Lo
splendore delle nozze spirituali
Capitolo 1
Innanzi
tutto prendiamo coscienza che Cristo, Sapienza di Dio, disse e dice ancor oggi
nel cuore di ogni uomo un “Ecco”, cioè: Vedi, guarda, bada.
Questo vedere o guardare o badare, per l’uomo intelligente è una necessità
naturale. Vi prego di starmi a sentire. Per vedere, tanto nel campo dello
spirito quanto in quello sensibile, ci vogliono tre cose. Chi vuol vedere
attraverso gli occhi, ha bisogno della luce del cielo o di qualche altra luce
naturale o artificiale che gli illumini l’aria e gli renda percettibili gli
oggetti. Deve avere anche la disponibilità della volontà, perché le cose
vengono percepite, e che gli occhi, organi della vista, siano sani e senza
macchie, perché possano raccogliere con esattezza le immagini delle cose.
Queste tre condizioni sono tutte ugualmente necessarie, tanto che, se viene
meno anche una sola, la visione scompare.
Questo è
ben noto per la visione sensitiva, ma la stessa cosa vale anche per la visione
soprannaturale, nella quale è riposta la nostra salvezza. Anche questa, infatti,
ha bisogno di tre cose: della luce della gloria di Dio, dell’attenzione
dell’anima liberamente rivolta a Dio e di una coscienza monda da ogni peccato
mortale.
E qui state
attenti.
Poiché Dio è
un bene incontenibile e comune a tutti e similmente il suo amore è immenso e
rivolto a tutti, Egli distribuisce la sua grazia in due modi. C’è una
prima grazia, detta preveniente, che viene data prima che sia chiesta, e
una seconda grazia, detta santificante, che ci rende graditi a
Dio e con la quale meritiamo la vita eterna.
La grazia
preveniente è data a tutti: pagani, Giudei, buoni e cattivi, grazie
all’amore universale di Dio che senza distinzione si diffonde su tutti: è
l’espressione del desiderio che Dio ha di portar la redenzione e la
salvezza a tutte le creature, fino agli estremi confini della terra. Perciò il
convertirsi a Dio dev’essere alla portata di tutti; infatti tutti i sacramenti
e ciascuno di essi sono a disposizione di chiunque li voglia, a seconda delle
sue necessità. Iddio ci vuole veramente tutti salvi, vuole che nessuno potrà
giustificarsi dicendo di non avere avuto mezzi sufficienti per la sua
conversione e salvezza.
Dio è uno
splendore e una luce che si diffonde su tutti, Egli illumina il cielo, la terra
e ogni uomo, a seconda delle proprietà e bisogni di ciascuno. Dio però è come
il sole. Il sole diffonde generosamente i suoi raggi su tutti gli alberi della
terra: però molti di essi rimangono sterili e tante piante selvatiche fanno
frutti che non servono a niente. È la ragione per cui le piante selvatiche
vengono trapiantate, potate, innestate con germogli di piante veraci; e così
vediamo, su tronchi selvatici, frutti di sapore gradito e adatti ai bisogni
degli uomini.
Anche per
noi viene dal giardino dei cieli un germoglio verace: è la luce della grazia
che s’innesta in noi e ci rende graditi a Dio. L’innesto è necessario a tutti.
Nessuna opera umana può avere buon sapore ed essere utile per la vita eterna,
se non trae origine da quell’innesto.
Il
germoglio del giardino dei cieli, innestato in noi, è la grazia santificante,
la grazia che ci rende3 graditi a Dio. Per essa possiamo meritare la vita
eterna, poiché diventiamo amici di Dio, capaci di accogliere Dio in noi.
Questo
germoglio divino è offerto a tutti, ma non s’innesta in tutti; alcuni non lo
vogliono. Non alligna in tutti, perché non tutti si decidono a farsi recidere i
rami selvatici quali sono l’infedeltà, gli idoli preferiti, l’intolleranza non
domata dai precetti di Dio.
In
generale, perché l’innesto alligni e sia vitale abbiamo bisogno di tre cose:
della grazia preveniente, della libera adesione della volontà, o conversione, e
della purificazione della nostra coscienza.
La grazia
preveniente è la luce di Dio, che vien data a tutti, ma non tutti l’adoperano
per compiere la propria conversione e purificazione e, quindi, non raggiungono
la grazia santificante, che ci fa graditi a Dio e idonei alla vita
eterna.
La grazia
preveniente può muovere l’uomo dal di fuori e dal di dentro. Lo muove dal
di fuori attraverso una malattia, la perdita dei beni, di congiunti, di amici,
dell’onore, della salute; attraverso una predica, un libro, una conversazione,
una parola, o un’azione di persona santa, che ci scopre la verità del nostro
essere; son tutti campanelli suonati da Dio, richiami usati da Dio.
Tante altre
volte Dio scuote l’uomo dal di dentro: attraverso una meditazione sulla
Passione di Gesù Cristo, o sui doni che la divina Misericordia profonde su di
noi o sugli altri, o con una riflessione sui nostri peccati, sulla fragilità
della vita, sulla morte, sull’inferno, o sulla felicità del paradiso, o sulla
smisurata bontà di Dio, che ci ha così generosamente perdonati e aspetta, con
tanta pazienza e amore, la nostra conversione; o ci commuove attraverso un
momento di contemplazione della benevolenza di Dio, che ci scoppia sotto gli
occhi nel perpetuo rinnovarsi delle cose, nei giorni e nelle stagioni, nel
cielo e sulla terra. E anche queste son tutte azioni della grazia
preveniente che, nei modi più diversi, tenta di scuoterci dal di dentro di
noi stessi.
C’è ancora
un’altra cosa: c’è nell’anima nostra una naturale tendenza verso Dio,l che
s’accende come una scintilla; è una luce innata superiore, che immediatamente,
da sé invita al bene e distoglie dal male.
Con questi
mezzi Dio stimola gli uomini, ciascuno a seconda delle sue carenze e dei suoi
bisogni; perciò c’è chi si sente scosso, chi ripreso, chi spaventato, chi resta
attonito, qualcuno si scruta bene addentro, qualcuno si disprezza.
Fin qui
siamo ancora nella sfera della grazia preveniente, che è data
gratuitamente, a tutti, e prepara l’uomo a ricevere la seconda grazia,
quella che ci fa graditi a Dio e che chiamiamo santificante.
Quando
l’anima si libera dal suo attaccamento al peccato e rigetta le opere cattive;
scossa,atterrita e incerta sul da fare, contempla Dio e scopre la propria
miseria e la povertà delle sue opere, e sente subito un pungente dolore,
un’intima contrizione e disgusto del peccato e un vivo desiderio del bene:
questo è il vertice della grazia preveniente. Se a seguito di questa grazia
l’uomo fa ciò che può e crede di dover fare, ma per la sua debolezza non riesce
a fare di più, l’immensa Bontà di Dio prende su di Sé il compito di portare a
termine l’opera.
Come un
fulgore di sole piovuto dall’alto, una più sublime luce di grazia viene diffusa
nell’anima, sebbene essa non l’abbia meritata né sufficientemente desiderata; è
Dio che in questa luce, per un tratto ineffabile della sua misericordia, ci
dona spontaneamente Se Stesso; e Dio nessuno Lo può meritare, prima che Lo
abbia.
È
un’operazione segreta ed istantanea di Dio, che scuote l’anima e tutte le sue
energie. È questo il punto di arrivo della grazia preveniente e il punto
di partenza della grazia santificante.
La quale è
una luce soprannaturale, e questa luce è la prima cosa che si richiede per una
visione spirituale. Grazie a questa luce soprannaturale, l’anima illuminata
comincia la sua reazione, nella quale, sull’istante, la volontà s’aggrappa con
tutte le forze a Dio e in quest’abbraccio nasce la carità, o amor di
Dio.
L’adesione
della volontà a Dio e l’accensione della carità son così strettamente
collegate e interdipendenti tra loro, che l’una non può esistere senza l’altra.
Infatti, appena l’anima si unisce a Dio, nello stesso istante, Dio la illumina
e scatta l’amore, o carità, che poi non è altro che la
stessa unione affettiva
tra Dio e l’anima che Lo ama.
Dalla grazia,
dunque, e dallo slancio dell’anima verso Dio nasce l’amore e dall’amore
sgorga la purificazione della coscienza.
Grazia
divina, adesione dell’anima a Dio e
purificazione della coscienza sono tre cose distinte, ma le azioni sono
una nell’altra, né può esistere una senza l’altra. La volontà infatti che vede
Dio, sommo bene, è istantaneamente e naturalmente attratta; e chi è preso
davvero dall’amor di Dio, non può fare a meno di dolersi
perfettamente dei suoi peccati; se non lo facesse, il suo amore non
sarebbe amore.
In questo
processo non c’è un prima e un poi; c’è però una priorità di causa e di effetto,
più che di tempo. Dio infonde la luce e in quella luce l’anima aderisce
perfettamente a Dio: quella adesione è la carità, o amore, e
nell’amore perfetto c’è, per natura, la cancellazione d’ogni peccato. È
tutto compreso in un solo atto; ma la natura delle cose vuole che dall’amor di
Dio nasca la volontà di non peccare mai più, di servire Dio, sempre e con umile
obbedienza, di confessare i peccati interamente e senza equivoci, di espiarli e
di consacrarsi totalmente alle opere buone e all’esercizio delle virtù.
Luce della
grazia, libera conversione e purificazione della coscienza fanno parte
integrante della divina visione. Chi le ha, ha già in sé Cristo che dice: “Ecco”
ed egli vede.
Capitolo 2
Quando il
Maestro dice: Sta venendo lo sposo, ci vuole indicare la cosa sulla
quale dobbiamo concentrare la nostra attenzione, e questa è la venuta dello
sposo, che è Cristo. Però la venuta di Cristo nella nostra storia non è una
sola. La prima, e causa delle altre, è certamente quella in cui Dio, vinto da
purissimo amore per noi, volle farsi uomo, per gli uomini. Ma c’è anche
una sua seconda venuta, che grazie alla prima si attua nella discesa ch’Egli fa
ogni giorno, e più volte al giorno, nei cuori di quanti Lo amano, per
arricchirli di nuovi doni, secondo le capacità di ciascuno. E ci sarà anche una
terza venuta, che avrà luogo il giorno della nostra morte e il giorno conclusivo
dell’ultimo e tremendo giudizio.
Perché la
venuta di Cristo spieghi in noi tutta la sua grazia, dobbiamo cercare quale sia
stato il motivo di ciascuna di esse, in quale modo si siano avverate e quali
azioni le abbiano seguite.
Se ti
domandi perché Dio abbia creato gli Angeli e gli uomini, vedi subito in azione
la sua immensa bontà, misericordia e suprema dignità; capisci cioè ch’Egli lo
fece perché le creature comprendessero la sua beatitudine, grandezza,
sovrabbondanza – che è Lui stesso – e ne avessero un assaggio nella vita
presente e il godimento pieno al di sopra dei tempi.
E se ti
chiedi perché Dio s’è fatto uomo, trovi anche qui la risposta nel suo immenso
amore e nell’urgente bisogno di tutti i mortali i quali, essendo stati tutti
condannati per il primo peccato e trovandosi tutti espulsi dal Paradiso, non
potevano trovare in se stesi la capacità di compensare l’offesa fatta a Dio,
che avevano rigettato.
E se
continui a chiederti quali furono i motivi che guidarono Gesù Cristo nelle sue
azioni sulla terra, come Dio e come uomo, ne troverai quattro. Il primo è il
suo amore increato e immenso. Il secondo è l’amore creato, che è chiamato carità;
e di questa carità la sua anima era piena per l’unione col Verbo Eterno e per
il perfetto dono del Padre. Il terzo motivo è l’ingente necessità del genere
umano. Il quarto è l’onore del Padre. Questi motivi della venuta di Cristo
nostro sposo e di tutte le sue azioni interne ed esterne.
Ma ora
dobbiamo riflettere sulla stessa persona del nostro sposo, se davvero vogliamo
seguirLo, per quanto ci è possibile, nelle virtù. Dobbiamo però considerare sia
le sue disposizioni interne, sia le azioni esterne; cioè le virtù e gli atti
delle virtù. C’è in Lui una disposizione interna, che riguarda la divinità;ma
questa è inaccessibile e non potremo trattarla. Questa è la sua
ininterrotta generazione dal Padre;M è ciò che il Padre in Lui e
attraverso Lui conosce, per cui creò e crea ancora tutte le cose, le regge,
governa e dispone in cielo e in terra, poiché il Figlio è la Sapienza del
Padre; e ambedue spirano il l’unico Spirito, che è l’Amore e il vincolo che
trae l’Uno all’Altro, e anche gli Angeli e i Santi, che sono in cielo e in
terra. Ma di questa disposizione interna per ora non diremo di più, parleremo
piuttosto delle disposizioni o abiti spirituale, che sono propri di Cristo sia
per i carismi divini, sia a titolo umano. E questi abiti son tanti. Perché
quante sono le virtù interne di Cristo, altrettanti sono i suoi abiti o
disposizioni. Ciascuna virtù infatti vuole la sua disposizione. Ma le virtù di
Cristo oltrepassano i limiti della nostra intelligenza. Per nostro
ammaestramento trattiamo solo di t re: cioè dell’umiltà, della carità,
della pazienza, per imparare a d accogliere con animo sereno qualunque cosa ci
accada, dentro o fuori di noi. Queste tre virtù infatti sono principalmente le
radici e come l’avvio di tutte le virtù e di tutta la perfezione.
Capitolo 3
In Cristo
come Dio, ci sono due motivi di umiltà. Il primo è dato dal fatto ch’Egli
assunse la nostra natura umana, ch’era finita nel fondo dell’inferno, bandita e
maledetta da Dio. Ed Egli si fuse con questa natura nella perfetta unità della
Persona, così che qualunque uomo, anche il più malvagio, può con pieno diritto
chiamarLo suo fratello.
Il secondo
motivo lo troviamo nell’altro fatto che l’Unigenito, facendosi uomo, scelse per
madre una poverissima ragazza, che non ebbe poi neanche un vestito appropriato
per il suo bambino, non scelse per madre la figlia d’un potente, ma questa
poverella; questa fu la Madre di Dio, Signore del cielo e della terra e d’ogni
creatura.
Ma non
basta. La Persona di Gesù Cristo è una sola; perciò tutto quanto ci fu di umile
nella vita di Gesù Cristo, fu anche umiltà e umiliazione di Dio.
C’è poi
l’umiltà di Cristo, che fu propria della sua natura. Grazie a questa sua natura
la sua anima si assoggettò con profondissima devozione e con tutte le sue forze
alla potenza del Padre. Il suo cuore fu sinceramente umile. Egli compì tutte le
sue opere a onore e gloria del Padre, né andò mai a caccia d’un solo applauso.
Si assoggettò alle leggi, alle prescrizioni e consuetudini del suo popolo: alla
circoncisione, alla presentazione al tempio, al pagamento del suo riscatto.
Servì sua Madre e Giuseppe santo con vera e cordiale sudditanza. Si fece
istruire, pagò il tributo a Cesare, si fece battezzare da Giovanni. Si circondò
di poveri e di peccatori, li fece suoi amici e li mandò a convertire il mondo.
Sono questi i suoi Apostoli, tra i quali visse, come uno di loro. Stette sempre
a disposizione di tutti, in casa e fuori, come se fosse il naturale servo di
tutti. Questa è la virtù dello sposo Gesù Cristo, che dobbiamo contemplare in
primo luogo.
Capitolo 4
La seconda
virtù di Gesù Cristo, avvio e sorgente di tutte le altre virtù, è la carità. La
carità teneva in Lui serenamente raccolte tutte le potenze dell’anima, nel
godimento della beatitudine eterna, che Gli veniva dall’unione personale con la
divinità. La carità lo teneva unito al Padre sempre, senza interruzione,
con rispetto, amore, venerazione, lode; in intima e fervente preghiera, per i
bisogni di tutti, per il perdono di tutti, a onore e gloria del Padre.
Per questa
carità si prodigava, con benevolenza ineffabile in tutti i bisogni fisici e
spirituali degli uomini. Fece della sua vita un modello di amore per tutti.
Nutrì con la dottrina quelli che potevano capirla e parlò a tutti con la
potenza dei miracoli; nel deserto saziò di pane quanti lo avevano seguito.
Diede l’udito ai sordi, la vista ai ciechi, la parola ai muti; cacciò i demoni,
raddrizzò gli storpi, risuscitò i morti nell’anima e nel corpo. Non riusciremo
mai a scandagliare l’abisso della sua carità. Nessun uomo n’ebbe mai l’uguale,
perché in Lui le acque dell’umanità si fondevano con quelle della divinità in
un medesimo rivo.
Capitolo 5
La terza
virtù, anch’essa avvio e sorgente di tutte le virtù, è la serena tolleranza
delle avversità; e questa dobbiamo approfondirla bene, perché adornò
meravigliosamente il nostro sposo Gesù Cristo in tutti i momenti della sua
vita.
I dolori
fisici ebbero inizio in Lui appena nacque. Il freddo, la paglia pungente, la
circoncisione e il suo primo sangue, la fuga in terra straniera. L’umiliazione
nel servire sua Madre e san Giuseppe, suo tutore; la fame, la sete, la
stanchezza, gl’insulti, le ingiustizie subite dai Giudei; le veglie, i digiuni,
le tentazioni del demonio, i continui viaggi a piedi per villaggi e regioni,
per la salvezza dei Giudei i quali corrisposero al suo amore con odio e
tradimento, Lo derisero e percossero con sputi e pugni, Lo accusarono con falsi
testimoni, Lo flagellarono e coronarono di spine, Gli fecero portare la croce
fino al Calvario, Lo spogliarono sotto gli occhi di tutti e Lo issarono sulla
croce. Sangue da tutti i pori, i muscoli rabbrividivano, il corpo spasimava, le
spine penetravano nel capo; il popolo vomitava insulti. Lui guardava
l’ostinazione feroce dei Giudei e l’immenso dolore di sua Madre.
Gli occhi
Gli si appannavano per l’amarezza dei dolori mortali; la nausea, per quanto Gli
vomitavano in faccia, Lo tormentava; assaporò l’aceto e il fiele, la pelle era
tutta sangue e lividure.
Eccoti il
Cristo, nostro sposo, ferito a morte, abbandonato da Dio e dalle creature, che
muore in croce, appeso come un sacco; e nessuno se ne accorava, eccetto
l’afflittissima sua Madre, piena dei suoi dolori; ma non poté far nulla per
Lui.
Né soffriva
meno l’anima di Gesù Cristo per l’ostinata avversità dei Giudei e di quelli che
l’avevano crocifisso. Avevano visto segni e miracoli, ma erano rimasti nella
loro cattiveria. Egli soffriva per la loro rovina; perché Dio un giorno avrebbe
chiesto loro conto di quanto Gli stavano facendo. Soffriva per la pena immensa
di sua Madre e per i discepoli; per la moltitudine innumerevole di quelli per i
quali il suo sangue era inutilmente versato. Si affliggeva per l’ingratitudine,
per i sacrileghi giuramenti che sarebbero stati pronunciati a scorno di Lui che
moriva per nostro amore.
I sensi di
Gesù Cristo provarono dolori acutissimi, perché venne loro meno l’afflusso di
felicità che scorreva in essi in forza dell’unione ipostatica – umanità e
divinità erano unite nella stessa Persona e l’una non poteva essere assente
alla felicità dell’altra –; sensi e istinti furono lasciati a se stessi, per
cui Gesù Cristo gridò: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» [Mt (27,46]
Eppure, tra
tutti questi dolori e afflizioni Gesù pregò: «Padre, perdona loro, non sanno ciò
che fanno» [Lc 23,34]; e fu ascoltato per la sua dignità [cf Eb
5,7]. Quanti infatti Lo stavano insultando, poi si convertirono alla
predicazione di Pietro [cf At 2,14,41]!
Questo ha
sofferto Gesù, il nostro sposo!
Egli
esercitò l’umiltà, la carità, la pazienza, tutti i momenti della sua vita; morì
in loro compagnia, per saldare il conto di tutti i nostri debiti; aprì anche
misericordiosamente il suo fianco, dal quale sgorgarono come un fiume di vita,
i sacramenti della salvezza.
Poi salì al
cielo, siede alla destra del Padre, e regnerà per sempre.
Questa è la
prima venuta del nostro sposo; venuta che si è già perfettamente compiuta.
Capitolo
6
La seconda venuta di Cristo, che scende ogni giorno nei
nostri cuori con nuove grazie
La seconda
venuta di Cristo nostro sposo, avviene ogni giorno nel cuore dei buoni, che Lo
invocano con tutte le loro forze; ed Egli porta loro nuove grazie e nuovi doni.
Qui non si
tratta della prima conversione né della grazia preveniente, che Dio concede
perché il peccatore si converta, ma del progresso che l’anima fedele fa ogni
giorno nelle virtù, grazie alla discesa quotidiana di Cristo, nostro sposo,
nelle nostre anime e dei nuovi doni che vi diffonde
La causa, o
le cause della seconda venuta sono quattro: la pura misericordia di Dio, la
nostra indigenza, la generosità divina, il nostro desiderio. Da questi quattro
motivi prendono alimento e crescono meravigliosamente le virtù. Per maggiore
chiarezza faccio un paragone. Se il sole si porta a picco sopra una valle
stretta tra due pareti di roccia, ma in modo che’esso possa farvi giungere i
suoi raggi fino in fondo, abbiamo tre effetti: la valle riceve più luce grazie ai
riflessi delle pareti, e quindi si riscalda di più e diventa più fertile di una
pianura aperta ai venti. Allo stesso modo, quando un uomo buono si adagia nella
profondità della sua piccolezza e riconosce ch’egli non è niente, che non ha e
non può nulla con le proprie forze, che non riesce a fare un passo e neanche a
perseverare, che spesso viene meno e manca in molte cose che dovrebbe fare,
egli prende più chiara coscienza della povertà e inadeguatezza dei suoi
mezzi, scava ancora più a fondo nella valle della sua umiltà e mette la sua
insufficienza sotto i raggi della bontà divina. La valle è profonda ma
Cristo, Sole di giustizia, sta al vertice dello splendore, alla destra del
Padre, e di là manda i suoi raggi nelle profondità del cuore degli uomini. Egli
non resta mai insensibile alle preghiere degli umili. Dal fondo della valle,
allora, vengono su due steli: il desiderio di servire e lodare Dio e il
desiderio di coltivare nel modo più perfetto le virtù. I due steli crescono
rapidamente, attraverso i cieli, raggiungono direttamente Dio stesso,
trafiggono la sua generosità misericordiosa, che si apre e inonda la valle.
L’anima, cioè, riceve nuovi e più abbondanti doni.
È questa la
seconda venuta o il secondo avvento di Cristo.
Il cuore
umile, quindi, è arricchito in tre modi: è illuminato più intensamente dalla
grazia, si accende d’amore più vivo, diventa più fertile di virtù e opere
buone.
Capitolo
7
Il progresso quotidiano attraverso i sacramenti della
Chiesa
Quando uno
riceve un sacramento con cuore umile e puro di tutto ciò che è contrario al
sacramento stesso, riceve nuove grazie e nuovi doni, sia per l’umiltà ch’egli
esercita, sia per l’azione che Cristo esplica nel sacramento.
Impedimenti
all’efficacia del sacramento sono: nel battesimo, la mancanza di fede; nella
penitenza, la mancanza di dolore e nella Comunione il peccato mortale. In ogni
sacramento chiunque pretenda di riceverlo rimanendo invischiato nel peccato
[mortale], non solo non riceve nuova grazia, ma commette peccato più grave.
Questo
dobbiamo tener presente, perché il secondo avvento di Cristo accresca il nostro
profitto. Cristo nostro sposo è sempre a nostra disposizione, e noi dobbiamo
cercarLo con cuore assetato, se vogliamo davvero ch’Egli agisca in noi e ci
aiuti a perseverare nel bene e a camminare verso i cieli beati.
Capitolo 8
Incontreremo
Cristo per la terza volta al momento della morte e al giudizio finale
dell’umanità. Anche qui dobbiamo considerare tre elementi: il tempo, il motivo,
il giudice.
Il tempo di
questa venuta è l’ultimo istante della vita e il giorno del giudizio finale,
quando tutto il mondo sarà giudicato.
Il giudizio
dev’esserci, perché Dio ci ha creati dal nulla e al momento in cui unisce
l’anima al corpo, fissa anche l’ora della separazione; anche se a noi quest’ora
è sconosciuta. Ed è giusto che quest’anima si presenti all’eterna verità e
renda conto delle sue parole e delle sue azioni. È giusto, perché è creata
libera, ma da un Altro, e in un complesso ordinatissimo.
Il giudizio
spetta a Cristo, perché è il Figlio dell’uomo, la Sapienza del Padre e il
modello dell’uomo nuovo; è giusto che s’aprano e si manifestino a Lui i cuori
degli uomini in cielo, in terra e negli abissi.
Capitolo 9
Cristo,
nostro sposo e nostro giudice, giudicherà secondo giustizia; darà a ciascuno ciò
che s’è meritato: ai buoni, per ogni opera buona fatta per Lui con retta
intenzione, darà un premio inestimabile, immenso: Se Stesso. Questo premio,
naturalmente, non potrà essere conseguito da nessuna creatura a titolo di
giustizia, perché la perfezione suprema di Dio non può essere oggetto di patto;
ma è possibile avere in premio Dio, grazie alla presenza efficace di Dio stesso
nell’uomo.
Ai cattivi
invece, per esigenza di giustizia essenziale ed eterna, Cristo giudice
disprezzato dovrà assegnare una pena eterna, perché essi, per un bene vile e
caduco, disprezzarono il bene eterno e immenso, liberamente e, di
proposito, si opposero alla volontà di Dio, Creatore e Signore, e gli
preferirono delle creature.
I testimoni
che deporranno in questo giudizio saranno gli Angeli e la coscienza di ciascuno
di noi. Il diavolo riserverà a sé la parte di accusatore. Giudice infallibile e
incorruttibile sarà Gesù Cristo.
Capitolo 10
Sono cinque
le categorie di persone che verranno al giudizio.
La prima e
la peggiore è quella dei cristiani che conclusero la loro vita in peccato
mortale e senza dolore. Essi disprezzarono la morte e i sacramenti di Cristo, o
se ne servirono indegnamente; non amarono il prossimo, com’era loro comandato,
e non fecero opere di misericordia.
La seconda
comprende pagani e Giudei. Compariranno anch’essi innanzi al Giudice. Vissero
tutta la vita nell’antica condanna: non accolsero mai la grazia di Dio né il
suo amore; ma subiranno una pena inferiore a quella degli empi cristiani, perché
essi non ricevettero i doni che questi hanno ricevuto (1).
La terza
categoria è quella dei buoni cristiani, che conobbero anche il peccato e
sebbene ne fossero pentiti, non fecero in tempo a lavarsene completamente;
questi continueranno la loro purificazione nel Purgatorio.
La quarta
categoria abbraccia tutti quelli che osservarono i precetti fedelmente, e anche
se caddero talvolta, tornarono a Dio con la contrizione, con la penitenza e con
atti di misericordia, e si lavarono le vesti così bene che voleranno subito in
Paradiso.
Nella
quinta categoria sono quei benedetti che, sebbene col corpo si muovano ancora
sulla terra, in realtà le loro anime vivono già in cielo, unite e immerse in
Dio, e Dio vive in essi, in modo che tra loro e Dio non c’è altro diaframma che
il tempo e la condizione mortale. Perciò, appena liberati dal corpo, nel
medesimo istante saranno immersi nella beatitudine eterna. essi non saranno
giudicati; piuttosto giudicheranno il mondo insieme a Cristo.
Sarà la
fine. I dannati saranno seppelliti nel fuoco dell’inferno, senza fine, col
diavolo. Gli eletti, all’istante, si troveranno nella gloria eterna con lo sposo
Gesù Cristo e per tutta l’eternità contempleranno la ricchezza infinita di Dio,
la gusteranno pienamente e la godranno indisturbati.
Questa è la
terza venuta dello sposo Gesù Cristo, che aspettiamo.
La prima
venuta, per la quale Dio si fece uomo, visse in umiltà e per noi morì, ci serve
da modello, perché coltiviamo nelle nostre azioni i modi perfetti delle virtù e
li nutriamo internamente con la carità e umiltà dello sposo Gesù Cristo.
La seconda
venuta nella quale Cristo scende ed è presente nel cuore di chi Lo ama,
dobbiamo desiderarla e, con insistenti preghiere, dobbiamo chiedere a Dio la
perseveranza nel ben e la crescita costane nell’esercizio delle virtù.
La terza
venuta, nel giudizio particolare e nel giudizio universale, dobbiamo attenderla
con fiducia e riverenza, perché terminato l’esilio, veniamo introdotti nel
regno della gloria.
Capitolo 11
Come
abbiamo detto nell’esordio, Cristo c’invita a guardare; e abbiamo parlato di
questo vedere che ci viene dalla grazia attraverso la carità, con la libera
adesione della volontà e purezza di coscienza. Abbiamo poi spiegato, attraverso
le tre venute di Cristo, che cosa dobbiamo guardare. Adesso sentiamo che cosa
Egli vuole che facciamo, quando dice: Uscite, andate.
Chiunque ha
guardato attraverso la grazia e la carità e ha seguito Cristo suo modello nelle
sue venute, sentirà certamente nascere dentro di sé, per via della carità e
dell’amorosa contemplazione del Signore Gesù Cristo, suo sposo, una specie di
doverosa giustizia che lo spinge a imitare Gesù Cristo nelle sue virtù. È
proprio questo sentimento di doveroso ricambio che vuole suscitare in noi lo
sposo quando c’invita a muoverci, ad uscire.
Sono tre le
direzioni che l’anima può prendere: Dio, se stessa, il prossimo, ma qualunque
sia la direzione, il cammino non può non essere fatto senza la compagnia
dell’umiltà, della carità e della giustizia.
La carità
tende sempre al regno di Dio, a Dio stesso che è fonte e sorgente della carità,
e da Lui questa virtù ci viene direttamente, senza canali, e in Lui abita
sempre.
La
giustizia, che nasce dall’amore, s’adopera sempre ad acquistare le virtù che
s’addicono al regno di Dio e a se stessa.
La carità e
la giustizia, nell’anima in cui regna Dio, gettano le basi di una profonda
umiltà. Così queste tre virtù sostengono la mole dell’intero edificio della
santità. La carità tiene l’anima ininterrottamente innanzi a Dio, dal quale
essa viene, perché viva sempre degna di Dio, perseveri e cresca in tutte le
virtù e nella vera umiltà.
La
giustizia pone l’anima innanzi all’eterna verità, che è Dio, perché veda e
comprenda tutto correttamente e pratichi, senza errori e sempre, tutte le virtù.
L’umiltà
mette l’anima in perpetua contemplazione della potenza e maestà di Dio, perché
rimanga spiritualmente piccola e umile, s’affidi a Dio e si ritenga un nulla.
Questo è il modo di trattare con Dio, se si vuol crescere sempre in virtù.
Capitolo 12
Poiché
abbiamo detto che l’umiltà è il fondamento di tutte le virtù, è giusto che nel
tracciare il cammino della perfezione partiamo da questa.
L’umiltà
interna è una sottomissione del cuore innanzi alla sublime dignità di Dio;
questa sottomissione la esige la giustizia di Dio, ma la desidera anche la
carità, poiché l’anima che ama Dio vuole sottomettersi a Lui. Infatti, quando
uno pensa con quanto amore, umiltà e lealtà Dio ha servito l’uomo; Lui, Dio,
così potente, forte, eccelso, che si è fatto così povero, spregevole, incapace;
quando un uomo, dico, ne prende coscienza, non può non concepire un sentimento
di profonda ammirazione e riverenza.
Diversamente
da quanto si potrebbe pensare, rendere onore a Dio in tutti gli atti interni ed
esterni, tutta’altro che mortificante, è cosa giocondissima; è il primo e il più
grande interresse dell’anima umile, ed è insieme cosa dolcissima per la carità
e la più dignitosa per la giustizia. Il cuore che ama non si sazia mai di
venerare Dio e la sua splendida umanità, e non riesce mai a disprezzarsi quanto
vorrebbe; gli sembra di essere sempre impari e difettoso nel suo rapporto con Dio
e nel suo servizio. Un cuore umile venera anche la Chiesa e i suoi sacramenti; è
moderato nel cibo, nel bere; nelle parole e nel tratto, non va oltre il
necessario; è modesto nella conversazione, nell’abbigliamento; rispettoso nei
modi, umile e semplice nel gesto, così attento che nessuno può mai ricevere un
torto da lui. In questo modo vince e disperde la superbia, causa di tutti i
vizi.
Con l’umiltà
si spezzano le reti del demonio, del mondo e del peccato; l’uomo si raccoglie
in se stesso, si pone nel posto giusto, e gli si aprono le porte del cielo; Dio
è sempre pronto ad ascoltare le sue preghiere, ed egli viene riempito di
grazia, vive fondato sulla salda roccia di Cristo, nel quale non può errare,
chi costruisce in umiltà le sue virtù.
Capitolo 13
Dall’umiltà
nasce l’obbedienza. Nessuno può essere cordialmente obbediente se non è umile.
L’obbedienza è la sottomissione e la disponibilità di un’anima pronta a
qualsiasi virtù. L’obbedienza porta l’uomo ad eseguire ordini e proibizioni
divine e ne assoggetta gli istinti alla ragione: lo fa ossequiare alla Chiesa,
ai prelati e verso le consuetudini ecclesiali; disposto a fare tutto ciò che,
nell’ordine materiale e spirituale, la necessità e la ragione richiedono.
L’obbedienza
rifiuta l’insubordinazione, figlia della superbia, come veleno mortale.
L’obbedienza interna ed esterna è segno, prova e ornamento dell’umiltà; mette
pace nelle comunità, alimenta il rispetto verso i prelati e la benevolenza
verso gli uguali; l’uomo obbediente viene esaltato da Dio e arricchito di doni
eterni.
