Per capire il discorso di Ratisbona bisogna rileggere quello di Parigi
Appunti sulle due lezioni di Benedetto XVI al mondo della cultura e della scienza sul rapporto tra ragione umana e Dio. Quello al Collège des Bernardins compie quello più celebre tenuto in Germania
I due discorsi più rivolti al mondo della cultura del defunto Papa emerito Benedetto XVI sono stati quelli di Ratisbona (2006) e di Parigi (2008). Si tratta di due lezioni sul rapporto tra fede e ragione e, di conseguenza, tra la Chiesa e le culture del mondo. I due discorsi collimano sulla tesi centrale ma non sono uguali e quello di Parigi, al Collège des Bernardins, è più interessante dell’altro, rimasto più celebre. Vorrei spiegare perché.
Il discorso di Ratisbona
Nella lezione tenuta in Germania, Benedetto XVI vuole spiegare la tradizionale dottrina agostiniana e tomista che Dio è legato alla ragionevolezza e coincide con il bene, il bello e il vero. Dio non può volere qualcosa di diverso dal bene e dal ragionevole. Questo è l’assunto centrale, sostenuto contro ogni religione che considera Dio come del tutto incomprensibile dalla ragione umana e contro le medesime dottrine cristiane che pensano che Dio potrebbe volere anche qualcosa di totalmente diverso da ciò che noi possiamo capire come bene. Tutto questo viene confermato anche a Parigi dove, di fronte ai rappresentanti della cultura, B-XVI spiega che il desiderio di Dio include l’amore per la parola, cioè per la ragione e la comprensione umana.
A Ratisbona, però, BXVI illustra anche un quadro della situazione culturale attuale, opponendo il pensiero razionalista degli ultimi secoli a un pensiero più aperto alla categoria del Mistero. È un percorso tradizionale del pensiero cattolico, che tuttavia risente anche dell’idealismo ottocentesco e quindi in certi punti sembra porre una gerarchia di pensieri per cui le discipline umanistiche, la filosofia e la teologia in particolare, sarebbero più fondamentali e importanti di quelle scientifiche. Come se le prime si occupassero del “perché” della realtà e le altre del “come”. E con il rischio costante della implicita condanna del pensiero tecnico, derivato da quello scientifico, condanna che resterebbe un po’ contraddittoria con i mezzi e le ricerche attuali che servono anche alla vita della Chiesa.
Narcisismo e individualismo, marchio del nostro tempo
Non così a Parigi. In modo molto più interessante, lì B-XVI ricorda che il pensiero include anche il corpo, come ben si apprende dalle pratiche dei monasteri medievali – in particolare da quella del canto – che il lavoro è santificato nel cristianesimo a differenza che nelle culture antiche, che non c’è lettura vera delle Scritture senza interpretazione e che interpretazione vuol dire libertà e non uniformità ma anche che libertà è sempre legame con il vero e non arbitrio.
In modo ancora più interessante, spiega che il genio non è mai individuale e che dunque non c’è mai mai vera cultura senza comunità e senza comunione. Infine, chiarisce che il cristianesimo è una proposta universale alla ragione e dunque deve essere annunciato, senza che ciò comporti alcuna propaganda, e che, seppur vagamente, la mente umana è fatta per riconoscere Dio in qualunque tempo, anche nel nostro, al di là di tutte le analisi sociologiche e le genealogie filosofiche.
Insomma, posto l’assunto centrale del rapporto necessario tra la ragione umana e Dio, a Parigi Benedetto XVI presenta delle tracce di soluzione che a Ratisbona non propone. La valorizzazione di una visione unitaria di corpo e mente è profondamente consentanea allo sviluppo attuale della scienza e della filosofia; attraverso il concetto di lavoro, inteso cristianamente, si può recuperare anche tutto il sapere tecnico; la visione del pensiero come gesto comunitario si oppone al narcisismo e all’individualismo agonistici che sono il marchio del nostro tempo, e che hanno sostituito quel nichilismo di fine secolo scorso che, peraltro, con perfetta comprensione dei tempi, non compare mai nei due discorsi di Benedetto.
AVE
NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE