mercoledì 5 giugno 2019

ARGENTO COLLOIDALE

COLLOIDALE ?
La maniera migliore per assumere gli oligoelementi,
perché non passano per l'intestino. Essi vengono  assorbiti 
velocemente dalle mucose orali , per cui immediatamente
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ARGENTO COLLOIDALE PURO ®

COS'E'



L’argento colloidale
è conosciuto da molto tempo in ambito medico alternativo per le sue speciali proprietà.
Già dai tempi dei greci e dei romani, si utilizzava come disinfettante, solo ora però si è riusciti a renderlo
colloidale
in parti finissime, mezzo
nanometro, per poter essere estremamente efficace

COSA FA'

É il miglior e più potente antibiotico naturale.
Un antibiotico farmaceutico,  uccide una dozzina di differenti organismi patogeni,
l’argento colloidale  ne elimina circa 650.(larghissimo spettro)
Efficace su: apparato respiratorio, gastrointestinale,
urogenitale. Per uso topico efficace su: ferite, infezioni cutanee, piaghe , acne, psoriasi, eczemi, micosi, forfora.

PERCHE'

La ricerca biomedica, ha dimostrato che nessun organismo conosciuto per causare malattie ,come:
batteri
virus
funghi, 
NON può
vivere più di
qualche minuto
in presenza di una traccia, seppur minuscola, di argento metallico.


assolutamente atossico per l'uomo ,gli animali e le piante


Avvia il video qui sotto e fai attenzione a cosa succede al batterio, immerso in una soluzione di acqua distillata e argento . Dopo aver toccato e rilasciato , solo 3 particelle di Argento Colloidale Puro (particelle minuscole bianche), queste tolgono mobilità in pochi secondi al batterio, il quale una volta disgregato verrà espulso dai nostri  canali naturali.

CONTINUA andando al link...



La comunione con lui [il Papa] è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione con Cristo.

Card. Ratzinger (1977): La comunione con il [vero] Papa è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione [vera] con Cristo (Da "Il Dio vicino")



CHIESA DI OGNI LUOGO E DI OGNI TEMPO

Celebrazione in comunione con il Papa

del cardinale Joseph Ratzinger

(Predica in occasione della domenica per il Papa, 10 luglio 1977, nella Chiesa di San Michele a Monaco di Baviera)

Nella preghiera fondamentale della Chiesa, nell'Eucarestia, il cuore della sua vita non solo si esprime, ma si compie giorno per giorno.


L'Eucarestia ha nel più profondo di sè a che fare solo con Cristo.


Egli prega per noi, pone la sua preghiera sulle nostre labbra, poichè solo lui sa dire: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.
Ci attira dentro la sua vita, nell'atto dell'amore eterno, in cui egli si affida al Padre, così che noi, insieme con lui, consegniamo a nostra volta noi stessi al Padre e, in questo modo, riceviamo in dono proprio Gesù Cristo. L'Eucarestia è quindi sacrificio: affidarsi a Dio in Gesù Cristo e ricevere così in dono il suo amore.


Cristo è lui che dà ed è, allo stesso tempo, il dono: per mezzo di lui, con lui e in lui noi celebriamo l'Eucarestia.
In essa è continuamente presente e vero ciò che dice l'epistola di oggi: Cristo è il capo della Chiesa, che egli acquista mediante il suo sangue.
Allo stesso tempo, in ogni celebrazione eucaristica, seguendo un'antichissima tradizione, diciamo: noi celebriamo insieme al nostro Papa...


Cristo si dà nell'Eucarestia ed è presente tutto intero, in ogni luogo e, per questo, è dovunque presente, là dove viene celebrata l'Eucarestia, il mistero tutto intero della Chiesa.

   Ma Cristo è anche in ogni luogo un'unica persona e, per questo, non lo si può ricevere contro gli altri, senza gli altri.

   Proprio perchè nell'Eucarestia c'è il Cristo tutto intero, inseparato ed inseparabile, proprio per questo si rende ragione dell'Eucarestia solo se essa è celebrata con tutta la Chiesa.


Noi abbiamo Cristo solo se lo abbiamo insieme con gli altri.
Poichè l'Eucarestia ha a che fare solo con Cristo, essa è il Sacramento della Chiesa.
E per questa stessa ragione essa può essere accostata solo nell'unità con tutta la Chiesa e con la sua Autorità.


