martedì 6 dicembre 2022

Coloro che pascono le pecore di Cristo ....


 Dai «Trattati su Giovanni» di sant’Agostino, vescovo

(Tratt. 123, 5; CCL 36, 678-680)
La forza dell’amore vinca l’orrore della morte
   Prima il Signore domanda, e non una volta, ma due e tre volte, quello che già sapeva, se Pietro lo amava; e per tre volte si sente ripetere da Pietro che lo ama; e per tre volte fa a Pietro la stessa raccomandazione, di pascere le sue pecore.
   Così alla triplice negazione che Pietro pronunziò un tempo, fa riscontro ora la triplice dichiarazione del suo amore, in modo che la lingua non serva all’amore meno di quanto servì alla paura e non sembri avergli fatto dire più parole la temuta morte che la vita presente. Sia dunque impegno dell’amore pascere il gregge del Signore, se il rinnegare il Pastore era stato indizio di paura.
   Coloro che pascono le pecore di Cristo con l’intenzione di condizionarle a se stessi e di non considerarle di Cristo, dimostrano di amare non Cristo, ma se stessi, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dall’amore di obbedire, di aiutare, di piacere a Dio. Costoro, cui l’Apostolo rimprovera di cercare il proprio interesse e non quello di Cristo, devono essere messi in guardia dalle parole che Cristo ripete con insistenza: Mi ami? Pasci le mie pecore (cfr. Gv 21, 17), che significano: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, e pascile come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua, il mio dominio, non il tuo, il mio guadagno, non il tuo, se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai «tempi difficili», di quelli cioè che amano se stessi con tutto quello che deriva da questo amore di sé, sorgente di ogni male.
   Coloro, dunque, che pascono le pecore di Cristo, non amino se stessi, per non pascerle come loro proprie ma come di Cristo. Il male che più di ogni altro devono evitare quelli che pascono le pecore di Cristo è quello di ricercare i propri interessi invece di quelli di Gesù Cristo, asservendo alle loro brame coloro per cui fu versato il sangue di lui.
   Colui che pasce le pecore di Cristo deve crescere nell’amore di lui al punto che l’ardore dello spirito vinca anche quel timore naturale della morte, per cui non vogliamo morire anche quando vogliamo vivere con Cristo. Ma per quanto grande sia l’orrore della morte lo deve far vincere la forza dell’amore per colui che, essendo la nostra vita, ha voluto per noi sopportare anche la morte.
   Del resto se la morte comportasse poca o nessuna sofferenza, non sarebbe grande com’è la gloria dei martiri. Se il buon Pastore che diede la sua vita per le sue pecore suscitò tra esse tanti martiri, quanto più debbono lottare per la verità contro il peccato fino alla morte, fino al sangue, coloro ai quali egli affidò le sue stesse pecore da pascere, cioè da formare e guidare. Davanti all’esempio della passione di Cristo non è chi non veda che i pastori devono stringersi maggiormente vicino al Pastore imitandolo, proprio perché già tante pecore seguirono l’esempio di lui: dietro a lui, unico Pastore, anche i pastori sono pecore in un unico gregge. Tutti ha reso pecore sue egli che per tutti accettò di patire, e, al fine di patire per tutti, si è fatto lui stesso agnello.
AVE MARIA!

Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

 

Papa Ratzinger certifica il Concilio. Quello vero

Nel discorso prenatalizio alla curia romana, Benedetto XVI fa a pezzi il mito del Vaticano II come rottura e nuovo inizio. Alla giusta interpretazione del Concilio dà un altro nome: “riforma”. E spiega perché

di Sandro Magister




ROMA, 23 dicembre 2005 – La grande attesa su quello che avrebbe detto a proposito del Concilio Vaticano II – nel quarantesimo anniversario della sua conclusione – Benedetto XVI l’ha esaudita in due tempi.

Il primo tempo è stato giovedì 8 dicembre, festa dell’Immacolata.

Il secondo tempo è stato giovedì 22 dicembre, nel tradizionale incontro del papa con la curia vaticana per lo scambio degli auguri di Natale.

L’omelia dell’Immacolata è stato il prologo.

Il discorso alla curia lo svolgimento.

