciò appunto, nessuna creatura, né passione, né piacere, cose tutte finite e limitate, possono riempirlo o saziarlo; gli bisogna Dio, e il peccatore non l'ha... «L'anima ragionevole, dice S. Bernardo, può ben essere occupata di ogni altra cosa che non sia Dio, ma non può essere riempita di altra fuorché di Dio (Serm. in Cant.)». La terza causa deriva da ciò, che tutti i piaceri creati che l'uomo cerca seno ondeggianti, fuggitivi, e misti con molta amarezza e finiscono in tormento, essendo il disgusto e le lagrime il termine di ogni gioia. Perciò il peccatore cerca, dopo una soddisfazione fallace, una nuova gioia, e passando anche questa e volgendoglisi a nausea, va cercandone un'altra di cui si stanca quasi subito. Ecco in qual modo andando di desiderio in sazietà, e di sazietà in desiderio, egli erra infelice e vagabondo in cerca della felicità o almeno del riposo, senza che trovi né l'una né l'altro. 
La quarta causa è, che siccome una virtù ne porta con sé un'altra, così un vizio conduce un altro vizio. La quinta viene dai rimorsi della coscienza, che non dànno tregua all'anima. Lacerato dai rimorsi della coscienza, Caino va errante e vagabondo su la terra. La sesta ha origine da una moltitudine di pensieri perversi che travagliano il peccatore; cosicché il peccato, dice S. Ambrogio, si può considerare come un ardore disordinato ed una febbre ardente dell'anima (Serm. XIV). La settima causa è che col peccato l'anima giusta perde la sua innocenza e diventa una prostituta; e perciò va in cerca di amanti tanto vani e ingannatori quanto essa. Per conseguenza il più mortale nemico del peccatore è il peccatore medesimo.


AVE MARIA PURISSIMA!

sabato 30 agosto 2014

Leggiamo il Vangelo o Scrittura Sacra

 
Vangelo o Scrittura Sacra
1. Che cosa è la Sacra Scrittura?
2. Differenza tra l'antica e la nuova Legge. ­
3. Necessità della Scrittura o della Rivelazione.
4. I quattro Evangelisti. ­
5. Diversi sensi della Scrittura.
6. Antichità del Vangelo.
7. Eccellenza della Sacra Scrittura.
8. La Sacra Scrittura contiene la vera scienza.
9. Il Vangelo dà la vera libertà.
10. Santità del Vangelo.
11.Vantaggi della Sacra Scrittura.
12. Come bisogna leggere e studiare la Sacra Scrittura. ­
13. Mezzi per profittare della Sacra Scrittura.

1. CHE COSA È LA SACRA SCRITTURA? - Ci dicono S. Atanasio e S. Agostino, che S. Antonio chiamava la Sacra Scrittura «una lettera in­viata dal cielo agli uomini (August. in Psalm. XC)». Non altrimenti si esprime S. Gregorio Magno, che la chiama «un'epistola dell'Onnipotente alla sua creatura (Lib. IV, epist. LXXXIV)». 
E infatti, dice S. Cipriano, «lo Spirito Santo è colui che dettò e scrisse la Sacra Scrittura; i Profeti (gli Evangelisti, gli Apostoli) non erano che la mano, o meglio, la penna che vergava quello che lo Spirito Santo dettava (Serm. de Eleem)». Che cosa è il Vangelo? È il libro di Gesù Cristo; la filosofia di Gesù Cristo; la teologia di Gesù Cristo; è la preziosa, la buona novella della redenzione; è la grazia, la salute eterna del genere umano, arrecata al mondo da Gesù e concessa ai credenti.


2. DIFFERENZA TRA L'ANTICA E LA NUOVA LEGGE. - 


L'Antico Testamento è il Nuovo Testamento nascosto sotto figura; il Nuovo è l'Antico svelato e dichiarato. «Il Nuovo Testamento, dice S. Wilibaldo, è in confronto all'Antico, quello che è la luce in confronto dell'ombra, quello che è la verità in confronto della figura, l'anima in confronto del corpo, la vita in confronto di ciò che essa vivifica. Infatti, come il corpo riceve vita dall'anima, così le promesse dell'antico Testamento ricevettero la loro dichiarazione e il loro avveramento dalla verità manifestataci da Gesù Cristo nel Nuovo (in eius vita a Philipp. Episc.)».