Per questo la preghiera per il [vero] Papa fa parte del canone eucaristico, della celebrazione eucaristica.
La comunione con Lui è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione [vera] con Cristo.


La preghiera cristiana e l'atto di fede implicano l'ingresso nella totalità, il superamento del proprio limite. 

La liturgia non è l'iniziativa organizzativa di un club o di un gruppo di amici; la riceviamo nella totalità e dobbiamo celebrarla a partire da questa totalità e in riferimento ad essa.


Solo allora la nostra fede e la nostra preghiera si pongono in maniera adeguata, quando vivono continuamente in questo atto di superamento di sè, di autoespropriazione, che arriva alla Chiesa di tutti i luoghi e di tutti i tempi: è questa l'essenza della dimensione cattolica.
Si tratta proprio di questo, quando andiamo al di là della nostra piccola realtà, stabilendo un legame con il Papa ed entrando così nella Chiesa di tutti i popoli.

Da Joseph Ratzinger, "Il Dio vicino. L'eucaristia cuore della vita cristiana", San Paolo Edizioni 2008 (Pag. 127-128)
papabenedettoxvitesti.blogspot.com/2009/07/card-ratzinger-1977-la-comunione-con-il.html
AMDG et DVM

martedì 4 giugno 2019

Una panoramica sull'Italia degli anni 15-19 del secolo scorso

AUTOBIOGRAFIA  di  MARIA VALTORTA

CAPITOLO 12




La cugina e lo zio.

   Nell'estate 1916 venne da noi, per rimettersi da una pericolosa adenite e mastoidite, mia cugina Giuseppina, la… figlia (almeno speriamolo) di quello zio del quale le parlai a suo tempo, il fratello di mamma, quello che con la sua venuta mi aveva ficcata in collegio. Io non l'avevo mai vista perché era sempre stata in collegio per sottrarla dalla venefica vicinanza della madre e della zia. Aveva allora vent'anni, io diciannove. Le volli bene anche prima di averla con me.

   Mamma mi aveva detto che quell'estate non mi avrebbe fatto nessuna veste nuova e nessun cappello perché doveva pensare a Peppina. Non eravamo in condizioni da essere scomodati dal dover fare il rinnovo di due guardaroba estivi. Ma io, a cui mia mamma, per farmi inghiottire quello che lei reputava dovesse essere per me un rospo, ossia la venuta della cugina, parlava con una inusitata dolcezza, avrei accettato di andare nuda, pur di sentirla parlarmi sempre così!… Figurarsi se non aderii a tutte le proposte. Fra l'altro, staccata come ormai ero da tutto e incline alla morte, ero ancor più di prima contraria a tutte le civetterie.

   E poi!… L'idea di avere con me una cugina della mia età, ex collegiale come me, educata presso suore dello stesso Ordine delle mie… oh! quante cose che mi entusiasmavano! Mi proposi di volerle bene come a una sorella. E gliene volli.

   Venne col padre qui a Viareggio. Lo zio si trattenne per qualche giorno, poi tornò a Bergamo, all'Ospedale dove era bibliotecario oltre che ricoverato a vita. Peppina rimase. Ci affezionammo molto l'una all'altra. Devo dire, a suo onore, che pure essendo nata da una poco di buono ed essendo stata in quell'ambiente fino a otto anni, non mi dette mai modo di scandalizzarmi. Era un po' leggerina. Ma a vent'anni su per giù lo siamo tutti.

   Facevamo belle passeggiate col mio papà, i bagni, ecc. ecc. Erano con noi altri due cuginetti, maschi questi, l'uno di 14 e l'altro di 8 anni, provenienti dal Veneto e venuti per i bagni costì, dato che l'Adriatico non era allora molto tranquillo.
   Non ero mai stata così sollevata, da molto tempo a questa parte, come in quella estate. Fra l'altro, essendo mia cugina, per il momento, molto pia, andava spesso in chiesa, alla chiesa di S. An­drea, nostra parrocchia estiva, e io andavo con lei. Mamma non osava opporsi alla nipote, della quale voleva attirarsi l'affetto.
  

   Qui le devo narrare una cosa che non so se sia proprio attinente alla mia storia. Ma credo non sia del tutto estranea.
   Io amavo molto la nostra casetta di Via Umberto I° dove ero entrata la prima volta di soli sette anni. E mi ci ero sempre trovata molto bene. Quell'estate mi ci sentivo a disagio. Perché? Mah! Non glielo saprei neppure dire quel che provavo esattamente.

   Non mi sentivo mai sola. Mi spiego. Anche se ero in casa sola, cosa che talvolta avveniva, io mi sentivo come se intorno a me ci fosse qualcuno invisibile ma presente. E, paurosa come sono di ciò che ignoro, avevo paura. Mamma, secondo al solito, quando glielo dissi, mi derise e rimproverò. Ma né il suo scherno né il suo rimprovero valsero a farmi più coraggiosa né a impedire che io sentissi sempre quella presenza misteriosa.
   Una notte, il 17 agosto 1916, mentre dopo aver riso ben bene coi cuginetti ci eravamo addormentate nei nostri due lettini come due grandi bebé, fummo svegliate da un traballìo di una pesante predella messa nel vano della finestra. Il mio cane, che dormiva con noi due ragazze, ringhiò. Accesi la luce, paurosa che fosse terremoto. Ma il filo della luce era immoto. Spensi e, col facile sonno della gioventù, riprendemmo a dormire.
   Dopo circa mezz'ora tre colpi fortissimi, come di una mano aperta che percuotesse un uscio, si udirono contro la porta della nostra stanza. Prima ancora di accendere la luce, mentre un sudore ghiaccio mi bagnava tutta, chiesi: «Nonna, sei tu?». Non so perché dopo tredici anni dalla sua morte io pensassi, ancor fra sonno e veglia, a lei.
   Tutta la casa fu a rumore. Papà accorse, i cugini accorsero, mamma accorse. Papà e i cugini non dissero niente fuorché la naturale domanda di cosa fosse stato quel baccano. Eh! l'avessimo almeno saputo! Ma mamma fece una bella brontolata e credo che tuttora sia convinta che si sia state noi ragazze a fare quello scherzo… E pensare che noi avevamo una tremarella tale che finimmo la notte in un unico letto per farci a vicenda coraggio.
   Con la metà settembre partirono i cuginetti e rimanemmo noi due coi miei.
   Mentre ci occupavamo di fare i bagagli per tornare a Firenze, giunse un telegramma annunciante che mio zio era moribondo. Era il 30 settembre. Mia mamma partì con mia cugina per Bergamo. Io rimasi con papà.
   In quei giorni che fui sola col papà sentii più che mai la invisibile presenza di esseri incorporei. Avevo una paura nera… ma stavo zitta per non essere scherzata, per quanto bonariamente, da papà. Una notte mi rifugiai da lui perché mi pareva che lungo la parete — noti che la casa a due piani era sopraelevata sulle due che la fiancheggiavano e perciò la mia parete non si appoggiava a nessun'altra casa — mi pareva che detta parete fosse come strofinata da mani: un rumore uso quello che fa un muratore quando scialba un muro.

   Finalmente mamma e Peppina tornarono. Lo zio aveva superato felicemente la polmonite.
   Partimmo per Firenze e andammo ad abitare un nuovo appartamento perché l'altro era stato lesionato da un terremoto. La nuova casa era triste, in via Pippo Spano, chiusa fra case tanto sulla facciata che sull'interno. Però anche da lì vedevo la Madonnina sulla porta del convento dei Gesuiti ed ero vicina a questa chiesa. Passò l'inverno così.
   Io con mia cugina andavo d'accordo. Ma fra mia mamma e lei cominciavano delle scaramucce. Mia mamma, che trovava me colpevole di mille leggerezze, si era accorta che la nipote lo era più della figlia e volle usare con la stessa la severità che usava con me. Ma Peppina non era Maria… Perciò ottenne l'effetto opposto. Peppina trovò modo di stare fuori di casa il più possibile. Andò insegnante di lavoro, perché era nel lavoro femminile bravissima, presso l'Istituto S. Caterina e alla domenica presso le Scuole festive. Guadagnava così qualcosa che si metteva da parte e stava lontana da mamma. Così io persi la sua compagnia per molte ore del giorno.