Nell’omelia dell’8 dicembre papa Joseph Ratzinger ha concentrato l’attenzione su “la struttura interiore” del Concilio Vaticano II. E ha indicato proprio in Maria Immacolata “l’orientamento del suo intero cammino” e “la chiave per la sua comprensione”:

“[Maria] illumina la struttura interiore dell'insegnamento sulla Chiesa sviluppato nel Concilio. Il Vaticano II doveva esprimersi sulle componenti istituzionali della Chiesa: sui Vescovi e sul Pontefice, sui sacerdoti, i laici e i religiosi nella loro comunione e nelle loro relazioni; doveva descrivere la Chiesa in cammino, ‘che comprende nel suo seno peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione’ (Lumen gentium, 8). Ma questo aspetto ‘petrino’ della Chiesa è incluso in quello ‘mariano’. In Maria, l'Immacolata, incontriamo l'essenza della Chiesa in modo non deformato”.

Nel discorso alla curia del 22 dicembre, invece, Benedetto XVI è entrato nel pieno della questione più controversa. Si è chiesto:

“Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?”.

E ha risposto:

“I problemi sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti”.

La prima interpretazione l’ha chiamata “ermeneutica della discontinuità e della rottura”. La seconda “ermeneutica della riforma”.

Contro la prima ha svolto una critica a fondo. Mentre della seconda ha illustrato le ragioni di validità.

In particolare, ha messo a fuoco il senso autentico di quel “passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come ‘apertura verso il mondo’ [e] appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione”.

Un rapporto che oggi “è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi”.

Ecco qui di seguito la parte del discorso alla curia del 22 dicembre che Benedetto XVI ha dedicato al Concilio Vaticano II.

È un testo capitale per l’interpretazione non solo del Concilio, ma dell’attuale pontificato:



”Due ermeneutiche contrarie hanno litigato tra loro...”

di Benedetto XVI



[...] L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea. Egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Non vogliamo applicare proprio questa descrizione drammatica alla situazione del dopoconcilio, ma qualcosa tuttavia di quanto avvenuto vi si riflette. Emerge la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?

Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.

I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.

Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”. Essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.

Dall'altra parte c'è l'”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato. È un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.

In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.

Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna.

Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la pura ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’”ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna.

Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.

Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta.

Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.

In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione.

Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata – erano i grandi temi della seconda parte del Concilio – su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.

È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma.

In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.

Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.

Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento.

Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa.

Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza.

Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8).

Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’”apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente.

Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un “segno di contraddizione” (Lc 2,34) – non senza motivo papa Giovanni Paolo II, ancora da cardinale, aveva dato questo titolo agli esercizi spirituali predicati nel 1976 a papa Paolo VI e alla curia romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.

Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme.

La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento.

Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa. [...]


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Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI alla curia romana del 22 dicembre 2005, nel sito del Vaticano:

> “Signori cardinali, venerati fratelli nell’episcopato...”

E la sua omelia dell’8 dicembre:

https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20051208_anniv-vat-council.html

AMDG et DVM

PARA DAROS A CONOCER A MARÍA.



http://www.virgendegarabandal.net/MISTRABAJOS/HOMBRE%20DIOS%20W/60217.htm#Escuchad%20la%20primera%20transfiguraci%C3%B3n%20de%20Mar%C3%ADa

 "¡BIEN HECHO, SIMÓN! 

OS HE QUERIDO AQUÍ PARA DAROS A CONOCER A MARÍA. 

MUCHOS DE VOSOTROS CONOCÉIS A LA "MADRE" MARÍA, 

ALGUNOS A LA "ESPOSA" MARÍA. 

PERO NADIE CONOCE A LA "VIRGEN" MARÍA.

 

"¡Bien hecho, Simón! Os he querido aquí para daros a conocer a María. Muchos de vosotros conocéis a la "madre" María, algunos a la "esposa" María. Pero nadie conoce a la "virgen" María. Os la quiero presentar en este jardín floreado al que vuestro corazón viene por el deseo de volverlo a ver, o para descansar después de las fatigas del apostolado.

Os oí hablar a todos vosotros, apóstoles, discípulos, parientes sobre mi Madre. He escuchado vuestros sentimientos, recuerdos, juicios. Os transformaré todo ello que es digno de admiración, en algo sobre humano, en un conocimiento sobrenatural. Mi Madre, antes que Yo, se transfigura a los ojos de los más merecedores, para que puedan verla como es. Vosotros veis a una mujer sencilla. Una mujer que por su santidad parece diversa de las demás, pero que en realidad la veis como un alma en un cuerpo, como todas las demás de su sexo. Ahora quiero descubriros el alma de mi Madre. Su verdadera y eterna belleza.

 

ESCUCHAD LA PRIMERA TRANSFIGURACIÓN

 DE MARÍA

 

VEN AQUÍ, MADRE MÍA. NO TE SONROJES. NO TE RETIRES, 

HERMOSA PALOMA DE DIOS. 

TU HIJO ES LA PALABRA DE DIOS, Y PUEDE HABLAR DE TI, 

DE TU MISTERIO, DE TUS MISTERIOS, 

¡OH SUBLIME MISTERIO DE DIOS!

 

Ven aquí, Madre mía. No te sonrojes. No te retires, hermosa paloma de Dios. Tu Hijo es la Palabra de Dios, y puede hablar de ti, de tu misterio, de tus misterios, ¡oh sublime misterio de Dios! Sentémonos aquí, bajo la suave sombra de árboles en flor, cerca de la casa, cerca de tu santa habitación. Así. Levantemos esta tienda que ondea, y salgan ondas de santidad y de paraíso de esta habitación virginal, para que nos llene a todos de ella... Sí, también a Mí. Que perciba tus perfumes, Virgen perfecta, para poder soportar los hedores del mundo, para poder ver candor después de haber saciado mis pupilas con el tuyo... Aquí, Marziam, Juan, Esteban, discípulas, en frente a la puerta abierta de la casta morada de la Casta entre todas las mujeres. Vosotros amigos, detrás... ¡Aquí, a mi lado, amada Madre mía!

 

"LA ETERNA BELLEZA DEL ALMA DE MI MADRE". 

SOY LA PALABRA Y POR ESTO NO PUEDO EQUIVOCARME 

EN EL EMPLEO DE LOS TÉRMINOS. DIJE: 

ETERNA, NO INMORTAL. Y NO SIN RAZÓN LO HE DICHO.

 

Hace poco os decía: "la eterna belleza del alma de mi Madre". Soy la Palabra y por esto no puedo equivocarme en el empleo de los términos. Dije: eterna, no inmortal. Y no sin razón lo he dicho. Inmortal es lo que habiendo nacido no muere más. De este modo el alma de los justos es inmortal en el cielo, el alma de los pecadores es inmortal en el infierno, porque el alma creada, no muere más que a la gracia. El alma tiene una vida, existe desde el momento que Dios la piensa. Es el Pensamiento de Dios quien la crea. El alma de mi Madre desde siempre ha sido pensada por Dios, por esto es eterna en su belleza, en la que Dios ha derramado toda perfección para delicia y consuelo.

 

SEGÚN EL LIBRO DE SALOMÓN, NUESTRO ANTEPASADO, 

QUE TE VIO, Y POR LO TANTO PROFETA TUYO 

PUEDE DECIRSE: 

 

"DIOS ME POSEYÓ AL PRINCIPIO DE SUS OBRAS, 

DESDE EL INICIO, ANTES DE LA CREACIÓN. 

AB AETERNO FUI DECRETADA, 

ANTES DE QUE HUBIERA SIDO HECHA LA TIERRA.

 

Según el libro de Salomón, nuestro antepasado, que te vio, y por lo tanto profeta tuyo puede decirse: "Dios me poseyó al principio de sus obras, desde el inicio, antes de la creación. Ab aeterno fui decretada, antes de que hubiera sido hecha la tierra. Todavía no existían los mares y había sido yo concebida. Todavía no brotaban los manantiales, ni las montañas habían encontrado sus bases y ya existía yo. Antes de las colinas nacíNo había hecho todavía la tierra, ni los ríos, ni los quicios del mundo, y ya existía yo. Cuando preparaba los cielos y el Cielo, estaba ya presente. Cuando con leyes inviolables cerró la cubierta del abismo, cuando hizo que el firmamento celestial se quedase firme en lo alto y quedaran suspendidas las aguas, cuando al mar le puso sus límites y dio leyes a las aguas de que no los rebasasen, cuando echaba los cimientos de la tierra, estaba con El para poner orden en todas las cosas. Alegre y feliz siempre ante El. Me divertía yo en el universo"