La differenza fra l'antica e la nuova legge, consiste, 
1° nel loro autore; quella fu promulgata da Mosè e poi dai Profeti; questa fu dettata da Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo... 2° L'antica è meno perfetta della nuova... 3° L'antica non è che un'ombra della nuova; il Vangelo è la verità nel suo chiarore...4° La prima era legge di timore, la seconda è legge di amore... 5° La legge prometteva beni terreni e perituri; il Vangelo promette la grazia, il cielo e vi ci conduce... 6° La legge era giogo pesante e grave; il Vangelo è giogo dolce e leggero... 7° La legge era la via verso Gesù e il Vangelo; il Vangelo e Gesù Cristo sono il termine della legge (Rom. X, 4)... 8° La legge fu data ai soli Giudei; il Vangelo, a tutte le nazioni... 9° La legge era temporanea; il Vangelo durerà in eterno... 10° Quella era imperfetta; questo è perfetto, sia in ordine al dogma, sia in ordine alla morale... 11° L'antica legge era come una legge di schiavitù; la nuova è legge di libertà, di beneficenza universale, di carità... 12° La legge imponeva solamente dei comandi e non oltrepassava ciò che è conforme alla natura; il Vangelo dà precetti e consigli, insegna e insinua cose soprannaturali e divine... 13° La legge propone all'intelligenza il precetto puro e semplice; il Vangelo offre la grazia insieme con i precetti e i consigli, affinché si adempiano e gli uni e gli altri... 14° La legge non ha fatto nessun apostolo; il Vangelo ne ha prodotto moltissimi...


3. NECESSITÀ DELLA SCRITTURA o DELLA RIVELAZIONE. - 


«Oltre gli insegnamenti della filosofia è necessaria, dice S. Tommaso, alla sa­lute del genere umano, una certa dottrina insegnata da Dio (1.a l.ae q. art. 1)». Quest'insegnamento o rivelazione è necessaria per conoscere le cose che superano l'intelletto umano e le forze della natura. La rivelazione è anche necessaria, dice lo stesso Dottore, nelle cose stesse che la filosofia può scoprire con la luce naturale; poiché queste verità intravvedute dalla filosofia non si manifestano che ad un piccolo numero di uomini e solo dopo lunghi studi, e non mai scevre affatto di errori. Ci bisogna dunque una verità rivelata che diriga la filosofia, corregga gli errori e sia facilmente conosciuta da tutti, in modo positivo e certo. Ora, per questo, non è sufficiente la luce naturale.


4. I QUATTRO EVANGELISTI. - 


Con diversi simboli sono raffigurati i quattro Evangelisti, secondo la diversa indole della loro narrazione. 
S. Matteo viene rappresentato con accanto una testa d'uomo, perché racconta in modo speciale la vita di Gesù Cristo come uomo. 
Vicino a S. Marco si dipinge un leone, perché quest’Evangelista mette particolarmente in mostra la potenza e la sovranità di Gesù Cristo. 
S. Luca si appoggia a un bue, perché nel suo Vangelo Gesù ci compare sotto lo speciale titolo di vittima destinata a surrogare tutte le vittime antiche. 
S. Giovanni finalmente ha per emblema l'aquila, per dinotare che carattere suo speciale fu di penetrare fino nel seno del Padre, e di qui svelarci la divina origine di Gesù Cristo. S. Matteo dunque ci espone l'umanità del Salvatore; S. Marco, la sua sovranità; S. Luca, il suo sacerdozio; S. Giovanni, la divinità.


5. DIVERSI SENSI DELLA SCRITTURA. - 


Quattro sono i principali sensi contenuti nella Bibbia; il senso letterale che narra i fatti; l'allegorico che indica quello che si deve credere; il tropologico, o morale; che indica quello che si deve fare; l'anagogico che accenna quel che s'ha da sperare (*).