   Intanto la guerra continuava e le restrizioni cominciavano a farsi sentire. Papà, mamma e Peppina si aiutavano a uova e latte condensato, a pastine in brodo e frittelle cotte nello strutto. Io, che ho uno stomaco forte a modo suo, ossia capace di digerire tuttora un piatto di verdura cruda ma non una tazza di latte, non dei fritti, non delle uova — se le bevo oggi, dopo devo per almeno dieci giorni non toccarle più — cominciai a soffrire la fame. Fino al 1919 io non bevvi mai caffè nero e perciò non avevo neppure quello col suo zucchero relativo a sostenermi. I miei dolori morali e la fame insieme mi indebolirono sempre più.

   Nel giugno 1917 arrivò, inaspettato, lo zio, papà di Peppina. Si era licenziato dall'Ospedale, e in simili momenti penosi veniva da noi. Mamma andò su tutte le furie. Ma ormai era fatta. Io, per quanto ricordassi gli estri di questo zio, gli feci buon viso. Pur di avere qualcuno da amare avrei amato… anche il diavolo. Sul principio tutto andò bene.
   In luglio venimmo a Viareggio. Ma io capii che non potevo più fare i bagni. Mi sentivo morire ad entrare nell'acqua fredda, io che solo l'anno avanti avevo fatto oltre cento bagni!… Il cuore cedeva sempre più. Mamma mi rimproverò perché non facevo i bagni. Le dissi che mi facevano male. Rispose, al solito, che avevo delle ubbie. Amen!

   Io poi sentivo, più ancora che l'anno avanti, quelle strane, invisibili presenze nella casa. Ma per fortuna quell'estate le avvertivano anche gli altri. Presi coraggio allora e dissi che io in quella casa non ci volevo più stare. Mamma, impaurita, per quanto non lo volesse dire, considerando anche tante altre cose, si decise ad affittarla. Mentre si attendeva il bagnante che doveva entrarvi a passare agosto e settembre, seppimo dai vicini che per due inverni consecutivi la famiglia alla quale, per non lasciarla chiusa, affittavamo la casa — un professore di botanica con la moglie e due figlie già ventenni — vi avevano fatto dello spiritismo.
   Io non traggo nessuna deduzione. Dico solo che questa fu la prima volta che fra me e lo spiritismo vi fu quella solenne incompatibilità e quella mia sensibilità a certi fenomeni. Che paura, mio Dio!
  

   Tornammo a Firenze il 10 agosto.

   Peppina, spalleggiata dal padre, era ora più prepotente. Ora Lei sa bene che i caratteri simili non vanno mai d'accordo. Bisogna che un prepotente abbia di fronte un remissivo, un superbo un umile e così via per potere andare avanti senza romperla. Ma mia mamma, suo fratello e la figlia di suo fratello avevano lo stesso carattere. Perciò guerra continua. Un inferno!…

   Intanto era venuto Caporetto1 e, data la grande necessità, Del Croix aveva tenuto conferenze per esortare noi donne ad entrare negli ospedali di guerra, rimasti senza o con poche infermiere — le prime si erano stancate o ammalate — mentre i feriti erano aumentati a dismisura.
   Entrare negli ospedali era sempre stato il mio sogno. Avrei potuto essere utile, stare lontano da casa e — oh! speranza! — contrarre una malattia che mi portasse all'altro mondo. Perché, se non ero più tormentata dalle battaglie del desiderio sensuale, lo ero sempre dal grande desiderio di morire, né i modi materni erano tali da levarmi da questo desiderio. Anzi io ero il capro espiatorio dei nervi causati in lei dalle dispute col fratello e la nipote; e anche il caro zio, sempre ateo e originale, non stava indietro nel tormentarmi. Così ne avevo addosso due!… Peppina no. Era con me sempre uguale.

   Mamma, in grazia della eloquenza di Carlo Del Croix, che aveva ancora le cicatrici fresche sul volto accecato, e anche per non fare brutta figura presso altre persone presenti, permise che io pure mi iscrivessi fra le Infermiere Samaritane. E così, col 15 novembre, entrai per la prima volta in un Ospedale.
   Il primo giorno, anzi la prima mattina, perché era mattina, vedendomi osservata da tanti occhi, così timida come ero, mi impappinai e feci un massacro… Inciampai in un tavolino da notte e buttai tutto a terra: tazze, bicchieri, bottiglie, ecc. ecc. Per fortuna il ferito aveva appena preso orologio e termometro… Fu il mio battesimo: un po' rumoroso se si vuole e un po' costoso, ma insomma bagnai così la mia croce di infermiera. Presto però divenni pratica e brava.