Capitolo
14
L’obbedienza
genera il rinnegamento della volontà, del proprio giudizio e sentimento. Non può
infatti rinunziare alla propria volontà e assoggettarla a un altro, uno che non
sia cordialmente obbediente; anche se è possibile piegarsi esternamente
conservando la volontà contraria. Il rinnegamento della propria volontà rende
l’uomo capace di rinunziare alle proprie scelte, di non attribuirsi nulla, di
non fare nulla che sia peregrino, o che sia difforme dalla dottrina e dalla
vita dei Santi; egli fa solo ciò che dà onore a Dio, ciò che corrisponde agli
ordini dei superiori e favorisce la pace di quelli che sono con lui, fin dove
il buonsenso e la discrezione gli permettono.
Con questo
rinnegamento della propria volontà nell’agire, nel non fare e nel tollerare viene
distrutto ogni stimolo e causa di superbia; l’umiltà è portata alle stelle, Dio
prende pieno possesso dell’uomo, la cui volontà si fonde con quella di Dio. un
uomo di questo genere si è spogliato dell’uomo vecchio e s’è rivestito
dell’uomo nuovo, rinnovato e rifinito secondo l’amatissima volontà di Dio. Di
questi Cristo dice: «Beati i poveri di spirito» [Mt 5,3] che hanno
rinunziato alla loro volontà; perché proprio di questi è il regno dei cieli.
Capitolo
15
Dalla
rinunzia alla propria volontà deriva la pazienza, poiché non può essere
pienamente paziente se non chi si rimette non solo alla volontà di Dio, ma
anche a quella degli uomini, quando l’utilità e l’onestà lo richiedono.
La pazienza
è la tolleranza serena di quanto ci accade da parte di Dio e delle creature.
Niente turba colui che è paziente: né la perdita dei beni, dei parenti, degli
amici; né la cattiva salute, l’umiliazione, la morte; né il Purgatorio, il
demonio e neppure l’inferno, poiché egli si è affidato con vero amore alla
divina volontà e, dal momento che la sua coscienza non gli rimprovera nessun
peccato, gli è facile tollerare qualunque cosa voglia far di lui Dio, nel tempo
e nell’eternità.
Questa
pazienza fortifica, adorna e arma l’uomo contro l’ira e i suoi scatti e contro
l’impazienza nelle cose avverse e moleste che molto spesso, dentro e fuori,
turbano l’uomo e lo espongono a varie tentazioni.
Capitolo 16
La pazienza
è madre della mansuetudine, e nessuno può essere mite e mansueto nelle avversità
se non è paziente. La mansuetudine dona all’uomo pace e tranquillità di animo,
in tutte le cose. Colui che è mite sa affrontare con moderazione e dolcezza,
parole aspre, modi duri, azioni cattive e tutto ciò che può offendere la sua
persona e i suoi cari. In ogni circostanza rimane in pace, perché la sua
mansuetudine è proprio l’abitudine di tollerare tutto, senza scomporsi.
Grazie alla
mansuetudine, l’istinto dell’ira se ne sta tranquillo, e lo sprone del
desiderio delle virtù viene rafforzato ed elevato; la ragione riconosce questo
stato e ne gode, la coscienza è tranquilla, anche perché il secondo vizio
capitale – l’ira – viene sradicato dalla mansuetudine. Lo spirito del Signore
riposa sull’animo mansueto e umile; per questo Gesù disse: «Beati i miti, perché
possederanno la terra» [Mt 5,5], cioè terranno tranquillo il proprio
corpo, la propria natura e le cose terrene.
Capitolo
17
Dalla
mansuetudine proviene naturalmente l’indulgenza. Non può essere indulgente e
soccorrevole chi non è mansueto. L’indulgenza modella il gesto e il volto
dell’uomo; lo rende amabile e lo induce a rispondere con soavità e amore, e a
prestare qualsiasi soccorso a quelli che sono agitati ed esasperati, purché ci
sia una speranza che riconoscano i loro torti e si emendino. Attraverso
l’indulgenza, la carità diventa vitale e fruttuosa. Un cuore indulgente è una
lampada piena di ottimo olio. L’olio dell’indulgenza dà luce ai peccatori
induriti col buon esempio, unge e medica i cuori strapazzati o feriti,
esacerbati da dure parole o azioni molto scortesi. Se vi aggiungi l’ardore
della carità, l’indulgenza diventa un faro in coloro che sono già avanti nella
virtù. Non c’è malevolenza o invidia che possa arrivare a ferire un animo
veramente indulgente.
Capitolo
18
L’indulgenza
conduce alla compassione, che ci dispone a soffrire con chi soffre. La
compassione è una mozione interna dell’animo verso le necessità corporali e
spirituali degli uomini. È la stessa virtù che ci fa compatire Cristo
sofferente, quando ci fermiamo a meditare le ragioni e la gravità delle sue
pene, la sua rassegnazione, l’amore, le ferite, la delicatezza dei suoi sensi,
i flagelli, l’ignominia, la corona di spine, i chiodi, la sua dignità,
dolcezza, benevolenza e la somma accondiscendenza con la quale il nostro Sposo
si avviò alla morte.
Le inaudite
e molteplici pene di Cristo, nostro Redentore e Sposo, riempiono di compassione
l’anima pia. Ma proprio per questa compassione ti fa pensare quanto poco tu
avanzi nelle virtù e quanto spesso manchi nel loro esercizio e nella giusta
venerazione di Dio. ti scopre la tua tiepidezza, instabilità e fragilità, il
numero grande dei tuoi difetti e vizi, il tempo sciupato, le imperfezioni della
condotta; e quanto più scendi nella tua coscienza, tanto più ti senti miserabile.
La
compassione ti svela la tua cecità e dimenticanza di Dio e dei beni eterni, la
tua ingratitudine di fronte ai doni di Dio e alle pene che Gesù Cristo ha
sofferto per te, che rimani così insensibile e indifferente alla virtù, mentre
invece sei così astuto nel male, tanto accorto e puntiglioso nella ricerca dei
beni temporali quanto pigro e trascurato nell’amore dei beni eterni.
Questa
considerazione suscita nel cuore dei buoni un grande amore per la salvezza del
prossimo: una compassione che li muove a prendersi cura delle necessità e
sofferenze degli altri; della fame, sete, nudità, malattie, disprezzo,
oppressione, dolori, perdita dei loro congiunti e dei loro beni. L’uomo buono
si associa al dolore di tutti e trova anche motivo di pena nel vedere
l’impazienza e la ribellione di quelli che soffrono, poiché perdono il merito
della sofferenza, se non se ne fanno addirittura un motivo di condanna.
Questa è la
funzione della compassione. La sua opera di amore vince il terzo vizio
capitale, l’odio, o invidia; poiché la compassione ferisce il cuore e lo
dispone ad amare tutti, e quella ferita non guarisce più, perché Dio ha
disposto che proprio alla compassione, più che a qualsiasi altra virtù, sia
affidato il compito di portar via lutti e dolori dia cuori umani. Perciò Cristo
dice: «Beati quelli che piangono; saranno consolati» [Mt 5,4];
naturalmente, quando raccoglieranno con gioia ciò che adesso seminano con molto
dolore [cf Sal 126(125),5].
Capitolo
19
Dalla
compassione e dalla misericordia deriva la generosità. Poiché nessuno può avere
una soprannaturale generosità se non è misericordioso; misericordia però che
sia vera carità e soprannaturale virtù, poiché accade che si copra una persona
di doni e favori, ma per una personale simpatia, per vanagloria, per interesse
o speranza di ricavarne un vantaggio più grande; ma questa non è misericordia.
La
generosità che interessa noi è un’effusione di cuore, larga e indifferenziata,
promossa dalla misericordia.
Se uno si
mette a considerare con amore la passione e i tormenti del Signore Gesù Cristo,
sente spontaneamente risvegliarsi in cuore il bisogno di esprimere a Cristo, in
compenso, amore, ringraziamento, onore, rispetto ed anche una gioconda
disponibilità dell’anima e del corpo, e non solo per la durata della vita, ma
anche per tutta l’eternità. Se poi continua a guardare se stesso, i doni
ricevuti da Dio e la propria peccaminosa negligenza, non può rifugiarsi nella
divina misericordia, clemenza e grazia, col proposito di servire Gesù Cristo
con la più sincera e ferma volontà.
E se,
inoltre, l’uomo pio e generoso riflette sulla malvagità e sull’ingiustizia
degli uomini, si rivolge con ancora più intima fede a Dio e Lo prega che non si
stanchi di spandere i suoi doni, di continuare ad effondere la sua
misericordia, perché tutti Lo conoscano e vedano la verità.
Con questa
generosità si esercitano le sette opere di misericordia; i ricchi danno cose
temporali, i poveri pio affetto e buona volontà. Così si esprime e si
perfeziona la generosità; la quale viene dal profondo del cuore, moltiplica e
accresce tutte le virtù, fa più belle tutte le potenze dell’anima. chi è
generoso, infatti, è sempre gioviale, non è oppresso da affanni, è
affettuoso con tutti, vuole bene a tutti ed è pronto a soccorrere tutti.
Chi è generoso e non è attaccato ai beni terreni, anche se è povero, è simile a
Dio, perché desidera effondere, donare, far del bene, mettendo a disposizione i
suoi sensi perfino la sua anima. Perciò, chi è generoso strappa dal suo cuore
le radici del quarto vizio, che è l’avarizia.
Di questi
il Cristo dice: «Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia» [Mt
5,7] e un girono sentiranno la voce che dirà loro: «Venite, benedetti del Padre
mio, prendete possesso del regno che fu preparato per voi fin dalla creazione
del mondo» [Mt 25,34].
Capitolo
20
Questa
generosità genera una certa soprannaturale fortezza e zelo per tutte le virtù e
per tutto ciò che è onesto e necessario. Questa fortezza però non la raggiunge
se non uno che ci si mette d’impegno ed è generoso. Essa è infatti un impulso e
stimolo perpetuo e ininterrotto verso tutte le virtù, seguendo le impronte di
Gesù Cristo e di tutti i Santi. Colui che è dotato di questa fortezza non vede
l’ora d’impegnare per la gloria di Dio il corpo, l’anima, il cuore, tutto ciò
che egli è, che ha, e che riesce a ottenere. Questa fortezza e zelo fanno
sì che l’uomo sia vigilante con discrezione e pratichi tutte le virtù secondo
giustizia. Attraverso lo zelo soprannaturale di questa virtù si spalancano a
Dio tutte le potenze dell’anima e diventano pronte e sollecite; il cuore
s’innalza, la grazia cresce, la pratica delle virtù diventa gioconda, ilare,
esilarante, gli atti esterni si abbelliscono. Insomma chi raggiunge questo
grado di fortezza ha già debellato il quinto vizio capitale, che è l’accidia:
quel torpore e fastidio delle virtù necessarie alla salvezza; ma vince anche
quella certa indolenza e pigrizia che s’impadronisce di tanto in tanto dei
sensi e del corpo.
A coloro
che posseggono questa virtù s’addice la parola del Salvatore: «Beati quelli che
hanno fame e sete di giustizia; saranno saziati» [Mt 5,6]. Saranno
saziati, s’intende, quando sarà manifestata la gloria di Dio e Dio stesso
sazierà ciascuno in proporzione del suo amore e della sua giustizia.
Capitolo
21
Dalla
fortezza nasce la sobrietà e temperanza, all’interno e all’esterno. Non può infatti
tenere tranquillamente una linea di sobrietà se non colui che, al di sopra del
comune, con vero amore, controlla e dirige la sua anima e il suo corpo.
La sobrietà
distingue nettamente le forze superiori dello spirito dagli istinti bestiali, e
tiene l’uomo lontano da ogni eccesso. Non conosce e non gusta ciò che non è
lecito.
La natura
di Dio, sublime e inafferrabile, si leva di gran lunga al di sopra delle cose
della terra e del cielo. Tutto ciò che la creatura può afferrare, è sempre una
creatura. Dio è al di sopra, al di fuori, eppure è dentro ogni creatura; ma la
portata intellettiva della creatura è troppo angusta per poterLo racchiudere in
sé. Perché la creatura possa tenere in sé il suo Creatore, deve sollevarsi al
di sopra di se stessa e prendere Dio in Dio. perciò, se qualcuno pretende di
rendersi conto da sé dell’essenza di Dio e si spinge a una cosa impossibile e
rischia la pazzia. Tanto è evidente che ogni umana intelligenza fallisce in
questa ricerca e non riesce a sapere che cosa è Dio, e questo per la semplice
ragione che l’essenza divina è troppo grande per ogni creatura. Ma che Dio ci
sia, lo si può sapere, e lo afferma la natura, la Scrittura ed ogni creatura.
Gli articoli della fede vanno accettati, creduti; ma il loro contenuto non può
essere giudicato; questo è proprio della sobrietà. Finché siamo in terra, non
possiamo penetrare pienamente gli articoli della fede. Anche le norme della
Scrittura, che sono opera dello Spirito Santo, vanno comprese e spiegate alla
luce di Gesù Cristo e della vita dei Santi. Osservi pure, chi vuole, la natura,
la Scrittura, tutto il creato, ma non ne prenda se non ciò che gli è utile;
questa è sobrietà di spirito.
Ma c’è
anche una sobrietà dei sensi da osservare, la quale aiuterà a fare in modo che
gl’istinti bestiali vengano controllati dalla ragione, perché l’appetito del
cibo e della bevanda, stimolato dal gusto, non ci spinga ad eccessi; e gli
alimenti vanno presi nella stessa misura in cui un malato prende le medicine;
cioè a seconda della necessità e per disporre meglio delle forze a favore delle
opere della gloria di Dio. Questa è la sobrietà dei sensi, o del corpo.
È sobrietà
anche la moderazione nelle parole, negli atti, nel tacere, nel parlare, nel
fare, nell’omettere, a seconda delle disposizioni e delle consuetudini della
Chiesa e dei Santi.
Con la
sobrietà di spirito si conserva la certezza della fede, la purezza
dell’intelligenza nella ricerca della verità, l’inclinazione alla virtù, la
serenità di coscienza, senza angosce né scrupoli; e questa è la chiave della
pace con Dio e con se stessi.
Con la
sobrietà dei sensi e del corpo si conserva la sanità, l’equilibrio del
temperamento, l’onestà della vita e dei rapporti, l’integrità del buon nome; si
conquista la pace con se stessi e con gli altri, poiché si ottiene la simpatia
dei buoni.
La sobrietà
espelle il sesto vizio capitale che è la gola, o voracità. Di questi Cristo
dice: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio» [Mt 5,9];
poiché sono simili al Figlio del Padre, il Quale, per quanto dipendeva da Lui,
fece pace con tutti quelli che lo vollero; ed Egli distribuirà l’eredità
paterna, perché la godano con Lui eternamente, a tutti coloro che, praticando
la sobrietà e la temperanza, mettono pace tra i fratelli.
Capitolo 22
La sobrietà
del corpo e dello spirito genera candore e castità, ma nessuno può essere
perfettamente casto e puro di animo e di corpo, se non pratica la sobrietà del
corpo e dello spirito. La castità consiste nel non aderire, con affetto
sensibile, a nessuna creatura, e nell’essere innestato solo in Dio. Le cose
create son fatte per essere usate; solo del Creatore si vive.
C’è una
castità dello spirito, una castità del cuore e una castità del corpo.
La castità
dello spirito importa una unione con Dio più profonda di quella che intercorre
tra l’intelletto e la cosa compresa, tra i sensi e le cose sentite, tra l’anima
e i doni in essa infusi da Dio. tutto ciò infatti che la creatura può
assimilare con l’intelligenza, o con i sensi, questa castità si sforza di
superarlo, perché si vuole fermare solo in Dio. perfino al Sacramento
dell’altare, perciò, non ci si accosta né per il desiderio né per il gusto,
affetto, pace, dolcezza che se ne prova, né per qualsiasi altro motivo che non
sia la gloria di Dio e la crescita della santità; questa è la castità dello
spirito.
La castità
o purità del cuore, invece, consiste in questo che in ogni tentazione del corpo
o stimolo della natura, ci si rivolga spontaneamente a Dio con rinnovata
fiducia e viva speranza, senza esitazione o incertezza, e con determinata
fedeltà nel suo servizio. Acconsentire infatti volontariamente al peccato e ai
piaceri della natura, ai quali essa tende, come gli animali, è impurità del
cuore e allontanamento da Dio.
La castità
del corpo infine consiste ne l fuggire ed evitare qualsiasi atto di
libidine e piacere che la coscienza dichiari osceno, perché ripugnante alla
legge, all’onore e alla volontà di Dio.
È per
questa triplice castità che si elimina il settimo vizio capitale che è la
lussuria. La quale importa l’abbandono di Dio e il godimento illecito di cose
create, o anche solo l’indugio del cuore nel suo desiderio. Non intendo però
includere in questi desideri quei movimenti repentini degli istinti, che
nessuno può evitare, perché si verificano prima che la ragione li conosca.
Vale la
pena aggiungere qui che la purità di spirito conserva l’uomo simile a Dio,
libero dalle creature, incline, dedito e unito a Dio. La castità del corpo
viene paragonata sia al candore del giglio, sia alla purezza angelica; per la
lotta poi che esige contro la libidine, è rassomigliata al rosso della rosa e
alla dignità dei martiri. Anzi, quando questa lotta è accettata e combattuta
per la gloria e per l’onore di Dio, allora si ha la perfetta castità, e viene
paragonata all’eliotropio, che è una pietra di speciale decoro e ornamento.
La castità
del cuore accresce la grazia di Dio; per essa meditiamo, esercitiamo,
conserviamo, coltiviamo le virtù. Essa tiene raccolti e rafforza i sensi
esterni, mentre, all’interno, frena e doma gl’istinti brutali. È il decoro e
l’ornamento dell’uomo interiore; chiude il cuore alle cose terrene e ai fallaci
allettamenti, mentre lo apre alle cose celesti e alla verità. Perciò Cristo
dice: «Beati i puri di cuore; essi vedranno Dio» [Mt 5,8]. Nella quale
visione è compresa la gloria eterna, la nostra mercede e il nostro ingresso
nella felicità eterna. perciò bisogna coltivare la sobrietà, conservare sempre
la temperanza, e bisogna guardarsi da compagni e occasioni nelle quali la
purezza dell’anima o del corpo possa essere macchiata.
Capitolo
23
Se vogliamo
raggiungere e conservare le virtù di cui abbiamo parlato e sbaragliare i vizi
che sono loro contrari, dobbiamo essere ripieni di giustizia, e la dobbiamo
coltivare con cuore puro, fino all’ultimo respiro. Abbiamo infatti contro di
noi tre nemici potenti, che dappertutto e in molti modi ci fanno guerra. E, se
facciamo pace anche con uno solo di loro e gli diamo ascolto, veniamo
totalmente sconfitti, perché essi sono sempre, tutti e tre, in accordo completo
tra loro. I tre nemici sono: il demonio, il mondo, la carne; e quest’ultima,
poiché fa parte di noi stessi, è il nemico più pernicioso e mortale. Per di più
i nostri stessi istinti sono le armi con le quali i nostri avversari ci
combattono; infatti, mentre l’ozio, l’indolenza e il nostro scarso interesse
per le virtù e per l’onore di Dio sono causa ed esca della guerra, la fragilità
della natura, la vigilanza svogliata e l’ignoranza sono le spade con cui questi
nemici ci feriscono e ci battono.
Bisogna
fare perciò una netta distinzione in noi stessi. C’è in noi una parte inferiore
che è bestiale e ci fa guerra continua e tenta di staccarci da Dio; dobbiamo
combatterla con decisione e costanza, con atti di penitenza e con un ostile di
vita forte, in modo che rimanga sempre soggetta alla ragione, e la giustizia e
la purità di cuore abbiano sempre il comando delle azioni virtuose, e perfino
le avversità diventino occasioni utili per accrescere la gloria di Dio. Cristo
infatti dice: «Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia. Di
questi è il regno dei cieli» [Mt 5,10]. Questa giustizia ed i suoi atti
sono la moneta con cui si compra la vita eterna.
Con queste
virtù facciamo l’uscita, della quale parla il Maestro nella sua
parabola.
Capitolo
24
Chi vuole
acquistare e proteggere queste virtù deve disporre la sua anima a guisa d’un
regno.
Regina del regno sarà la volontà libera per
sua natura e ancora più per la grazia che l’inonda.
Corona della regina sarà la carità, ma
l’investitura e il governo vengono direttamente dall’Imperatore Supremo e Re
dei re.
Il
palazzo della
regina – la volontà – sta nella capitale del regno, che è la facoltà
concupiscibile dell’anima.
Il manto della regina è diviso in due zone:
a destra c’è la virtù divina, dono dello Spirito Santo, con cui la volontà potrà
superare tutti gli ostacoli e dimorare nel palazzo dell’Imperatore, dinanzi al
Quale, con sviscerato amore, piega il capo coronato, poiché è opera della carità,
che ella abbia la corona e il regno. La parte sinistra del manto simboleggia la
virtù della fortezza, con la quale la regina frena e azioni disordinate,
esercita le virtù e governa con autorità.
Consiglieri, scelti tra i più sapienti del
regno, sono la scienza e il discernimento, illuminato dalla grazia. Essi
abitano presso la regina, nel suo palazzo; sono rivestiti con l’abito della
moderazione, perché la regina non faccia nulla e non ometta nulla senza previa
ponderazione.
La regina nominerà
giudice del suo regno la stessa giustizia; e questa è virtù divina, deriva
dalla carità e ha un ruolo principale tra le virtù cardinali. Il suo posto
nell’anima è al centro della facoltà irascibile; la prudenza è il suo
ornamento, poiché non può esservi giustizia senza prudenza.
La
giustizia, a nome della regina, controllerà tutto il regno e col suggerimento
dei suoi consiglieri assolverà o condannerà, secondo ragione e moderazione.
Tutte le
facoltà dell’anima costituiscono la plebe del regno e saranno ben
fondate nell’umiltà, sottomesse a Dio e ciascuna alla propria virtù, secondo il
proprio ufficio.
Chi si
governa a questo modo, cammina certamente nella direzione di Dio, di se stesso
e del prossimo. Questa è la triplice uscita, indicata dal Maestro con la parola
Uscite, o andate.
Capitolo
25
Dopo che
l’uomo per grazia di dio ha guardato, ha purificato la coscienza e ha meditato
sulla triplice venuta di Cristo e ha fatto la sua uscita, avviene l’incontro
con lo Sposo. E questa è la quarta e ultima parte del primo trattato.
In questo
incontro è riposta la nostra salvezza, il principio e lo scopo di tutte le virtù,
poiché, senza l’incontro, nessuna virtù ha vita. chi vuole andare incontro allo
Sposo amatissimo e vivere in Lui e con Lui per la vita eterna, deve andarGli
incontro in questa vita mortale in tre modi:
a) facendo
di Dio il motivo e lo scopo di tutte le sue azioni;
b) niente
sia amato più di Dio, né quanto Dio;
c) che in
Dio abbiano termine tutte le aspirazioni; in modo ch’Egli stia davvero al di
sopra di qualsiasi dono di Dio, virtù, opera buona, ed anche al di sopra di
qualsiasi grazia sensibile infusa da Dio stesso.
Qui c’è
bisogno d’una spiegazione.
Chi vuole
andare incontro a Cristo, in tutto ciò che fa, deve avere Dio come scopo,
in modo che l0’abbia sempre presente, guardi e cerchi solo Lui, che è il
Signore del cielo e della terra, è morto per noi, può e vuole darci la vita
eterna. così che, qualunque sia il modo o il titolo con il quale Dio, Signore
di tutte le cose, gli venga presentato, gli stia bene. Se gli presentano le tre
Persone divine in una sola maestà, potenza ed essenza divina, gli stia bene. Se
gli si presenta Dio salvatore, sovrano, redentore, creatore; o beatitudine,
sapienza, potenza, verità, clemenza, in una sola e infinita e incomprensibile
natura, gli stia bene. Infatti, sebbene siano molti gli attributi che diamo a
Dio, tuttavia la sua natura sublime è semplice e non può essere definita dalle
creature. Usiamo infatti questi titoli e tanti altri, perché nessuno di essi
riesce ad esprimere la sua inesauribile eccellenza.
Questo è
tener Dio presente in tutte le azioni come movente e scopo. Tendere sempre a
Dio, infatti, è vederLo e guardarLo sempre.
A questa
attenzione però dev’essere unito l’amore, poiché conoscere Dio senza
amarLo, non sa di niente e non giova a nulla. Perciò in tutte le azioni
dobbiamo tendere a Dio con amore, e con un amore che sia più grande della’more
di ogni altra cosa.
Pertanto il
peccatore che si vuol convertire davvero, deve andare incontro a Dio sempre con
intimo e profondo dolore, col desiderio di servire Dio sempre, e di non tornare
indietro mai più. Se questa è la sua sincera disposizione, nel suo incontro con
Dio, avrà la certezza del perdono e della salvezza eterna, non solo, ma egli
sarà anche arricchito di fede, speranza e carità – che sono le sorgenti di
tutte le virtù – e del desiderio di praticarle. Che se vorrà andare più
innanzi, alla luce della fede, e meditare con frutto la vita e la passione di
Gesù Cristo, riflettere su tutto ciò che ci ha dato, ci ha promesso e ci darà
fino giorno del giudizio e per tutta l’eternità, deve ancora una volta andare
incontro a Cristo, tenerLo presente, lodarLo, benedirLo e ringraziarLo
adeguatamente e con umiltà, per tutto il bene che ci ha fatto e ci farà per
tutti i secoli. Allora la sua fede sarà rafforzata, la pietà e l’amore
cresceranno e crescerà la sua attenzione a tutte le virtù.
In fine, se
vuole fare progressi in tutte le virtù, deve andare incontro a Cristo col
rinnegamento di se stesso; che non guardi e non cerchi se stesso, non si
ponga motivi estranei, sia discreto in tutto, abbia di mira in ogni cosa
soltanto l’onore di Dio e vada avanti così fino alla fine. Questo esercizio
illumina la ragione, accresce la carità, aumenta la devozione; tutte le virtù
diventano più care.
Quando poi
diciamo che Dio dev’essere lo scopo di tutte le azioni, si capisce che parliamo
solo di azioni buone; il male è la negazione di Dio. né si possono avere nella
stessa azione due scopi diversi, uno che porta a Dio e un altro altrove. Quando
abbiamo in mente qualcosa che non è Dio, perché l’azione sia giudicata onesta,
bisogna che quell’oggetto, che è al di sotto di Dio, sia almeno ordinato da
Dio, in modo che serva per arrivare più facilmente a Lui.
Il termine
ultimo del cammino dev’essere Colui che è amato, e non i suoi messaggeri, e
neppure i doni da Lui stesso inviati; perciò la nostra meta non saranno i doni
di Dio, ma Dio stesso.
L’amore, il
desiderio sono i nostri messaggeri, che portano a Dio le nostre opere buone; ma
al di sopra di queste cose, fossero pure moltiplicate, l’anima deve trovare
pace e quiete solo nell’amore infinito di Dio.
È in questo
modo che per tutta la vita dobbiamo andare incontro a Cristo, se nell’ora della
morte Lo vogliamo incontrare nello splendore della gloria.
Tutto ciò
che abbiamo detto finora riguarda la vita attiva. La quale è necessaria a
tutti, poiché quelli che non raggiungono le virtù nella misura che abbiamo
indicato, bisogna che almeno non vivano in modo opposto ad esse. Perché,
perseverare in una via contraria alla virtù, è vivere nel vizio. Il Signore,
infatti, ci ammonisce dicendo: «Chi non è con me, è contro di me» [Mt
12,30]. Il che significa che, chi non è umile, è superbo. Ma, chi è superbo e
manca di umiltà non fa parte dell’ovile del Signore; e questo vale per tutte le
altre virtù e vizi. Perciò, o sarai rivestito di virtù, e vivrai in grazia, o
sarai coperto di peccati, contrari alle virtù, e menerai una vita peccaminosa.
Pertanto si guardi ognuno e si scruti bene a fondo, e ordini la sua vita e la
viva decisamente secondo le linee che abbiamo tracciato.
Capitolo
26
Di solito
uno che ha raggiunto la perfezione di vita che abbiamo descritto, e indirizza
verso Dio tutto se stesso e tutte le sue azioni, viene preso da una sottile
ansia di vedere in faccia, com’è , lo sposo Gesù Cristo, che per lui prese
carne umana, per suo amore abbracciò la morte, lo sottrasse al peccato e al
diavolo, gli diede la grazia e Se Stesso, gli lasciò i suoi sacramenti, gli
promise il suo regno, ed è sempre pronto a dargli quanto gli serve, per il suo
corpo, per allietare il suo spirito e per ogni altro bisogno.
Ogni volta
che si ferma su questi pensieri, sente un forte desiderio di conoscere il suo
Sposo e di vederLo così com’è. Certo, Lo conosce attraverso le sue opere, ma
non si contenta più di questa conoscenza. E fa ciò che fece Zaccheo il
pubblicano, quando non seppe resistere più al desiderio di vedere Gesù Cristo.
Si porterà, quindi, anche lui innanzi alla folla – cioè le molte cose che ci
rendono troppo piccoli per vedere Gesù Cristo –; salirà sull’albero della fede,
che cresce con la punta all’ingiù, perché la sua radice è abbarbicata alla
divinità e ha dodici rami, quanti sono gli articoli del Credo: i più bassi di
questi rami parlano dell’umanità di Cristo e di quanto riguarda la nostra
salvezza; i più alti invece riguardano la divinità, le tre Persone e l’unità
della natura divina.
È
attraverso questa unione che l’anima, desiderosa di vedere Gesù Cristo, si
porterà sulla parte più alta del’albero, ed è qui che passerà Cristo con tutti
i suoi doni. Quando poi Cristo arriva, vede l’uomo, gli parla nella luce della
fede, e gli fa capire che Egli, quanto a divinità, è decisamente immenso,
incomprensibile e inarrivabile, molto al di là di ogni umana intelligenza, una
specie di abisso senza fondo.
Questa è la
più alta conoscenza di Dio che si possa avere nella vita attiva: intravedere
attraverso la luce della fede che Dio non può essere compreso; ma in quella
stessa luce Cristo dice a chi brama vederLo: «Presto, scendi; oggi starò casa
tua» [Lc 19,5].
La rapida
discesa comandata da Dio non è altro che l’immersione d’amore di Se Stesso
nell’abisso della divinità: immersione che nessun intelletto umano può ottenere
con la sola luce, ma se l’intelletto rimane fuori la porta, la forza dell’amore
riesce a farsi strada ed entra, poiché, quando l’anima si spinge verso Dio con
tutte le forze dell’amore, al di là di tutte le potenze dell’intelligenza
umana, l’anima, dico, s’inchina, scende, si ferma e dimora in Dio e Dio, a sua
volta, dimora in essa. Quando, a forza d’amore, si solleva al di sopra di tutte
le creature, oltre i sensi e la luce naturale, allora va incontro a Cristo
nella luce della fede, dove si rende conto che Dio non può essere né conosciuto
né contenuto da un intelletto umano.
Così
dunque, col suo amore, l’anima si spinge verso Dio inafferrabile e si ripiega;
le viene incontro Cristo e la ricopre dei suoi doni, e quando l’anima Lo ama più
dei suoi doni, più di se stessa, più di tutte le creature e s’acquieta in Lui,
lei dimora in Dio e Dio dimora in lei.
Questo è il
modo di andare incontro a Cristo nel grado più alto della vita attiva.
In breve,
quindi, se giustizia, carità e umiltà sono messe a fondamento e vi edifichiamo
sopra le virtù che abbiamo elencato; se andiamo incontro a Cristo con fede,
decisione e amore, senza dubbio,m noi dimoriamo in Lui e Lui dimora in noi.
E questo
basti per il primo modo d’intendere le parole di Gesù Cristo: Ecco sta per
arrivare lo sposo, uscitegli incontro. questa è la vita attiva. E questa è
la prima spiegazione delle parole di Gesù Cristo nostro sposo.
* * *
Libro
secondo
Capitolo 1
Argomento
del secondo libro
Ecco,
sta arrivando lo sposo; uscitegli incontro!
L’anima
pura, che si è distaccata dagli affetti e desideri delle cose terrene e vive
per Iddio, esercitandosi nelle virtù, è esattamente la vergine prudente del
Vangelo, che insieme alla lampada – che è la sua coscienza immacolata – prende,
nel vaso del suo cuore, anche l’olio della carità e delle opere buone. Se però
Cristo, lo sposo, non le fa arrivare per qualche giorno le sue consolazioni e i
suoi doni, e indugia a farsi vedere, la vergine si lascia prendere dal sonno,
s’addormenta, stanca; però, nel cuore della notte, quando meno se l’aspetta,
sente gridare: Sta arrivando lo sposo, corretegli incontro”.
Queste
parole, com’è stato spiegato nel primo libro, contengono quattro cose: la
visione, la venuta spirituale di Cristo, l’uscita o il darsi da fare l’uomo, e
il suo incontro con Cristo.
Di queste
quattro cose parleremo ancora in questo libro, ma in riferimento alla Vita
Interiore Affettiva; alla quale non tutti arrivano, alcuni però ci riescono,
grazie al loro interesse per le cose spirituali e al loro tenace e assiduo
esercizio delle virtù.
Gesù
Cristo, il più soave di tutti gli sposi, dicendo Ecco, ci sollecita a
guardare, a far attenzione, e vuole che il nostro intelletto sia illuminato da
splendore soprannaturale. Dicendo: Sta arrivando lo sposo, vuole che ci
preoccupiamo del suo arrivo di sposo, verità eterna. Dicendo ancora Uscite,
ci chiede di fare più spazio all’esercizio della vita interiore e affettiva,
secondo giustizia. E in ultimo, con le parole: Incontro allo sposo, ci
precisa che l’obiettivo di tutta la nostra vita e attività dev’essere
l’incontro con lo sposo nel godimento della sua adorabile divinità.