[ * Il Lirano ha compreso questi sensi nel seguente distico: - Littera gesta docet; quid credas, allegoria; - Moralis, quid agas; quid speres, anagogia]


La città di Gerusalemme, per esempio, nel significato letterale mostra la capitale della Giudea; nell'allegorico, figura la Chiesa di Gesù Cristo; nel morale, rappresenta l'anima fedele; nell’anagogico simboleggia la patria celeste. Si aggiunge comunemente un quinto senso che è l'accomodatizio o interpretativo. Si è liberi di servirsi di tutti questi sensi, purché non si offenda né il dogma, né la morale, né il culto approvati dalla Chiesa. Gravissimo delitto è poi sempre torcere a sensi nefandi o peggio, falsificare le Sacre Scritture. «Conserva, o Timoteo, scriveva S. Paolo, il buon deposito, per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi, schivando la profana novità dei vocaboli, e i cavilli di una scienza che non merita questo nome» (II, I, 14 - I, VI, 20).


6. ANTICHITÀ DEL VANGELO. - 


S. Paolo scrive: «Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato all'apostolato, eletto ad annunziare il Vangelo, già prima promesso da Dio per mezzo dei profeti nelle Sacre Scritture» (Rom. I, 1-2). Queste parole vogliono dire: Il Vangelo che io vi annunzio non è cosa nuova, né trovata da poco tempo, né inven­tata da me o da altri, ma è l'opera decretata da Dio fin dall'eternità. Perciò esso fu altre volte promesso da tutti i santi profeti, come cosa preziosa, salutare, certa, verissima, divina, annunziata, confermata e consolidata nel corso dei secoli; e in questo senso si deve intendere il detto di Cicerone: «La verità è figlia del tempo» - Temporis mia veritas (Offic.). E poi non è forse vero che l'antica legge conteneva in germe la nuova?...


7. ECCELLENZA DELLA SACRA SCRITTURA. - 


S. Paolo dice che il nostro Salvatore Gesù Cristo distrusse la morte e fece splendere la vita e l'incorruttibilità per mezzo del Vangelo... Infatti ogni scrittura inspi­rata da Dio è utile a insegnare, a riprendere, a correggere, ad istruir nella giustizia; affinché l'uomo di Di,o sia perfetto, e atto ad ogni opera buona (II Tim. I, 10), (Ibid. III, 16-17)... La Sacra Scrittura è un largo fiume, su le cui sponde verdeggiano alberi vigorosi ed altissimi, che sono i Santi.

Di lei, e particolarmente del Vangelo, Dio dice: «Ascolta, o po­polo, la legge uscirà dalla mia bocca; la mia giustizia illuminerà i popoli e si poserà in mezzo a loro» (ISAI. XLI, 4). La legge evangelica è chiamata giustizia, perché offre agli uomini la giustificazione, affinché vivano nella giustizia, nella pietà, nella santità. E chiamata giustizia, perché chi la riceve è giudicato degno del cielo e chi la ri­getta è da lei condannato all'inferno... Così ricca, così preziosa, così ben diretta è dallo Spirito Santo la Sacra Scrittura, che si confà a tutti i luoghi, a tutti i tempi, a tutte le persone; aiuta a superare le difficoltà, i pericoli, le malattie; a scacciare i mali, a procacciare i beni, a spegnere gli errori, a distruggere i vizi, a far fiorire ogni sorta di virtù.


Perciò non vi è da stupire se S. Giovanni Crisostomo scriveva: «La Sacra Scrittura è il regno dei cieli, ossia la beatitudine alla quale conduce; Gesù Cristo, nostra ragione e nostro verbo, ne è la porta; i sacerdoti ne sono i portinai; la chiave è parola della scienza; l'a­pertura è l'interpretazione fedele della medesima (In Catena)». Ugo da S. Vit­tore la celebra come il libro della vita, la cui origine viene dall'es­senza eterna e spirituale; scrittura indelebile, vista desiderabile, dot­trina facile, scienza dolce, profondità incommensurabile, unione di tutte le verità, le quali però ne formano fra tutte una sola (Tract. de Arca Noe). Anche l'abate Ruperto osserva che questo libro della Sacra Scrittura è uno solo, ed è per ciò che porta tal nome; è un solo ed unico libro, perché scritto da un solo Spirito; perché è il tesoro, il tabernacolo della parola di Dio che è una (In Etich.)».


8. LA SACRA SCRITTURA CONTIENE LA VERA SCIENZA. -


La Sacra Scrittura è di tutti i libri il più perfetto, di tutte le scienze la più certa, la più augusta, la più efficace, la più saggia, la più utile, la pIù solida, 1a più necessaria, la più estesa, la più sublime. È la sola necessaria, perché è la parola di Dio. Non è Mosè che parla, ma Dio: non sono i patriarchi e i profeti che parlano, ma è Dio. Non sono gli Evangelisti, gli Apostoli che parlano, ma è Dio. Ora Dio possiede ogni scienza e la possiede immune da ogni errore... 
La verità del Vangelo consiste principalmente in tre cose: 1° nella sincera conoscenza di Dio; 2° nella conoscenza della incarnazione e della redenzione; 3° nella conoscenza della vera felicità.

Il grande Apostolo, dopo di aver detto che Dio ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo (I Timoth. I, 10), esorta Timoteo a stare saldo nelle cose che aveva appreso e che gli erano state confidate, ben sapendo da chi le avesse imparate; e gli ricorda come fin da ragazzo avesse conosciuto le sacre lettere che possono istruirlo a sa­lute, per mezzo della fede che è in Cristo Gesù (II Id. III, 14-15). «Il giudizio di Dio illuminerà i popoli», pro­fetava Isaia (LI, 4). La legge evangelica, a cui alludono queste parole, è chiamata giudizio, perché ci insegna quali siano i pensieri e i giudizi di Dio; ci manifesta quello che piace o dispiace a Dio, quello che approva o che condanna.


«Come bambini neonati, cercate il latte spirituale, dice S. Pietro, affinché vi faccia crescere a salute» (1 PETR. II, 2). L'Apo­stolo ci ordina di succhiare del continuo, dalle mammelle della Chiesa nostra santa madre, il latte della dottrina evangelica per istruirei e nutrirci e crescere nella sapienza e nella sanità spirituale. E sapete voi perché questa dottrina è chiamata tale? 1° per indicarne la soavità e la dolcezza...; 2° perché nutre e ingrassa l'anima, come il latte materiale nutre e ingrassa il corpo...; 3° perché purifica l'anima e la rende candida come il latte...; 4° perché è schietta, semplice e naturale come il latte...; 5° il latte è il cibo più appetitoso per i bambini; toglie loro la voglia di altri cibi e procura un dolce sonno; cosi la dottrina di Gesù Cristo forma le delizie dell'anima, la, calma, l'acquieta, e la rende felice nella verità... Sapere e conoscere la Sacra Scrittura, è dunque lo stesso che possedere la scienza della verità e della felicità, la scienza delle scienze.


Ma se a tutti i fedeli importa essere ammaestrati delle sacre carte, è debito tutto speciale di coloro che hanno l'ufficio di dispensarla, l'esserne istruiti a fondo. A loro dice il Signore: «Amate la luce della sapienza, voi tutti che presiedete ai popoli» (Sap. VI, 23). Scorrete i campi deliziosi della Scrittura e come l'ape, cogliete e riponete nell'alveare della vostra memoria i vari odorosissimi fiori del Vecchio e Nuovo Testamento; il giglio della castità, l'oliva della carità, la rosa della pazienza, i grappoli della perfezione spirituale... Tutta la teologia è fondata su la Santa Scrittura; poiché la teologia non è altro che la scienza delle conclusioni ricavate dai principi certi della fede. Da ciò si vede chiaramente che la Sacra Scrittura getta le basi della teo­logia; basi e principi sui quali il teologo forma e dispone le sue dimostrazioni per mezzo del ragionamento.


La Sacra Scrittura contiene in certo qual senso tutto lo scibile umano; abbraccia le scienze naturali e soprannaturali; fa conoscere l'essenza divina medesima con i suoi attributi... La Sacra Scrittura parla del principio delle cose, dell'ordine della natura, di Dio e dei suoi attributi, dell'immortalità dell'anima, della vera uguaglianza, della fraternità, delle pene, delle ricompense, di tutto ciò che esiste; e ne discorre in modo più esatto, più solido, più sublime di quello che non saprebbero fare tutti gli scienziati uniti insieme. S. Basilio dà per regola, che qualunque cosa facciamo o diciamo, procuriamo di appoggiarla su la testimonianza delle divine Scritture, a confor­mazione della fede dei buoni e a confusione dei malvagi (In Etich. Reg. XXVI, c. I).


S. Vincenzo Ferreri, che tante strepitose conversioni ottenne in Francia, in Italia, in Ispagna, in Germania, con le sublimi e commoventi sue prediche, non portava con sé altro libro che la Bibbia, e nient'altro predicava che la Bibbia (In Vita). S. Antonio da Padova citava così spesso e spiegava così bene la Sacra Scrittura, la insegnava e predicava con tanta eloquenza e forza, che il Sommo Pontefice lo chiamò col nome di Arca del Testamento (In Vita).


La Sacra Scrittura è l'arca del Testamento; in essa stanno chiuse tutte le meraviglie, tutte le scienze, tutte le perfezioni. Dobbiamo portare questo libro con gran rispetto, cioè leggerlo, studiarlo, ascol­tarlo con molto desiderio e profonda riverenza. «La continua medita­zione della Sacra Scrittura, fa dell'anima l'arca del Testamento ­», dice Cassiano (Collat.); e S. Gerolamo ci esorta ad avere in noi l’arca del Testamento; ad essere i custodi della legge di Dio, i cherubini della scienza; cosicché il nostro spirito meriti il nome di oracolo (Epist.).


9. IL VANGELO DÀ LA VERA LIBERTÀ. - «Chi mirerà addentro nella legge perfetta della libertà, scrive S. Giacomo, e in essa persevererà, non essendo uditore smemorato, ma fattore di opere, questi nel suo fare sarà beato » (IAC. I, 25). 

1° La legge evangelica è la legge perfetta, la legge di libertà e non di servitù qual era la legge antica. La libertà della legge evangelica dataci da Cristo ci libera dai precetti legali e cerimoniali, ma non dai morali, cioè dal Deca­logo; poiché questa legge non obbliga in quanto è legge promulgata da Mosè, ma in quanto è legge di natura, sanzionata da Dio e rinno­vata da Gesù Cristo... 
2° Essa libera dal peccato e dalla potestà del demonio e dell'inferno... «La sola vera libertà agli occhi di Dio, è la libertà dal peccato», dice S. Gerolamo (Lib. sup. Matth.). 3° Questa legge libera dalla corruzione e dal timore; di modo che possiamo adempire la legge evangelica, non per timore della vendetta, ma per amore della giu­stizia. I Cristiani non sono schiavi come i Giudei, ma sono figli di Dio..


10. SANTITÀ DEL VANGELO. -

La santità del Vangelo consiste: 1° nell'esenzione da ogni errore...; 2° nel culto del vero Dio...; 3° nell’amore e non nel timore servile...; 4° nella dottrina di salute che contiene...; 5° il Vangelo conduce egli medesimo alla santità ed alla perfezione... Nessuno diventa e nessuno è veramente santo, se non a proporzione dell'esattezza con cui osserva il Vangelo; più si osserva, e più si cresce in santità.


11. VANTAGGI DELLA SACRA SCRITTURA. - 


Secondo la bella osservazione di S. Agostino, quando preghiamo, noi parliamo a Dio; ma quando leggiamo le divine Scritture, Iddio medesimo parla con noi (Serm. XCII, de Temp.); per­ ciò il medesimo Santo diceva: «Le tue sacre pagine, o Signore, for­mano le mie caste delizie; seguendo loro, né posso ingannarmi, né
ingannare (Confess. lib. II, c. II)». Che prezioso vantaggio non è quello di aver sem­pre tra le mani i Libri sacri, di leggere e rileggere a nostro piaci­mento quelle lettere divine che Dio medesimo ci ha consegnato e che sono i testimoni incorruttibili e certi della volontà divina! O dolce e salutare cosa è mai quella di consultare Dio, e consultarlo sovente!... Per la pratica del Vangelo, gli uomini diventano re; acquistare una sovranità non effimera, non terrena, non faticosa, ma durevole, ce­leste, piena di soavità e di consolazioni.


S. Agostino ci assicura che ogni malattia dell'anima trova nella Sacra Scrittura il farmaco conveniente (Epistad Votusian.); S. Basilio la chiama una farmacia aperta a tutti e provvista di ogni genere di rimedi effica­cissimi per qualunque sorta di mali (Homil. in Psalm. I). 
Si, la Bibbia è un tesoro immenso, una farmacia fornitissima di tutto ciò che conviene ai vari tempi, e luoghi, e bisogni, e malori della gente. Essa infuse il coraggio e diede la costanza ai martiri; essa formò i dottori istruendoli e ren­dendoli atti ad istruire gli altri. Essa è la luce della sapienza, il fiume dell'eloquenza, il martello dell'eresia; essa insegna a stare bassi e umili nella prosperità, grandi nell'avversità, laboriosi e vigilanti nelle tentazioni; essa riforma i costumi e li conserva intatti; dà vita e nu­trimento alle virtù; arresta, sradica, distrugge, ogni radice di vizio; essa è, in una parola, via, verità e vita.


12. COME BISOGNA LEGGERE E STUDIARE LA SACRA SCRITTURA. - 


S. Giovanni Evangelista racconta che vide nella destra di colui che stava assiso sul trono, un libro scritto dentro e fuori, e chiuso con sette sigilli (Apoc. V, l). Qual è questo libro chiuso da sette sigilli? Moltissimi Dottori insegnano che esso è la Sa­cra Scrittura; e nel primo sigillo vedono la profondità della Scrittura in se stessa; nel secondo, la molteplicità dei sensi che racchiude; nel terzo, la varietà delle figure; nel quarto, la sublimità della dottrina; nel quinto, l'oscurità dei misteri; nel sesto, la soavità del senso tropologico; nel settimo, l'ineffabile e trasparente verità mescolata alle cose misteriose... Gesù Cristo ha aperto questo libro suggellato, quan­do, prima di salire al cielo, diede ai suoi Apostoli l'intelligenza delle Scritture (Luc. XXIV, 45). Li confermò in quest'intelligenza e l'accrebbe in loro quan­do mandò sopra di loro lo Spirito Santo.

La Sacra Scrittura è un oceano senza fondo; sublimi, profondi, impenetrabili all'ingegno umano sono i suoi molteplici sensi; di ma­niera che S. Agostino esclamava: Mirabile è la profondità delle vostre Scritture, o Signore; esse non si possono considerare senza timore: timore di rispetto e timore di amore. Altrove confessava essere nella Sacra Scrittura molte più le cose ch'egli ignorava, che non quelle che sapeva (Epist. CXIX). Perciò con grande diffidenza di noi medesimi, e non senza la scorta di eruditi e provati interpreti, dobbiamo imprendere la lettura e lo studio dei libri divini. «Nella Sacra Scrittura, l'umile agnello, secondo la frase di S, Gregorio, nuota; il superbo elefante si annega (Praefat. in lib. mor., c. VI)». 

S. Gerolamo attesta di se medesimo che fin da fan­ciullo non aveva mai cessato dal leggere e dal consultare i dotti, e non si era mai fidato ai suoi lumi. E' alla fine si era recato in Ales­sandria a trovare Didimo, perché lo illuminasse e gli sciogliesse tutte le difficoltà che trovava nelle Sacre Scritture (praefat. in Epl, ad Eph.). Altrove, cioè nella lettera a Paolino, il medesimo santo Dottore ricorda come Paolo Apo­stolo si riteneva onorato di avere imparato la legge di Mosè e i Pro­feti ai piedi di Gamaliele.