 

!SÍ, OH MADRE A QUIEN DIOS, EL INMENSO, EL SUBLIME, 

EL INCREADO, LLEVÓ DENTRO DE SÍ! QUE TE LLEVÓ 

COMO UN PESO DULCÍSIMO

 

!Sí, oh Madre a quien Dios, el Inmenso, el Sublime, el Increado, llevó dentro de Sí! Que te llevó como un peso dulcísimo, lleno de júbilo porque te sentía palpitar, que le enviabas sonrisas con las que hizo la creación. El tuvo que desprenderse de ti para darte al mundo, alma delicadísima, nacida purísima para ser la "Virgen". Perfección de lo creado, luz del paraíso, consejo de Dios, que al mirarte pudo perdonar la culpa, porque tu sola, por ti sola, sabes amar como no lo hará jamás todo el linaje humano. ¡En ti el perdón de Dios! ¡En ti la medicina de Dios! ¡Tú caricia del Eterno en la herida que el hombre le hizo! ¡En ti la salvación del mundo, Madre del amor encarnado, del Redentor enviado! ¡El alma de mi Madre! ¡Hecho una sola con el Amor en mi Padre, yo te miraba dentro de Mí, oh alma de mi Madre!.... Tu resplandor, tu plegaria, la idea de que me llevaría me consolaban siempre de mi destino de dolor, de experiencias inhumanas, de lo que es el mundo corrompido. ¡Gracias, oh Madre! Llegué satisfecho al pensar en tus consuelos. ¡Descendí sintiéndote a ti sola! ¡Tu, perfume! ¡Tu, canto! ¡Tu, amor!... ¡Alegría, júbilo mío!

 

ESCUCHAD LA SEGUNDA TRANSFIGURACIÓN DE MARÍA,

 LA ELEGIDA DE DIOS.

 

Ahora que habéis escuchado, ahora que sabéis que una sola es la mujer en que no hay mancha, una sola la creatura que no hiere al Redentor, escuchad la segunda transfiguración de María, la elegida de Dios.

Era una tarde serena de Adar. Había flores en los árboles del huerto silencioso, y María, prometida de José, había cortado un ramo del árbol en flor para cambiarlo por el anterior que había en la habitación. Hacía poco que había llegado a Nazaret, del templo para honrar una casa de santos. Y con el alma dividida entre el templo, su casa y el cielo, miraba el ramo en flor, pensando que uno semejante, que se había abierto de improviso, un ramo cortado en este jardincito en lo duro del invierno, que había florecido como en primavera delante del Arca del Señor -tal vez le había dado luz y calor el Sol-Dios, radiante en su gloria- le había manifestado su voluntad... Y pensaba todavía que en el día de las nupcias José le había llevado otras flores, pero nunca semejante a la flor en  cuyos pétalos vio escrito: "Quiero que te cases con José"... Pensaba tantas cosas... y pensando subió a Dios. Sus manos trabajaban en la rueca y el huso. Hilaban un hilo más sutil que el cabello más fino de su juvenil cabeza...

Su alma tejía una alfombra de amor, siempre solícita en ir de la tierra al cielo, de los quehaceres de la casa, del cuidado por su esposo, a los de su alma, a los de Dios. Cantaba y oraba. La alfombra se formaba en el místico telar, se alargaba de la tierra al cielo, subía hasta perderse en las alturas... ¿Con qué estaba formada? Con hilos sutiles, perfectos, fuertes de sus virtudes, del hilo de la lanzadera que creía "suya", mientras que era de Dios: la lanzadera de la voluntad de Dios en la que había envuelto su voluntad desde pequeña, Ella la grande virgen de Israel, la desconocida al mundo, pero conocida a Dios. Su voluntad se había envuelto, se había hecho una con la voluntad del Señor. Y la alfombra se adornaba de flores de amor, de pureza, con palmas de paz, palmas de gloria, de almendros, de jazmines... Todas las virtudes florecían en su alfombra de amor que la Virgen de Dios desenrollaba, invitadora, desde la tierra al cielo. Y como la alfombra no alcanzaba, lanzaba su corazón cantando: "Venga mi amado a su jardín, a su huerto de aromas, a pasearse entre jardines, a cortar lirios. ¡Yo soy de mi Amado, y mi Amado es mío, El que apacienta entre lirios!" Y de las lejanías infinitas, entre torrentes de luz, se oyó una voz que el oído humano no puede escuchar, ni garganta humana pronunciar. Decía: "¡Qué bella eres, amiga mía!" ¡Que bella!... ¡Tus labios destilan miel!... Un jardín cerrado eres. Una fuente sellada, hermana, esposa mía..." y las dos voces se unían para cantar la eterna verdad: "¡El amor es más fuerte que la muerte!. ¡Nada puede extinguir o ahogar nuestro amor!" Y la Virgen se transfiguraba así... así... mientras bajaba Gabriel y la llamaba a la tierra. Hacía que su espíritu volviese a la carne, para que pudiera escuchar, comprender la petición del que la había llamado "hermana", pero que la haría su "esposa".