   Come mi volevano bene i miei poveri ragazzi! Erano soldati di truppa, perché avevo chiesto all'Ispettrice di non mandarmi in un Ospedale per ufficiali. Andavo per servire i sofferenti e non per civettare o trovare marito. Avevo ben altro per il capo, io!… Perciò volli andare fra gli umili soldati, grandi solo nel loro eroismo e nella loro pazienza.
   Anche le Suore, le Figlie di S. Vincenzo, le caratteristiche «Cappellone2», mi volevano molto bene, e così le consorelle infermiere e i medici. In 18 mesi di Ospedale non ebbi mai un rimprovero né uno sgarbo. Facevo il mio dovere e perciò ero amata e rispettata.
   Le ore più belle della mia giornata le passavo fra le corsie; vi andavo tutti i giorni, anche la domenica, all'Ospedale, e vi stavo dalle 13 fino alle 20 e anche più se vi erano dei gravi e dei morenti. Dopo due mesi passai all'Isolamento fra tisici e condannati per mali diversi. Avevo così il II reparto e l'Isolamento. Qualcosa come un duecento letti circa.

   L'ospedale essendo in Piazza S. Marco, nel palazzo degli Studi superiori, passavo sempre davanti alla Chiesa e al Museo di S. Marco e mi fortificavo il cuore, per tutte le miserie che avrei dovuto assistere, ai piedi del Nazareno nell'andare, e spesso alla sera entravo un momento nel Museo, prima che lo chiudessero, e nei giorni di ingresso libero, per tuffarmi nel cielo, dopo esser stata tante ore nel purgatorio ospitaliero, davanti alle tavole angeliche del beato Giovanni da Fiesole3.
   Il vivere fra tante miserie mi faceva bene. Mi ammorbidiva sempre più il cuore indurito dall'eccesso del dolore. Era come se delle scaglie, simili a quelle che ricoprono le tartarughe, cadessero lasciando libera la mia anima al fluire della bontà. Il dovere fra l'altro portare a Dio tanti poverini a me affidati mi obbligava dolcemente ad accostarmi sempre più a Dio.

   Avevamo un molto pio Cappellano militare, un Passionista4 che con la sua pazienza, dolcezza, tatto squisiti, operava vere conversioni. I miei ragazzoni lo ascoltavano molto ed erano fedeli alle loro pratiche di pietà.
   Ogni pomeriggio, verso le tre, in Cappella — una cappellina quasi sul tetto, piccola ma bellina — vi era la benedizione eucaristica. I feriti che potevano muoversi andavano. Una teoria di grucce che toccheggiavano per i corridoi, di bastoni, di braccia al collo, di teste fasciate… Salivano la scaletta e i primi arrivati entravano finché la chiesina era stipata. Gli altri si pigiavano fuori, sul pianerottolo, giù per la scala… e cantavano. Che bei cori di voci maschie!… Faceva commozione a sentirli cantare così con fede, con slancio, quei redivivi che avevano combattuto e ucciso nelle mischie feroci e che ora, tornati come dei grandi bambini indeboliti dal male, sapevano ridiventare buoni, semplici, fidenti come quando fanciulli andavano in chiesa con la loro mamma. Mi pare ancora di sentirli quei canti… «Noi vogliam Dio», «Deh, l'audace lingua frena», «Andrò a vederla un dì» e tanti altri…

   Gesù si è servito anche dei miei feriti per parlare al mio cuore. Ho pianto udendo quei canti… Ma era già un pianto diverso. Era un pianto-invocazione, un pianto-lavacro, un pianto che era scala, il primo scalino della scala per salire a Dio.
   Alla vigilia delle feste e al sabato si confessavano e il giorno dopo mi dicevano di aver fatto la comunione e mi chiedevano se la facevo io pure. Poveri ragazzi! Quanto bene mi è venuto da loro! Mi vedevano spesso melanconica e facevano di tutto per rallegrarmi.
   Ma anche io detti a loro tutti i tesori del mio cuore di donna. Fui mamma e sorella con loro. Superai ripugnanze, impazienze, stanchezze, perché li amavo e ne ero amata. E con soddisfazione mi dico: «Ho fatto anche là il mio dovere. Nulla mi rimprovera la coscienza e ne sono sicura perché le lettere di quei miei figlioloni, più vecchi di me, lo attestano ancora».
   Avrei molto da dire sui miei ragazzi, ma ciò mi porterebbe lontano, lontano… Mi basta invece solo di averle detto che ho agito rettamente, in tutti i modi, anche là dentro. Oh! è un gran bel conforto poter dire che si è agito bene! Penso talora che i miei cari ragazzi defunti preghino nel cielo per la loro giovane sorellina di ospedale e che mi attendano lassù. Penso anzi che mi saranno vicini nell'ora della morte per aiutarmi, come io fui vicino a loro in quella loro ora estrema.
  

   Ma torniamo a mio zio e a mia cugina.
   La mattina del 23 dicembre io mi alzai molto presto per andare al Mercato Centrale. Era tempo di «code» anche allora e le code toccavano a me e a mamma. Quella mattina ero andata io perché mamma era costipata.

   Quando tornai trovai una tragedia. Mamma piangente, mia cugina fuggita, mio zio prossimo ad andarsene a sua volta.
   Come sempre è accaduto quando mamma soffre realmente, si attaccò a me narrandomi che c'era stata una grande lite fra lei, Peppina e mio zio. A sentire mia mamma, il torto era loro. A sentire mio zio, il torto era di mamma. Io dico che avevano torto e ragione tutte e due le parti.
   Mamma aveva ragione di consigliare una maggiore serietà alla nipote che ormai era proprio un po' tanto civettina, ma avrebbe dovuto farlo con più dolcezza. Invece lei usò lo stesso metodo che usava con me, e loro due non lo sopportarono.
   Però mancarono a loro volta di gratitudine e di correttezza. Infine questa sorella e zia aveva sempre aiutato il fratello e mantenuto la nipote in collegio. Veramente era papà mio che pagava, ma insomma… Ormai da mesi e mesi ospitava nipote e poi fratello e nipote, aveva speso per curarli, vestirli, nutrirli. Mi pare avesse diritto a un poco di rispetto. Infine avrebbero dovuto rispettare mio padre che era sempre stato un buono anche con loro. Invece niente.
   Io cercai di mettere pace perché vedevo la mamma veramente accasciata. Ma mio zio mi dichiarò che lui «non poteva far torturare sua figlia da un'aguzzina dai metodi di croato». Testuali parole.
   A mezzogiorno, mentre noi tre, molto tristamente, sorbivamo un brodo, mio zio se la svignò, insalutato ospite, lasciando la porta aperta e sul tavolo della sua stanza un biglietto per me dove mi «ordinava di portargli le loro cose all'indirizzo che mi avrebbe in seguito significato».

   Fu un ben triste Natale quello del 1917! Mamma a letto con la febbre e una colica di fegato, frutto della bella scena, papà mortificato, io addolorata.
   Mah! Mamma dovrebbe sempre ricordare che né io né mio papà mai le procurammo dei dispiaceri atti a metterla a letto ammalata…
   Per fortuna, in quei giorni Mario venne a Firenze per un 15 giorni di vacanza e fu lui che provvide a molte cose. Mi accompagnò dallo zio per la consegna delle cose dei due…, in Comune per le pratiche per la separazione delle tessere, cambiò tutta la disposizione della casa perché mamma diceva che vederla uguale a quando c'erano quei due le faceva troppa pena, e infine si fece infermiere e consolatore di mamma che egli chiamava «la sua cara mammy!».
   Anche con me si dava da fare, e intanto esigeva che tutte le mattine lo accompagnassi in chiesa e facessi la comunione con lui. Non so se quando era in Accademia era ugualmente pio. Ma direi di sì, perché le sue lettere erano piene di fede. Il discepolo aveva, nel nostro caso, superato la sua maestra.
   Certo con l'intuito dell'affetto aveva capito che io avevo bisogno di Dio per soffrire, se non meno, con meno asprezza, e mi riportò a Dio. Posso dire che come, con la sua forza di giovane robusto, rotto a tutti gli esercizi fisici, sollevava senza fatica pesi inerti come i mobili, così ugualmente mi prese di peso e mi sollevò ponendomi su un altare, presso un tabernacolo. Non mi faceva delle prediche, che non avrei sopportate, perché in certe ore le prediche dànno noia, ma agiva addirittura. Aveva capito che ero infelicissima… Lui pure aveva avuto una vita poco felice e capiva. Aveva capito che io volevo morire perché stanca di soffrire e ricorse alla Medicina delle medicine: mi gettò fra le braccia di Dio.
   Sì, se sono tornata a Dio lo devo alla bontà del Signore, ma anche molto al mio Mario. Il quale fra l'altro doveva aver parlato molto chiaro anche a mamma dicendole che io morivo di malinconia e occorreva darmi un poco di felicità.