Ruffino cosi parla dei santi Basilio e Gregorio Nazianzeno: Questi due nobili giovani, i più eruditi di Atene, e stretti in amicizia da tre­dici anni, messi da parte tutti i libri profani dei Greci, fecero loro unica occupazione lo studio delle Sacre Scritture, e ne cercavano l'intelligenza non nel loro ingegno, ma negli autori più dotti e più accreditati, e da quelli che discendevano dagli Apostoli (Histor. 1. II, c. IX). Dimostravano così in se medesimi il contegno del vero saggio il quale, come dice l'Ecclesiastico, interroga la sapienza di tutti gli antichi, studia continuamente nei Profeti; fa tesoro dei detti degli uomini; cerca di penetrare il senso delle parabole e di scoprire il senso occulto dei Proverbi (Eccli. XXXIX, 1-3). Fra gli interpreti poi della Sacra Scrittura si devono preferire quelli che alla dottrina accoppiano la santità, perché, come dice S. Gerolamo, «la vita dei Santi è interpreta­zione vivente della Scrittura» (Ep. ad Paulin.). L'esempio degli eretici ci sta dinanzi a mostrarci in quali scogli rompe e in quali errori precipita chi, non secondo l'interpretazione approvata dalla Chiesa, ma a proprio talento, si mette a studiare i Sacri Libri.


La Sacra Scrittura si deve leggere con profondo rispetto: vi erano anticamente nelle chiese due tabernacoli, l'uno dirimpetto all'altro: in uno si conservava la santissima Eucaristia, nell'altro la Bibbia. Prova palpabile ed evidente della riverenza grandissima ed infinita in cui la Chiesa ha sempre tenuto e l'Eucaristia e i Libri Sacri. San Carlo Borromeo non leggeva mai la Sacra Scrittura se non in ginoc­chio e a capo scoperto (In Vita).


13. MEZZI PER PROFITTARE DELLA SACRA SCRITTURA. - l° Bisogna leggere la Sacra Scrittura spessissimo...; 2° leggerla con umiltà...; 3° con purità di cuore...; 4° accompagnare la lettura con la preghiera...; 5° consultare uomini di scienza e di pratica, svolgere buoni commentari. Ecco i mezzi necessari per raccogliere abbondanti frutti dalla lettura e dalla meditazione dei Libri Sacri... Senza la scienza della Bibbia, acquistata per questa via, non si possono dare buoni e zelanti predicatori, veri apostoli.


Lo studio, l'amore al lavoro, il ricorso a Dio sono mezzi indispen­sabili a chi vuol trarre dalla lettura della Sacra Scrittura il profitto che se ne deve aspettare. «Se piacerà al Signore, dice l'Ecclesiastico, egli lo riempirà dello spirito d'intelligenza; e allora questi ti spargerà come pioggia le parole della sua sapienza e confesserà il Signore con la preghiera. Iddio ne dirigerà i consigli e le determinazioni, ed esso indagherà i segreti del Signore. Pubblicherà le lezioni che ha rice­vuto, ed avrà gloria nella legge dell'alleanza di Dio. Il popolo encomierà la sua sapienza; e questa sua sapienza non cadrà mai in oblio (Eccli. XXXIII, 8-9). Quindi la meditazione, la preghiera, la lettura, il lavoro, l'umiltà, la purità, lo studio dei Padri, una condotta pia, sono le chiavi della Sacra Scrittura. Queste chiavi sono un dono del cielo; esse ci vengono da Dio, e a Dio ci conducono aprendoci il cielo (CHRYS. In Psalm.).


Non dimentichiamo poi quella massima di S. Gerolamo, che male si confanno alla spiegazione dei testi sacri le ricercatezze dell'elo­quenza mondana e i fiori di una rettorica tutta profana, ma a loro conviene soltanto l'erudizione e la semplicità del vero (proem. in lib. IIIComment. in Amos.), In questo argomento più che mai convengono quelle parole di Manilio: «Il tema non chiede, anzi sdegna ogni ornamento; di altro non ha bisogno che di essere messo in luce»; e quelle altre di Fabio: «Le grandi cose sono di lustro a se stesse; non si devono imbellettare per renderle amabili» (De Philos.).