Y el misterio se realizó. Una púdica, la más púdica de todas las mujeres, la que ni siquiera conocía o conoce el estímulo instintivo de la carne, se sintió turbada ante el ángel de Dios, porque aun un ángel turba la humildad y pudor de la Virgen, y sólo se calmó al oírlo hablar, y creedme, dijo la palabra por la que "su" amor se convirtió en carne y vencerá a la muerte, y ningún agua podrá extinguirlo, ni perversidad alguna sumergirlo en lo profundo..."

Jesús se inclina dulcemente sobre María que se ha puesto a sus pies como extática, recordando aquella lejana hora, llena de una luz especial que parece brotase de su alma, y sumisamente le pregunta: "¿Cuál fue tu respuesta, oh Purísima, a quien te aseguró que siendo Madre de Dios, no perderías tu perfecta virginidad?"

Y María, como en sueño, despacio, sonriente, con los ojos dilatados por lágrimas de júbilo responde: "¡He aquí a la esclava del Señor! ¡Se haga de mí según su palabra!" y reclina su cabeza sobre las rodillas de Jesús, adorándolo.

 

"Y SE HIZO. Y SE HARÁ HASTA EL FIN. 

HASTA LA OTRA Y LA OTRA DE SUS TRANSFIGURACIONES. 

SERÁ SIEMPRE "LA ESCLAVA DEL DIOS". 

HARÁ SIEMPRE COMO DIRÁ "LA PALABRA". 

¡MI MADRE" 

¡ESTA ES MI MADRE! 

 

Jesús le pone su manto. La esconde a los ojos de los circunstantes y dice: "Y se hizo. Y se hará hasta el fin. Hasta la otra y la otra de sus transfiguraciones. Será siempre "la esclava del Dios". Hará siempre como dirá "la Palabra". ¡Mi Madre" ¡Esta es mi Madre! Y está bien que empecéis a conocerla en toda su santa figura... ¡Madre! ¡Madre! ¡Levanta tu rostro, Amada mía! Haz que vuelvan a la tierra donde estamos por ahora tus devotos..." dice descubriendo a María después de algún tiempo, durante el que no se escuchó el zumbido de las abejas y el chorrito de la fuentecita, que melodiosamente caía.

María levanta su rostro bañado en lágrimas y susurra: "¿Por qué, Hijo mío, me has hecho esto? Los secretos del Rey son sagrados..."

"Pero el Rey puede revelarlos cuando quiera. Madre, lo he hecho para que se comprenda lo que dijo un profeta: "Una mujer encerrará dentro de sí al Hombre", y lo de otro: "La Virgen concebirá y dará a luz su Hijo"Y también para que estos que se horrorizan de muchas cosas que suceden al Verbo de Dios, por parecerles humillantes, tengan en cambio otras cosas que los confirmen en su alegría de ser "míos"De este modo no se escandalizarán más y también por ello conquistarán el cielo... Quien tenga que ir a donde deba hospedarse, puede irse. Quédense las mujeres y Marziam. Mañana al amanecer estén todos los varones, que quiero llevarlos no muy lejos, luego regresaremos a despedirnos de las discípulas para regresar a Cafarnaum, reunir a los otros discípulos y enviarlos después de ellas."

http://www.virgendegarabandal.net/MISTRABAJOS/HOMBRE%20DIOS%20W/60217.htm#Escuchad%20la%20primera%20transfiguraci%C3%B3n%20de%20Mar%C3%ADa

VI. 217-228

A. M. D. G.

LUCE FIRMAMENTO MARE

 TRES COSAS SON LAS QUE MÁS HABLAN DE DIOS

 

Tres son las cosas que más hablan de Dios en lo creado. 