   Mia mamma, allora, gli dava ancora ascolto e gli voleva bene. Aveva sempre avuto un debole per i maschi. Dice tuttora che non sa rassegnarsi d'aver perduto il figlio maschio, morto dopo poche ore di vita. E poi Mario era un grande salvagente per lei!… Almeno credeva che lo fosse. Vedeva che io degli uomini non mi occupavo di nessuno fuorché di lui, e me lo teneva vicino per tenere lontano dal mio cuoretutti gli altri pretendenti, che non mi sono mancati, lo devo dire.
   Ma Mario cresceva. Non era più un ragazzo. Aveva ormai passato i vent'anni ed era prossimo ad uscire dall'Accademia Navale col grado di Guardiamarina. E guardava a me con occhi diversi ormai. Né lo teneva nascosto questo suo pensiero. Lo diceva apertamente, schiettamente, e suo papà, sua nonna, i suoi zii lo secondavano. Quante volte abbracciando mamma non le disse: «Vero, Mammy? Quando sono ufficiale la signorina è per me e lei sarà la mia mamma e il signor Giuseppe il mio papà. Avrò due papà allora, e la mia Mammy, e avrò la mia cara signorina per la quale ho studiato e sono divenuto quel che sono!…». E lo faceva ormai capire anche a me che la sua amicizia sororale si era ormai mutata in qualcosa di molto più profondo di un amore fraterno.
   Ma io non ne volevo sapere. E per due motivi. Il primo era che mi sentivo ormai incapace di amare un uomo con l'anima e col corpo.
   Lei mi chiederà: «Come? Ha passato tutte quelle lotte contro il senso risvegliato e ora, che poteva onestamente appagare i bisogni della natura, non ne voleva sapere?». Sembra un controsenso, vero? Ma non lo è.
   L'avermi levata crudelmente la mia libertà di amare e avermela levata con la frangia di certe… spiegazioni che avevano intorbidito la limpidezza del mio cuore di vergine, assolutamente ignara di certe leggi fisiologiche e istintive, nella stessa maniera che una pietra gettata in un limpido stagno sommuove il fondale e ne solleva il fango depositato sul fondo, mi aveva molto turbata.

   Ma non era nella mia natura di essere una unicamente dominata dal senso. Passionale sì, lo ero e lo sono. Mi attaccavo e mi attacco a qualcosa per amare, essendo questo un vero bisogno del mio io, sempre più acuito dal non amore che mi circondava. Da giovane amai intensamente la creatura. Dai venticinque anni in poi amai intensissimamente, sempre più intensissimamente, il Creatore. Ma senza un grande amore, scopo della mia vita, non potei mai stare. Ero dunque una passionale, forse è meglio detto: una appassionata. Ma non una sensuale.
   Vi è una grande differenza, benché sul primo non appaia, fra le creature naturalmente viziose e quelle che sono portate a subire tempeste del senso per un complesso di circostanze volute dagli uomini che ci stanno intorno e dal Nemico che continuamente ci guata. Quando in un cielo estivo si formano nubi temporalesche, gravide di fulmini e di grandine, è inevitabile che il temporale scoppi. Ma non sempre però esso diviene temporale distruttore. Quando un microbo assale una persona non sempre fa lo stesso scempio. Se quella persona è tendente a quel dato male, il microbo prospera e conduce a morte. Ma se quella persona è, di nascita, refrattaria a quel microbo, esso non riesce ad attecchire e viene sterilizzato dal sangue generoso del colpito.
   Nel mio cielo si erano levate nubi temporalesche accumulate da venti d'inferno e nel mio sangue erano stati inoculati bacilli nefasti. Ma se la grandine era scesa, devastando per sempre la mia fioritura di speranze giovanili, non aveva però incenerito col fulmine la mia linfa vitale, e il mio albero poteva ancora dare, se non gioia di corolle, utilità di fronde. Ma il mio sangue, non di nascita lussurioso, aveva potuto superare, con fatica e sofferenza, è vero, ma con vittoria, i germi della carnalità inoculati in esso.