Il raggiungimento
della visione soprannaturale attraverso la vita interiore affettiva
Per raggiungere la visione soprannaturale attraverso
l’esercizio della Vita Interiore Affettiva, sono necessarie tre cose: la luce
della grazia, in misura più grande che nella Vita Attiva, spogliarsi
completamente di pensieri, affetti e interessi delle creature e applicare
la volontà, libera da ogni altro amore, e tutte le forze dell’anima e del
corpo, al raggiungimento dell’unione spirituale con Dio. È per promuovere
questa unione degli uomini con Lui, che Dio creò il cielo e la terra, tutte le
cose e l’uomo, e con la parola e con l’esempio, ci tracciò il cammino che
conduce a Lui e, per di più, nel colmo del suo amore, si assoggettò a morire
per noi e poi, salendo al cielo, ci additò il termine di quell’unione nella
quale è la nostra felicità.
La triplice unità
dell’uomo
Ed ora fate attenzione a tre livelli di unità che si
trovano, per natura, in ogni uomo e che ritroviamo anche soprannaturalmente in
qualche modo nei buoni.
L’unità esistenziale è la
prima e la più profonda. Per essa l’uomo e tutte le creature dipendono da Dio
nella loro esistenza, forma, vita e conservazione, tanto che, se una qualsiasi
cosa venisse staccata da Dio, precipiterebbe nel nulla. Questa unità riguarda
l’essere, l’esistenza e, buoni o cattivi, è in tutti; non è condizionata a
nessuna nostra cooperazione, studio o sforzo; non ci fa né santi né felici. La
troviamo in noi, è al di sopra di noi; è il principio della nostra esistenza,
conservazione e vita.
L’unità dello spirito è
la seconda. Anche questa è dono della natura. È l’unità delle nostre facoltà
superiori, che traggono da essa la loro attività. Si fonde con la precedente
unità, quando ad esistenza, se ne distingue, quanto all’attività. la troviamo
in noi al di sopra dei sensi e da essa dipendono la memoria, l’intelletto e la
volontà e tutta l’energia delle attività spirituali; e qui l’anima si chiama
spirito.
L’unità sensitiva è la
terza. Anche questa è di origine naturale; raccoglie tutte le forze sensitive,
risiede nel cuore ed è fonte della nostra vita corporale. L’anima regge questa
unità nel centro del corpo e i cinque sensi. L’anima si chiama anima proprio
perché, essendo la forma del corpo, lo anima; gli dà, cioè, vita e moto.
Queste tre unità rappresentano nell’uomo tre stadi o
livelli di vita. Nell’ultima delle tre unità siamo essere sensitivi o animali,
nella media, siamo razionale e spirituali, nella più alta siamo conservati
nella nostra essenza. Tutti gli uomini sono dotati di queste tre forme di unità.
Queste tre
unità o livelli, nella Vita Attiva, attraverso la carità e la pratica delle
virtù morali, possono essere adornate e possedute come nostro regno e dimora eterna.
Gli esercizi della Vita Affettiva Interiore possono aggiungervi un ornamento più
bello e una presa di possesso più gloriosa di quella che ha luogo nella Vita
Attiva. Però la decorazione più gloriosa e più felice è quella che si ottiene
attraverso la Contemplazione Soprannaturale.
L’ultima e
più bassa unità, che è dell’ordine corporeo, viene coltivata e adornata con
pratiche esteriori, soprannaturali ordinate, ad imitazione di Cristo e dei
Santi; si tratta di portare la croce con Gesù Cristo e di sottomettere la
natura ai precetti della santa Chiesa e ai costumi dei Santi, a seconda delle
proprie capacità.
La seconda
unità, che risiede nello spirito ed è coltivata e adornata con le tre virtù
teologali: fede, speranza e carità con l’apporto della grazia, di doni di Dio e
con la pronta disponibilità della volontà ad imitare tutte le virtù e gli
esempi di Gesù Cristo e dei Santi.
La terza unità è la più alta, supera la nostra capacità
intellettiva; eppure sta dentro di noi. La possediamo soprannaturalmente,
quando, in tutte le nostre azioni, abbiamo di mira la lode di Dio e la sua
gloria, e ci rimettiamo a Lui, al disopra di ogni desiderio, al di sopra di noi
stessi e di tutte le cose. È questa l’unità dalla quale siamo venuti con la
creazione, nella quale, per via della nostra essenza, dimoriamo e alla quale ci
riporta ogni nostro atto d’amore. questo è il decoro delle tre unità della Vita
Attiva.
Ora
dobbiamo spiegare come queste tre unità possano avere una decorazione ancora più
sublime ed essere anche più nobilmente possedute attraverso gli esercizi
interni della Vita Affettiva.
Quando
uno, attraverso la carità e la retta intenzione, in ogni suo atto e in tutta la
sua vita, si rivolge e tende alla lode e all’onore di Dio, egli, con umiltà,
pazienza e distacco da se stesso, con sicura speranza e fiducia, aspetta anche
sempre nuovi flussi di grazia divina e nuovi doni, ma senza ansietà e niente
affatto preoccupato, se Dio glieli voglia elargire o meno. Si prepara ad
accogliere e abbracciare la Vita Interiore e Affettiva né più né meno di come
si prepara un vaso, nel quale si voglia versare un liquore prezioso. Non c’è
infatti un vaso più degno né più prezioso di un’anima che ami Dio, né c’è una
bevanda più salutare e pregiata della grazia divina. Solo badino bene tutti a
riferire tutte le azioni e tutta la vita, con pura e retta intenzione, a Dio e
mettano se stessi, al di sopra di tutte le cose, in quella sublime unità nella
quale, senza alcun intermediario, lo spirito innamorato è felicemente unito a
Dio.
L’influsso divino nello spirito
Da questa
unione nella quale lo spirito si unisce direttamente a Dio e, al di sopra di se
stesso, riposa in Dio, discende ogni grazia e ogni dono; ed è qui che si sente
la voce di Cristo, eterna verità, che dice e invita: Ecco, sta arrivando lo
sposo, corretegli incontro!
Il Cristo,
luce della verità, dice Ecco. È per Lui che noi diventiamo vedenti. È
Lui lo splendore del Padre e, senza di Lui, non c’è alcuna luce né in cielo né
in terra. questa parola di Cristo, dentro di noi, non è altro che un’infusione della
sua luce e della sua grazia, grazia che scende proprio sull’unità delle facoltà
superiori e dello spirito, e così le stesse facoltà, in virtù di questa grazia,
riescono ad esercitare tutte le virtù. Dio, dunque, infonde la sua grazia
nell’unità delle facoltà superiori, perché l’uomo possa praticare le virtù per
mezzo della potenza, ricchezza ed impulso della grazia. Egli elargisce la sua
grazia in vista dell’azione e dona se stesso, al di sopra di ogni grazia, perché
possiamo trovare in Lui la nostra quiete e la nostra gioia. Così la nostra
dimora viene a trovarsi, nell’unità del nostro spirito, in una pace quasi
divina e nell’abbondanza della carità; dove si raccoglie la molteplicità delle
virtù e vive nella unicità dello spirito.
La grazia
divina, che emana da Dio, è una mozione interna, un impulso dello Spirito
Santo, che muove il nostro spirito dal di dentro, non dal di fuori, e lo spinge
a tutte le virtù. La grazia emana dal di dentro, perché Dio è in noi, più
profondamente di noi stessi, e l’azione che Egli muove in noi, naturalmente e
soprannaturalmente, ci è più vicina ed intima di qualsiasi azione nostra; perciò
l’azione di Dio in noi è dal di dentro verso il di fuori, mentre quella delle
creature ci viene dal di fuori. Quindi la grazia e le ispirazioni di Dio
vengono dal di dentro, dall’unità del nostro spirito, non dal di fuori, dalla
fantasia eccitata da immagini sensibili.
Capitolo 5
Le
condizioni per avere l’illuminazione
Cristo
parla intimamente all’uomo che si rivolge ben disposto verso di Lui, e gli
dice: Ecco, cioè vedi, guarda.
Tre cose
nella vita interiore fanno vedente l’uomo spirituale. La prima è
l’illuminazione della grazia divina. La grazia di Dio nell’anima è
simile a una candela in un vaso di vetro. Lo riscalda, lo rischiara e lo permea
della sua luce. Così avviene dell’uomo invaso dalla grazia. La quale si
manifesta all’uomo che la possiede dentro se stesso, se solo egli si guarda
dentro. E si manifesta attraverso lui agli altri nelle sue virtù e nel suo esempio.
L’irradiazione della grazia di Dio tocca e muove dal di dentro rapidamente
l’uomo interiore, e questa prontezza di mozione è la prima cosa che ci fa
vedenti.
Da questa
subitanea mozione di Dio proviene la seconda condizione, che però riguarda
l’uomo, ed è la chiamata a raccolta di tutte le potenze interne ed
esterne nell’unità dello spirito sotto il vincolo dell’amore.
La terza
condizione è la libertà che permette all’uomo di rientrare in se stesso,
libero da ogni immagine e ostacolo, ogni volta che lo vuole, per concentrare i
suoi pensieri in Dio. bisogna quindi che l’uomo sia svincolato da ogni
preoccupazione di piacere o di pena, di vantaggi o svantaggio, di innalzamento
o abbassamento, da ogni interesse estraneo, da qualsiasi gioia o paura, da ogni
legame alle creature.
Questi tre
fattori fanno l’uomo vedente nella Vita Interiore. Se possedete questi tre
fattori avete già il fondamento per la pratica della Vita Interiore, e potete
mettere in pratica ciò che Cristo indico con la parola Ecco.
Capitolo 6
Triplice
modo della venuta di cristo e il suo primo modo
Anche se
gli occhi sono buoni e la vista è acuta, se l’oggetto non è amabile e gradito,
la vista, per acuta che sia, non appaga l’animo e non serve quasi a niente.
Perciò Cristo mostra agli occhi illuminati dall’intelletto che cosa debbono
vedere, cioè la venuta di Cristo sposo, e lo esprime con le parole: Sta
arrivando lo sposo. Ma quelli che praticano la Vita Interiore trovano in se
stessi un triplice modo del personale arrivo di Cristo; e ciascuno dei tre modi
porta l’uomo ad un più alto livello di vita interiore. Il primo modo della
venuta di Cristo nella pratica della Vita Interiore opera dal di dentro un
impulso e mozione sensibile, trae l’uomo e tutte le sue potenze verso il cielo
e lo spinge a tenersi in unione con Dio. Questo impulso e attrazione sono
sentiti nel cuore e nell’unità di tutte le facoltà corporali, particolarmente
nelle concupiscibili. Infatti questa venuta commuove nell’uomo la parte
inferiore e vi agisce: è questa che deve essere purificata, adornata,
infiammata e attratta verso l’interno. Questo impulso divino, allo stesso
tempo, prende e dà, rende ricco e povero, felice e infelice, dà speranza e
disperazione, riscalda e raffredda. Nessuna lingua può ridire i doni e le
azioni che hanno qui effetti contrastanti. L’arrivo di Cristo, con i fatti ad
esso collegati, si svolge attraverso quattro gradi distinti tra loro per
altezza, come spiegheremo tra poco.
Capitolo 7
Secondo modo della venuta di Cristo
nella vita interiore dell’uomo
Il secondo
modo della venuta di Cristo nell’interno dell’uomo è di un ordine più alto: ha
una certa somiglianza con lui, doni più importanti e un certo splendore. C’è un
flusso largo e ricco di doni divini nelle facoltà superiori dell’anima; doni
che in molti modi rafforzano lo spirito, lo illuminano e lo arricchiscono.
Questo flusso, che viene da Dio, deve tornare con tutte le sue ricchezze
all’abisso donde è scaturito. In questa effusione Dio largisce cose
meravigliose, ma esige dall’anima che io suoi doni tornino a Lui accresciuti e
moltiplicati ad usura, in una quantità molto più grande di quanto possa
apprestarne una creatura. Ma questo esercizio eleva l’anima ad uno stato di
maggiore somiglianza con Dio, che adorna le tre facoltà superiori dell’anima.
Capitolo 8
Terzo
modo della venuta di Cristo
Il terzo
modo della discesa intima di Cristo è un tocco, o scossa, nell’unità dello
spirito, nella quale risiedono le facoltà superiori, e dalla quale emanano,
dove ritornano e dove poi, per il vincolo dell’amore e, grazie all’unità dello
spirito, restano sempre unite. Questo modo è il più profondo grado di Vita
Interiore e per esso l’unità dello spirito è variamente adornata. Ma in
ciascuno dei modi Cristo esige da noi una speciale nostra uscita di fuori di
noi stessi e che viviamo una vita alla stregua della sua presenza in noi. Perciò,
ad ogni arrivo, ci dice spiritualmente nel cuore: «Uscite, vivendo ed
esercitandovi nel modo che la mia grazia e i miei doni vi indicano». Dobbiamo
allora, se vogliamo tendere alla perfezione, uscire e impegnarci negli esercizi
interni, nel modo che lo Spirito ci agita, urge, spinge, attira. Se invece, con
la dissomiglianza della vita, respingiamo lo Spirito Santo, verremo privati
completamente del suo impulso e rimarremo vuoti di virtù.
Son questi
i tre modi nei quali il Cristo arriva, quando fa visita all’anima che attende
agli esercizi della Vita Interiore; modi che tratteremo più diffusamente. Il
lettore si disponga a seguirci con attenzione e diligenza, poiché chi non ha
fatto mai esperienza di queste cose, difficilmente le comprende.
Capitolo 9
Il
primo modo della venuta di Cristo
Il primo
modo nel quale Cristo visita coloro che attendono alla pratica della Vita
Affettiva è un certo impulso dello Spirito Santo, interno e sensibile, che ci
spinge e incita all’acquisto di tutte le virtù. Ma i gradi di questa venuta,
come abbiamo già detto sono quattro. Paragoneremo il primo di questi gradi allo
splendore e alla potenza vitale del sole. Come il sole infatti nel
medesimo istante della sua comparsa diffonde i suoi raggi dall’Oriente
all’Occidente e illumina e riscalda tutte le cose, così Cristo, Sole Eterno,
che abita nella parte più alta dello spirito, in men di un istante, illumina,
penetra e accende col suo splendore la parte più bassa dell’uomo, il cuore, cioè,
e le facoltà sensitive. L’azione di Dio è veloce; e colui che vuole beneficarne
deve avere gli occhi dell’intelligenza sani e aperti. Come poi il sole della
terra, al centro del globo, nelle regioni più alte, in Oriente, mandando i suoi
raggi sui monti, accelera l’estate, produce molti ottimi frutti, fa un vino
generoso per la felicità delle genti che vi abitano, mentre nelle parti più
basse del globo e agli estremi confini della terra, sebbene vi mandi i suoi
raggi, a causa del sito dei luoghi e per la freddezza del terreno, non vi
esprime la medesima forza: vi fa, sì, molti buoni frutti, ma non abbondanza di
vino; allo stesso modo coloro che si fermano nella parte più bassa di se
stessi, vicino ai sensi esterni, anche se coltivano con buona intenzione le
virtù morali e attendono in grazia di Dio alle pratiche esterne, producono, sì,
in diversi modi molti frutti di virtù, ma assaggiano raramente, e poco, il vino
della gioia interiore e della consolazione spirituale. Perciò, chiunque vuol
sentire i raggi e lo splendore di Cristo, Sole Eterno, bisogna che ci veda, che
metta la sua dimora nella vetta delle terre più alte e vi tenga strette tutte
le sue energie; bisogna che tenga il cuore sollevato verso Dio, totalmente
libero da preoccupazioni di gioia o di tristezza, di prosperità o di calamità e
di qualsiasi creatura. È lì che Cristo, Sole di giustizia, irraggia lo
splendore della sua luce sui cuori liberi e rivolti al cielo, che volevamo
significare con l’immagine dei monti. Cristo, dico, Sole glorioso, splendore
divino, nella sua intima venuta, illumina con la forza del suo spirito il cuore
totalmente libero e tutte le forze dell’anima.
E come il
fuoco infiamma e brucia tutto ciò che può ardere, così Cristo col calore
intenso e irresistibile della sua intima venuta incendia e sublima i cuori
liberi.
Questa è la
prima azione e il primo effetto della venuta di Cristo nell’anima intenta alle
pratiche della Vita Affettiva. È in questa venuta che Cristo dice all’anima: Esci,
che vuol dire: Datti da fare in cose convenienti a una tale venuta.
Capitolo 10
L’unità
del cuore
Da questo
forte calore interno nasce l’unità del cuore.
Non potremo
raggiungere mai l’unità del cuore, se lo spirito di Gesù non accende il suo
fuoco nel nostro cuore. È proprio della natura del fuoco, infatti, che unisca e
faccia simili a sé tutte le cose nelle quali può esercitare il suo potere. Ed è
per l’unità del cuore che uno si sente nell’abitacolo del cuore raccolto e
unito con tutte le sue facoltà sensitive.
Questa unità
costituisce la pace intima e la tranquillità del cuore. È come un vincolo che
raccoglie, unisce e fonde nell’unità dell’amore il corpo, l’anima, il cuore, i
sensi e tutte le facoltà interne ed esterne.
Capitolo 11
La
compunzione
Da questa
unità del cuore nasce l’interiorità e una certa compunzione, che non può essere
sperimentata se non da uno che è raccolto in se stesso. questa è la Vita
Interiore, per la quale uno si raccoglie nel suo proprio cuore ed ivi riesce a
cogliere e percepire il tocco e l’opera di Dio, che è in atto in lui. La Vita
Interiore è anche il sensibile fuoco d’amore acceso dallo Spirito Santo.
Finalmente questa intima compunzione infiamma, urge, spinge internamente
l’uomo, eppure egli non sa che cosa avvenga in lui né donde provenga ciò
ch’egli sente.
Capitolo 12
L’amore
sensibile
Dalla Vita
Interiore e dalla compunzione nasce un certo amore sensibile che prende
l’affetto, o la facoltà concupiscibile dell’anima. Quest’amore affettuoso, o
affezione d’amore, non lo si può mai avere col gusto sensibile del cuore, se
non da chi è interiormente concentrato e compunto. Esso è come un gusto
desideroso, una fame e un desiderio fiammante di Dio, che è il bene eterno, nel
quale risiede tutto ciò che può esserci di buono; dice addio a tutte le
creature e rinunzia non solo a ritenerle necessarie, ma anche alla loro
piacevolezza e desiderabilità. Insomma si sente attirato dall’amore eterno
internamente e quasi forzato a mettersi a sua completa disposizione; e senza
sforzo alcuno, disprezza tutto, purché possa ottenere ciò che ama.
Capitolo 13
La
devozione
Quest’amore poi genera devozione verso Dio e verso il
suo onore. Non può avere un’assetata devozione del cuore, se non uno che abbia
nel cuore un sensibile amore verso Dio. C’è devozione, infatti, quando il fuoco
d’amore manda fino al cielo la fiamma del suo desiderio. Questa devozione
dentro e fuori muove e sprona al culto di Dio. Fa fiorire l’anima e il corpo in
esibizioni di onore e di rispetto, non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi
agli uomini. Dio vuole devozione in ogni atto di onore e di servizio che gli
dobbiamo. La devozione purifica l’anima e il corpo da tutte quelle cose che
possono esserci di ostacolo o d’impedimento. E, sia detto una volta per sempre,
la devozione indica e apre il vero sentiero della salvezza.
Capitolo 14
Gratitudine
e ringraziamento
Da questa
intima devozione proviene il ringraziamento: poiché nessuno è così adatto a
ringraziare Dio, quanto colui che è cordialmente devoto. E ci sono molte
ragioni per lodare e ringraziare Dio. Pensa: ci ha creati intelligenti, ha
messo a nostra disposizione il cielo, la terra e gli angeli, s’è fatto uomo per
espiare i nostri peccati, ci h istruiti, è vissuto per noi, ci ha
indicato il giusto cammino, ci ha serviti con gli atti più umili; per noi ha
affrontato una morte ignominiosa, ci ha promesso il suo regno e se stesso, non
solo per nostro premio, ma anche per il nostro servizio; ci ha perdonato i
peccati , ha effuso su di noi la sua carità, starà sempre con noi, è pronto a
visitarci in ogni occasione con nobilissimi sacramenti, ci ha lasciato il suo
corpo e il suo sangue in cibo e bevanda, a disposizione della fame e della sete
di ciascuno, ci ha offerto la natura, i libri sacri, tutto il creato, per
modello e specchio, per istruirci e farci indirizzare alla virtù ogni nostra
azione. Pensa che ci ha dato la salute, le forze e talvolta anche l’infermità
per il nostro bene; che siamo nati da genitori cristiani e siamo stati
insigniti del nome Cristiano. Per tutte queste cose, dico, dobbiamo ringraziare
Dio qui in terra, perché possiamo poi lodarlo nella patria celeste, per sempre.
Dio dev’essere lodato con tutte le nostre forze. Ma lodare Dio non è altro che
tributare alla sua divina maestà onore e venerazione in tutta la nostra vita;
ed è l’atto proprio soprattutto degli Angeli, dei Beati e degli uomini che,
sulla terra, amano Dio. Dio dev’essere lodato col cuore, con l’affetto, col
desiderio, con le parole, con gli atti, col corpo, con l’anima, con i beni
temporali, con gli umili uffici interni ed esterni. Quelli che non lodano Dio
in terra, saranno muti per sempre. Chi ha il cuore pieno della lode di Dio,
desidera ardentemente che tutte le creature cantino insieme con Lui. E la lode
di Dio non finirà mai, perché Lui è la nostra salvezza e la nostra felicità;
eterno è dunque il motivo della nostra lode in suo onore.
Capitolo 15
Il
duplice dolore che proviene dal ringraziamento
Da questo
ringraziamento e lode nasce un duplice dolore nel cuore e sofferenza
dell’affetto. Il primo dolore nasce dal fatto che sentiamo che le nostre lodi,
i nostri ringraziamenti, la nostra venerazione e il nostro culto sono
insufficienti e che noi non riusciamo a fare quanto dovremmo. E l’altro dolore è
che noi non facciamo nella carità, nelle virtù, nella fedeltà, nei buoni
costumi, quel progresso che vorremmo per diventare degni di lodare Dio, di
ringraziarlo e di servirlo, come sarebbe giusto e doveroso. Questi due dolori
sono radici e frutti, causa e fine di tutte le virtù. Perciò sentir dolore,
perché le nostre lodi di Dio e le nostre virtù non sono all’altezza dovuta, è
la vetta di questo primo grado o modo di pratica interiore e ne è il
compimento.
Capitolo 16
La
similitudine dell’acqua che bolle
Quale debba
essere l’esercizio di questo grado lo si può capire con un paragone. Quando il
fuoco per il suo calore fa sì che l’acqua, o un altro liquido versato in una
pentola, bolla, e l’ebollizione non può crescere più di tanto, l’acqua bollente
ricade nella pentola, ma poi la forza del fuoco la rimette in ebollizione e
torna a spingerla in alto; il fuoco, dunque, tiene l’acqua in continua
ebollizione. Allo stesso modo agisce lo Spirito Santo. Spinge, urge, agita il
cuore e tutte le forze dell’anima perché vadano in ebollizione; perché cioè
diano lode a Dio; noi ricadiamo nel fondo, dove però c’è il fuoco dello Spirito
che arde. Dunque, se il fuoco dell’amore rimane ardente, la lode e il
ringraziamento rimangono costanti nelle parole e nelle opere. Cioè, se l’acqua
bolle, è merito dello Spirito Santo; e la nostra umiltà consiste
nell’attenderne che ci riscaldi ancora e nell’assecondarne la gioia e il
fervore dell’ebollizione.
Capitolo 17
Un
altro paragone
La cosa può
essere spiegata anche con un altro paragone. Quando s’avvicina l’estate, il
sole se ne va sempre più in alto, assorbe l’umidità della terra attraverso le
radici, il tronco e i rami; e nascono le foglie, i fiori, i frutti. Allo
stesso modo Cristo, Sole Eterno, si leva e s’alza nel nostro cuore, facendovi
nascere l’estate attraverso il rivestimento delle virtù. Cristo stesso infatti
diffonde nel nostro cuore la sua luce e il suo ardore, e dopo averci staccato
il cuore da ogni desiderio di cose terrene, gli dà unità e fervore, e fa sì che
verdeggi in abbondanza di lodi con intimo amore, fiorisca in devozione e
fruttifichi, benedicendo e ringraziando Dio, e conservi questi frutti con
quell’umile dolore che viene concepito alla constatazione della insufficienza
della propria lode.
E questo
basti per il primo gradi di esercizi interni tra i quattro principali, che sono
l’ornamento della parte inferiore dell’uomo.
Il
secondo grado della prima venuta spirituale di Cristo
Poiché
abbiamo paragonato questi quattro gradi della prima venuta di Cristo allo
splendore e all’efficacia del sole, ci piace d’insistere ancora in questo
paragone. Il sole ha la forza di accelerare la maturazione dei frutti e di
moltiplicarli. Quando il sole va molto in alto ed entra nei Gemelli, come
avviene alla metà di maggio, l’efficacia del suo influsso sulle erbe, sui fiori
e su tutto ciò che nasce dalla terra, sembra raddoppiarsi e, se i pianeti che
influiscono e operano in ciò che è al di sotto di loro coincidono nella
stagione, il sole manda i suoi raggi sulla terra e attira l’umidità nell’aria.
Cade quindi la rugiada e la pioggia, e i frutti crescono e si moltiplicano. Così
avviene nei nostri cuori, quando Cristo è messo al di sopra di tutte le cose e
i desideri della natura corporale contrari allo spirito sono controllati e
ordinati, le virtù sono praticate e, grazie all’ardore della carità, il gusto
che si prova in esse è riferito a Dio col ringraziamento e con la lode; ne
segue talvolta una dolce pioggia di nuove consolazioni interiori, una celeste
rugiada di divina dolcezza. E questa, purché non vi mettiamo qualche
impedimento, fa raddoppiare quasi la crescita delle virtù. È un effetto
singolare e nuovo della venuta di Cristo nei cuori infiammati di amore divino:
effetto singolare, per il quale i cuori sono portati in alto, più che nel grado
precedente. E in questa infusione di dolcezza Cristo dice agli uomini:
Uscite, naturalmente, secondo quanto richiede questa venuta.
Il
casto piacere del cuore e delle facoltà sensitive
Da questa
dolcezza nasce un casto piacere del cuore e di tutte le facoltà sensitive –
anche corporali –, un piacere che, chi lo prova, crede di essere intimamente
circondato e stretto in un abbraccio divino d’amore. avvolge il corpo e l’anima
molto più copiosamente e deliziosamente di tutti i piaceri del mondo, ammesso
che possano essere provati insieme nello stesso istante. È Dio, infatti, che
scende nel cuore dell’uomo con tanta consolazione sensibile e gioia, che il
cuore sovrabbonda e trabocca. Perciò coloro che fanno questa esperienza, vedono
quanto siano immensamente poveri davvero coloro che vivono, e non sanno che
cosa sia l’amore di Dio. È un piacere questo che scioglie il cuore con tanta
pienezza, che non se ne può contenere l’abbondanza.
L’ebbrezza
spirituale
Il piacere
del cuore conduce all’ebbrezza spirituale. La si ha quest’ebbrezza, quando uno
percepisce più gioia e gusto spirituale di quanto il suo cuore ne possa
desiderare e contenere. Quest’ebbrezza spirituale porta a dei gesti strani e
inconsueti. In tale stato, per l’abbondanza della loro intima gioia, alcuni
prorompono in canti e lodi di Dio. Altri, per la troppa gioia del cuore, si
sciolgono in lagrime. Alcuni vibrano in tutto il corpo, al punto da non poter
star fermi, e si sentono irresistibilmente spinti a correre, saltare,
tripudiare e battere le mani. Altri gridano a gran voce la gioia che hanno
dentro. Altri si chiudono nel silenzio e si liquefanno. C’è chi pensa che tutti
sentano ciò che sente lui sente e chi invece crede che nessuno abbia mai
provato ciò che lui prova. Più spesso ancora alcuni s’aspettano che tale
delizia non finirà mai e che essi, comunque, non potrebbero più vivere senza di
essa. Altri sentono anche come se Dio appartenesse solo a loro e tutto a loro.
Moltissimi si meravigliano che non siano tutti spirituali e immersi in Dio.
Questa
certamente, anche quanto al casto piacere del corpo, è la più dolce vita che un
uomo possa vivere sulla terra. Talvolta il piacere è così grande che il cuore
pare che si spezzi. Ma in tutte queste meravigliose manifestazioni e molteplici
doni, colui che li ha, con umile cuore, ne darà onore a Dio Onnipotente, e lo
ringrazierà con profondissima devozione, per quanto si è degnato di fare in
lui. Sentirà sempre nel cuore e dirà col più profondo e sincero sentimento
dell’anima: «Signore, non sono degno di niente, ma ho un assoluto bisogno della
tua immensa bontà». Con questa umiltà potrà arrivare a virtù ancora più
sublimi.
Capitolo 21
Pericoli
di questo stato
Questa
dolcezza causata dalla venuta di Cristo è concessa ad alcuni subito, già al
principio della conversione, quando, convertendosi pienamente a Dio, rinunziano
ad ogni consolazione per vivere unicamente per Dio, ma sono ancora teneri e
hanno bisogno di latte e cose dolci, non di cibo solido, come sarebbero le
grandi tentazioni e l’abbandono di Dio. In tali circostanze la brina e la
nebbia produrrebbero un gran danno, poiché questi, a livello di Vita Interiore,
si trovano come la campagna verso la metà di maggio.
Chiamo
brina il sentirsi e voler essere considerati come persona di riguardo, o il
credersi degni di spirituali privilegi, o d’averne ricevuto qualcuno. Questa
brina brucerebbe facilmente tutti i fiori e i frutti delle virtù.
Per nebbia
intendo la pretesa di chiudersi nella propria consolazione e dolcezza; ma
questo oscura il cielo della ragione e fa sì che le forze che, come ramoscelli,
dovrebbero portare fiori e frutti, si rinsecchiscano e restino prive della
conoscenza della verità.
La stessa
dolcezza talvolta è fallace; è istillata dal demonio, e finisce per sedurre e
sviare.
Capitolo 22
Come
regolarsi in tali circostanze
Spiego con
un piccolo esempio come ci si debba regolare per non cadere in inganno.
Guardate l’ape. Ama di stare in società, vive in uno sciame. Quando il cielo è
sereno – mai se il tempo è cattivo – si porta su tutti i fiori, dai quali può
estrarre del nettare. Non s’indugia sui fiori per la loro bellezza o grazia, ma
solo per prenderne ciò che le è utile; porta al comune alveare il nettare e la
cera che ha raccolto, per ricavarne insieme alle altre un frutto migliore. Ora
Cristo, Sole Eterno, fa crescere e fiorire con i suoi raggi il cuore e tutte le
forze dell’anima con gioia e soavità.
Chi ha capito,
se è sapiente, farà ciò che fa l’ape: si porterà con discernimento sui doni e
dolcezze che gli sono familiari, alla luce della carità e della propria
riflessione; tornerà sulle sorgenti delle sue consolazioni, ma non si fermerà
definitivamente su nessun dono o fiore; al contrario, carico di lodi e di
ringraziamenti, tornerà alla sua unità con Dio, dove ha deciso di abitare per
tutta l’eternità.
E questo è
il secondo grado degli esercizi interni, che adorna la parte più bassa
dell’uomo.
Capitolo 23
Il
terzo grado della venuta spirituale di Cristo
Quando il
sole raggiunge la vetta più alta del cielo come avviene nel Cancro, e non può
andare oltre ed è obbligato a tornare indietro, comincia la stagione più
torrida dell’anno e il sole, aspirando l’umidità della terra, l’asciuga, e i
frutti s’affrettano a maturare. Allo stesso modo, quando Cristo, Sole Eterno,
sale altissimo nei nostri cuori, cioè, quand’egli è posto in noi al di sopra di
qualsiasi dono, di qualsiasi consolazione, di qualsiasi dolcezza che possiamo
ricevere da lui stesso, ed egli sta nel punto più alto del nostro cuore, in
modo che non ci sia nessun gusto o piacere, per quanto grande, nel quale noi
troviamo piena soddisfazione, ma restiamo sempre padroni di noi stessi e
rendiamo grazie con umile cuore, allora Cristo attira tutto a sé. E poiché
nessuna consolazione né gusto può fermare il cuore che ama Dio, perché è
determinato a perdere tutti i beni, pur di possedere il suo Diletto, questo è
il modo degli esercizi interni che innalza l’affetto dell’uomo e ne adorna la
parte più bassa. In questo grado la prima operazione di Cristo è quella che
porta il cuore in cielo, l’affetto e tutte le potenze dell’anima, e perché si
uniscano a lui, dice: «Uscite e venite da me, come io vi attiro e desidero».
Di quale
specie sia questa attrazione non è facile dirlo. È tuttavia un intimo
invito del cuore e una richiesta di Dio, perché il cuore si unisca alla sua
sublime unità. Quest’intimo invito al cuore amante è di gran lunga più dolce di
quanti ne abbia potuto mai avere: e di qui ha origine un nuovo modo e un più
sublime esercizio. Infatti il cuore, per la pienezza di gioia e di affetto, si
dilata, le vene si aprono e spalancano; le forze non solo sono pronte a
fare ciò che è chiesto da Dio e dal cuore, ma lo desiderano con ansia. Questo
invito del Sole Eterno è un’irradiazione che suscita tanta gioia nel cuore e lo
dilata a tal punto, che a stento lo si può richiudere. Il cuore riporta anche
una ferita: la ferita d’amore. Ma niente è più soave di questa ferita e non c’è
niente che tormenti di più. E questa ferita è indizio certissimo di
salvezza. È una ferita che produce contemporaneamente la gioia più profonda e
il dolore più acuto. Gesù Cristo, vero Sole, manda i suoi raggi fiammeggianti
in questo cuore aperto e ferito d’amore, e chiede ancora unione, e la ferita
d’amore e tutte le ferite si riaprono.
Capitolo 24
Il
languore e la intolleranza d’amore
Quando
Cristo invita qualcuno a unirsi a lui, la creatura si alza e offre se stessa e
tutto quello che ha, se però non le riesce di realizzare la sua unione, cade in
una specie di languore spirituale. – La parola languore qui può indurre in
errore, forse diremmo meglio supplizio di Tantalo – il quale proviene dalla
combinazione di due elementi: che le midolla del cuore, dove nasce la vita,
sono distrutte per la ferita d’amore, e l’animo, pur non potendo ottenere ciò
che vuole più d’ogni cosa al mondo, non può non persistere nel suo desiderio. È
Cristo che dall’apice della mente innamorata saetta nel cuore assetato i raggi
della sua luce divina, al calore dei quali ogni briciola di forza si asciuga e
dissecca. Così la sete desiderosa e l’irradiazione di luce divina rendono il
dolore più vivo e più tenace. Proprio però perché Dio non può essere raggiunto,
ma l’animo non vuole ad ogni costo esserne privo dentro e fuori dell’uomo ha
luogo e s’accende sempre più una tempestosa intolleranza alla quale non c’è
creatura, né in terra né in cielo, che possa portare sollievo di sorta.
Vengono
suggerite parole sublimi e salutari, rari e preziosi rimedi e vera sapienza;
non c’è nulla che l’animo non osi affrontare per ottenere ciò che brama.
Questo fuoco d’amore è un’intima insofferenza che si rifiuta di dar retta alla
ragione; vuole solo ciò che ama. questa bruciante insofferenza d’amore mangia
il cuore dell’uomo e ne beve il sangue. L’ardore sensibile è così ingente che
in tutta la vita dell’uomo non c’è niente che lo arda di più, e anche senza
alcuna malattia, le forze del corpo, a mano a mano, vengono meno.
Seguendo
l’itinerario astronomico, ora il sole visibile entra nel Leone, che è per sua
natura un animale feroce ed iroso; è il re degli animali. Allo stesso modo,
quando uno sale al grado di cui stiamo parlando, Cristo, il nostro
lunimosissimo Sole, prende il posto del Leone, e i suoi raggi diventano così
caldi che cuociono e consumano anche il sangue. Perciò, quando l’intollerabilità
di quest’amore prende il predominio, non si lascia più contenere né frenare in
alcun modo; non vuole saperne di alcuna misura. Le anime innamorate a questo
punto sono prese alle volte da un irrefrenabile desiderio di morte, perché,
libere dal carcere del corpo, possano starsene finalmente a loro agio unite
inseparabilmente col loro Diletto. Con l’anima rivolta al cielo, questi
infelici esiliati contemplano spesso l’aula celeste piena di gioia gloriosa ed
ivi fissano il loro Diletto, splendidamente coronato, nell’atto di riversare,
sui Santi che lo circondano, un fiume di gioia, mentre essi sono condannati a
starsene qui. Allora gli occhi si bagnano di lagrime e il petto si gonfia
anelante.
Rivolgono
gli occhi alla terra, vedono l’esilio, dal quale non possono uscire, e il volto
gli si riga di lagrime di dolore e di avida aspettazione. Lagrime che però in
qualche modo rasserenano e sollevano l’animo; sono lagrime vere, utili e
salutari, capaci di proteggere le forze e la salute, in modo che si possa
sostenere un sì gran fuoco d’amore.
Ci sono
varie considerazioni ed esercizi utili per conservare le proprie forze e
continuare a impegnarsi nelle virtù, anche a lungo.
Capitolo 25
Rapimento
e Rivelazioni
Per effetto
di tanto calore e di tanta intollerabilità, alcuni sono rapiti fuori dei sensi
e attraverso parole o immagini viene loro proposta qualche verità che risponda
ad una loro o altrui necessità, o viene loro sollevato un lembo sul futuro. A
questi fatti si dà di solito il nome di rivelazioni e visioni. Le quali, se
avvengono a mezzo di immagini, trovano posto nella fantasia; per produrle alle
volte Iddio si serve di spiriti angelici. Se invece si presentano come verità
intellettuali, nella quali Iddio si mostra in un certo senso abissale, hanno
luogo nell’intelletto, e queste possono essere espresse, fin dove è possibile,
anche in parole. Altre volte la persona è trasportata al di sopra di se stessa,
ma non fuori di sé, in uno stato di bene pieno e incomprensibile, che essa non
riesce a definire ed esprimere né con parole né con immagini. In questo stato
sentire e vedere sono la stessa cosa, ma questo lo può fare solo Iddio, il
quale agisce nel nulla, dal nulla, senza strumenti e senza la cooperazione
d’alcuna creatura. Questo trasporto è detto rapimento. Dio manda anche a volte
nello spirito dei fulgori improvvisi, come fulmini. Da una completa nudità
sprizza un subitaneo e singolare splendore di luce e, all’istante, lo spirito è
sollevato al di sopra di sé, ma questa luce scompare immediatamente e l’uomo
torna in sé. E anche qui è Dio che opera, ed è un fatto molto singolare; questi
uomini spesso diventano illuminati. Avviene anche qualche altra cosa a coloro
che sono malati del fuoco d’amore. Qualche volta intravedono una luce che è
partita da Dio, ma attraverso qualche mezzo. Il cuore e la facoltà appetitiva si
lanciano verso la luce, e nell’incontro sentono tanta fame e diletto, che il
cuore non regge e prorompono in qualche suono, che si chiama giubilo,
che è una gioia che non si può esprimere a parole. Questo giubilo non può
essere né evitato né represso. Se infatti qualcuno col cuore elevato e aperto
va incontro a questa luce, il grido di giubilo viene fuori da sé per tutto il
tempo che dura la luce. Altri ancora sono istruiti nel sonno su cose a loro
necessarie, dal proprio Angelo, o da altri spiriti beati. Si possono trovare
anche alcuni i quali, rimanendo nei loro sensi, ricevono segni e parole,
pensano e sognano cose meravigliose, ma questi non sanno niente del fuoco
d’amore, perché sono distratti in molte cose e non hanno sperimentato la ferita
d’amore. queste cose possono accadere naturalmente, o ad opera di spiriti buoni
o cattivi. Perciò finché queste vanno d’accordo con la parola di Dio e con la
verità, gli si può dare fede; ma nulla di più. Se uno vorrà attribuirgli un
qualche speciale valore, sarà facilmente indotto in errore.
Capitolo 26
Un
pericolo che devono evitare quelli che sono sottoposti al fuoco e
intollerabilità d’amore
Vale la
pena di indicare qui alcuni fastidi e impedimenti comuni a coloro che vivono
nel fuoco e nell’insofferenza d’amore.
Come
abbiamo già ricordato, in questo tempo il sole sta nel Leone e questo, sebbene
sia il tempo delle messi, è anche il tempo meno salubre di tutto l’anno.
Comincia ad infierire la rabbia della canicola, che di solito porta molti mali
con sé. Può esserci un calore addirittura innaturale per cui, in alcune zone,
erbe ed alberi si seccano, alcuni pesci muoiono nel mare e degli uomini
illanguidiscono e muoiono. Ma la causa di tutto questo non è soltanto il sole.
Se così fosse, la stessa cosa dovrebbe accadere dappertutto: nelle terre, nelle
acque, tra gli uomini. Allora bisogna ritenere che ciò avvenga anche per
azioni, intemperanze, vizi di cose, sulle quali il sole manda i suoi raggi.
Similmente, quando uno è preso dalla intolleranza d’amore, è come se fosse
capitato nella canicola. Dall’alto la forza dei raggi divini cresce, e il
cuore, dentro, brucia e, trapassato dalla ferita d’amore, va a fuoco. Insomma
il calore dell’amore e l’impazienza del desiderio diventano così ardenti, che
il poveretto s’inquieta e si agita, come una donna che ha le doglie del parto,
e non riesce a partorire. Se poi quest’uomo continua a fissare la sua ferita e
colui che egli ama con tanta impazienza, il dolore cresce ancora, e crescerà
fino al punto che egli s’inaridirà e seccherà, non diversamente dagli alberi
delle regioni torride; morendo per veemenza d’amore, volerà al cielo senza
neanche sfiorare il Purgatorio. Tuttavia, per quanto sia felice il transito di
chi muore per amore, non è giusto che venga distrutto, o che si lasci perire un
albero che può fare buoni frutti. Dio diffonde anche talvolta tanta dolcezza
nei cuori che bruciano per veemenza d’amore; allora sembra che questi nuotino
nella gioia, come pesci nel mare, e la loro più intima profondità sembra ardere
d’amore; e questo proprio per il loro delizioso nuotare tra i doni di Dio e per
il loro fuoco intollerabile e delizioso alla stesso tempo. Rimanere molto a
lungo in tale stato, è la distruzione del corpo, e tutti quelli che vivono in
questa impazienza e bruciano di tale amore, languiscono; ma no muoiono tutti,
se si regolano bene.
Capitolo 27
Un
altro pericolo
Per quelli
che vivono in queste condizioni c’è ancora un altro pericolo gravissimo del
quale voglio avvertirli. Come nei giorni della canicola cade qualche volta una
ingannevole rugiada, che macchia i frutti, o li distrugge del tutto – è una
rugiada che viene in pieno sole, a grandi gocce, difficile da distinguere dalla
pioggia –; così può avvenire anche che qualcuno, per un fulgore prodotto da una
qualche operazione diabolica, perda i sensi. Questo splendore circonda l’uomo,
lo avvolge e qualche volta vengono formate delle immagini. A volte menzogne, a
volte verità; si sentono varie ispirazioni. Alcuni gridano e accolgono queste
cose con grande voluttà; e qui frattanto cadono gocce melliflue di fallace
dolcezza, delle quali costoro godono. Dio permette che questi, che ne fanno
gran conto, ne ricevano tante, e così ne sono contaminati. Se poi si mettono a
difendere per vere, solo perché sono state rivelate a loro, cose che
contrastano con la verità, vengono travolti dagli errori e perdono il frutto
delle virtù. Quelli però che seguono la via indicata, anche se vengono tentati,
riconoscono facilmente l’inganno e non ne subiscono danno.
Capitolo 28
La
formica esempio di chi soffre il fuoco d’amore
Mi piace di
riportare un altro esempio per quelli che bruciano di amore, perché possano
percorrere questo grado dignitosamente, e raggiungano le più sublimi virtù.
Tra gli
animali c’è un minuscolo insetto chiamato formica; è forte e prudente,
duro a morire, sta bene nelle zone calde e secche della terra; vive in colonie,
lavora d’estate, raccogliendo cibo per l’inverno e lo fa a pezze, perché non
imputridisca e possa servirsene, quando non ci sarà più modo di provvedersene.
Non ama e non prende vie inconsuete, seguono sempre tutte il medesimo
tracciato. In attesa del tempo opportuno, alcune mettono anche le ali per
volare. Così dovrebbero fare anche gli uomini. Devono mantenersi forti in
attesa che venga Gesù Cristo. Devono mostrarsi saggi, quando sentono parlare di
visioni e ispirazioni provocate dal demonio; non devono desiderare la morte, ma
di accrescere la lode di Dio e di acquistare per sé sempre nuove virtù. Devono
raccogliersi nel loro cuore con tutte le loro facoltà e seguire la chiamata, o
invito delle divina unione. Devono stare in luoghi caldi e secchi, cioè nella
veemenza e intollerabilità dell’amore; s’impegneranno nell’estate della vita
presente a raccogliere premurosamente opere di virtù per la vita eterna e
divideranno in due i frutti delle opere: un parte servirà per aspirare sempre
alla sublime unione fruitiva e l’altra per frenare se stessi, quanto meglio è
possibile, secondo ragione. Riserveranno questi frutti di virtù per il tempo
stabilito da Dio, così rimarranno sani e salvi per tutta l’eternità. Non si
proporranno vie straordinarie e non seguiranno metodi personali, ma
cammineranno per la via dell’amore, anche attraverso uragani e tempeste, così
finalmente, se aspetteranno il tempo opportuno, potranno contemplare i misteri
di Dio e volare nei suoi arcani.
Capitolo 29
Il
quarto grado della venuta spirituale di Cristo
Siamo al
quarto grado della venuta di Cristo; questo grado innalza e perfeziona l’uomo
nella sua parte inferiore attraverso la pratica della Vita Interiore. Ora poiché
abbiamo paragonato i gradi precedenti della venuta di Cristo all’efficacia
dello splendore del sole a seconda delle stagioni, è giusto parlare di alcuni
altri effetti, operazioni e condizioni del sole secondo il corso dell’anno.
Quando il
sole comincia a scendere dal suo vertice, va verso la Vergine, chiamata forse
così perché questo sembra essere un tempo meno fecondo nel corso dell’anno. Ed è
questo il tempo in cui la Vergine gloriosa Maria salì al cielo, piena di gioia
e ricca di tutte le virtù. In questo periodo il calore del sole si attutisce e
i frutti maturi, quelli di uso quotidiano, come il frumento e il vino, e i
frutti di lunga durata, arrivati a perfetta maturazione, vengono raccolti e
messi in dispensa, per servirsene tutto l’anno; dal frumento viene anche preso
il seme che è affidato alla terra, perché produca ancora messi abbondanti a
comune vantaggio degli uomini. In questa stagione, in alcune parti della terra,
la forza del sole si esaurisce. Allo stesso modo nel cuore dell’uomo dopo che
Cristo è stato alla vetta più alta, come abbiamo detto nel terzo grado,
comincia a scendere più giù, e ritira i raggi della luce divina, e, come se
abbandonasse l’uomo, il fuoco dell’amore e l’intollerabilità si vanno
smorzando.
Questo
occultamento di Cristo e sottrazione di luce e calore sono i segni di questo
grado. Allora il Cristo dice nell’interno dell’uomo: «Esci nel modo che vado
indicando».
Esce,
allora, l’uomo e si vede misero e solo. Tutto il fuoco dell’amore, l’impeto e
l’insofferenza s’afflosciano e raffreddano, l’estate bruciante diventa autunno
e le grandi ricchezze si trasformano in ingente povertà. Comincia a commiserare
se stesso e a domandarsi pietosamente dove sia andato a finire il fuoco
d’amore, la compunzione, la lode, il giocondo ringraziamento; come sia
scomparsa l’interna consolazione, l’intimo gaudio e il gusto sensibile, come si
siano totalmente spenti il veemente caldo dell’amore e tutti i doni ch’egli
aveva così vivamente sperimentato.
Gli è avvenuto ciò che avviene a qualcuno molto dotto,
se a un certo momento perde tutta la sua scienza. Spesso di fronte a tale
grande perdita il fisico ne risente e si turba. Talvolta, per divina
permissione, un uomo già così desolato, viene spogliato dei beni terreni, di
amici, di congiunti, è abbandonato da tutte le creature, viene disprezzato da
tutti quelli che vivono con lui. Qualche volta viene anche afflitto da varie
malattie o tentazioni fisiche e, ciò che è peggio di tutto, da malattie
spirituali. Ridotto a tale immensa povertà, comincia a temere qualche caduta ed
è tormentato da una certa sfiducia, e questo è l’ultimo termine al quale si può
arrivare senza disperazione.
Capitolo 30
Come
diportarsi nella Desolazione
Chi è
ridotto a questa desolazione e penuria, cerchi degli uomini buoni ed esponga ad
essi la sua miseria e chieda il loro aiuto e quello di tutti i buoni e di tutta
la Chiesa. Con umile cuore confessi di non aver di suo altro che vizi e ripeta
con umile rassegnazione le parole di Giobbe: «Il Signore me l’ha dato, il
Signore me l’ha tolto;com’è piaciuto al Signore, così è avvenuto; sia benedetto
il nome del Signore» (Gb 1,21). Si abbandoni e si affidi a Lui in tutte le cose
e ripeta con il cuore: «Signore sono pronto a sopportare la mancanza delle cose
di cui mi sento spogliato, fino a quando piace a Te e per quanto giova alla mia
salvezza; preferisco esserne privo, piuttosto che averne in abbondanza. Non si
faccia, Signore, la mia volontà istintiva, ma la tua. Sono tutto tuo e, se
potesse esserti di gloria, starei tanto volentieri nell’inferno, quanto nella
tua gloria. Opera in me, Signore, a piacere della tua santissima Maestà».
A questo
modo ricava da tutta la sua afflizione, desolazione e sofferenza una intima
gioia e, mettendosi tutto nelle mani di Dio, è felice di poter soffrire qualche
cosa per il suo onore. Se in queste circostanze saprà contenersi rettamente e
farà cordialmente quando abbiamo suggerito, avrà una gioia intima mai provata
prima. Infatti a chi ama molto Dio, niente è più giocondo del sentirsi tutto
del suo Diletto. E se egli è arrivato attraverso il cammino delle virtù fino a
questo grado, anche se non è passato per i gradi precedenti, non fa niente; non
è necessario, purché stia ben saldo sul fondamento delle virtù, che è l’umile
obbedienza e la dolce rassegnazione; in queste due cose si fonda con
incrollabile sicurezza questo grado.
Intorno a questo
tempo dell’anno il sole entra nella Libbra e i giorni e le notti sono fissati
in uguali spazi e il sole pareggia la luce con le tenebre. Così anche Cristo
nell’uomo desolato porta la distribuzione proporzionata della Libbra. Sia
infatti ch’egli abbondi di dolce o di amaro, sia che infonda luce o seppellisca
nelle tenebre, qualunque cosa gli metta sulle spalle, l’uomo con la grazia di
Cristo ritrova l’equilibrio. Accetta tutto ugualmente, eccetto il peccato, che
dev’essere totalmente distrutto.
L’uomo che
si sente spoglio d’ogni consolazione, vuoto d’ogni virtù e abbandonato da Dio e
dagli uomini, se sa raccogliere e mettere da parte, questo è il tempo in cui il
frumento, il vino e ogni specie di messi hanno raggiunto la maturità. E questo
vuol significare che tutto ciò che il corpo può patire, comunque si presenti,
dev’essere offerto liberamente a Dio, senza contraddire la sua volontà: e che
tutte le virtù interne ed esterne, che venivano esercitate con gioia, quando
c’era il fuoco dell’amore, devono essere praticate, per quanto è possibile, e
offerte a Dio con animo generoso; per Dio non ci sono opere più grandi né più
meritevoli di queste. Bisogna essere disposti, se ciò desse onore a Dio, a
rimanere privi di ogni consolazione data da Dio stesso. questo è raccogliere
frumento e messi mature, che ci daranno da vivere eternamente e ci faranno
ricchi innanzi a Dio. in questo modo le virtù raggiungono la perfezione, e la
disperazione è cambiata in vino immortale. Dalla pazienza di uomini di questa
specie vengono educati e spinti a cose più grandi tutti quelli che li conoscono
da vicino, e così il frumento seminato da loro si moltiplica meravigliosamente
a vantaggio di tutti i buoni.
Questo è il
quarto grado nel quale l’uomo, secondo le sue forze corporali e la parte
inferiore, si perfeziona attraverso esercizi interni, ma non giunge al punto
che non possa crescere sempre più nella virtù. Tuttavia, dal momento che in
questo grado è provato e tentato da Dio, da se stesso e dalle creature, anche
duramente, la sola virtù della rassegnazione gli viene già valutata come grande
e singolare perfezione; anche se, a dir vero, la rassegnazione della propria
volontà a quella di Dio, è necessaria a tutti quelli che vogliono salvarsi.
Capitolo 31
un impedimento al quarto grado
Poiché in
questo periodo dell’anno viene l’equinozio, il sole scende e il calore
diminuisce, e alcuni sprovveduti raccolgono dei cattivi umori; il loro stomaco
si gonfia, il corpo sta male, compaiono vari sintomi, il gusto del cibo e
l’appetito se ne vanno e alcuni muoiono anche. Altri s’ammalano di idropisia, e
chi si porta a lungo la malattia e chi ne muore. Da questi cattivi umori
derivano anche vari languori e febbri di cui molti s’ammalano e muoiono.
Allo stesso
modo, quando certi uomini di buona volontà ed altri che qualche volta hanno
avuto un certo gusto di Dio, si allontanano da Dio e dalla verità,
s’illanguiscono nel cammino della perfezione, muoiono alla virtù e finiscono
nella morte eterna; questi, dio, incappano in uno di questi tre mali o in tutti
e tre. Perciò chi si trova in questa desolazione, ha bisogno prima di tutto di
una grande forza e di esercitarsi nel modo detto poc’anzi; quello che lo fanno,
non vengono rovesciati e non cadono. Gli imprudenti però e quelli che non
stanno alle norme, facilmente s’ammalano, perché il calore dell’amore si è
smorzato e s’intorpidisce l’interesse per tutte le virtù; cercano comodità e
mollezze fuor di misura e più di quanto la necessità ne richieda. Alcuni
vorrebbero godere delle consolazioni divine; ma vogliono averle senza fatica né
dolore; però il rimanere così soggetti alle cose e alle comodità, immergersi e
dilettarsi in esse, è esattamente quell’essere pieni di umori, che gonfiano lo
stomaco, tolgono il gusto del cibo sano, cioè della virtù, e portano via
l’appetito.
Capitolo 32
Un altro impedimento
Agli
illanguiditi e raffreddati capita anche talvolta di ammalarsi di idropisia, cioè
di bramosia di cose temporali e, grazie alla nuova malattia, più beni hanno e
più ne vogliono, proprio perché sono idropici. Il loro desiderio di beni
cresce, e la sete non si smorza; intanto il loro volto – cioè la coscienza e la
ragione – si smunge, perché frappongono un impedimento al cibo salutare, cioè
alla grazia di Dio, perché scenda in essi.
Alcuni di
essi hanno il cuore tanto avvolto nell’idropisia, si sentono cioè così
pienamente soddisfatti delle cose terrene e diventato così deboli, che non
s’interessano più delle opere di carità, onde viene a mancare loro lo spirito
interiore, si spegne l’anelito del bene e restano privi della grazia divina e
della carità. Così avviene che non riescono più a liberarsi dell’acqua della
malattia, che ormai chiude il loro cuore da ogni parte, sicché muoiono
soffocati e finiscono nella morte eterna. altri però hanno quest’acqua ancora
lontano dal cuore, sono ancora padroni di sé e potranno liberarsi, anche se
avranno da lottare per qualche tempo, a causa di qualche disordinata passione;
ma possono ancora guarire.
Capitolo 33
La
quadruplice febbre spirituale che può danneggiare l’uomo in questo grado
Accade
anche che quelli che sono pieni di umori cattivi contraggono una febbre che è
di quattro tipi. Chiamo pieni di umori cattivi quelli che si concedono troppo
disordinatamente ai piaceri del corpo e a raffinate consolazioncelle delle
creature.
Il primo
tipo di febbre è detto quotidiana e sta a significare la volubilità del
cuore. quelli che ne sono affetti, vogliono saper tutto, parlano di tutto,
giudicano tutto, si mescolano in molte cose altrui più del necessario; molto
spesso perciò tocca di sentire ciò che non vorrebbero sentire e si turbano in
molte occasioni. Si fanno trasportare dalle immaginazioni, ora qua ora là,
come il vento. Questa febbre quotidiana li tiene dalla mattina alla sera,
spesso li agita, anche di notte, quando dormono e quando sono svegli. Forse
possono reggere in grazia di Dio e senza peccato mortale, ma viene impedita non
poco la loro Vita Interiore e la loro pietà, il loro gusto di Dio svanisce.
La seconda
febbre è chiamata terzana, perché un giorno sì e uno no, e sta a
significare incostanza e volubilità. Può durare anche a lungo, ma è pericolosa.
Può essere di due tipi: una proviene da eccesso di calore e l’altra da eccesso
di freddo. Quella che deriva da troppo calore, è la malattia di quelli che,
dopo essere stati attirati da Dio, si rilasciano, e diventano instabili.
Questi passano continuamente stile di vita. prima vogliono vivere nel
silenzio e poi cercano le conversazioni. Decidono di seguire un certo modo di
vita religiosa e poi subito si decidono per un altro. Una volta vogliono donare
tutti i loro beni ai poveri e poi preferiscono di conservare tutto per sé. Oggi
si propongono si recarsi in missioni lontane e domani si propongono di vivere
in clausura. Dicono che sarebbe giusto ricevere spesso il Corpo di Cristo, ma
dopo qualche giorno non gli va più bene. Vorrebbero darsi alla lettura e subito
sono stanchi del silenzio. Tutte queste cose nascono da instabilità del cuore,
instabilità che allontana dalla conoscenza di se stessi e scardina il
fondamento della Vita Interiore e della pratica della pietà.
Cerchiamo
di capire come mai degli uomini vengano colpiti da questa febbre.
È che,
quando uno rivolge i suoi interessi, gli affetti del cuore e i suoi sforzi alla
virtù, alla pratica della pietà e ai precetti della religione, più che
all’intima unione con Dio, sta, sì, in grazia di Dio
perché
cercando la virtù cerca Dio – ma la sua vita è instabile, perché egli, al di
sopra
della virtù,
non s’acquieta in Dio. È come se avesse dentro di sé ciò ch’egli stesso ignora.
Colui infatti ch’egli cerca nella virtù e negli esercizi di pietà, lo porta
dentro di sé, ma lontano e al di sopra delle sue intenzioni dirette. Perciò, se
vuole liberarsi da questa sua volubilità, deve imparare a stabilirsi in Dio e
nella sua sublime unione, al di sopra di tutte le virtù.
L’altro
tipo di febbre terzana, quello che nasce dal freddo, prende coloro che
amano Dio disordinatamente, perché con Lui amano e cercano anche altre cose.
Questa febbre viene paragonata al freddo, perché in essa c’è poco fervore di
carità, dal momento che, insieme a Dio, a spingere alla virtù, ci sono anche
dei motivi estranei. Perciò questi uomini sono divisi nel loro cuore e
instabili. Infatti in tutto ciò che fanno, la natura insensibilmente si prende
ciò che è suo e spesso essi non se ne rendono conto, perché non si conoscono
bene. Spessissimo abbracciano e poi respingono questo o quel precetto o pratica
di pietà. Oggi vogliono fare a non so chi la loro confessione generale e
sentire i suoi consigli, ma domani vanno in cerca di un altro. chiedono
consigli a tutti, ma raramente danno ascolto a qualcuno. Qualunque cosa gli si
rimproveri, la giustificano e carezzano. Vorrebbero avere virtù e buon nome, ma
con poca o nessuna fatica. Desiderano che le loro virtù vengano a conoscenza di
tutti, e proprio questo è il segno che sono ombre vuote e irrilevanti per se
stessi e per Iddio. Stanno sempre all’erta per insegnare agli altri, ma non
sanno imparare niente dagli altri. Per non dilungarmi troppo: un naturale culto
di se stessi e un’occulta superbia è alla base di questa incostanza e volubilità.
Questi però camminano sull’orlo dell’inferno; un passo più in là, e son giù nel
tartaro.
Da questa
instabilità nasce l’altra febbre, la quartana. La quale è un
allontanamento da Dio, da se stessi, dalla verità e da tutte le virtù, ignora,
infatti, tutte queste cose.
Coloro che
ne sono infetti, sono inviluppati in tanti errori che essi stessi non sanno
dove si trovino né che cosa debbano fare. È la febbre più pericolosa di tutte.
Ma quelli
che vivono così lontani da Dio e dalla virtù, rischiano di cader nella
doppia quartana, cioè nell’incuria e nel disprezzo del bene. Infatti quelli
che la contraggono, trascurano e disprezzano tutto ciò che è necessario per la
salvezza, e non c’è niente che impedisca loro di cadere nei vizi di quelli che
non hanno nessuna conoscenza di Dio. E qui non possiamo tralasciare di ammonire
che, se questo può avvenire a coloro che si sono sviati, quanto più devono
temere quelli che non si sono mai interessati né di Dio né di Vita Interiore né
hanno mai gustato ciò che i buoni sperimentano nel loro cammino.
Capitolo 34
Come
Cristo espresse in se stesso i quattro gradi
Se non
vogliamo smarrirci in questi quattro gradi, che adornano la parte inferiore e
le forze corporee nella Vita Interiore, dobbiamo seguire Cristo e tener d’occhio,
non solo quello che Egli insegnò, ma anche come espresse nella sua vita i
quattro gradi. È Lui infatti il Sole fulgido, che spuntò nel cielo
dell’augustissima Trinità e nell’aurora della singolarissima madre sua, la
sempre Vergine Maria, che fu ed è ancora l’aurora e l’inizio del giorno d’ogni
grazia; giorno nel quale esulteremo eternamente.
Gesù Cristo
esercitò il primo grado, perché unito a Dio come Unigenito del Padre e Dio Lui
stesso. In Lui ci furono tutte le virtù che furono e saranno esercitate da
tutte le creature. Figlio del Padre Eterno e veramente uomo, praticò la Vita
Interiore. Portò sulla terra il fuoco che incendiò tutti i santi e tutti i
giusti; nutrì amore sensibile e vero affetto non solo per il Padre, ma anche
per tutti quelli che avrebbero goduto eternamente di Lui. Il suo cuore pieno
d’amore era sempre rivolto al Padre, bruciava d’intenso amore e pregava per
tutte le necessità degli uomini. Tutta la sua vita e i suoi atti interni ed
esterni e tutte le sue parole non furono altro che un rendimento di grazie,
lode e onore al Padre. E questo fu il suo primo grado.
Il medesimo
Gesù Cristo, Sole dolcissimo, diffuse luce e calore ancora più grande. In Lui
c’era la pienezza della grazia e di tutti i doni. Perciò il suo cuore, i
costumi, la conversazione, il tratto emanavano pietà, mansuetudine, umiltà,
benevolenza. Era così affabile che tutti quelli che erano semplici e sinceri,
erano attratti dalla sua conversazione e soavità di modi. Lui, il Giglio
immacolato della valli, il Fiore dei campi, era a disposizione di tutti e da
Lui tutti traevano e traggono il miele dell’eterna consolazione e soavità.
Nella sua umanità ringraziava il Padre per i doni che aveva ricevuto e, nelle
facoltà superiori dell’anima, al di sopra di tutti i doni, si affidava
all’unione col Padre: unione che è la fonte di tutti i beni. E questo è il suo
secondo grado.
Poi lo
stesso Sole glorioso sale più in alto, splende più vivo e irradia. Per tutto il
tempo della sua vita infatti le sue facoltà fisiche e la sua parte sensitiva,
il cuore e i sensi venivano invitati dal Padre Eterno a prendere possesso della
gloria e della beatitudine ch’Egli ora prova sensibilmente, anche nelle sue
facoltà corporali. Ma, sebbene, Egli la desiderasse sommamente con desiderio
naturale e soprannaturale, tuttavia volle attendere il tempo stabilito dal
Padre, da tutta l’eternità. E così esercitò il terzo grado.
Quando poi
giunse il tempo di portare ai granai del regno dei cieli il frutto di tutte le
virtù praticate e da praticare, il Sole eterno cominciò a scendere. Si umiliò e
mise la vita del suo corpo nelle mani dei suoi nemici e, nel momento più grave
della sua vicenda umana, fu abbandonato dai suoi amici, come se non l’avessero
mai conosciuto; il Padre gli sottrasse ogni consolazione interna ed esterna e
fu saziato di tormenti e di disprezzo; gli furono caricati addosso tutti i
peccati del mondo e fu chiesto alla sua parte inferiore di espiare, a termine
di giustizia, tutta la pena che gli era dovuta. Ed Egli non scartò nulla: con
umilissima sottomissione l’abbracciò e soffrì interamente e, sebbene lasciato
in così grave e umiliante abbandono, compì la sua ingente opera con tanto amore
che ricuperò per noi la vita eterna e ci comprò l’eredità alla vita beata.
Così il Signore Gesù praticò il quarto grado, che nella
sua splendida umanità fu il perfetto decoro della sua parte inferiore, nella
quale, per i nostri peccati, soffrì così atroci dolori. Per questo è proclamato
Salvatore del mondo, è coronato di gloria e di onore, è stupendamente esaltato,
sta alla destra del Padre, regna con maestà e potenza e al suo nome sublime si
piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e negli abissi.
Capitolo 35
Che
cosa deve fare chi cerca la divina illuminazione
Chi pratica
le virtù morali con vera obbedienza alla legge di Dio e coltiva, sotto la guida
dello Spirito Santo e con giustizia, le virtù interne e non riserva niente per
sé, né in questo mondo né per l’eternità, e sopporta con pazienza l’incertezza
e le tenebre della mente, i pesi e ogni genere di miseria, ringrazia Dio di
tutto e si offre a Lui con sincera fiducia, questi, per quanto riguarda le sue
disposizioni interne, ha già fatto suo il primo modo della venuta di Cristo. E
si è mosso con la Vita Interiore e si è arricchito di molte virtù e doni e
vivacità di cuore nell’unità sensibile del corpo.
Certo, chiunque sia ben purificato dai vizi,
ordinato, raccolto e concentrato in se stesso, anche se è all’inizio della sua
conversione, può ricevere la divina illuminazione, purché sia capace di
mettersi interamente a disposizione della divina volontà, rinunziando
profondamente a ogni pretesa di personalità. Questa è la cosa più importante di
tutte. Egli poi dovrà percorrere e salire tutte le vie già descritte, ma per
lui sarà di gran lunga più facile che a chiunque altro, perché ha ricevuto più
luce di tutti.
Capitolo 36
La
seconda venuta spirituale di Cristo
Il pregio della seconda venuta di Cristo nella Vita
Interiore è più grande: i doni che Cristo porta sono più preziosi e più
numerosi e le tre facoltà superiori dell’uomo ne risultano adornate, illuminate
e liberate. Questo arrivo di Cristo può essere paragonato ad una sorgente che
scaturisce per tre rivoli. È la pienezza della grazia nell’unità dello spirito;
in essa risiede la grazia come in una sorgente piena e di là, a mezzo dei
rivoli, si versa in ciascuna delle tre potenze superiori, a seconda delle
necessità di ciascuna di esse. I tre rivoli sono particolari influssi operativi
di Dio nelle nostre facoltà superiori, nelle quali Egli opera attraverso la
grazia in molti e vari modi.
Capitolo 37
Il
primo rivolo che scorre nella memoria
In questo secondo modo della venuta di Cristo il primo
rivolo di grazia , che viene da Dio, è una pura semplicità luminosa che invade
lo spirito, ma genericamente, come una crescita dell’intelligenza. Dallo
spirito, come dalla sorgente, questo primo rivolo scorre attraverso tutte le
forze dell’anima, le più basse e le più alte, le solleva al di sopra di ogni
molteplicità e affare, e produce nella persona una specie di semplicità e le
conferisce un vincolo interiore di unità. Così la memoria della persona è innalzata
ed è liberata dal turbinio di immaginazioni estranee e stravaganti e
dall’instabilità. Ma in compenso, e in proporzione della luce, Dio esige
l’azione. Attraverso questa luce, colui che la riceve avverte e comprende di
essere costituito, fondato, permeato, stretto nell’unità della sua mente, o
spirito. Poi innalzato a un nuovo e più alto grado si raccoglie in se stesse,
al di sopra di tutte le immagini delle cose che si presentano, e al di sopra di
ogni molteplicità, appunta lo sguardo sopra una certa nudità e ivi coglie la
soprannaturale ed essenziale unità dello spirito, come la propria abitazione ed
eterna eredità; e gli rimane una propensione perpetua, naturale e
soprannaturale, verso l’unità. E questa unità, a sua volta, per dono, grazia di
Dio e semplice intenzione, tende con amore e perennemente a quella sublime unità
dove il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con tutti i Santi sono congiunti
in unità. E qui col primo rivolo, che chiede unità.
Capitolo 38
il secondo rivolo che illumina
l’intelletto
Per
l’amorosa inclinazione verso Dio e per la divina generosità, scaturisce dalla
pienezza della grazia un secondo rivolo nell’unità dello spirito. Questo è una
specie di splendore spirituale che, diffondendosi in vari modi e distintamente
nell’intelletto, fa sì che tutte le virtù siamo viste distintamente. Ma questa
luce non è affatto in nostro potere. Sebbene infatti stia sempre presso di noi,
è Dio che le dice di tacere, di parlare, di nascondersi e di venire allo scoperto,
e può darla e toglierla a chi vuole e nell’ora che vuole. Poiché dunque è sua,
se ne serve quando e dove vuole. A quelli che sono illuminati da questa luce,
non serve nessuna rivelazione, né di essere rapiti al di sopra o fuori dei
sensi, poiché la loro vita, conversazione e dimora avviene nello spirito, sopra
la parte sensitiva e lì Dio manifesta allo spirito tutto ciò che
piace a Lui e ciò che è necessario per esso stesso o per altri. Ciò però non
toglie che Dio, se volesse, potrebbe certo manifestare immagini e cose future a
chi vuole, nei sensi e fuori dei sensi, in diversi modi.
Ma il
Signore Gesù comanda anche all’uomo investito da questa luce di muoversi e
camminare a seconda di questa luce. Nel muoversi, o uscendo, rifletterà sulla
sua vita e sul suo stato, guardando se sia perfetta la sua somiglianza con Gesù
Cristo, sia riguardo alla divinità sia riguardo alla sua umanità, poiché l’uomo
è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. fissando in alto lo sguardo
verso la verità, con la ragione illuminata, guarderà e contemplerà dal suo
piano di creatura l’altissima natura di Dio e le sue incomprensibili proprietà.
Ma le virtù e le azioni di una natura infinita e incomprensibile sono anch’esse
ugualmente incomprensibili e infinite. Si può tuttavia considerare e
comprendere come la natura sublime della divinità sia di fatto semplice: si può
comprendere l’inaccessibilità della larghezza, l’eternità della lunghezza,
l’oscurità del silenzio, la vastità della solitudine, la beatitudine della
quiete di tutti i Santi e l’unità del godimento di Dio e dei Santi. Molte altre
cose meravigliose e stupende potrebbe uno contemplare nel mare della divinità;
cose stupende, ma inesprimibili, per l’inadeguatezza dei nostri sensi. Usiamo
infatti scialbe immagini sensibili per esprimere la realtà di un bene infinito,
immenso, che non conosce limiti né di numero né di misura; e le immagini
che usiamo variano a seconda della luce che Dio ci dona.
La mente
illuminata dalla luce di Dio può contemplare gli attributi del Padre: com’Egli
sia forza onnipotente, creatore, conservatore, motore, principio, causa e fine,
sussistenza di tutte le cose: ma tutti questi aspetti il rivolo della grazia li
propone separatamente, come diversi lembi di cielo, sotto gli occhi della ragione
illuminata.
Allo stesso
modo mostra gli attributi del Figlio: com’Egli sia il verbo Eterno, la
sapienza, la prima verità, vita di tutte le creature, regola eterna e
immutabile, che vede e prevede chiaramente tutte le cose, irradiazione della
santità che è in cielo e in terra.
Il rivolo
di splendore, che ha diversi modi di luce, mostra anche gli attributi dello
Spirito Santo: com’Esso sia carità, pietà, generosità, misericordia, clemenza,
benevolenza, ricchezza insondabile e straripante, bontà immensa, che riempie di
gioia gli spiriti celesti, fiamma di fuoco, che fonde tutte le cose, fontana di
dolcezza, vivo zampillo che sprigiona ogni delicatezza di profumo e di sapore,
guida e via di tutti i Santi alla beatitudine eterna, felice abbraccio, che
unisce col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, tutti i Beati nel
godimento eterno.
Tutto
quanto s’è detto di Dio è la semplicità indivisa della sua natura, anche se
alla nostra considerazione questi attributi sono apparsi distinti tra loro. Per
noi infatti potenza, pietà, generosità, bontà, verità differiscono nettamente
tra loro, ma nell’eccelsa natura divina sono una cosa sola e non possono essere
staccati tra loro. Invece le relazioni, che sono le proprietà delle persone,
rimangono sempre distinte. Il Padre infatti genera eternamente il Figlio, ma
Lui non è generato da nessuno; e il Figlio, che è generato dal Padre, non
genera a sua volta. Per tutta l’eternità il Padre ha il Figlio e il Figlio ha
il Padre; e queste sono le relazioni tra le due persone. Il Padre e il Figlio
poi spirano l’unico Spirito Santo, che è la volontà amorosa d’ambedue. E queste
tre Persone insieme sono un solo Dio e un solo spirito; e le operazioni che
emanano da loro sono comuni a ciascuno di loro, perché sono compiute nella
potenza di una sola semplicissima natura.
Capitolo 39
La
meraviglia della divina comunicazione ed effusione
L’incontenibile
sublime ricchezza e la traboccante effusione della divina comunicazione
stupisce profondamente; ma ciò che più ci commuove è la singolarità della
comunicazione di tante divine effusioni. L’uomo guarda sempre con stupore come
l’incontenibile divina essenza sia, allo stesso tempo, la suprema gioia di Dio
stesso e di tutti i Santi; come le tre divine Persone agiscono in comunione,
nell’ordine della natura e al di sopra della natura, nella grazia, nella
gloria, in ogni luogo e in ogni tempo, in tutti gli uomini, in cielo e in
terra, nelle creature ragionevoli e irragionevoli, a seconda dei bisogni,
capacità e dignità di ciascuna di esse. Contempla l’uomo come il cielo, la
terra, il sole, la luna, i quattro elementi, tutte le creature e il movimento
del cielo siano a disposizione di tutti. L’anima razionale è a disposizione di
tutte le facoltà superiori di tutto il corpo, di ciascun arto, ed è intera in
ciascun membro. Non può essere divisa, se non con un atto della ragione. Così
tra le facoltà superiori e inferiori, c’è una distinzione che è notata dalla
ragione, ma nella natura sono una cosa sola. Così Dio sta in tutto e in
ciascuna cosa e, tuttavia, sempre a disposizione di tutte le creature. Per Lui
e in Lui sono tutte le cose; da Lui dipendono il cielo, la terra e tutto ciò
che esiste nella natura.
Quando uno contempla industriosamente le stupende e
sempre nuove ricchezze di Dio Onnipotente e l’eccellenza della divina natura e
i doni innumerevoli che Dio riversa sugli uomini, s’accende e cresce in lui
un’intima e devota ammirazione per le ingenti ricchezze divine e per
l’inesauribile amore col quale le diffonde sulle sue creature. E questo genera
una singolare gioia dello spirito e un’illuminata e fiduciosa speranza in Dio;
e la gioia inonda e compenetra lo spirito e tutte le sue facoltà.
Capitolo 40
Il terzo rivolo che
ravviva la volontà
La gioia,
l’abbondanza della grazia divina e la certezza dell’amore di Dio, fatte così
vive in tutto lo spirito, danno origine al terzo rivolo, che è un fervore
ispirato che, come un fuoco, infiamma la volontà, divora tutto e fonde tutto in
una cosa sola e cosparge tutte le facoltà dell’anima con una sovrabbondanza di
doni di singolare eccellenza e suscita nella volontà, spontaneamente, un fine
amore spirituale.
E qui
Cristo, attraverso questo ardente rivolo, comanda di nuovo allo spirito di
uscire per attendere alle attività proprie di questo dono, nel quale si esprime
la venuta di Cristo.
Infatti col
primo rivolo, che è una semplice luce, la memoria viene elevata al di sopra
delle immagini che vengono dai sensi. Con il secondo rivolo, che è una
chiarezza infusa, viene illuminato l’intelletto, per l’intelligenza e distinta
comprensione di ogni esercizio di virtù e dei misteri rivelati nella Sacra
Scrittura. E attraverso il terzo rivolo, che è un ardore ispirato, la volontà
viene accesa di un tranquillo amore e arricchita delle più vistose ricchezze.
Così chi riceve questi doni, diviene uomo spirituale e illuminato. La grazia di
Dio, nell’unità dello spirito, diventa una sorgente e i suoi rivoli, nelle
facoltà superiori dell’anima, diventano zampilli di tutte le virtù. Però la
sorgente della grazia esige un riflusso, che riporti indietro quanto essa ha
versato.
Capitolo 41
Chi
è saldo nell’amore deve uscire in quattro modi
Chi è ben
saldo ed è stretto nei lacci dell’amore, se ne sta ad abitare nell’unità del
suo spirito e, quando esce fuori, si porta, con mente illuminata e generosa
carità, attraverso il cielo e la terra e ammira in tutte le cose l’immensa
generosità e sovrabbondanza divina. Sono quattro i modi di uscire voluti da Dio,
e sono possibili all’uomo. Si tratta veramente di quattro direzioni: verso Dio,
verso i peccatori, verso se stessi e verso tutti i buoni.
Capitolo 42
La
prima uscita
Il primo
modo di uscita riguarda la contemplazione di Dio e della sua gloria e la
sovrabbondante profusione dei suoi doni: come Egli, cioè, diffonda gioia e
felicità abbondantissimamente in tutti gli spiriti beati, a seconda del
desiderio di ciascuno di loro, e come essi, con tutti i doni ricevuti, con
tutte le loro forze, rifluiscano nella stessa opulenza divina, dalla quale
viene ogni motivo di gioia. Infatti il flusso divino esige sempre un riflusso.
Dio è come un mare con flusso e riflusso. Un flusso ininterrotto verso tutti
quelli che gli sono legati con amore, a seconda del bisogno e della opportunità
di ciascuno, e un riflusso che quasi riassorbe tutti quelli che vivono in cielo
e in terra, ai quali Dio ha comunicato i suoi doni; riflusso che non riassorbe
soltanto gli uomini, ma anche tutto ciò che essi hanno e che possono fare; anzi
qualche volta Iddio chiede ad alcuni anche più di quanto essi possono
fare. Dio infatti, che si dimostra verso tutti noi sempre quanto mai ricco,
liberale, misericordioso e benevolo, s’aspetta che anche noi spendiamo amore e
riconoscenza verso di Lui, in proporzione della sua dignità. Dio, se ci pensi,
merita e deve essere amato in proporzione della sua maestà e amore; ma qui
tutti gli spiriti vengono meno. Perciò l’amore dello spirito illuminato non può
accettare limiti. L’amore umano nasce e rimane sempre limitato, e lo spirito
illuminato è in affanno, perché non riesce a trovare modo di saldare il suo
debito. Ed ecco che il suo amore si rinnova sempre, per lo sforzo di amare Dio
nella misura che Dio esige e che lo spirito stesso vuole. Tutti gli spiriti
beati si uniscono insieme e senza interruzione fanno una sola grandissima
fiammata d’amore, sperando di riuscire, almeno così, ad amare Dio quanto Egli
merita di essere amato. Ma neanche la comune fiammata raggiunge lo scopo. La ragione
dice chiaramente che la creatura non può concepire un amore che pareggi quello
di Dio; però l’amore illuminato non si arrende: o amare Dio, come Egli merita,
o è meglio soccombere.
Resta
tuttavia il fatto che la creatura non può amare Dio adeguatamente e questo per
l’uomo illuminato finisce per essere un motivo di gioia, perché egli constata
che il Signore suo Dio, che egli ama sopra tutte le cose, è così sublime, così
eminentemente ricco, che sta al di sopra di tutte le creature, a una distanza
che nessuno può raggiungere.
Un uomo così
illuminato da Dio diffonde luce su tutti gli altri. Si rivolge a tutti i cori e
a tutte le gerarchie degli Angeli, a tutti gli esseri, convinto che Dio abita
in essi, secondo la nobiltà di ciascuno. Illuminato dalla sua luce interiore si
trasporta tra le schiere celesti, traboccanti di carità; là tutto riflette le
ricchezze della Trinità e dell’Unità di Dio.
Questa è la
prima uscita che va verso Dio e verso i suoi Santi.
Capitolo 43
La
seconda uscita, verso i peccatori
Un uomo
divinamente illuminato scende tra i peccatori con gran dolore e commiserazione;
e con profonda devozione e molte preghiere li riconduce a Dio e, come se Dio si
fosse dimenticato di loro, gli ricorda quanto Lui è buono, quanto può e quanto
ha fatto per noi e quanto ci ha promesso. Dio, da parte sua, vuole essere
pregato e chi ama e prega, dall’altra parte, non tollera di vedersi frustrato
nelle sue preghiere. Il nostro uomo non si perde in parole e non si scalda;
neanche tiene alla sua propria volontà, rimette tutto alla volontà di Dio, alla
sua pietà. Sa che Dio ama senza misura e, a questo pensiero, cresce la sua
pace. E poiché egli è infiammato d’amore per tutti, si rivolge a Dio con vive
preghiere, perché effonda la sua misericordia sui pagani, sui Giudei e su tutti
quelli che sono lontani dalla fede, perché Dio sia conosciuto, lodato, amato da
tutti e la sua gloria si diffonda su tutta la terra.
E questa è
la seconda uscita, quella verso i peccatori.
Capitolo 44
La
terza uscita
Qualche
volta l’illuminato penserà ai suoi amici trattenuti nel purgatorio e,
riflettendo sulla loro miseria, attesa, desiderio e pena, pregherà la divina
clemenza in nome della loro buona volontà, della loro immensa afflizione e
dell’ansia ch’essi hanno di Lui; gli dirà che quelle povere anime son pur morte
nel suo amore e che ogni loro speranza e fiducia è riposta nella sua Passione e
nella sua Misericordia.
Può anche avvenire che l’uomo illuminato venga
invitato a pregare per un certo peccatore e che egli avverta che non è mosso
dalla sua volontà, ma da un impulso dello Spirito Santo. Nel suo fervore sente
anche qualche volta che le sue preghiere sono state esaudite e l’impulso
finisce.
Capitolo 45
La
quarta uscita, verso se stesso e verso i buoni
In ultimo,
uscendo verso s e stesso e verso tutti gli uomini di buona volontà, contemplerà
e gusterà la concordia dell’amore e la gioia dello stare insieme e pregherà
ardentemente Dio, perché faccia scorrere i suoi doni su tutti, perché siano
constanti nel suo amore. Istruirà, correggerà e servirà con fede e discrezione
tutti. Abbraccerà tutti in un continuo amore e benevolenza, si farà mediatore
tra Dio e tutti gli uomini. Poi, raccogliendosi dentro di sé con tutti i Santi
e i buoni, si godrà in pace l’unità del suo spirito e l’unità di Dio, nella
quale trovano riposo tutti gli spiriti.
Questa è certamente la vera vita spirituale nella quale
i gradi, i regolamenti e tutte le virtù interne ed esterne vengono degnamente
adornate di bellezza soprannaturale.
Capitolo 46
Come
si possono riconoscere quelli che stanno fuori dell’amore per tutti
Ci sono
degli uomini sottilissimi nel parlare, che sanno discutere acutamente di cose
sublimi, ma sono del tutto ignari della illuminazione di cui abbiamo parlato ed
anche della comune benevola carità. Ci sono tre segni dai quali costoro possono
riconoscere se stessi e possono essere riconosciuti dagli altri, il primo serve
a riconoscere se stessi, gli altri due servono per distinguere gli altri.
Ecco il
primo. Mentre gli uomini veramente illuminati da luce divina se ne stanno, in
semplicità, quieti e fermi, senza prendersi in troppa considerazione, questi
invece svolazzano e, incapaci di star fermi, sono preoccupati dell’altrui
considerazione e non hanno né unità interna né tranquillità d’animo. Se
vogliono conoscersi, questo segno è sufficiente.
L’altro
segno è che, mentre gli uomini illuminati da Dio hanno una sapienza infusa, per
la quale, senza fatica, conoscono la verità con distinzione e profondità,
questi invece si gettano in molte dispute acute e sottili sulle quali ricamano,
studiano profondamente, discutono, ma restano in un terreno sterile, e non
riescono a dar vita a feconde iniziative. La loro dottrina è svolazzante,
sottile e nutrita i cose rare e inutili; è piuttosto d’inciampo a quelli che si
danno alla Vita Interiore, ne turba la pace. Non è fatta per condurre alla
interiorità; insegna solo a pensare acutametne, sottilmente e variamente.
Questo tipo
di uomini difende accanitamente i propri dogmi, anche se gli altri sostengono
le loro tesi con argomenti non meno validi dei loro. Però, quanto a pratica di
virtù, non se ne danno pensiero, e in ogni conversazione rivelano il loro
orgoglio.
Il terzo
segno è che, mentre gli uomini illuminati, che amano Dio, riempiono il cielo e
la terra con la loro universale carità, questi, al contrario, cercano in tutte
le cose la singolarità. Ai loro occhi, essi sono i migliori, i più sapienti;
vogliono che essi e la loro dottrina siano tenuti in grande stima. Tutto ciò
che non è insegnato da loro e tutti quelli che non seguono i loro dettami e non
si uniscono a loro, sono dichiarati ignoranti. Abbondano nelle cure del corpo e
trascurano le piccole cose. In breve: non sono giusti e umili con se stessi,
non sono buoni con i poveri, né forti e devoti con Dio; non conoscono la
tenerezza dell’amor di Dio, e la loro scienza di Dio e di se stessi non è mai
unita alla pazienza.
Guardino tutti questi tre segni e, se li scopriranno in
se stessi, cerchino di evitarli; non ne facciano carico a nessuno, se non
quando le opere li dimostrino evidentemente; altrimenti ne riporteranno una
impurità di cuore, che impedirà a loro la cognizione della divina verità.
Capitolo 47
L’amore
universale di Cristo
Perché
l’amore universale di Cristo diventi la nostra suprema aspirazione, dobbiamo
proporci come modello di vita Gesù Cristo, poiché Lui è stato e sarà sempre di
tutti. Fu mandato infatti sulla terra per la salvezza e per la felicità di
tutti quelli che vogliono convertirsi e rassomigliare a Lui. Perciò, quando
disse di non essere stato mandato che per le disperse pecore d’Israele, non
voleva riferirsi, in senso esclusivo, ai Giudei, ma a tutti quelli che
contempleranno Dio eternamente, poiché questi, tutti e solo questi,
appartengono alla casa d’Israele. I Giudei disprezzavano il Vangelo, i pagani
lo hanno abbracciato e sono entrati nella casa di Dio: così tutto Israele, cioè
tutti quelli che dall’eternità furono scelti da Dio, si salvano.
Vediamo ora come il Signore Gesù si fece di tutti. Pregò
intimamente per tutti quelli che volevano essere salvati. Nel suo amore pensò a
tutti: quando insegnava, rimproverava, consolava, perdonava con infinita
misericordia. La sua anima, il suo corpo, la vita, la morte, tutto il suo
ministero furono e sono sempre a disposizione di tutti, così anche i suoi
sacramenti, doni grazie. Non prese cibo né altra cosa necessaria al suo corpo,
se non per il bene di quelli che voleva salvare. Non ebbe niente di suo; mise
tutto a disposizione di tutti: il corpo, l’anima, la Madre, i discepoli, la
tunica. Per noi mangiò, bevve, per noi morì. Le sofferenze, la Passione e la
povertà che sopportò, furono sue; ma il frutto e il bene, che ne derivano, li
mise a disposizione di tutti, per tutta l’eternità.
Capitolo 48
La
comunità ecclesiale e protesta contro quelli che abusano delle elemosine
Il Signore
Gesù ci lasciò in eredità un tesoro che è costituito dai sette sacramenti e dai
beni temporali della Chiesa; i quali però, essendo frutto della sua morte, dovrebbero
essere a disposizione di tutti, come devono esserlo i ministri che vivono di
questi beni. Perciò quanti vivono di elemosina, cioè i religiosi e quelli che
vivono in clausura, dovrebbero stare a disposizione di tutti, almeno attraverso
la preghiera. Infatti la Chiesa primitiva, papi, vescovi e sacerdoti stavano a
disposizione di tutti: pensavano alla conversione dei popoli, diffondevano la
fede e la sigillavano con la morte e col sangue. Erano semplici, vivevano in
pace e unità di spirito; illuminati dalla divina sapienza, erano
meravigliosamente ricchi di lealtà, benevolenza e amore verso Dio e verso tutti
gli uomini.
Oggi le
cose vanno in tutt’altra direzione. Quelli che si godono l’eredità di Cristo e
le rendite della Chiesa – rendite costituite a titolo di carità e beneficenza e
per la santificazione del clero – sono di animo incostante, inquieti,
dissoluti, volubili, dediti alle cose del mondo, niente affatto preoccupati del
loro ufficio; anzi neppure s’interessano di spere che cosa questo esiga da
loro. Pregano con le labbra, ma il loro cuore non percepisce il senso delle
loro orazioni e tanto meno i misteri stupendi delle divine Scritture, dei
sacramenti e del loro ministero. Sono rozzi e ciechi, mai sfiorati dalla luce
della divina verità; alcuni si concedono ai piaceri del cibo e della bevanda e
al diletto dei sensi sfacciatamente e disordinatamente. E volesse il cielo che
si astenessero da piaceri osceni; ma fino a quando menano una vita di tal
genere, non possono essere illuminati da Dio. quanto gli antichi maestri e
sacerdoti della Chiesa erano pieni di carità e non riservavano nulla per sé,
tanto questi sono avari, spilorci e attenti a non farsi sfuggire niente di
mano. Questi modi di vita sono in contrasto con quelli dei nostri santi ed anche
in contrasto aperto con quanto ci chiede la venuta di Cristo dentro di noi.
Quanto ho detto vorrei che fosse preso in generale; però
ognuno si esamini e si corregga, se è necessario; se invece si sente immune da
questi vizi, si goda la gioia e la pace della buona coscienza, ringrazi Iddio e
si renda utile a tutti gli altri a onore di Dio.
Capitolo 49
Cristo
si è messo a disposizione di tutti nel santissimo sacramento dell’altare
Poiché
mi sono proposto di illustrare in modo speciale il tema della carità
universale, voglio indugiarmi sul singolarissimo dono di Cristo, che Egli
stesso lasciò a disposizione di tutti. In quella cena della grande Pasqua,
vicino di passare dalla nostra miseria al Padre, il Signore Gesù, dopo aver
mangiato con i discepoli l’agnello dell’antica legge, finita la cena, per
donare quel cibo che aveva così a lungo desiderato di dare, prese il pane nelle
sue mani sante e venerabili e ne fece il suo corpo; così del vino, ne fece il
suo sangue e diede l’uno e l’altro a tutti i suoi discepoli e a tutti i buoni,
a loro eterno e comune vantaggio.
Questo dono
e questa vivanda riempiono di gioia e di splendore tutte le feste e tutti i
conviti, sia quelli del cielo, sia quelli della terra, poiché Cristo ci dona Se
Stesso in tre dimensioni. Nella prima ci dona la sua carne e il suo
sangue, la sua vita corporale già glorificata, piena di gioia e di soavità.
Nella seconda ci dona il suo spirito con le sue facoltà superiori; pieno
di gloria, di carismi, di verità e di giustizia. Nella terza dimensione
ci dona la sua persona divina con quel suo particolare splendore, che innalza
il suo spirito e tutti gli spiriti illuminati alla gioiosa unione con la
divinità.
Capitolo 50
La
preparazione alla Comunione
Perciò,
quando ci accingiamo a consacrare, offrire e ricevere il santissimo Corpo nella
sua triplice dimensione, Cristo vuole che ci ricordiamo di Lui. Guarda perciò
come dobbiamo farlo. Cominceremo col riflettere che il Signore Gesù, con
ardentissimo affetto, con immenso desiderio, con fame e amorosa liquefazione di
cuore nella natura umana, ci dona tutto. Tutto ciò ch’egli prese della natura
umana lo dà tutto a noi: la carne, il sangue, la natura corporea. Ma
osserveremo subito con diligenza che questo corpo preziosissimo è stato
tormentato, coperto tutto di ferite, traforato: e solo per amore purissimo e
gratuito attaccamento a noi. Siamo, dunque, onorati e ristorati nella nostra
parte inferiore dalla gloriosissima umanità del Signore Gesù Cristo.
Poi però
guarderemo anche che nel dono stupendo di questo sacramento il Signore ci dona
il suo spirito [si tratta qui della sua anima umana, non dello Spirito Santo]
sovrabbondante di gloria, di una larghezza sconfinata di doni, di virtù,
d’ineffabile e insondabile carità; e con questo spirito veniamo cibati,
adornati, illuminati nelle nostre facoltà superiori, poiché viene in noi Gesù
Cristo con tutto il carico delle sue ricchezze.
E in terzo
luogo contempleremo con amore, che in questo nobilissimo Sacramento dell’Altare
del Signore Gesù ci dona la sua sublime persona divina che risplende in Dio
d’incontenibile bellezza, e con essa noi veniamo portati al Padre e il Padre ci
prende come figli adottivi, insieme al suo unico Figlio naturale; e così
entriamo in possesso della nostra eredità, che è il godimento dell’eterna
divinità nella beatitudine eterna.
Poi, dopo
aver richiamato alla mente queste cose e dopo averle ben meditate, ci
disponiamo ad andare incontro a Cristo, nel modo in cui Egli stesso si è
degnato di venire a noi. Ci alzeremo, dunque, per andare da Lui col cuore pieno
di affetto, di desiderio e di tenero amore, con grande raccoglimento e assetato
ardore. In questo modo, penso, Cristo prese Se Stesso nella Cena. Né si dica
che ciò sembra troppo. Poiché qui la nostra natura riceve la natura di Cristo:
la sua umanità gloriosa sovrabbondante di gioia e splendida per dignità. Vorrei
perciò che, nel ricevere questo sacramento, tutta la mia umanità si disfacesse
di desiderio, di gioia e giocondo piacere. Poiché qui l’uomo riceve e abbraccia
il più bello dei figli degli uomini, di gran lunga il più dolce e il più
amabile.
Nell’atto
di ricevere con ardente desiderio un così gran sacramento, spesso i Santi
sperimentarono cose stupende: molti grandi segreti e meraviglie furono rivelati
ad alcuni dalla bontà di Dio. E poi, in verità, se uno che ama Dio pensasse in
quel momento ai tormenti della Passione, al sangue di Colui che sta ricevendo,
credo che verrebbe preso da tanta amorosa devozione e sensibile compassione,
che vorrebbe rimanere inchiodato alla croce con Cristo e versare il sangue del
cuore in suo onore. Difatti molte cose sono state rivelate ai Santi in tali
momenti e tantissimi doni sono stati elargiti. E possa questo amore sensibile,
questa intensa ed intima considerazione delle piaghe di Gesù Cristo crescere al
punto che qualcuno almeno senta, non solo nel cuore, ma anche nella membra, le
ferite di Cristo; in modo che, se ci fosse uno nel quale dovessero un’altra
volta essere impresse le piaghe del Cristo, nessuno fosse più atto di lui.
Ci fermiamo
qui per quanto riguarda la nostra parte inferiore nel ricevere Cristo.
Passeremo poi nell’unità del nostro spirito e percorreremo cielo e terra con
immensa carità e lucido discernimento. In questo modo diventeremo simili a
Cristo secondo lo spirito e gli facciamo onore anche nella parte superiore.
In ultimo,
facendo leva sulla grazia della divinità di Cristo, con retta intenzione, e
avido desiderio della fruizione, superando noi stessi e la sostanza creata di
Cristo, c’immergeremo nella nostra eredità, che è l’eterna divinità. è quanto
il Signore Gesù è sempre pronto a darci ogni volta che Lo riceveremo nel modo
che abbiamo descritto. è sua precisa volontà che Lo riceviamo sacramentalmente,
ogni volta che è giusto e che la coscienza illuminata lo consiglia. E anche se
non sempre uno sente quel fervore, quell’affetto e sensibile amore che la
dignità dell’ospite vorrebbe, se veramente si ha di mira l’onore di Dio,
il progresso e la salvezza dell’anima, potrà accedere tranquillamente alla
mensa del Signore; l’unica condizione inderogabile è che abbia la certezza di
non essere in peccato mortale.
Capitolo
51
L’Unità
della natura divina e la Trinità delle Persone
La sublime
Unità della divina natura, in cui il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, al di
sopra di ogni sforzo della nostra intelligenza, posseggono la propria natura
nella nudità dell’essenza, dove è il più profondo silenzio, supera di gran
lunga la luce di tutte le creature. Ma questa eccelsa Unità è viva e feconda.
In questa infatti dal Padre viene generato eternamente e senza interruzione, il
Verbo Eterno e, per la stessa generazione, il Padre conosce il Figlio e tutte
le cose nel Figlio; parimenti il Figlio conosce il Padre e tutte le cose nel
Padre, poiché sono della stessa semplice natura. Dalla mutua contemplazione del
Padre e del Figlio, nella luce eterna, emana, o procede, una compiacenza e
Amore infinito, che è lo Spirito Santo. Poi, attraverso lo Spirito Santo e
l’eterna sapienza, Dio si rivolge a ciascuna creatura, ma in modo distinto, e
le copre di doni e le accende d’amore, a seconda della dignità di ciascuna e
del grado in cui sono costituite e sono state chiamate da tutta l’eternità per
le loro virtù e per la provvidenza di Dio stesso; e dal medesimo Spirito tutti
gli spiriti buoni che sono nel cielo e sulla terra vengono incitati e spinti
verso le virtù nella giustizia.
Capitolo 52
Dio
possiede e muove l’anima nell’ordine naturale e soprannaturale
Per maggior
chiarezza ricorriamo ad un esempio.
Dio Ottimo
Massimo fece il più alto dei cieli, l’Empireo, come una trasparenza luminosa,
che circonda nel suo abbraccio tutti i cieli e tutto ciò che è corporeo e
materiale nel creato. La dimora di Dio e dei Santi, perciò, sta fuori del
creato ed è straripante di gloria e di perenne gioia. Essendo poi eterna,
semplice e pura trasparenza, non conosce né tempo né luogo né alcuna mutazione;
sta infatti al si sopra di tutte le cose materiali, è immobile, fissa e
immutabile.
Vicinissimo
a questa è il primo mobile: il cielo dal quale ha inizio ogni movimento che,
per virtù divina, proviene dal più alto dei cieli; e di qui si trasmette il
moto al firmamento ed ai pianeti; e tutte le creature, ciascuna secondo la
propria specie, vivono e crescono, grazie a questo primo impulso.
A questo
modo l’essenza dell’anima è il regno spirituale di Dio, regno pieno di
splendore divino, che sorpassa tutte le nostre facoltà, salvo che, ma ora no ne
parlo, queste si trasformano. Al di sotto dell’essenza dell’anima, nella quale
regna Dio, c’è, come il primo mobile, l’unità del nostro spirito. E lo spirito è
mosso dall’alto, sia nell’ordine naturale sia nell’ordine soprannaturale. Non c’è
niente infatti, sia nell’uno che nell’altro ordine, che provenga da noi. Questo
movimento poi, che viene da Dio, è la causa prima e principale di tutte le virtù;
non solo, ma ad alcuni che sono divinamente illuminati, in esso, vengono dati i
sette doni dello Spirito Santo, dai quali, come dai sete pianeti tutta la vita è
resa feconda e illuminata.
Ecco perché Iddio Onnipotente fa del nostro spirito il
suo regno e di qui scorre, si diffonde, agisce con i suoi doni nel nostro
spirito in tutte le sue facoltà.
Capitolo 53
Disposizioni
alla vita interiore – terzo modo della venuta di Cristo nell’anima
Vediamo ora
e consideriamo seriamente come possiamo raggiungere la pratica della Vita
Interiore Affettiva.
Quanto più
una creatura è ricca di doni di Dio, tanto più il suo cuore tende verso l’alto,
riferisce tutto a Dio e si accosta e aderisce più intimamente alla sua origine.
Dio infatti e tutti i suoi doni esigono insistentemente che tendiamo a Lui, e
anche noi, grazie alla carità, alle virtù e a quella somiglianza che abbiamo
con Lui, siamo portati a tendere a Lui.
Ora, quando
uno è bene istruito e con l’esercizio esterno si è arricchito e adornato di
virtù morali e si è nobilmente elevato e possiede l’unità del suo spirito in
una pace quasi divina; quando questo spirito, illuminato da sapienza
soprannaturale, emana in cielo e in terra effusioni di carità; quando con
ossequioso rispetto rifluisce e riporta tutto all’abisso dal quale ha attinto,
cioè alla sublime unità, che è fonte e sorgente di ogni emanazione di grazia;
quando uno, dico, agisce così, sia per l’amantissima benevolenza di Cristo e
per l’operazione ch’egli ha compiuto nell’intimo dello spirito e sia dall’altra
parte, per l’amore ardente dello stesso uomo e per la perfetta immersione di
tutte le sue facoltà nella stessa unità, che è dimora di Dio, ha luogo il terzo
modo della venuta di Cristo; la quale non è altro che un intimo tocco di
Cristo, nel quale con il suo divino splendore Egli tocca e scuote le profondità
del nostro spirito. E come abbiamo paragonato il secondo modo a una sorgente
con tre rivoli, così paragoniamo anche questo modo a una vena d’acqua. Come
infatti non c’è ruscello senza sorgente né sorgente senza una vena , che ne
zampilli, così la grazia di Dio scende nelle facoltà superiori attraverso
rivoli e spinge e infiamma l’uomo a tutte le virtù; tuttavia, nell’unità dello
spirito, onde sbocca, sta raccolta, gorgoglia e zampilla dal fondo della divina
ricchezza, dove pietà e grazia non verranno mai meno.
E questo è il tocco del quale intendo parlare. La
natura sente e avverte questo tocco, perché qui convengono tutte le facoltà
nell’unità dello spirito al di sopra della molteplicità di tutte le virtù. E
qui non agisce nessuno, fuorché Dio solo, il quale, per sua gratuitissima
volontà, è la sorgente delle nostre virtù e di tutta la nostra
salvezza. In questa unità dello spirito, dove lo zampillo della sorgente
gorgoglia, l’animo sta al di sopra di ogni azione e ragione, ma non è senza
motivazione. Infatti la ragione illuminata, soprattutto la capacità affettiva,
sente e riconosce questo tocco, ma la semplice ragione non capisce che cosa sia
né come avvenga. È infatti opera di Dio: una cascata, fonte, origine
d’ogni grazia, e ultimo anello tra Dio e la creatura. A questo tocco, nella
silente essenza dello spirito, dilaga un’incomprensibile luminosità, che è
l’augustissima Trinità, dalla quale pare questo tocco e dove Dio Onnipotente
vive e regna nello spirito e lo spirito regna in Dio.
Capitolo 54
L’uscita
dello spirito a questo contatto
In questo
tocco Cristo dice allo spirito: «Esci e datti agli esercizi propri di questo
tocco». Infatti questo profondo tocco attira il nostro spirito verso la pratica
più intima che è possibile a una creatura nella luce creata. Lo spirito perciò
si alza per forza dell’amore e si porta al di sopra delle sue azioni ed si
spinge nella stessa unità, dove scaturisce lo zampillo di questo tocco. Il
tocco esige dall’intelletto di conoscere Dio nella sua stessa luce e chiede
alla volontà di godere di Dio direttamente alla sorgente. Lo spirito innamorato
vuole questo, sia nell’ordine della natura, sia sopra la natura, più di ogni
altra cosa. perciò ragione, si solleva con la sua riflessione sopra
se stesso, si porta nei suoi intimi segreti dove vive, scruta le cose e le
contempla.
Qui però
viene meno ogni ragionamento e ogni luce creata, e non si va oltre. Infatti
l’eccelsa lucentezza, dalla quale ha origine il tocco, essendo infinita e
immensa, al suo incontro acceca ogni vista creata; e qualsiasi intelletto
umano, che si avvalga solo di luce naturale, fa la fine di un pipistrello
esposto ai raggi del sole. Tuttavia, l’intelletto è spinto sempre più a
scrutare l’intima natura di questo tocco, per vedere che cosa è Dio e che cosa è
questo suo tocco. Così la ragione illuminata si domanda ancora donde esso
venga, e cerca di conoscere direttamente la fonte di questo dolcissimo
zampillo.
Ma non fa
un passo in questa conoscenza. Dice dunque: «Non so che cosa sia», perché un
sublime chiarore percuote l’intelletto e lo acceca.
Così si diporta il divino splendore con tutti gli
intelletti in cielo e in terra. ma coloro che con lo studio delle virtù e con
la pratica affettiva interiore scavano fin nel fondo del loro essere – che è la
porta della vita eterna – questi, sì, possono sentire e riconoscere questo
tocco: e lì risplende una così immensa luminosità di Dio, che ogni intelletto
crolla totalmente e, voglia o no, cede innanzi allo splendore di Dio. però,
sebbene la ragione e l’intelletto debbano ritirarsi, o fermarsi alla porta, la
capacità affettiva, che era stata stimolata insieme all’intelletto, sebbene la
sua vista non sia eccellente, tenta di cacciarsi dentro, per gustare almeno
qualche cosa. il godimento infatti sta più nel gustare e sentire che nel
comprendere. Avviene intanto già che, mentre l’intelletto è rimasto fuori,
l’amore lavora con tutte le se forze per entrare.
Capitolo 55
La
perpetua fame di Dio che prende il nostro spirito
Qui nasce una perpetua fame, che non può essere
saziata: è l’intima, avida e bramosa forza di chi ama, l’aspirazione dello
spirito al bene increato. Lo spirito umano infatti è contemporaneamente spinto
dal suo desiderio fortissimo di possedere Dio, ma l’intelletto non riesce mai a
soddisfare pienamente il suo desiderio. Anzi questi affamati si reputano i più
poveri che la vita presente possa avere. Sono famelici, avidi, insaziabili; per
quanto mangino e bevano, non sono mai sazi. La loro fame è eterna, perché
vedono quanto non posseggono ancora Dio, ma nessun vaso creato può contenere
Iddio. Il loro desiderio è avido, ma Dio è tanto più grande del desiderio
e non può essere mai preso interamente. Il banchetto ha tanti piatti, tanto da
mangiare e da bere, tutte cose squisitissime, manca però la sazietà del
godimento. E la fame torna sempre più viva, anche se al tocco, di cui s’è
parlato, scorrono rivoli di miele pieni di delizie, che portano al palato
interno dell’uomo tutto ciò che si può immaginare. Però tutte queste cose,
poiché sono create e son tutte al di sotto di Dio, eccitano soltanto una fame
perpetua e un intollerabile desiderio. E anche se Iddio desse a un tale uomo
tutti i doni di tutti i santi e tutto quello che si può dare, ma non desse se
stesso, la fame non sarebbe mai saziata. Questa fame la fa proprio il tocco di
Dio e quanto più il tocco è veemente, tanto più grande è la bramosia della
fame. Ma è proprio questa la vita o essenza dell’amore nella sua più intensa ed
essenziale espressione; è qualche cosa che va al di là delle ragione e
dell’intelletto. La ragione non può dare e non può togliere niente all’amore,
perché il nostro amore è stato toccato dall’amore divino. E per quanto ne posso
capire io, chi ha sentito il tocco, non credo che possa più separarsi da Dio.
Il tocco di Dio poi, in quanto è sentito da noi, e il nostro desiderio d’amore
sono due esperienze relative a una creatura, e per questo son tali che, durante
la vita, possono crescere sempre.
Capitolo 56
La
gara d’amore tra lo spirito di Dio e lo spirito umano
In questo
impeto d’amore vengono a gara lo spirito di Dio e lo spirito nostro. Dio si
cala in noi attraverso lo Spirito Santo e ci tocca col suo amore. Quindi il
nostro spirito, sia per l’operazione di Dio, sia per il suo stesso istinto
d’amore, si spinge e s’immerge in Dio, e Dio viene a sua volta toccato. Il
mutuo contatto accende una gara di amore, e l’uno e l’altro spirito,
nell’intimo incontro e intensissimo scambio, riporta una ferita d’amore. poi si
gettano l’un l’altro vividi raggi e si guardano in volto; si cercano con grande
avidità. L’uno vuole l’altro interamente e questo offre tutto se stesso e lo
invita; è la liquefazione d’amore. il contatto e la donazione di Dio, da una
parte, e il nostro desiderio e ricambio, dall’altra, rendono l’amore forte e
costante. E questo flusso e riflusso fa ridondare la fonte dell’amore; così il
tocco di Dio e la nostra avida fame diventano il puro amore. mentre questo
avviene, lo spirito è così occupato e posseduto dall’amore, che non può non
dimenticarsi di se stesso e di Dio, perché è tutto essenzialmente preso nel suo
atto d’amore. Qui lo spirito è bruciato dal fuoco d’amore e s’immerge nel
contatto con Dio così profondamente, che ogni suo desiderio è ampiamente
superato e tutta la sua attività si spegne; diventa esso stesso amore, possiede
l’intimità del suo essere, al di sopra di tutte le facoltà, dove tutte le
azioni create cominciano e finiscono. Questo è l’amore in se stesso, radice
fondamento di tutte le virtù.
Capitolo 57
Le
azioni eterne dello spirito – il più alto grado dell’uscita spirituale
Poiché nel
nostro spirito questo amore è vivido e fecondo di virtù, le facoltà superiori
non riescono a stare ferme nell’unità dello spirito. La luce incontenibile di
Dio, il suo immenso amore che sopraffà lo spirito, tocca la facoltà affettiva.
Per cui lo spirito è forzato da un desiderio sempre più acuto e più profondo a
tornare ad agire. Quanto più l’amore è profondo e nobile, tanto più
rapidamente, amando, si consuma e si riduce quasi a niente; ma rinasce e si
riprende immediatamente; questa è veramente vita celeste ed eterna. lo spirito
avido e famelico vuole mangiare e assorbire Iddio, ma in questo tocco di Dio, è
lo spirito che viene assorbito da Dio; vien meno ogni attività e diventa esso
stesso amore. Infatti nell’unità dello spirito si raccolgono e fondono le
facoltà superiori. Ma la grazia e la carità stanno naturalmente al di sopra di
ogni attività, poiché qui c’è una perenne emanazione e uscita attraverso la
carità e le altre virtù, così c’è anche un perenne ritorno con affamato e
intimo desiderio di gustare Dio, e così si stabilisce la dimora perpetua nel
puro amore. tutte queste cose in qualche umana esperienza avvengono al di sotto
di Dio. E questo è, tra tutti gli esercizi che si possono metter su nella luce
di Dio, in cielo e in terra, di gran lunga il più intimo; al di sopra non vi è
che la vita contemplativa, che si svolge nella luce di Dio e in modo divino. E
nessuno si può ingannare in questo esercizio. Comincia qui nella grazia e durerà
poi in eterno nella gloria.
Così
finisce la seconda e terza parte, che commenta le parole: Sta venendo lo
sposo, uscite.
Capitolo 58
Quarta
parte: incontro allo Sposo
Finora
abbiamo spiegato come l’uomo con l’animo libero ed elevato, attraverso la
grazia di Dio, nei suoi esercizi interiori cominci a vedere Iddio; e questo è
quanto, nella prima parte, Cristo esige da noi dicendoci: Ecco.
Nella
seconda e terza parte, a commento delle parole Viene lo sposo, uscite,
abbiamo trattato del triplice modo della venuta interna di Cristo e dei quattro
gradi della prima venuta, e abbiamo anche tentato di descrivere come,
attraverso gli esercizi interni, dobbiamo uscire nel modo che il Signore,
venendo in noi, c’insegna e stimola a fare. Dobbiamo ora passare alla quarta
parte, dove Cristo ci dice: Incontro a lui.
Ogni nostra
visione spirituale, frutto di grazia o di gloria, e ogni nostra uscita che sia
connessa alla virtù, in qualsiasi esercizio, riguarda sempre il nostro incontro
con Cristo e la nostra unione con Lui, poiché è Lui la nostra quiete eterna,
nostro fine e mercede d’ogni nostra fatica. È noto che qualsiasi incontro
suppone che le persone muovano da direzioni diverse. Cristo infatti viene
dall’alto, e come Signore potentissimo e munificentissimo largitore di doni, al
quale nulla è impossibile; mentre noi partiamo dal basso, e come servi
miserabili, che da noi non siamo capaci di niente e manchiamo di tutto. Cristo
viene a noi, e muove dall’interno verso l’esterno, mentre noi andiamo a Lui
dall’esterno verso l’interno; così avviene uno scambievole incontro spirituale,
e in due modi: uno attraverso un mezzo e uno immediatamente.
Capitolo 59
Incontro
essenziale di Dio nella nuda natura
Vorrei che
il lettore fosse ben attento e capisse bene. L’unione del nostro spirito con
Dio stesso avviene nella linea dell’essenza e nella linea dell’operazione.
Nella linea essenziale lo spirito riceve Cristo nella natura, senza
intermediari e senza interruzione. Infatti l’essenza che noi siamo e abbiamo,
secondo l’idea eterna di Dio, non ha alcun mezzo o parte. Perciò il nostro
spirito riceve il sigillo del suo modello eterno e il divino splendore nel suo
essere più profondo e più nobile, nella nuda natura e diviene dimora eterna di
Dio, che Dio riempie col suo perpetuo starvi dentro e si degna di visitarla
ripetutamente con rinnovate irradiazioni di sempre nuovo splendore e luce della
sua eterna generazione. Dovunque infatti Dio arriva, Egli c’è già e, dovunque
sta, arriva, dove non è mai stato, non ci arriva mai, perché in Lui non c’è
novità né mutazione. Le cose nelle quali Egli sta, sono a loro volta in Lui,
perché Egli non può uscire da se stesso. Lo spirito, dunque, nella sua natura,
essenzialmente, possiede iddio e Iddio possiede lo spirito. Lo spirito vive in
Dio e Dio vive nello spirito. Lo spirito, nel suo essere supremo, è capace di
ricevere, a questo modo, senza intermediari, tutto ciò che Dio può dare, e il
suo splendore. Anzi, grazie allo splendore della sua immagine eterna, che
riluce in esso, essenzialmente e personalmente, lo spirito si cala e s’immerge
nella divina essenza e ivi abitano sempre, a modo di idea, possiede la sua
eterna beatitudine, e ne viene fuori di nuovo attraverso la generazione eterna
del Verbo, con tutte le creature, e viene così costituito nel suo essere
creato, per liberissimo volere della sacrosanta Trinità e Unità, dalla quale è
stato creato. Inoltre, nella sua essenza creata, riceve e ritiene, senza
interruzione, il sigillo del suo eterno modello, come uno specchio terso ritiene
sempre l’immagine dell’oggetto che gli sta davanti e, senza posa, ne rinnova la
riproduzione con sempre nuova luce. Questa essenziale unità del nostro spirito
con Dio nasce e non dura per se stessa, ma sta in Dio, dipende da Dio e in Dio,
sua causa eterna, si riflette, finora non si è mai allontanata da Dio e non lo
farà nei secoli. Questa unità c’è in noi per natura. E se la creatura si
allontanasse da Dio, finirebbe immediatamente nel nulla. Sta al disopra del
tempo e del luogo e, a somiglianza di Dio, opera sempre, riceve il sigillo di
Dio, perché ne è una certa somiglianza e, passivamente, come creatura, riceve
l’impronta del modello.
Abbiamo
questa nobiltà per natura nell’unità essenziale del nostro spirito, dove esso è
naturalmente unito con Dio; questa unità però non ci fa santi né beati; essa
infatti è comune ai cattivi quanto ai buoni, anche se può essere indicata come
causa prima di ogni santità e beatitudine.
E questo è
l’incontro e unione naturale dello spirito divino e dello spirito umano.
Capitolo 60
Incontro
soprannaturale dello spirito di Dio e dello spirito nostro
Scongiuro
il lettore di stare attento a quanto stiamo per dire, poiché, se ha ben
compreso e assimilato quanto abbiamo detto innanzi, se di seguirà, potrà più
facilmente comprendere qualunque verità divina gli venga insegnata da una
creatura e anche molto di più.
Una cosa è
il modo di diportarsi del nostro spirito nelle operazioni ed altra cosa è il
modo in cui esso sussiste nelle operazioni ed altra cosa è il modo in cui esso
sussiste in se stesso, come creata e personale esistenza. Ed è in questa che
sta il fondamento e l’origine delle nostre facoltà superiori, il principio e la
fine di ogni azione della creatura nell’ordine natura le soprannaturale. Questa
unità non agisce come tale, ma è dal suo fondamento, cioè, dall’essenza
personale dello spirito, che tutte le forze dell’anima, qualunque cosa
facciano, derivano la capacità e l’energia per agire.
In questa
unità lo spirito dell’uomo, o è simile a Dio, attraverso la grazia e le virtù,
o gli è dissimile, a motivo di peccato mortale. Che l’uomo poi sia fatto a
somiglianza di Dio, dev’essere attribuito alla grazia, che è uno splendore
deiforme, che ci illumina con i suoi raggi e ci fa simili a Dio; e senza questa
grazia, non possiamo mai essere uniti soprannaturalmente a Dio. perciò, sebbene
non sia possibile perdere la naturale somiglianza con Dio, tuttavia, se
perdiamo la somiglianza che abbiamo con Lui in virtù della grazia, saremo
eternamente condannati. Pertanto, appena Iddio benignissimo ci vede disposti in
qualche modo a ricevere la sua grazia, è pronto a vivificarci e a farci simili
a Lui, ma solo per sua libera e personale bontà.
Siamo
disposti a ricevere la grazia, ogni volta che ci convertiamo a Lui con tutta e
intera la nostra volontà. In quell’istante Cristo viene a noi, con o senza
mezzo, cioè attraverso i doni della sua grazia o al di sopra di qualsiasi dono;
e noi parimenti andiamo a Lui e in lui, con o senza mezzo, cioè al di sopra
delle virtù o attraverso le virtù. Intanto Egli imprime in noi la sua immagine
e somiglianza; cioè, imprimendo in noi se stesso e i suoi doni, ci libera dai
peccati, si assolve, ci fa liberi e simili a sé. Ma nel momento steso in cui
Egli ci libera dai peccati e ci rende simili a Sé nella carità, il nostro
spirito si tuffa nella fruizione immediata e soprannaturale, nella quale
consiste la nostra salvezza e felicità.
Per Iddio è
cosa naturale ch’Egli doni grazia e perdono per sola bontà e amore, ma per noi è
cosa immotivata, imprevista e soprannaturale, proprio perché noi, che eravamo
estranei a Lui e dissimili, ci troviamo dotati di divina somiglianza e
gratificati delle unione con Dio.
Capitolo 61
Dio
posseduto in unità al di sopra di ogni somiglianza e della grazia
Questa
unione e questo incontro, che lo spirito raggiunge senza alcun mezzo, deve
avvenire molto al di sopra della nostra intelligenza, a livello di essenza. In
questa gaudiosa unione avremo pace e quiete costante, sia al di sopra di noi
stessi, sia al di sopra di tutte le cose. E sebbene dalla stessa unione
promanino tutti i doni naturali e soprannaturali, tuttavia lo spirito riposa in
essa al di sopra dei doni. Poiché qui non c’è altro che Dio e lo spirito che si
unisce a lui, senza intermediario. In questa unione, siamo accolti dallo
Spirito Santo e lo Spirito Santo è accolto da noi, e non riceviamo solo Lui, ma
anche il Padre e il Figlio e tutta la natura divina. La divinità infatti non può
essere divisa e data a pezzi. La stessa avida sete dello spirito, che vuole
possedere Dio al di sopra di ogni somiglianza, ottiene e possiede al di sopra
della natura ciò che nella sua esistenza lo spirito ha conquistato
naturalmente. Ma questo è comune a tutti i buoni. Come però avvenga, rimane
oscuro e ignoto a loro, a meno che siano di Vita Interiore, liberi da ogni
creatura e illuminati da intelligenza spirituale.
Nell’istante
in cui uno si stacca dal peccato, viene raccolto , nella sua essenza, all’apice
del suo spirito, da Dio, perché abbia quiete per sempre in Dio; percepisce
anche nel fondamento e origine delle facoltà superiori la grazia e una certa
somiglianza con Dio, perché cresca in nuove virtù e progredisca. E fino a
quando la somiglianza rimane intatta attraverso la carità e le virtù, l’unità
gode di una quiete che non può essere perduta se non per il peccato mortale.
Capitolo 62
effetto
e necessità della grazia
Tutta la
santità e tutta la nostra salvezza dipende da questo: che il nostro spirito,
attraverso la grazia e con la disposizione che ci viene dalla originaria
somiglianza con Dio, entri nella quiete della sua unità essenziale. La grazia
di Dio infatti è la via che dobbiamo necessariamente percorrere, se vogliamo
raggiungere la nuda essenza, dove Dio ci si mostra immediatamente in tutta la
sua ricchezza. I peccatori perciò e i dannati sono nelle tenebre, perché sono
privi della grazia divina, che li potrebbe illuminare e guidare all’unione
fruitiva. Intanto l’esistenza in sé è cosa così nobile, che i dannati non
possono decidere la loro distruzione. I peccati però fanno una cortina di
tenebre così fitta e tanta dissomiglianza tra le facoltà del peccatore e
l’essenza dove abita Dio, che lo spirito non riesce ad unirsi all’essenza, che
sarebbe sua e avrebbe in essa quiete eterna, se il peccato non l’impedisse.
Infatti chi
vive senza peccato vive in grazia e in una certa somiglianza con Dio, e Dio è
suo. Dal che è evidente che la grazia è necessaria all’uomo per rigettare il
peccato, per aprire e rinforzare la strada e rendere tutta la sua vita feconda
e fruttuosa. Qui dunque Cristo viene a noi attraverso dei mezzi, cioè
attraverso la grazia e molti suoi doni, e parimenti noi arriviamo a Lui
attraverso le virtù e vari esercizi di pietà, e quanto più intimi sono i suoi
doni e quanto più profondamente ci muove, tanto più profonda e
dilettevole è la nostra attività; il che è ben chiaro, per quanto è stato detto
nell’esposizione dei modi e dei gradi già descritti.
In tutto
questo si vede una perpetua rinnovazione. Dio infatti fa sempre nuovi doni e lo
spirito risponde, a seconda dei doni e delle richieste di Dio. Lo spirito si
rinnova sempre più nobilmente e sale a un più alto grado di vita. L’incontro
avviene di volta in volta attraverso dei mezzi, che sono i doni di Dio, le
nostre virtù e l’opera del nostro spirito. Questi mezzi perciò sono necessari a
tutti gli uomini, poiché senza i mezzi della grazia e dell’amorosa e libera
conversione a Dio, nessuna creatura si è mai salvata né ha mai acquistato la
beatitudine.
Capitolo 63
La
venuta e visita continua di Cristo nel nostro spirito
Dio visita
senza interruzione la dimora e la quiete che ha fatto in noi, cioè l’unità
dello spirito e quella somiglianza che vi si fa attraverso la grazia, e lo fa
attraverso la venuta della sublime generazione e l’immensa profusione della sua
carità, perché Egli vuole abitare negli spiriti che lo amano, in delizia.
Vuol
visitare la somiglianza che lo spirito acquista attraverso la grazia e le virtù,
con larghi e speciali doni, perché attraverso le virtù, con larghi e speciali
doni, perché attraverso le virtù lo spirito progredisca ancora in somiglianza e
splendore.
È volontà
di Cristo, dunque, che viviamo nell’essenziale unità del nostro spirito e vi
rimaniamo insieme con Lui ricchi e straricchi al di sopra di tutti gli atti
umani e delle virtù; è tuttavia acne sua volontà che nella stessa unità, pieni
e ricchi dei virtù e doni, vi dimoriamo attivamente. Vuole insomma che teniamo
d’occhio noi stessi questa unità e somiglianza senza interruzione, in ogni
singola azione nostra. Poiché in ogni nuovo momento Dio nasce in noi e da
questa eccelsa generazione emana lo Spirito Santo con tutti i suoi doni.
Andiamo, dunque, incontro ai doni di Dio con la nostra somiglianza, e incontro
alla sublime generazione con l’unità essenziale.
Capitolo 64
Il nostro progresso continuo
Vediamo ora
come andare incontro a Dio in ogni azione, per acquistare una somiglianza
sempre maggiore e una unione fruitiva sempre più eccellente. Qualunque azione,
benché piccola, se è riferita a Dio con intenzione pura e unica, accresce la
divina somiglianza e merita la vita eterna, in Dio. L’intenzione pura e
semplice raccoglie le forze disperse dell’anima, prepara lo spirito e lo unisce
a Dio. Presenta e offre a Dio la lode, l’onore e tutte le virtù; trascende se
stessa e le cose create, penetra i cieli e trova Dio al fondo di se stessa
nella semplicità. È fine, principio e ornamento di tutte le virtù. Chiamiamo
insomma pura quell’intenzione che tende solo a Dio e giudica tutte le cose in
rapporto a Dio. Respinge e debella la finzione, l’ipocrisia e qualsiasi
duplicità. Bisogna, dunque, che ciascuno in ogni sua azione sopra tutte le cose
s’impegni strenuamente per agire sempre con retta e pura intenzione. È questa
che mette l’uomo sempre innanzi a Dio, lo rende perspicace nell’intelligenza,
forte nelle virtù, libero da vane paure, qui e nel giorno del giudizio.
Questa intenzione pura e retta è quell’occhio semplice, al quale allude il
Signore, che illumina tutto il corpo, cioè tutta la vita e gli atti dell’uomo,
e li preserva immuni dal peccato; è anche una illuminata e interna inclinazione
dello spirito e fondamento di tutta la vita spirituale. Unisce insieme la
speranza e la carità, poiché confida in Dio e gli è fedele. Tiene soggetta la
natura e i sensi, mette pace, sopisce e scaccia i ribollimenti dello spirito.
Conserva integre le virtù; dona e assicura allo spirito pace, speranza e
fiducia in Dio nella vita presente e nel futuro giudizio.
Dimoreremo,
dunque, nell’unità dello spirito, con la grazia e con la somiglianza di Dio;
andremo sempre incontro a Dio con la pratica delle virtù e gli offriremo la
vita e tutte le nostre azioni con intenzione pura e retta, per acquistare, in
ogni atto e ogni momento, una sempre più perfetta somiglianza con Dio.
camminando sul fondo della pura e retta intenzione, incontreremo Dio
direttamente e ci fermeremo con Lui in questo fondamento di semplicità, ed ivi
possederemo l’eredità che ci è stata promessa da tutta l’eternità.
Dunque la
vita e l’agire virtuoso di qualsiasi spirito consiste nella divina somiglianza
e nella purezza della retta intenzione, e la quiete suprema dello spirito ha
luogo, al di sopra delle virtù, nella semplicità dell’essenza.
Tuttavia
gli spiriti si distinguono, quale per una virtù e quale per un’altra, e per la
diversità di somiglianza, e ciascuno possiede la propria essenza in se stesso,
a seconda della sua dignità; e Dio riempie tutti, uno per uno; e ognuno, nel
fondo del suo spirito, in proporzione del suo amore, cerca Dio qui e nella vita
eterna.
Capitolo 65
Vita
attiva e vita affettiva secondo i Doni dello Spirito Santo – Timore, Pietà,
Scienza
Trattiamo
ora dei gradi delle virtù e della santificazione per vedere come dobbiamo
incontrare Dio nella somiglianza che si acquista con la grazia e con le virtù,
per riposare con Lui nella quiete dell’essenza.
Quando uno
vive nel timor di Dio, si dà alle virtù morali e alle pratiche esterne,
obbedisce ai precetti di Dio e della Chiesa ed è pronto ad ogni opera buona con
pura intenzione, ha già una certa somiglianza e collaborazione con la divina
volontà, in ciò che si deve fare e omettere; egli riposa in Dio con questa
somiglianza. Infatti, grazie alla sua fedeltà e purezza d’intenzione, egli
attua la divina volontà, più o meno, a seconda della somiglianza che ha raggiunto.
Egli però attraverso la carità riposa in Dio, suo Diletto, indipendentemente
dalla somiglianza. Se poi si esercita nel timor di Dio, divinamente ispirato,
gli viene dato anche lo spirito di pietà e di generosità. Avuto questo, diventa
pio di animo e di cuore, mansueto, generoso, più fervente, e cresce quindi la
divina somiglianza. E si ritrova, più di prima, a suo agio nella quiete di Dio,
più dilatato e più immerso nelle virtù. Questa somiglianza e quiete gli
riescono più soavi, quanto più diventa simile a Dio. E se si mette a combattere
con grande impegno e pura intenzione contro le cose, che gli sono d’impedimento
nell’esercizio delle virtù, ottiene anche il terzo dono della scienza e
discernimento, per il quale diventa esperto, assennato e sa che cosa fare o
trascurare, quando deve ricevere o quando deve dare. Attraverso la pura
intenzione e l’amor di dio al di sopra di se stesso fa tutte le azioni con
maggiore gioia. È obbediente al Padre, discreto col Figlio, generoso e buono
con lo Spirito Santo, e così vive in una certa somiglianza con la sacrosanta
Trinità e, grazie alla carità e alla pura intenzione, riposa in Dio.
In questo
consiste tutta la Vita Attiva. Si eserciti pertanto, chi vuol progredire molto
seriamente, agendo e obbedendo alla retta intenzione, si guardi da tutto ciò
che è contrario alla virtù e si getti sempre umilmente ai piedi del Signore Gesù,
per crescere di ora in ora nella somiglianza e nelle virtù. Se farà questo, non
potrà sbagliare. Se però si limiterà solo a questo, rimarrà sempre nella
Vita Attiva. Chiunque infatti attende prevalentemente a quegli esercizi che
tengono occupato l’animo, e si lascia prendere dalla moltitudine delle opere,
piuttosto che approfondire i motivi e le cause delle azioni; chiunque concentra
il suo animo sulle attività, sui segni o riti dei sacramenti, sulle
rubriche e consuetudini, più che sulla divina verità che è in queste cose,
rimane sempre attivo esteriormente. Non è molto; però, se le sue azioni son
fatte con intenzione pura e retta, avrà la vita eterna.
Capitolo 66
Il
dono della fortezza
Se colui
che ha percorso tutto il cammino della Vita Attiva vorrà avvicinarsi
maggiormente a Dio, intraprendere una pratica di vita più elevata e raggiungere
un grado superiore di perfezione, deve portarsi dalle opere esterne alle loro
cause, dai segni alla verità che essi contengono. Così, diventando padrone
delle sue azioni e conoscitore della verità, potrà raggiungere la Vita
interiore Affettiva e riceverà il quarto dono di Dio, cioè lo spirito di
fortezza, col quale potrà dominare avversità e prosperità, guadagni e perdite,
speranze e preoccupazioni temporali, tutti gli ostacoli ed ogni molteplicità di
cose che distraggono, questo dono lo libera da tutte le creature. E quando sarà
libero e sciolto da tutte le immagini, sarà padrone di se stesso, raggiungerà
l’unità, senza fatica diventerà uomo interiore, e, al di là di qualsiasi
impedimento, con interna devozione, sublime affetto, lode, ringraziamento e
pura intenzione si convertirà a Dio. Gusterà tutte le sue azioni e tutta la sua
vita interna che esterna; anzi, posto innanzi al trono dell’adorabile Trinità,
spesso sarà preso da un’interna e soave consolazione. Chiunque infatti si reca
a questa mensa con lode e ringraziamento e la celebra con intima riverenza, ne
beve il vino e gusta e mangia almeno le briciole che cadono da quella mensa. La
purezza e semplicità d’intenzione assicura una costante pace interna, e se uno
persevera nella lode e nel ringraziamento e nella purezza d’intenzione sempre
tesa verso l’alto, ottiene un duplice spirito di Fortezza; avuto il quale, non
s’immergerà più nei suoi desideri istintivi né s’indugerà più in consolazioni,
dolcezze, doni di Dio, quiete, pace del cuore; passerà invece liberamente
attraverso qualsiasi dono e consolazione, per raggiungere il suo Diletto.
È forte,
dunque, colui che respinge, abbandona e vince le quiete occupazioni e le cose
terrene. È fornito poi di doppia Fortezza colui che trascende qualunque dono
celeste e consolazione. Questi supera tutte le creature e, grazie al dono della
Fortezza spirituale, con grande virtù e libertà, è padrone di se stesso
Capitolo 67
Il
dono del consiglio
Quando
nessuna cosa creata può vincerlo e impedirgli di perseverare nella sua fortezza
e tende a Dio con pura intenzione, lo loda e lo cerca al di sopra di tutti i
suoi doni, gli vien dato da Dio il quinto dono, che è quello del Consiglio. Con
questo dono Dio Padre lo chiama con i suoi eletti e lo attira alla sua destra.
Il Figlio gli parla dentro e gli dice: «Seguimi presso il Padre, poiché una
sola cosa è necessaria». Lo Spirito Santo gli apre il cuore e lo dilata e lo
accende di ardente amore. vi nasce perciò un forte calore e impazienza d’amore.
chi ha il dono di questo Consiglio, sente un veemente impeto d’amore e niente
che non sia Dio gli può bastare. Perciò abbandona se stesso e tutte le sue cose
per trovare colui nel quale ha imparato a vivere e nel quale tutte le cose
diventano una sola. L’uomo qui deve preoccuparsi soprattutto di seguire Dio
solo con intenzione pura e retta, di dominare se stesso con la ragione, di
rinnegare completamente la sua volontà e di attendere la desiderata unione,
fino a quando piacerà a Dio di concedergliela; in questo modo lo spirito del Consiglio
si raddoppierà.
È grande
infatti colui che esegue i comandi e i consigli di Dio, che abbandona se stesso
e tutte le sue cose e, con amore impaziente e fiammante, dice: «Venga il tuo
regno». Più grande ancora però e più fedele al consiglio di Dio è colui che
rinnega e, per amore, supera la propria volontà e con umile riverenza dice a
Dio: «Sia fatta in tutte le cose la tua volontà, e non la mia». Questo infatti
disse il Signore Gesù, disse mai niente di più giocondo, dilettevole e
onorifico per sé e utile per noi, niente di più gradito e amabile per il Padre
né di maggior scorno per i demoni. Infatti, fu per quella rinunzia alla sua
volontà – secondo l’umanità – che siamo stati tutti salvati. Ed è così che la
volontà di Dio riempie di gioia piena e squisita l’uomo umile, che ama Dio e
non vuole più di ciò che vuole Iddio, anche se Dio dovesse volere ch’egli
finisse nell’inferno. È così che la nostra natura è pienamente dominata, e Dio è
sommamente onorato. A questo punto l’uomo è pronto a ricevere tutti i doni di
Dio; e questo proprio perché ha rinnegato se stesso, ha rinunziato alla propria
volontà e si è dato tutto a tutti. In cambio, egli non desidera niente, non
chiede niente; è contento di quello che Dio gli vuol dare. Poiché la volontà di
Dio è la sua gioia.