La luz, el firmamento, el mar

El orden de los astros y meteorológico, es reflejo del orden divino; 

la luz, que sólo un Dios podía crear; 

el mar, que sólo el poder de Dios, después de haberlo creado, podía poner en límites seguros, dándole movimiento y voz sin que por esto, como elemento poderoso de desorden, se convirtiera en daño de la tierra, que lo sostiene en su superficie.

http://www.virgendegarabandal.net/MISTRABAJOS/HOMBRE%20DIOS%20W/40646.htm#TRES%20COSAS%20SON%20LAS%20QUE%20M%C3%81S%20HABLAN%20DE%20DIOS...

lunedì 5 dicembre 2022

Benedetto XVI: "Maschio e Femmina li creò"

[…] Nella questione della famiglia non si tratta soltanto di una determinata forma sociale, ma della questione dell’uomo stesso – della questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto. Le sfide in questo contesto sono complesse.

C’è anzitutto la questione della capacità dell’uomo di legarsi oppure della sua mancanza di legami. Può l’uomo legarsi per tutta una vita? Corrisponde alla sua natura? Non è forse in contrasto con la sua libertà e con l’ampiezza della sua autorealizzazione? L’uomo diventa se stesso rimanendo autonomo e entrando in contatto con l’altro solo mediante relazioni che può interrompere in ogni momento? Un legame per tutta la vita è in contrasto con la libertà? Il legame merita anche che se ne soffra?

Il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre più a causa di un’errata comprensione della libertà e dell’autorealizzazione, come anche a motivo della fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, significa che l’uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima analisi, conserva il proprio “io” per se stesso, non lo supera veramente. Ma solo nel dono di sé l’uomo raggiunge se stesso, e solo aprendosi all’altro, agli altri, ai figli, alla famiglia, solo lasciandosi plasmare nella sofferenza, egli scopre l’ampiezza dell’essere persona umana. Con il rifiuto di questo legame scompaiono anche le figure fondamentali dell’esistenza umana: il padre, la madre, il figlio; cadono dimensioni essenziali dell’esperienza dell’essere persona umana.

Il Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante, ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora più profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un fraintendimento dell’essenza della libertà umana, ora diventa chiaro che qui è in gioco la visione dell’essere stesso, di ciò che in realtà significa l’essere uomini.

Egli cita l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa” (“On ne naît pas femme, on le devient”). In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma “gender”, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la società a decidervi.

La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha dato. Proprio questa dualità come dato di partenza viene contestata. Non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: “Maschio e femmina Egli li creò” (Gen 1,27). No, adesso vale che non è stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora è stata la società a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uomo contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà.

La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale di forme della persona umana che si integrano a vicenda. Se, però, non esiste la dualità di maschio e femmina come dato della creazione, allora non esiste neppure più la famiglia come realtà prestabilita dalla creazione. Ma in tal caso anche la prole ha perso il luogo che finora le spettava e la particolare dignità che le è propria. Bernheim mostra come essa, da soggetto giuridico a sé stante, diventi ora necessariamente un oggetto, a cui si ha diritto e che, come oggetto di un diritto, ci si può procurare. Dove la libertà del fare diventa libertà di farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nell’essenza del suo essere. Nella lotta per la famiglia è in gioco l’uomo stesso. E si rende evidente che là dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignità dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo.

Con ciò vorrei giungere al secondo grande tema che, da Assisi fino al Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione, ha pervaso tutto l’anno che volge al termine: la questione cioè del dialogo e dell’annuncio.

Parliamo anzitutto del dialogo. Vedo per la Chiesa nel nostro tempo soprattutto tre campi di dialogo nei quali essa deve essere presente, nella lotta per l’uomo e per che cosa significhi essere persona umana: il dialogo con gli Stati, il dialogo con la società – in esso incluso il dialogo con le culture e con la scienza – e, infine, il dialogo con le religioni.

In tutti questi dialoghi, la Chiesa parla a partire da quella luce che le offre la fede. Essa, però, incarna al tempo stesso la memoria dell’umanità che, fin dagli inizi e attraverso i tempi, è memoria delle esperienze e delle sofferenze dell’umanità, in cui la Chiesa ha imparato ciò che significa essere uomini, sperimentandone il limite e la grandezza, le possibilità e le limitazioni. La cultura dell’umano, di cui essa si fa garante, è nata e si è sviluppata dall’incontro tra la rivelazione di Dio e l’esistenza umana. La Chiesa rappresenta la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di misure. Ma come una persona senza memoria ha perso la propria identità, così anche un’umanità senza memoria perderebbe la propria identità. Ciò che, nell’incontro tra rivelazione ed esperienza umana, è stato mostrato alla Chiesa va, certo, al di là dell’ambito della ragione, ma non costituisce un mondo particolare che per il non credente sarebbe senza alcun interesse. Se l’uomo con il proprio pensiero entra nella riflessione e nella comprensione di quelle conoscenze, esse allargano l’orizzonte della ragione e ciò riguarda anche coloro che non riescono a condividere la fede della Chiesa. Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa certamente non ha soluzioni pronte per le singole questioni. Insieme con le altre forze sociali, essa lotterà per le risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano. Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica.

Nella situazione attuale dell’umanità, il dialogo delle religioni è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani come pure per le altre comunità religiose. Questo dialogo delle religioni ha diverse dimensioni.

Esso sarà innanzi tutto semplicemente un dialogo della vita, un dialogo della condivisione pratica. In esso non si parlerà dei grandi temi della fede – se Dio sia trinitario o come sia da intendere l’ispirazione delle Sacre Scritture ecc. Si tratta dei problemi concreti della convivenza e della responsabilità comune per la società, per lo Stato, per l’umanità. In ciò bisogna imparare ad accettare l’altro nel suo essere e pensare in modo diverso. A questo scopo è necessario fare della responsabilità comune per la giustizia e per la pace il criterio di fondo del colloquio. Un dialogo in cui si tratta di pace e di giustizia diventa da sé, al di là di ciò che è semplicemente pragmatico, una lotta etica circa le valutazioni che sono presupposte al tutto.

Così il dialogo, in un primo momento meramente pratico, diventa tuttavia anche una lotta per il giusto modo di essere persona umana. Anche se le scelte di fondo non sono come tali in discussione, gli sforzi intorno a una questione concreta diventano un processo in cui, mediante l’ascolto dell’altro, ambedue le parti possono trovare purificazione e arricchimento. Così questi sforzi possono avere anche il significato di passi comuni verso l’unica verità, senza che le scelte di fondo vengano cambiate. Se ambedue le parti muovono da un’ermeneutica di giustizia e di pace, la differenza di fondo non scomparirà, crescerà tuttavia anche una vicinanza più profonda tra loro.

Per l’essenza del dialogo interreligioso, oggi in genere si considerano fondamentali due regole:

  1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensì la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione.
  2. Conformemente a ciò, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente nella loro identità, che, nel dialogo, non mettono in questione né per sé né per gli altri.

Queste regole sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo superficialmente. Sì, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca: ciò è corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, però, vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verità. Così, ambedue le parti, avvicinandosi passo passo alla verità, vanno in avanti e sono in cammino verso una più grande condivisione, che si fonda sull’unità della verità. Per quanto riguarda il restare fedeli alla propria identità: sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la propria identità interrompesse, per così dire, in base alla sua volontà, la via verso la verità. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si ha a che fare con la verità.

Rispetto a questo direi che il cristiano ha la grande fiducia di fondo, anzi, la grande certezza di fondo di poter prendere tranquillamente il largo nel vasto mare della verità, senza dover temere per la sua identità di cristiano. Certo, non siamo noi a possedere la verità, ma è essa a possedere noi: Cristo, che è la Verità, ci ha presi per mano, e sulla via della nostra ricerca appassionata di conoscenza sappiamo che la sua mano ci tiene saldamente. L’essere interiormente sostenuti dalla mano di Cristo ci rende liberi e al tempo stesso sicuri. Liberi: se siamo sostenuti da Lui, possiamo entrare in qualsiasi dialogo apertamente e senza paura. Sicuri, perché Egli non ci lascia, se non siamo noi stessi a staccarci da Lui. Uniti a Lui, siamo nella luce della verità. […]
BXVI