In questo
modo chiunque, per amore, si concede e affida pienamente a Dio, è il più libero
di tutti gli uomini, vive senza affanno, perché è certo che Dio non vuole, non
può tollerare di perdere ciò che è suo.
Però Iddio,
sebbene veda tutti i cuori e ciò che avviene nelle creature, tuttavia è solito
mettere a prova qualche volta questi uomini, per consolidare il loro
rinnegamento di se stessi perché possano meritare di essere illuminati e vivano
onorevolmente per Dio e utilmente per se stessi. A questo scopo qualche volta
Dio prende qualcuno dalla sua destra e lo mette alla sua sinistra, lo leva dal
cielo e lo depone nell’inferno, permette che, privato delle sue delizie, venga
coinvolto in grandi miserie, al punto che egli si senta disprezzato e
abbandonato da Dio, ma anche da tutte le creature. Ma non temete. Perché se
questi, prima, quand’era tra l’amore e la gioia, poté rinnegare se stesso e la
sua volontà, al punto che non cercava niente di suo, ma sempre e solo l’onore e
l’amatissima volontà di Dio, più facilmente ora, tra pene, dolori e miserie,
rinnegherà se stesso e non cercherà niente di suo, ma soltanto l’onore di Dio.
Chi infatti è pronto a fare grandi cose, è anche disposto a sopportare grandi
cose. E poi il sopportare con animo tranquillo le avversità è cosa più nobile e
più accetta a Dio e anche più gradita al nostro spirito, che fare con serenità
delle cose grandi. Il patire infatti è più molesto alla nostra natura; perciò,
a parità di amore, lo spirito si esalata di più e la natura è più profondamente
dominata da un’afflizione, o da una croce pesante, che da un’opera grande. E se
poi lo spirito persevera in questo stato di rinunzia a se stesso e di
noncuranza del piacere, come se non volesse e non conoscesse altro, allora lo
spirito di Consiglio, che si è raggiunto, è doppio. Così facendo infatti si dà
onore al consiglio e alla volontà di Dio, sia con l’azione, sia con la
pazienza, concessione di se stesso e umile obbedienza; la natura ne risulta
mirabilmente adorna e l’uomo diventa idoneo a ricevere la divina illuminazione
nello spirito.
Capitolo 68
Primo
grado del dono dell’Intelletto
Poi viene
dato all’uomo il sesto dono, che è quello dell’Intelletto. Questo dono
l’abbiamo già paragonato a una sorgente con tre rivoli. Infatti questo dono
fissa il nostro spirito nell’unità essenziale, scopre e rivela la verità e dà
l’ampiezza della carità universale. Questo dono può essere paragonato anche ai
raggi del sole. Infatti, come il sole permea l’aria di puro splendore ed
evidenzia la varietà dei colori, manifestando così a tutti la sua forza, mentre
il suo calore si diffonde e dà fecondità a tutta la terra, così il primo
fulgore di questo dono dà allo spirito una certa purezza che lo illumina con
una specie di chiarore, come l’aria, quando è illuminata dai raggi del sole.
Infatti la grazia divina, che è il fondamento di tutti i doni, come pura luce,
dimora essenzialmente nel nostro intelletto passivo, e il nostro spirito,
grazie a questa luce, prende vigore, diventa puro, viene illuminato e, ripieno
di grazia e dei doni di Dio, per via della grazia e dell’amore divino, acquista
maggiore somiglianza con Dio. Però, poiché è simile a Dio a suo modo e cerca e
ama Dio con pura e retta intenzione, al di sopra di tutti i suoi doni, non è
soddisfatto né della somiglianza né della luce creata. Infatti, secondo il suo
più profondo essere, naturalmente e soprannaturalmente, tende alla stessa
immensa natura dalla quale discende. Inoltre poi l’originaria unità con
l’essenza divina reclama e attira a sé ciò che le è simile. Perciò lo spirito
si getta e s’immerge felice in Dio come nella sua quiete eterna. La grazia di
Dio sta a Dio come il raggio sta al sole, ed essa è il mezzo e la via che ci
conduce a Dio, e col solo irradiarci, ci fa simili a Dio. Ma chi è simile a
Dio, si immerge in Dio ogni momento, muore in Dio, diventa e rimane una cosa
sola con Dio. La carità infatti unisce a Dio e fa sì che rimaniamo e viviamo in
unità. Riteniamo però la somiglianza nella luce della grazia o della gloria, ed
ivi possediamo noi stessi attivamente nella carità e nelle virtù; e allo stesso
tempo, al di sopra dei nostri atti, nella nuda essenza del nostro spirito,
nella luce divina, riteniamo l’unione con Dio ed ivi, al di sopra di tutte le
virtù, possediamo Dio, nella quiete. La carità infatti opera eternamente in
ragione della somiglianza con Dio, e l’unione con Dio riposerà eternamente
nella fruizione dell’Amore. Questo è l’esercizio e l’attività, o il da fare,
dell’amore. Allo stesso tempo la Carità opera e si riposa nel suo Diletto, e
riposo e amore si corroborano l’un l’altro, infatti, quanto più sublime è la
Carità, tanto più abbondante è il riposo, e quanto più profonda è la quiete,
tanto più intima e intensa è la Carità. poiché vivono l’uno nell’altro. Dunque,
chi non ama, non sa che cosa sia la quiete; e chi non ha quiete, non ama.
Avviene di
solito, anche ai buoni, che credano di non amare Dio e di non riposare in Dio;
ma è un ritrovato dell’Amore, che dà questa impressione: vuole amare più di
quanto po’; le forze non reggono, e si accusa di non amare abbastanza. Ma in
questo stesso atto essi praticano amore e quiete. Nessuno può capire come sia
possibile amare attivamente e allo stesso tempo riposare nel godimento, se non
si è totalmente concesso, è libero da ogni impaccio, quieto e divinamente
illuminato. Veramente chiunque ama Dio, è una sola cosa con Dio, nella quiete,
ed è simile a Dio, per l’azione della Carità. Dio stesso infatti, nella sua
eccelsa natura, della quale noi portiamo la somiglianza, secondo la Trinità
delle Persone, opera eternamente e l’una è perfezione dell’altra. La quiete sta
nell’unità, l’azione nella Trinità e restano così per i secoli eterni. Perciò,
se uno vuol gustare Dio, amare e, se amerà, non resterà privo del gusto di Dio.
Però, se sarà sazio di altre cose, non potrà percepire, al gusto, che cosa sia
Dio. In breve, dunque: noi stessi, nelle virtù e nella somiglianza di Dio, e al
di sopra di noi stessi, attraverso l’amore, possederemo Dio nella quiete e
nell’unione.
Questo
basti del primo grado del dono dell’Intelletto, che riguarda come si fondi
nell’unità colui che è dotato di amore verso tutti.
Capitolo 69
Secondo
grado del dono dell’Intelletto
Come,
quando tutto è illuminato dal sole, lo splendore del mondo, l’eleganza e la
ricchezza delle cose prendono rilievo e si manifestano ai nostri sensi e gli
occhi illuminati allietano gli animi con la molteplice varietà dei colori, così,
quando diventiamo semplici e puri dentro di noi e il nostro intelletto passivo è
illuminato e irradiato col dono dell’Intelletto, diventiamo capaci di cogliere
le eccelse proprietà e attributi di Dio, che sono la causa di tutte le attività
che promanano da Lui. Sebbene gli uomini possano capire le opere di Dio e Dio
stesso attraverso i suoi effetti, tuttavia nessuno, che non sia fornito di
questo dono, potrà comprendere gli attributi dai quali le opere di Dio
promanano e avere un’intelligenza gustosa e adeguata di ciò ch’essi sono nella
loro profondità. È questo dono che c’insegna ad apprezzare la nostra nobiltà.
Ci fa capaci di distinguere nella pratica delle virtù, come dobbiamo vivere
secondo la verità eterna, senza smarrirci. Così colui che ne è illuminato, sa
camminare secondo lo spirito e sa guardare e comprendere convenientemente tutte
le cose del cielo e della terra. Egli può dirigere i suoi passi nei cieli,
contemplando con tutti i santi la nobiltà del suo Amante: la sua sublime
altezza e insondabile profondità, la sua larghezza e altezza, la sua saggezza e
verità, la sua bontà e ineffabile generosità e tutte le altre amabili proprietà
e attributi, del tutto innumerevoli, della natura di Dio, e tutti infiniti,
perché non si distinguono da Lui stesso.
Allora
l’uomo illuminato abbassa gli occhi su se stesso e su tutte le creature e
comprende con quanta generosità, amore e bontà Dio le abbia create e arricchite
di doni naturali d’ogni specie e come, al di là della natura, abbia voluto
donare se stesso agli uomini, se solo vogliamo cercarlo e non rifiutarlo.
Questa considerazione delle molteplici ricchezze e doni di Dio, allieta
meravigliosamente lo spirito, a condizione che siamo morti in Dio, a noi
stessi, che viviamo e conversiamo nello spirito e impariamo a gustare le cose
che rimarranno sempre.
Questo dono
dell’Intelletto ci mostra l’unità che abbiamo in Dio attraverso la fruizione
d’amore, che ci rapisce a noi stessi e ci mostra anche la divina somiglianza
che portiamo in noi attraverso la carità e le virtù. Ci somministra anche luce
e chiarezza per camminare con discernimento nello spirito, perché possiamo
contemplare e conoscere Dio, attraverso immagini, e tutte le cose, a misura
della luce, secondo la volontà di Dio e l’eccellenza della nostra intelligenza.
Questo
basti del secondo grado, che riguarda come l’uomo che arde di carità verso
tutti, sia divinamente illuminato.
Capitolo 70
Terzo
grado del dono dell’Intelletto
Come, fino
a quando l’aria è illuminata dagli splendori del sole, cresce il calore e
feconda tutte le cose; così, quando la ragione e l’intelletto sono illuminati,
per conoscere la verità divina, la volontà – che è la nostra capacità affettiva
– si riscalda e s’accende d’amore e di diffonde verso tutti. Questo dono
infatti, attraverso la verità che noi conosciamo, getta le basi di una certa
carità vastissima e aperta a tutti.
Quanto più
uno è semplice, tanto più è calmo e sereno e profondamente immerso in Dio e
lucido di mente, ricco di buone azioni e disponibile verso tutti, egli trova
meno ostacoli degli altri, perché è similissimo a Dio, Dio onnipotente infatti è
semplice nella sua essenza, è chiarezza nella intelligenza e diffusissima carità
nelle sue opere. Perciò più noi siamo simili a Dio in queste tre cose, tanto più
siamo vicini e uniti a Lui. Dobbiamo perciò rimanere semplici nel fondo
dell’anima; dobbiamo considerare tutte le cose alla luce della ragione
illuminata e infondere in tutte le azioni un amore universale; come il nostro
sole che rimane sempre ciò che è, semplice e immutabile, ma il suo splendore e
il suo calore si spandono sul mondo intero.
Il Padre è
il principio di tutta la divinità, quanto ad essenza e quanto alle Persone.
Perciò dobbiamo prostrarci con umiltà e rispetto davanti alla maestà del Padre;
praticheremo così l’umiltà che è il fondamento di tutte le virtù. Dobbiamo
adorare con fervore la potenza del Padre, dandogli onore e gloria; così saremo
spiritualmente sollevati, poiché il Padre trae dal nulla tutte le cose e le
conserva. Dobbiamo dar lodi e ringraziamenti all’amore costante di Dio, e
servirlo eternamente, perché ci ha liberati dal nemico e dalla morte eterna; è
così che diventiamo liberi. Dobbiamo esporre, con umili preghiere, alla divina
saggezza l’ignoranza e la cecità della nostra natura e implorare che tutti gli
uomini siano illuminati con la conoscenza della verità: così Dio sarà anche da
loro conosciuto e adorato. Dobbiamo implorare la misericordia di Dio sui
peccatori, perché si convertano e progrediscano nelle virtù; così Dio sarà
amato di più. Dobbiamo dare generosamente a quelli che sono nell’indigenza
attingendo alla ricchezza della bontà divina, perché tutti siano saziati e
siano grati a Dio; così tutti possederanno Dio. dobbiamo offrire al Padre con
onore e rispetto tutto ciò che Gesù Cristo, nella sua umanità, ha fatto per
servirlo con amore; così tutte le nostre preghiere saranno esaudite. Dobbiamo
anche offrire al Padre in Cristo Gesù l’interesse amoroso degli Angeli, dei
Santi e dei giusti, così ci uniamo a tutti loro nella gloria di Dio.
Presenteremo inoltre al Padre il servizio della santa Chiesa, il sacrificio
augusto offerto da tutti i preti e tutto ciò che possiamo capire e fare a nome
di Cristo, per rassomigliare a Dio nella carità universale e per superare anche
la somiglianza, unendoci a Lui nell’unità essenziale. Ma dobbiamo
rimanere sempre in unione con Dio ed effonderci eternamente con Lui e con tutti
i Santi nell’amore per tutto e per tutti, e tornare sempre al seno dell’unità
con lodi e ringraziamenti e immergerci, attraverso la fruizione d’amore, nella
quiete essenziale.
Questa è la
più ricca vita ch’io conosca, e questo è possedere il dono dell’intelletto.
Capitolo 71
Il
dono della sapienza
Ed ora
capitemi. Tornando in noi stessi, la fruitiva unione con Dio ci appare come una
caligine e come un qualche cosa senza modo e incomprensibile. Attraverso
l’amore e la pura intenzione, lo spirito si raccoglie in se stesso e, mentre
offre attivamente tutte le virtù, fruitivamente offre se stesso al di sopra di
tutte le virtù.
In questa
amorosa introspezione sboccia il settimo dono, quello dello spirito di
Sapienza, o della scienza saporosa, e il dono penetra non solo nella semplicità
del nostro spirito, ma investe anche l’anima e il corpo con la sapienza e con
un certo sapore spirituale. È questo dono un tocco, o scossa divina nell’unità
del nostro spirito. È come una cascata e sorgente di tutti i doni, d’ogni
grazia e virtù. In questo divino contatto ciascuno gusta il sapore delle sue
pratiche spirituali e di tutta la sua vita, a seconda delle veemenza del tocco
e della misura del suo amore. Ora questa divina mozione è il più intimo
intermedio tra noi e Dio, tra la quiete e l’azione, tra i modi, o gradi finiti
e l’infinito, tra il tempo e l’eternità.
Dio produce
in noi questa scossa spirituale prima di ogni altro dono, sebbene noi non ce ne
rendiamo conto e non la gustiamo propriamente, se non alla fine di tutto. Perché,
dopo che abbiamo cercato Dio, con amore, in tutte le pratiche spirituali, fin
nelle pieghe più intime dell’anima, è allora che sperimentiamo l’irruzione di
tutte le grazie e di tutti i doni di Dio.
Questo
tocco, o scossa, lo sentiamo nell’unità delle nostre facoltà superiori, al di
sopra della ragione, ma non fuori di essa, perché sentiamo di essere toccati.
Tuttavia,
se vogliamo sapere che cosa esso sia e donde venga, la nostra ragione, e
qualsiasi tentativo di ordine creato, viene meno. Infatti, anche se l’aria è
piena di luce, piena di sole e l’acutezza della vista è forte e penetrante,
tuttavia, se uno pretende di seguirne con gli occhi lo splendore dei raggi e
fissare la pupilla sull’asse del sole, gli occhi non possono non fallire nel
loro sforzo e subiranno passivamente lo splendore dei raggi. Allo stesso modo
l’irradiazione dardeggiante della luce divina è così intensa e così forte,
quando arriva alle nostre facoltà superiori, che qualsiasi attività di ordine
creativo viene meno. Qui la nostra attività deve risolvere nel subire
passivamente l’azione di Dio in noi, ed è lì che sta la sorgente di tutti i
doni. Infatti se noi fossimo capaci di accogliere Iddio con la sola nostra
comprensione, Egli si concederebbe a noi senza intermediario, ma questo è
impossibile, siamo troppo angusti per contenerLo. Ecco allora ch’Egli versa su
di noi i suoi doni a seconda della nostra capacità e della qualità del nostro
allenamento spirituale.
L’unità
feconda di Dio sta al di sopra delle nostre facoltà e non cessa mai di
sollecitarci verso questa somiglianza che è fatta di carità e di virtù. Così
noi ci sentiamo insistentemente scossi e spinti a rinnovarci sempre di più, per
divenire più simili a Dio nella virtù. Infatti, al rinnovarsi di questi tocchi
divini, lo spirito è preso da fame e sete e, con l’impeto e la veemenza
dell’amore, si sforza di penetrare tutto l’abisso della divinità, per vedere se
gli riesce, almeno così, di saziarsi. Il risultato è un perpetuo e avidissimo
desiderio famelico che, per quanto si faccia, non viene mai soddisfatto.
È che tutti
gli spiriti amanti, ciascuno secondo la propria elevatezza e secondo il tocco
di Dio, aspirano avidamente a Dio, ma Dio rimane inafferrabile per i nostri
mezzi. Rimane perciò in noi una fame perpetua, cupida e desiderosa.
Quando
incontriamo Iddio, lo splendore e il calore sono così vivi e immensi, che tutte
le facoltà vengono meno e, per effetto dell’amore sensibile, si liquefanno
nella loro stessa unità. Qui le nostre facoltà devono sottostare all’operazione
di Dio, come semplici creature; e qui il nostro spirito, la grazia divina e
tutte le nostre virtù si trasformano, per così dire, in amore sensibile e non
agiscono più, poiché la forza attiva dello spirito si è esaurita, e lo spirito è
diventato esse stesso amore. Perciò ora lo spirito è capace di ricevere tutti i
doni ed è idoneo a tutte le virtù. Al fondo poi di questo amore sensibile c’è
la sorgente viva, cioè la divina irradiazione, che opera dentro di noi, che ci
muove ogni momento, incita, urge, ci tira dentro e ci fa espandere fuori con
muovi atti di virtù. Ho spiegato così il fondamento, l’origine e il modo di
tutte le virtù.
Capitolo 72
Incontro
allo Sposo
Ora cercate
di comprendermi. La smisurata irradiazione di Dio col suo incontenibile
splendore, causa di tutti i doni e di tutte le virtù, trasforma l’inclinazione
fruitiva del nostro spirito e la compenetra con una indefinibile e smisurata
luce. In questa luce lo spirito s’immerge, e si smarrisce in una quiete
fruitiva senza limiti né fondo; quiete che non può essere conosciuta che in se
stessa, cioè, abbandonandosi ad essa. Poiché, se potessimo comprenderla,
sarebbe già soggetta a qualche modo, o misura, e allora non porterebbe più
soddisfarci, e il riposo-quiete diventerebbe irrequietezza perpetua. Perciò
l’inclinazione pura, immensa e amorosa del nostro spirito produce in noi
l’amore fruitivo; questo amore è un abisso che non ha fondo. Ma l’abisso di Dio
vuole un altro abisso in corrispondenza dell’amore fruitivo. Questa interna
sollecitazione di Dio – non so chiamarla altrimenti – è una inondazione di
luminosità essenziale. E questa luminosità ci avvolge in un abbraccio di
immenso amore, ci porta fuori di noi stessi e ci fa scivolare nella caligine
sconfinata della divinità. Così uniti a Dio, senza intermediario, diventando
una sola cosa con lo spirito di Dio, potremo incontrare Dio con Dio, e con Lui
e in Lui possedere per sempre la nostra salvezza e beatitudine eterna.
Capitolo 73
Il
primo modo di questo incontro supremo
Questa vita
intima si svolge in tre modi.
Qualche
volta l’uomo interiore si ritira semplicemente in se stesso con una
inclinazione fruitiva, al di sopra di ogni attività e di ogni virtù, cerca
dentro di sé semplicemente con amore fruitivo, e incontra Dio direttamente.
Dalla sua parte. Dio raggia su di lui una semplice luce, che si mostra a lui
come caligine, nudità, nulla. La caligine lo circonda, sparisce ogni modo, come
se egli fosse smarrito. In questa nudità egli perde la facoltà di vedere
distintamente le cose e si lascia trasformare e permeare da una certa pura
chiarezza. Nel nulla, dente venir meno ogni attività, poiché l’operazione
dell’immenso amore di Dio supera lui e ogni sua azione, ma egli, a sua volta,
nella fruitiva inclinazione del suo spirito, vince in qualche modo Dio e
diventa un solo spirito con Lui. In questa unione con lo spirito di Dio gli è
concesso di gustare un sapore delizioso, possiede la divina essenza. Una volta
inabissato nell’essenza divina, viene ricolmato di una felicità infinita, delle
ricchezze di Dio stesso. E da questa pienezza di amore sensibile, scende nel
cuore e nelle forze del corpo un gusto, o sapore, sensibile e penetrante;
questa infusione rende l’uomo internamente immobile e incapace di dirigere se
stesso e le sue azioni. Nel fondo del suo essere, nell’anima e nel corpo, non
conosce e non prova altro che una certa chiarezza con piacevoli sensazioni e
gusto diffuso.
Questo è il
primo modo, che è vuoto; perché svuota l’uomo di ogni attività, lo solleva al
di sopra delle opere e delle virtù e lo unisce a Dio e assicura la stabilità
delle pratiche più intime, che si possono esercitare. Perciò ogni volta che un
uomo giusto è alle prese con un affare, o con una pratica di virtù, e ogni
volta che è assalito da immagini, in modo che non può raccogliersi, a suo piacere,
in se stesso, trova un ostacolo a questo primo modo, poiché questo modo è
proprio quello nel quale tutte le cose vengono scavalcate e superate, e si
giunge a un santo riposo e quiete.
Capitolo 74
Il
secondo modo dell’incontro supremo
Avviene
talvolta che quest’uomo interiore si rivolga a Dio col desiderio e con
l’azione, per dargli onore e gloria, per offrirgli se stesso e ciò che può
fare, e consumarsi nell’amore di Dio; qui egli incontra Dio attraverso un
intermediario. Intermediario o mezzo è il dono della Sapienza; la quale, come
abbiamo già detto, è fonte e origine di tutte le virtù e spinge ogni uomo
giusto, a seconda del suo amore, alle virtù; un uomo interiore però a volte è
toccato e acceso da tale amore, che tutti i doni di Dio e tutto ciò che Dio gli
può donare, fuori di Se Stesso, gli sembra poco e insufficiente, e non serve
che ad accrescere l’incontenibilità del suo desiderio. Egli infatti percepisce
qualche cosa nel profondo, là dove tutte le virtù, dove l’amore vive e da dove
la fame e la sete d’amore si sviluppano tanto che egli, per eccesso d’amore,
viene meno, si esaurisce e si consuma nell’amore. ha fame e sete di Dio. ogni
volta che percepisce un raggio di luce divina, è preso da Dio ed è scosso dal
nuovo contatto d’amore. Così, vivendo muore e morendo risuscita; e l’avida fame
e sete d’amore si rinnovano in lui ogni momento.
Questo è il
secondo modo che potremmo chiamare affettuoso, nel quale l’amore ha già una
somiglianza con Dio e vuole unirsi con Lui. Certo questo modo è superiore al
precedente ed è più utile a noi; è anche causa di quello, poiché nessuno può
trascendere le azioni e giungere alla quiete, se prima non ha ardentemente e
attivamente amato. Perciò la grazia di Dio e l’amore attivo devono precedere e
seguire le azioni. Non possiamo infatti acquistare meriti né possedere Dio,
senza atti d’amore, e neanche, senza amore, possiamo conservare ciò che abbiamo
già conquistato con l’amore. Stando così le cose, nessuno, che sia sano di
mente e sa quello che dice e abbia le facoltà di amare e di operare, può stare
a riposo. Qualsiasi buono però viene impedito in questo esercizio interno, ogni
volta che si ferma o indugia nei doni di Dio o in qualche creatura, poiché
questo secondo modo è una fame che niente può saziare, fuori di Dio.
Capitolo 75
Il
terzo modo dell’incontro supremo
Da questi
due modi proviene il terzo, che è una Vita Interiore secondo i precetti della
giustizia.
Ora sentite
bene. Dio viene a noi, senza sosta, con o senza intermediario, e ci chiede di
agire e di fruire di Lui, ma in modo che una cosa non sia impedita dall’altra,
ma che sia piuttosto sostenuta e rafforzata dall’altra. Perciò la vita
dell’uomo interiore ha due sensi: la quiete e l’azione; nell’una e nell’altra
però dev’essere intero e indiviso, poiché egli è tutto in Dio, nel quale riposa
fruitivamente, ed è tutto in se stesso, dove ama attivamente. Ed è messo
all’erta ogni momento da Dio, perché rinnovi ambedue le cose. La quiete e
l’azione. E la giustizia, che anima lo spirito umano, vuole dare a Dio ogni
momento tutto ciò ch’Egli s’aspetta. Così a ciascuna irradiazione di Dio,
attiva o passiva, lo spirito si raccoglie in se stesso e con questo atti si
rinnova in tutte le virtù e s’immerge più profondamente nella quiete fruitiva.
In un solo atto Dio dona Se Stesso e tutti i suoi doni; e parimenti lo spirito,
ogni volta che rientra in sé, dona a Dio se stesso e tutte le sue azioni.
Ma
attraverso la luce che Dio irraggia dentro, attraverso l’inclinazione a fruire
di Lui, e attraverso l’amorosa immersione e liquefazione, lo spirito tende
verso Dio e senza sosta viene rapito e portato nella quiete. Poi, attraverso i
doni dell’intelletto e della sapienza saporosa, subisce un tocco che lo stimola
all’azione e, all’istante, è illuminato e acceso d’amore. Gli viene presentato
e offerto tutto ciò che un uomo può desiderare. Brucia quindi di fame e di
sete, perché vede il cibo degli Angeli e la bevanda celeste. Suda nelle pene
d’amore. Vede il suo riposo. È pellegrino e ha sotto gli occhi la sua patria.
Vede la corono che gli è preparata e combatte per la vittoria. E poi alla sua
ragione illuminata, senza misura né numero, vengono fatti vedere consolazione,
pace, gioia, bellezza, ricchezza e tutto ciò che può esilarare il cuore ferito
d’un uomo. Questa vista e il tocco divino rendono l’amore perpetuamente attivo.
Un uomo giusto di questa portata ha già certamente nel suo spirito una vera
vita che consiste in un’azione e una quiete atte a durare eternamente; tuttavia
al termine della vita presente, la vita sarà trasformata e portata ad un
livello ancora più alto.
Questa è la
vita dell’uomo secondo la giustizia: si avvicina a Dio con intimo amore e
perpetua azione, s’immerge in Dio con fruitiva inclinazione, godendo di una
pace perpetua; rimane in Dio e tuttavia con amore universale va verso tutte le
creature gioiosamente praticando le virtù e la giustizia.
Questo è il
terzo grado più alto della Vita interiore. Certo perciò tutti quelli che non
esercitano la quiete e l’azione, non hanno raggiunto la giustizia. Del resto,
il giusto del quale parliamo, quando si raccoglie innanzi a Dio, non saprebbe
trovare alcun ostacolo, poiché egli si raccoglie interiormente, fruitivamente e
attivamente. L’uomo infatti è simile a un doppio specchio, che riflette le
immagini su ambedue le facce. Nella parte superiore, l’uomo riceve Dio con
tutti i suoi doni e, nella parte inferiore, riceve dai sensi le immagini
corporali. Perciò egli può raccogliersi in Dio, a suo piacere, e praticare la
giustizia senza impedimento. Ma l’uomo in questa vita è mutevole e capita
sovente ch’egli si volti indietro e, senza il consenso della ragione
illuminata, si muova senza necessità e per la pressione dei sensi; vengono così
le debolezze quotidiane. Ma queste, nel raccoglimento amoroso dell’uomo giusto,
sono come una goccia d’acqua in una fornace ardente.
Così questo
finisce la quarta e ultima parte, quella che tratta le parole del Signore: Incontro
a lui; e qui mettiamo anche fine a quanto riguarda la Vita Interiore.
Capitolo 76
Primo
modo errato di vita degli oziosi spirituali
Qui però,
prima di passare ad altro, è opportuno far menzione di alcuni che sembrano
buoni e tuttavia menano una vita contraria a questi tre modi e a tutte le virtù.
Ciascuno, dunque, si esamini bene. Un uomo che non è attirato né illuminato da
Dio, non sente il tocco d’amore e perciò non può essere unito a Dio né
attraverso il desiderio attivo, che porta vicino a Dio né attraverso la
semplice fruitiva quiete, che riposa in Dio. Infatti tutti coloro che, privi di
carità soprannaturale, vivono ripiegati su se stessi, vanno cercando la loro
quiete nel possesso di cose estranee; e tutte le creature, per natura,
rincorrono la quiete. La cercano i buoni e i cattivi in molti modi.
Ora fate
attenzione. Quando un uomo è riuscito a spogliarsi e liberarsi di ogni
immagine, quanto ai sensi, e si è sganciato da ogni attività, quanto alle
facoltà superiori, egli arriva alla quiete per il solo processo naturale; e
questa quiete la possono trovare e possedere tutti gli uomini in se stessi, per
via naturale, senza alcun intervento della grazia di Dio. Ma l’uomo che ama Dio
non può possedere questa quiete. Infatti l’amore di Dio e il tocco della grazia
di Dio non sono oziosi; perciò l’uomo interiore e legato a Dio non può durare a
lungo in se stesso, in una quiete naturale, che per lui è un vuoto.
Guardate,
di grazia, in quale modo si pratiche la quiete naturale. I cultori di questa
quiete si mettono seduti e rimangono fermi e inoperosi, senza nessuna pratica né
interna né esterna, per conquistare la quiete desiderata, senza esserne
impediti da cosa alcuna. Ma accomodarsi in questa quiete è innaturale e
illecito. Una quiete di questa specie favorisce e coltiva nell’uomo la cecità e
l’ignoranza di tutte le cose e fa sì che un uomo, senza far nulla, si concentri
tutto in se stesso. questa quiete non è altro che una pigrizia volontaria, alla
quale questi, dei quali parliamo, si dedicano con tanto ardore, da
dimenticarsi, per quanto riguarda le azioni ,di Dio, di se stessi e di tutte le
cose.
Questa
quiete, dunque, è totalmente opposta alla quiete soprannaturale, che si ottiene
in Dio, poiché questa è un’amorosa liquefazione dello spirito, con una
purissima affacciata sullo splendore incomprensibile. Anzi questa quiete
soprannaturale, in cerca della quale si corre sempre attivamente con profondo
desiderio, la si trova nell’inclinazione fruitiva e la si possiede nell’amorosa
immersione; e anche dopo che è stata raggiunta e posseduta, viene tuttavia
ricercata.
Questa
quiete, dico, è tanto al di sopra della quiete naturale, quanto Dio sovrasta le
creature. S’ingannano perciò pienamente tutti coloro che, avendo di mira se
stessi, si adagiano mollemente nella quiete naturale e non cercano Dio nei loro
desideri e tanto meno lo trovano nell’amore fruitivo. Poiché una quiete di tal
genere in verità è un infingardo far nulla, da loro stessi inventato, perché
possano dedicarsi totalmente a quanto, per natura e consuetudine, essi sono
portati. Ma in questa quiete naturale Dio non lo si può trovare, sebbene Egli
sia solito avviarvi quelli che lo cercano con amore, infatti vi possono
arrivare anche Giudei e pagani e perfino i più grandi peccatori, se hanno agito
sempre in buona fede, e riescono a liberarsi da immaginazioni e preoccupazioni.
In questo naturale riposo si prova una grande e piacevole pace, che in se
stessa non è certo un peccato, tanto più che la si trova in tutti gli uomini,
purché riescano a liberarsi da tutto. Ma se uno si propone di dedicarsi senza
il desiderio e la pratica delle virtù. È già finito nel vizio. Poi precipita
nella superbia spirituale, cioè nella compiacenza di se stesso – vizio che non
si cura quasi mai completamente – e si convince anche qualche volta di essere
ciò che non è e di avere ciò che non ha.
Quando
dunque uno possiede a questo modo la sua quiete in un riposo inoperoso e pensa
che qualunque amorosa conversione e congiunzione con Dio gli sia d’impedimento,
se ne sta seduto nella sua quiete e conduce una vita contraria al primo modo,
da noi spiegato, nel quale l’uomo si unisce a Dio; e questa è la causa di ogni
errore nella vita spirituale.
Proponiamo
una analogia. Tutti gli spiriti angelici, che fin dal principio della creazione
si rivolsero a Dio con tutti i doni che avevano da Lui ricevuto, posseggono la
felicità e la quiete eterna; quelli però che, ripiegati in se stessi, volevano
cogliere la quiete in se stessi e questo con vana compiacenza nella luce
naturale, hanno avuto sì una quiete, ma breve e illecita. Subito dopo,
accecati, precipitarono a gran distanza dalla luce eterna, nelle tenebre e
nella inquietudine eterna.
Capitolo 77
I
vizi spirituali dei pigri i quali menano una vita contraria al secondo modo
Però,
quando uno si crea una quiete tutta inerte, senza nessun interesse, o amore, di
Dio, facilmente cade in qualsiasi errore, poiché avulso da Dio e tutto
ripiegato con amore naturale su se stesso, s’attacca a qualsiasi conforto,
dolcezza e a qualunque cosa. È simile a un mercante poiché, in tutti i suoi
atti, pensando a se stesso, pensa al suo guadagno, più che all’onore di Dio.
Certo, chiunque è pieno di questo amore naturale soltanto, possiede se stesso
con forte senso di proprietà e non rinunzia affatto a se stesso.
Ce n’è di
gente di questo tipo. Menano una vita rigida e aspra, fanno grandi penitenze,
ma solo a scopo di acquistare fama di grande santità e averne un gran premio.
Ogni amore naturale infatti è rivolto a se stesso e cerca onori in questa vita
temporale e anche il favoloso premio dell’eterna. alcuni di questi hanno molti
desideri e chiedono a Dio cose rare e singolari; ma spesso vengono ingannati,
perché, col permesso di Dio, ottengono ciò che chiedono per intervento del
demonio; essi però lo attribuiscono al valore della loro santità e si credono
meritevoli di tutto. Il che non fa meraviglia, perché questi sono malati di
superbia e non sono toccati da Dio né illuminati. Contano solo su se stessi.
Basta una piccola consolazione per esaltarli, poiché non sanno quanto sono
vuoti. Son tutti tesi alla soddisfazione del loro io e vanno in cerca di doni
spirituali; ma questa è lussuria spirituale, perché è una disordinata tendenza
dell’amore naturale, che è sempre rivolto a se stesso e cerca il proprio
tornaconto in tutte le cose. Sono malati di superbia spirituale e cercano
sempre di soddisfare la propria volontà. Pertanto si attaccano talvolta così
fortemente a ciò che vogliono, che lo pretendono importunatamente anche da Dio,
e non di rado vengono ingannati dal demonio e qualcuno viene perfino posseduto
dal maligno. Naturalmente, tutti questi vivono una vita contraria alla carità e
a quell’amoroso ritorno su se stessi in cui uno offre a Dio tutto se stesso e
tutto ciò ch’egli è capace di fare, e niente può sedare il suo desiderio di Dio
e niente gli può bastare, fuori del bene incomprensibile di Dio.
La carità è
il vincolo d’amore che ci innesta in Dio. Per essa rinunziamo a noi stessi e ci
uniamo a Dio, e Dio si unisce a noi. Invece l’amore naturale si ripiega su se
stesso e così rimane solo. Negli atti esterni somiglia alla carità, come si
somigliano due capelli dello stesso capo, ma nelle intenzioni la diversità è
enorme. Infatti colui che è pieno di carità e riferisce tutto a Dio, guarda e
cerca sempre l’onore di Dio; invece chi ha solo amore naturale, ha per scopo
sempre se stesso e il suo interesse. Quando però l’amore naturale prende il
sopravvento sulla carità, l’uomo cade in quattro peccati; superbia spirituale,
avarizia, gola e lussuria. Così cadde Adamo nel paradiso terrestre e in lui
cadde tutta la natura umana. Poiché Adamo amò se stesso disordinatamente, con
amore naturale, e quindi staccato da Dio, ne disprezzò il comando; superbamente
pretese l’attribuzione della scienza, volle il piacere della gola e sperimentò
il prurito della lussuria. Al contrario l’intemerata Vergine Maria, che noi
chiamiamo Vitale Paradiso, trovò la grazia perduta da Adamo e tanta di più. È
la madre del bell’Amore. Si rivolse a Dio con ardentissima carità; concepì
Cristo nell’umiltà e, adorna di tutte le virtù, lo offrì al Padre con tutta
generosità. Non gustò mai golosamente alcun dono di Dio né lo chiese. Tutta la
sua vita risplendette di castità.
Colui che
si mette a imitare questa santissima Vergine, supera tutto ciò che è contrario
alla virtù e arriverà a quel regno, dove suo Figlio regna in eterno.
Capitolo 78
Gli
errori dei pigri che si oppongono al terzo modo
Uno che ha
ottenuto un naturale appagamento e se lo gode senza far nulla, tenendo di mira
in tutte le azioni solo se stesso, e persevera ostinatamente nel culto del suo
io, non potrà mai essere unito a Dio, perché la sua vita è viziosa e manca di
carità. ma questa è la peste di coloro che vivono in opposizione al terzo modo:
peste peggiore delle due precedenti. La loro è una vita affatto ingiusta e
piena di errori. Stia molto attento il lettore alla spiegazione, perché capisca
bene ciò che stiamo per dire. Costoro credono di essere dei contemplativi, anzi
i più santi che ci sono al mondo; invece la via che seguono è totalmente
contraria a Dio, ai Santi e a tutti i buoni. Osservi il lettore la loro
dottrina, e li potrà conoscere dalle loro parole e fatti.
Per
quell’appagamento che sentono, credono di essere liberi da ogni cosa terrena e
uniti a Dio direttamente; non solo, credono anche di potersi mettere al di
sopra del culto e della disciplina della Chiesa, al di sopra dei precetti di
Dio, della legge e degli atti di virtù. Sono persuasi che quella loro
soddisfazione è indice di tale eccellenza di stato, che non debbano essere
disturbati da alcun atto, per quanto speciale e illustre, perché la loro
condizione superiore è già superiore a tutte el virtù. Perciò si dedicano a
un’assoluta passività e non fanno niente in nessun senso, se ne stanno come un
arnese, che sta in attesa di uno che l’adoperi. Pensano infatti che, se fanno
qualche cosa, rischiano d’impedire l’opera di Dio. si guardano così da ogni
azione e pratica di virtù; non lodano, non ringraziano Dio, non pregano, non
cercano di conoscere Dio né di amarlo. Credono d’aver già conseguito tutto ciò
che potrebbero desiderare e chiedere. Per lodo, questa è vera povertà di
spirito, poiché non esercitano affatto la volontà, hanno detto addio a tutto e
vivono senza fare più neanche una scelta. Credono di essere pienamente liberi e
in quiete e di aver superato tutti i gradi della perfezione e di possedere già
tutto quanto la Chiesa vuol raggiungere con le sue istituzioni. Ormai, come
essi dicono, nessuno, neanche Dio può aggiungere o togliere qualche cosa a
loro. Hanno fatto tutto: esercizi spirituali, culto, virtù e hanno raggiunto la
pura quiete, dove sono sciolti da ogni obbligo di virtù. Qui, dicono, ci vuole
più impegno a tenersi in quiete, fuori di ogni esercizio di virtù, che
praticarle. Perciò reclamano libertà e non vogliono obbedire a nessuno: né a
papa né a vescovi, né a prelati. All’esterno fanno una certa mostra di
obbedienza, internamente però non si sottomettono a nessuno. Ciò che fa la
santa Chiesa non li riguarda, pretendono di essere esenti da ogni
giurisdizione. La loro dottrina è che, fino a quando uno s’impegna ad
acquistare le virtù, non è ancora perfetto, non ha ancora compreso la loro
spirituale povertà e la loro quiete. Si reputano più perfetti degli Angeli e
dei Santi. Non possono meritare più di quanto hanno già meritato, non possono
progredire oltre nelle virtù e non possono commettere peccati. Perché non hanno
più una loro volontà e, avendo consegnato il loro spirito a Dio nella quiete,
sono una cosa sola con Dio e in se stessi non sono niente. Dicono quindi che
tutto ciò che è voluto dal loro corpo è lecito, perché essi sono in uno stato
di innocenza, anzi, per loro, non c’è alcuna legge. Quindi, se il loro corpo
richiede qualche cosa, o se qualche privazione li mette a disagio, soddisfano
gli stimoli della natura, perché la quiete dello spirito non deve essere mai
ostacolata. Perciò non si curano di digiuni, feste, precetti, a meno che non ci
sia una ragione umana. Vivono senza coscienza, ma non vedono niente di male.
Spero che
di questi non ce ne siano molti; ma, qualunque sia il loro numero, sono
certamente i peggiori di tutti i mortali, ed è difficile che si ravvedano; anzi
talvolta il demonio s’impossessa di loro. Viste però le Sacre Scritture,
studiate le parole e le istituzioni di Gesù Cristo, è evidente la falsità della
loro dottrina, e la loro condotta è completamente a rovescio.
Capitolo 79
Un’altra specie di oziosi spirituali
Oltre a
questi c’è anche un’altra specie di uomini perversi, dediti all’ipocrisia e
alla simulazione, i quali però in qualche cosa si distinguono e sono contrari
ai precedenti. Convengono con i precedenti, in quanto dicono di essere soggetti
all’azione di Dio, di essere liberi da ogni attività e in quiete, e che non
sono altro che uno strumento col quale Dio fa quello che vuole e come vuole.
Affermano, dunque, ch’essi vivono solo in passività, senza nessuna azione e che
le opere che Dio fa per loro mezzo sono più eccellenti e di più merito di
quelle di chiunque altro che le faccia in grazia di Dio. dicono, dunque, che
Dio agisce in essi, che essi non fanno niente e che Dio è l’autore di tutti i
loro atti. Poi, come gli altri, affermano ch’essi non possono commettere alcun
peccato, perché è Dio che fa tutto in loro, che essi sono in piena quiete; che
solo ciò che vuole Dio, è fatto per loro mezzo, nulla di più.
Questi
uomini, messa da parte ogni attività, si danno alla quiete e vivono senza far
mai una scelta. Professano un modo di vita semplice e rassegnato. Sopportano
tutto ciò che accade con tranquillità; ritengono di essere strumenti dei quali
Dio si serve a suo arbitrio, e in molti modi emulano i costumi dei giusti; ma
in alcune cose gli sono contrari. Tutto ciò infatti a cui sono internamente
stimolati, sia che corrisponda e sia che si opponga alla virtù, dicono che
proviene dallo Spirito Santo. Ma in questo e in altre cose di questo genere, si
sbagliano. È certo infatti che lo Spirito Santo non vuole, non consiglia e non
opera in alcun modo cose che non vadano d’accordo con Cristo e con le direttive
della Chiesa.
Confesso
poi che è difficile riconoscere costoro, a meno che uno sia illuminato e abbia
il discernimento della volontà divina. Alcuni di essi infatti sono molto sottili
e sanno come mascherare le cose che sono contrarie alle virtù e come ricoprirle
di veli. Sono attaccati alla propria volontà con tanta pertinacia e sono così
ostinati che preferiscono morire piuttosto che rimangiarsi una sola parola da
loro pronunziata. Si definiscono i più santi e i più illuminati tra i viventi.
Ma si distinguono dai precedenti, perché credono di poter fare progressi e di
poter meritare ancora, mentre quelli asseriscono che non possono meritare più
niente, perché sono ormai nell’unità divina e nella quiete, dove non si può
progredire, perché là c’è solo quiete. Ma gli uni e gli altri sono
perversi e i peggiori degli uomini e da tener lontani, non meno che lo stesso
nemico infernale. Ma che siano falsi e fuorviati non lo può capire se non colui
che ha compreso ciò che in molti modi siamo andati dicendo. Vivono una vita
contrari a Dio, alla giustizia e a tutti i Santi; sono veri precursori
dell’Anticristo e gli preparano la strada con ogni errore e infedeltà.
Pretendono di essere liberi e immuni dai precetti di Dio e delle virtù, beati e
uniti a Dio, senza amore di carità, contemplatori di Dio, senza l’intuito
penetrante dell’amore, e i più santi dei Santi, senza opere di santità.
Vogliono
far credere di essere beati in Colui che non amano e che sono sublimati in
Colui che non sentono e non desiderano, e che fanno a meno di tutte le virtù e
di ogni ricorso a Dio e che se ne stanno in completa quiete, per non essere
d’impedimento all’azione di Dio.
Professano
che Dio è creatore e signore di tutte le cose, ma non vogliono né lodarlo né
ringraziarlo. Professano che la sua potenza e le sue ricchezze sono infinite,
ma pretendono ch’Egli non possa aggiungere nulla a ciò che’essi hanno già; che
essi non possono meritare più di quanto hanno meritato, né perdere, né
progredire, né scadere. Sebbene alcuni la pensino diversamente, dicono che essi
meritano premi maggiori di tutti gli altri, perché Dio stesso opera per loro
mezzo ed essi sono i soggetti dell’opera di Dio, che sono manovrati da Dio; nel
Quale, bontà loro, sta la ragione ultima del merito.
Non è
possibile sbagliare più grossolanamente. Ciò che dicono non è solo falso; è
impossibile. Perché l’azione di Dio è eterna e immutabile; Egli muove solo Se
Stesso e in questa azione nessuna creatura può meritare o progredire, perché
qui viene in causa solo Dio, al quale non può essere tolto né aggiunto proprio
niente. Le creature, per virtù di Dio, hanno azioni proprie e particolari per
natura, grazia e gloria; e di queste azioni, quelle che sono fatte in stato di
grazia, mentre raggiungono in terra il loro scopo, durano poi eternamente nella
gloria. E se fosse possibile – ma è impossibile – che una creatura libera possa
– quanto all’azione – tornare nel nulla e diventare inerte com’era prima che
esistesse – che fosse cioè una cosa sola con Dio, come quando esisteva in Dio
come idea – non potrebbe certamente meritare niente, come non meritò niente
quando non esisteva, e non avrebbe santità e felicità, più di quanto non ne ha
un sasso o un pezzo di legno. Poiché, senza proprie azioni, senza amore e senza
conoscenza di Dio, non possiamo essere beati.
Da tutta
l’eternità Dio esiste ed è beato, ma questo non porta a noi nessun vantaggio. E
perciò quella quiete che costoro pretendono di coltivare è soltanto una mera
impostura. In verità essi non solo cercano di mascherare la loro perversità, ma
la vogliono anche anteporre a tutte le virtù e darle il più sublime prestigio.
E questo cercano di ammantarlo, perché appaia come la migliore delle cose.
Non c’è
dubbio, dunque, che costoro stiano contro Dio e contro i Santi e che siano
somigliantissimi ai demoni e ai dannati dell’inferno, che no amano né conoscono
Dio, e rifiutano ogni lode, ringraziamento e atto d’amore verso di Lui; e
questa è la ragione per cui la loro dannazione resta eterna. A costoro, dei
quali stiamo parlando, non rimane altro che di essere trasportati dal tempo
all’eternità e che la giustizia di Dio sia manifestata nei loro atti.
Ma Cristo,
Figlio di Dio il quale nella sua umanità è capo, norma e regola di tutti i
buoni, perché indirizzino rettamente la propria vita, fu, è e sarà intento ad
amare, desiderare, ringraziare e lodare Dio Padre, per tutti i secoli, insieme
a tutti i Santi. E sebbene nella sua anima Egli fosse ed è unito alla divinità
ed è felice e beato, pure Egli non poté mai avere questa specie di insulsa
quiete e non l’avrà mai. La sua anima gloriosa infatti, e così quella di tutti
i beati, attraverso l’amore, è sempre unita a Dio, come se avesse fame e sete,
e come se, dopo aver gustato Dio, non potesse mai essere saziato. L’anima di
Cristo e tutti i Santi, al di sopra di ogni desiderio – ma lì non c’è che un
solo desiderio – sono intenti alla fruizione di Dio. E questa è la beatitudine
eterna di Dio e dei suoi eletti.
Agire e
godere Dio è la beatitudine ed la vita di Cristo, di tutti i Santi e dei buoni,
a seconda della carità di ciascuno. Questa è la giustizia che non finirà mai.
Perciò la
nostra perpetua cura dev’essere quella di adornarci di tutte le virtù interne
ed esterne, come hanno fatto i Santi, e di presentarci con tutte le nostre
azioni innanzi a Dio in umiltà e amore. Se facciamo così andiamo davvero
innanzi a Lui con tutti i suoi doni e siamo toccati dall’amore divino e veniamo
colmati di fede e benevolenza verso tutti. Allora emaniamo vera carità, veniamo
consolidati nella pace e dentro veniamo fissati nella divina somiglianza.
Attraverso questa somiglianza, attraverso l’amore fruitivo e lo splendore
divino, ci versiamo nell’unità e incontriamo Dio, per mezzo di Dio, senza
intermediario, nella quiete e nella gioia.
Così
andremo eternamente in Dio, ricevendo e rifluendo senza intermediario, questa
sarà vita Interiore perfettamente posseduta. Ce lo conceda il
misericordiosissimo Dio. Amen.
Libro
Terzo
Capitolo 1
Quelli
che fanno parte di questa vita
Tre cose
caratterizzano la Vita Contemplativa dell’uomo spirituale che ama Dio: quiete
fruitiva, amore attivo tutto rivolto a Dio, culto delle virtù secondo giustizia
in tutta la vita. L’uomo interiore e giusto arriva alla divina contemplazione
soprannaturale; ma è Dio che liberamente lo sceglie, per elevarlo alla
contemplazione nella luce divina e in modo divino.
Questa
contemplazione ci mette in uno stato di purezza così netta, che supera ogni
nostra aspettativa, perché si tratta di un ornamento speciale, di una corona
celeste e del premio eterno di tutte le nostre virtù e di tutta la vita. Qui
non si arriva grazie alla scienza, a intuizione o pratica alcuna. Solo colui
che Dio vuole unire a Sé nello spirito e si degna di illuminarlo da Se Stesso;
questi e nessun altro può contemplare Dio.
La stessa
natura divina in eterno contempla e ama le Persone attivamente e nell’unità
dell’essenza, gode l’abbraccio eterno delle Persone. In questo abbraccio,
nell’unità essenziale di Dio, tutti gli spiriti consacrati all’amore di Dio
diventano una cosa sola con Lui, nel Quale si immergono e liquefanno;
diventano, per la grazia, quella stessa unità, che è la Divina Essenza in se
stessa. Di questa sublime unità della divina natura è principio e sorgente il
celeste Padre di ogni operazione che avviene in cielo e in terra. Ed Egli
stesso dice nelle profondità degli spiriti: «Ecco, sta arrivando lo sposo:
uscitegli incontro».
Queste
parole, in questo terzo libro, le applicheremo alla contemplazione
soprannaturale, che è il punto d’arrivo di tutta la santità e perfezione che si
può raggiungere in questa vita.
Pochi
arrivano a questa contemplazione, un po’ per la incapacità dei soggetti e un
po’ per l’oscurità del mistero che si contempla. Perciò nessuno mai, per quanto
erudito e perspicace, potrà comprendere da sé e pienamente quanto stiamo per
dire. Tutte le parole infatti, e tutte le cose accessibili a una creatura, sono
estranee e molto al disotto della verità, della quale ci proponiamo di dire
qualche cosa.
Comprendere
Iddio al di sopra delle analogie, in se stesso, così com’è, è in qualche modo
un essere Dio con Dio, senza un intermediario, o senza un’altra cosa
percettibile, che potrebbe frapporre un ostacolo.
E questo,
una volta per sempre, vorrei che fosse notato e tenuto a mente: la creatura
rimane sempre creatura, non perde mai la sua essenza; e sarebbe assurdo dire
che la perde.
Stando così
le cose, prego tutti coloro, a conoscenza dei quali verranno queste cose, che,
se non le comprendono e non ne fanno esperienza nella fruitiva unione del loro
spirito con Dio, non ne traggono scandalo, ma lascino le cose come sono; per
conto nostro non diremo niente che non sia vero. Cristo disse le stesse cose in
molti passi del suo Vangelo e lo si vedrebbe, se noi potessimo scoprirle e
mettere bene in luce. Per questo motivo, chi vuole comprendere queste cose,
deve essere morto a se stesso e vivere in Dio, deve volgere lo sguardo alla
luce eterna bene a fondo nel suo spirito, dove la verità arcana si manifesta
senza intermediario.
Il Padre
celeste vuole che diventiamo vedenti, perché Lui è il Padre della luce. Ecco
perché Egli, da tutta l’eternità, senza sosta e senza intermediario, dice nel
mistero del nostro spirito una parola unica, abissale e non altro: in quella
stessa parola mostra Se Stesso e tutte le cose. E questo significa quella
parola: Ecco o Vedi. E qui avviene l’uscita e generazione del
Figlio, la Luce eterna, nel Quale si vede e si comprende ogni felicità
Capitolo 2
Tre
cose necessarie per la contemplazione soprannaturale
Se lo
spirito deve contemplare Dio, per mezzo di Dio, senza intermediario, nella luce
divina, sono necessarie tre cose.
La prima è
ch’esso sia, al di fuori, bene ordinato in tutte le virtù e, dentro, sciolto da
qualsiasi impedimento, da ogni attività esterna, come se non avesse niente da
fare. Infatti, se fosse interiormente distratto, o occupato, in qualsiasi atto
di virtù, sarebbe impegnato con delle immagini; ma, fino a quando ci son queste,
non ci può essere contemplazione.
La seconda
cosa è che lo spirito deve aderire a Dio con intenso amore, come una fiamma
incandescente, che non può più essere spenta. Quando si trova in queste
condizioni, può contemplare.
La terza
cosa è che perda se stesso nell’indeterminatezza dell’essenza divina e nella
caligine, nella quale tutti i contemplanti si smarriscono e non riescono a
ritrovarsi più a modo delle creature. In questo abisso di oscurità, nel quale
lo spirito, che brucia d’amore, muore a se stesso, comincia la manifestazione
di Dio e la vita eterna. Qui spunta una luce incomprensibile, che è il Figlio
di Dio, nella quale contempliamo la vita eterna; in essa cominciamo a vedere.
Questa luce divina è data dallo spirito nella semplicità del suo essere, dove
esso riceve lo splendore, che è Dio stesso, al disopra di tutti i doni e di
ogni attività creata, nel vuoto che si apre in uno spirito staccato da tutto e
dove, attraverso l’amore fruitivo, perde se stesso e riceve, senza
intermediario, lo splendore divino: e all’istante, diventa lo stesso splendore
che esso riceve.
Questo
misterioso splendore, nel quale si può contemplare tutto ciò che si può
desiderare, è così grande che l’amante contemplativo, nel profondo in cui egli
riposa, non vede e non sente altro che una incontenibile luce: e scopre che lui
stesso è quella luce, attraverso la quale vede, e nient’altro. E questo è come
uno diventa vedente nella luce divina. Beati gli occhi che vedono a questo
modo, perché posseggono la vita eterna.
Capitolo 3
L’arrivo
dello Sposo e l’eterna generazione del Verbo
Appena
divenuti vedenti, possiamo contemplare con gioia l’arrivo perpetuo del nostro
Sposo; e questa è la seconda cosa della quale vogliamo parlare.
Che cosa è,
di grazia, questo arrivo perpetuo del nostro Sposo? È una generazione, una
nuova illuminazione, che non s’interrompe mai. Il suolo dal quale zampilla lo
splendore e che è lo stesso splendore, è pieno di vita e di fecondità. Perciò
la rivelazione della luce eterna si rinnova incessantemente nelle intime
profondità dello spirito. Ecco, qui bisogna che cessino tutte le azioni della
creatura e tutti gli esercizi di virtù, perché qui Dio genera se stesso nella
parte più nobile dello spirito e qui non c’è altro che perpetua e intensa
contemplazione di questa luce, a mezzo della stessa luce e dentro di essa. E
l’arrivo dello Sposo è così veloce e repentino che, in realtà, Egli viene
sempre e sta sempre dentro, e per di più con immense ricchezze; sta sempre
venendo di nuovo personalmente, incessantemente, e con tale novità di
splendore, come se non ci fosse mai stato prima. Il suo arrivo è un eterno Eccomi,
fuori del tempo, e viene accolto con desiderio sempre nuovo e nuova gioia. La
delizia e la gioia che lo Sposo porta con Sé quando viene, sono decisamente
immense e infinite, perché sono Lui stesso. E per questo motivo, gli occhi con
i quali lo spirito fissa e contempla lo Sposo sono sempre aperti e spalancati e
non si chiudono mai. La contemplazione intensa, con la quale lo spirito fissa
la misteriosa rivelazione di Dio, rimane fissa, e la capacità dello spirito
verso lo Sposo che arriva, cresce tanto ch’esso ha la sensazione di essersi
trasformato nella stessa vastità che sta contemplando. In questo modo Dio viene
visto e compreso attraverso Dio, nel quale sta tutta la nostra salvezza e
gioia. E questo è il secondo punto: come possiamo accogliere in noi
continuamente l’arrivo perpetuo del nostro Sposo.
Capitolo 4
Lo
spirito va incontro allo Sposo per la contemplazione e la fruizione
Ora lo
spirito di Dio dice nella liquefazione e immersione del nostro spirito: «Uscite
per la contemplazione e per la gioia eterna a modo divino». Tutte le
ricchezze che Dio ha per natura, noi le abbiamo in Lui per amore, e Lui le ha
in noi; e ciò avviene per l’amore immenso, che è lo Spirito Santo, nel quale si
può gustare tutto ciò che si può desiderare. Per questo stesso amore, moriamo a
no i stessi e usciamo da noi stessi attraverso la liquefazione amorosa, siamo
immersi nell’essenza infinita e nella caligine; qui lo spirito dimora
eternamente nell’abbraccio della Santa Trinità, nell’unità soprannaturale,
nella quiete e nella fruizione di Dio.
In questa
unità, grazie alla sua fecondità, il Padre sta nel Figlio e il Figlio sta nel
Padre, e in Essi sono tutte le creature; e questo al di sopra della distinzione
delle Persone, poiché la paternità e la filiazione, nella fecondità della
natura, dono distinte solo razionalmente.
Cominciano
qui un movimento e un’attività eterni, senza principio. Sta qui il principio
senza principio. Quando infatti il Padre Onnipotente comprende perfettamente Se
Stesso, il Verbo Eterno, la Seconda Persona della Divinità; e in questa
generazione eterna del Verbo, tutte le creature, prima che nascessero nel
tempo, sono presenti dall’eternità, e Dio le vede e le conosce distintamente in
Se Stesso, distinte da Lui, in un’alterità vivida, ma non totale, perché tutto
ciò che è Dio in Dio, è Dio. questa germinazione eterna e questa vita eterna,
che abbiamo in Dio dall’eternità e per la quale esistiamo senza noi stessi è,
come penso, la ragione della nostra esistenza nel tempo; il nostro essere
creato dipende dall’essere eterno ed è una sola cosa con Esso, quanto
all’esistenza essenziale. Questo essere eterno, questa vita eterna che noi, a
modo di idea, abbiamo e siamo nell’eterna Sapienza di Dio, è simile a Dio;
infatti la Sapienza rimane perpetuamente, senza distinzioni, nell’essenza
divina e, attraverso la generazione del Verbo, viene in una distinta alterità a
modo di idea eterna. Per questi due elementi ha tanta somiglianza con Dio, che
Dio vi si riconosce sempre e quanto all’essenza e quanto alle Persone.
Infatti, sebbene qui si tratti di distinzione solo intellettiva, la somiglianza
però è unica con l’immagine della somma Trinità, che è la Sapienza eterna di
Dio, nella quale Dio vede in un solo sguardo Se Stesso e tutte le cose in un
istante eterno, che non ha un prima e un poi. La sua Sapienza poi è la sua
immagine e somiglianza, ma è anche la nostra forma e modello; in essa Dio vede
Se Stesso e tutte le cose, come in uno specchio. E in questa divina immagine
tutte le creature vivono sempre, come nel loro modello eterno, a modo di idee:
e secondo questa immagine eterna e a questa somiglianza, siamo stati creati
dalla sacrosanta Trinità.
Perciò Dio
vuole che veniamo fuori di noi stessi ed entriamo in questa luce divina, che ci
sforziamo di tendere soprannaturalmente a questa immagine e di farne la nostra
propria vita e che la possediamo con Lui attivamente e gaudiosamente nella beatitudine
eterna. È più chiaro infatti che il seno del Padre è la fonte e origine della
nostra essenza; e dallo stesso Dio Padre e da tutto ciò che è in Lui, s’irradia
uno splendore, che è la generazione del Figlio; e in questo splendore, cioè nel
Figlio, Dio conosce distintamente Se Stesso e tutto ciò che vive in Lui. Poiché,
eccetto la proprietà personale della paternità, che rimane sempre in Lui, tutto
ciò che Egli ha, lo dà al Figlio. Tutto quello, dunque, che esiste
misteriosamente nell’unicità del Padre, esiste tutto manifestatamente nel
Figlio. Così il fondamento semplice della nostra immagine rimane nella
caligine, privo di qualsiasi modo di essere. Ma l’incalcolabile splendore che
irraggia di qui e fa luce, porta fuori in qualche modo i misteri di Dio e li
rende manifesti. E tutti coloro che sono stati elevati al di sopra dell’essenza
creata alla Vita Contemplativa soprannaturale, diventano una cosa sola con
questo divino splendore, anzi in qualche odo diventano questa stessa luce; e,
attraverso questa luce divina, vedono, sentono, trovano dentro di sé che essi
stessi sono quel fondo semplice, secondo quanto vi è in essi d’increato, donde
erompe questa luce smisurata, o modo divino, ma che per la semplicità
dell’essenza, rimane anche eternamente dentro.
Perciò i
contemplativi interiori usciranno al di sopra della ragione, della distinzione
e dell’essenza creata, con una contemplazione perpetua attraverso una luce
infusa; così saranno trasformati dal Signore della Luce, quasi luce in luce e
diventeranno una cosa sola con la luce che vedono e con la quale vedono;
raggiungeranno anche la loro eterna immagine, secondo la quale sono stati fatti
e in una sola occhiata contempleranno Dio e tutte le cose, senza distinzione.
Questa è
certamente la più alta contemplazione e la più gratificante, alla quale si può
arrivare in questa vita. in essa uno rimane pienamente padrone di sé e libero
e, in ciascuna riflessione d’amore, può crescere in perfezione più di quanto si
possa comprendere. Poiché, per quanto riguarda l’interna devozione e le
pratiche delle virtù, l’uomo rimane libero, ma la contemplazione della luce
divina sta al di sopra di ogni devozione, al si sopra delle virtù e di tutti i
meriti, poiché essa è la corona e il premio al quale aspiriamo con tutto
l’animo e che in qualche modo possediamo già ora: la vita contemplativa è in
realtà una vita celeste. Se fossimo liberati dal presente esilio, saremmo più
pronti a ricevere la luce, e la gloria di Dio potrebbe penetrarci meglio con i
suoi raggi. Questo è il modo più eccellente di tutti, che ci trasforma nel
divino splendore. E l’anima contemplativa, attraverso l’amore fruitivo,
trascende l’essenza creata e trova e gusta la gioia che è Dio stesso e che Egli
diffonde nelle pieghe più remore dello spirito, dove lo spirito ottiene una
certa somiglianza della divina nobiltà.
Capitolo 5
L’intimo
incontro dello spirito con lo Sposo
Quando il
contemplativo ritrova, nel modo che abbiamo detto, la sua immagine e in questa
purezza e sincerità penetra attraverso il Figli nel seno del Padre, e vi si
stabilisce, è già illuminato dalla divina verità e gli si rinnova d’ora in ora
la divina generazione e, a seconda della luce, entra nella divina
contemplazione. E qui abbiamo il quarto tempo, cioè l’incontro d’amore con Dio,
nel Quale consiste principalmente la suprema nostra salvezza e gioia. Qui è il
caso di ricordare che il Padre celeste, come principio vivente, con tutto ciò
che vive in Lui, è attivamente rivolto verso suo Figlio, come verso la sua
stessa eterna Sapienza, e la stessa Sapienza, e tutto ciò che vive in Essa, è
volta indietro verso il Padre, che è la fonte donde essa è venuta; ed in questo
mutuo incontro tra il Padre e il Figlio sussiste la Terza Persona, che procede
dal Padre e dal Figlio, lo spirito Santo, che è l’amore di ambedue, ed è una
cosa sola con Loro nell’identità della natura. E questo Amore, o Carità,
abbraccia e pervade il Padre, il Figlio e tutto ciò che vive in Esso con tanta
pienezza di ricchezza e di gioia, che ogni creatura rimane muta di stupore a
vederle, perché l’incontenibile meraviglia che è in questo Amore trascende
eternamente la comprensione di tutte le creature. Quando lo spirito comprende e
gusta tali stupende meraviglie, senza stupore, è segno che è stato sollevato al
di sopra di se stesso, che è stato fatto una cosa sola con lo spirito di Dio,
che vede e gusta senza limiti, in modo quasi divino, la ricchezza che è Dio
stesso, nell’unità di quell’abisso della vita, dove esso possiede se stesso,
secondo ciò che c’è d’increato in lui.
Questo
delizioso e divino incontro si rinnova attivamente in noi senza interruzione.
Perché il Padre si dà nel Figlio e il Figlio si dà nel Padre, e questo con una
mutua gioia eterna e in un abbraccio pieno d’amore. E questo si rinnova ogni
momento nel vincolo dell’Amore. infatti come Padre, senza sosta, contempla
sempre come la prima volta tutte le cose nella generazione del Figlio, così
anche dal Padre e dal Figlio nella spirazione dello Spirito Santo tutte le cose
sono amate con amore sempre nuovo.
E questo è
l’attivo incontro del Padre e del Figlio, nel quale, per mezzo dello Spirito
Santo, noi siamo amorosamente abbracciati con amore eterno. Ora questo incontro
attivo e questo abbraccio d’amore sono fruitivi e senza misura. Perché l’abisso
divino, che non conosce misura alcuna, è così caliginoso e così intollerante di
limiti, che nel sovrabbondante abbraccio dell’essenziale unità comprende ogni
modo divino, attività e proprietà, e in un abisso senza nome, indefinibile,
attua la divina fruizione. Ma qui la fruizione diventa sovrabbondante e dilaga
in quella essenziale semplicità, dove tutti i nomi, i modi e tutte le idee
vitali che brillano nello specchio della divinità, che non conosce modi né
schemi. In questo abisso si fondono tutte le cose nella beatitudine fruitiva;
ma l’abisso non è contenuto se non nell’unità essenziale.
Qui si deve
arrendere ogni persona pia e tutto ciò che vive in Dio. qui non c’è che una
quiete perpetua nell’abbraccio fruitivo della liquefazione d’amore: quiete che
si gode in quell’essenza che non conosce modo e che gli spiriti dotati di
intima disponibilità hanno preferito a tutte le cose. Questo caliginoso abisso
nel quale tutti gli spiriti amanti si abbandonarono. E anche noi, se ci
preoccuperemo di coltivare le virtù, come abbiamo detto, spogli del proprio
corpo, navigheremo nel mare immenso della divinità, e nessuna creatura potrà
fermarci né porre impedimento.
Ci conceda
la divina Carità, che non ha mai deluso le preghiere di nessuno, fosse pure un
mendicante, di riuscire a possedere fruitivamente l’essenziale unità e di
abbracciare in pienezza di luce l’unità della Trinità. amen.
Fine dei
tre libri sulle Nozze Spirituali del meraviglioso e divinissimo uomo Giovanni
Ruusbroec.