   Passata quella febbre, e passata dopo che il mio Dio mi aveva dato quella risposta che mi fu forza e norma, io ero tornata la Maria di un tempo, ossia la creatura superiore alle seduzioni della natura. E lo ero divenuta ancor più di prima perché, staccata come ormai ero dalla vita, spenta per sempre alla capacità di amare come donna, solo incline alla morte, non avevo neppur più in me quella santa tendenza a perpetuare la specie attraverso ad un matrimonio fecondo, che Dio non condanna perché Lui stesso lo mise per primo nel cuore dei progenitori.
   Perciò non mi sentivo più capace di amare come donna un uomo. Sentivo questa mia incapacità e me ne spiaceva solo perché avevo un cuore naturalmente materno… L'idea che mai avrei avuto dei bimbi miei mi dava pena… È tuttora la mia nostalgia più grande, dopo quella del Cielo, questa… Pensavo alla mia solitaria vecchiezza, se fossi campata… Ma non me la sentivo di essere «una carne sola» con l'uomo che fosse divenuto mio marito.
   Perciò significai a Mario di lasciarmi in pace e gli significai anche che io non mi sentivo più sana come prima e perciò non volevo legare un uomo giovane e sano ad una malazzata. Mi lasciasse perciò tranquilla e continuasse a mantenermi la sua buona amicizia che mi era di tanto conforto. Gli feci anche capire che, se mamma avesse capito che egli faceva sul serio la parte del pretendente, avrebbe fatto subire a lui pure la sorte degli altri che si erano fatti avanti con proposte di matrimonio. Sarebbe stato messo alla porta e per sempre.
   Ma Mario, ma suo padre, ma sua nonna, ma i suoi zii non potevano ammettere che mia mamma, dopo averlo lusingato tanto, lo potesse trattare così. Che diamine! Era sano, ricco, passabilmente bello, con una magnifica carriera davanti a sé. Che ostacoli potevano esser messi in opera da mamma? Che diamine! Non volevo certo insinuare che una mamma fosse così egoista da sacrificare sua figlia per avere sempre seco una serva senza salario?… Non lo potevano credere…

   Infatti, chi l'avrebbe creduto? Molte delle mie angosce familiari non sono credibili altro che dai testimoni oculari, Padre. Lei pure, non so se creda ciecamente a quanto le narro… È così contrario al concetto che si ha dell'amore materno… che si stenta a crederlo. Ma è la verità. Tutto è verità in questa mia storia. Posso morire ad ogni momento, oppressa come sono per il versamento pericardico e pleurico. Ma sono tranquilla di non avere a rispondere a Dio di nessuna bugia su quanto le narro, anche se avessi a morire senza confessione.
   Con tutte le mie forze cercai perciò di fare ragionare Mario. Ma l'uomo innamorato non ragiona, specie se è spalleggiato da tutta una parentela. Tutto quello che ottenni fu che aspettasse a parlare per un altro anno, ossia fino al momento in cui avesse avuto le spalline da ufficiale.
   Con mamma non dissi nulla, se no il povero Mario sarebbe stato subito condannato. Parlai con papà mio e con papà suo, scrissi ai parenti di Mario a Roma. E tutti mi esortarono ad accettare Mario e a non sacrificarmi oltre ad egoismi materni. E la vita continuò.
   Ci si scriveva come al solito, da buoni e fraterni amici, e Mario, che aveva intuito che se l'aiuto dei sacramenti fosse stato più frequente io sarei migliorata non solo nel morale ma anche nel fisico, che sempre risente in sé le ripercussioni morali, trovava sempre il modo di farmi fare delle comunioni. Ora era per un suo esame, ora per un compagno malato, ora per sua nonna, ora per suo zio… Povero ragazzo! Mi ha proprio riabituata lui al desiderio del Pane celeste! Cominciai allora, nella primavera 1918, ad andare, ribellandomi in questo agli «ukase» materni, in chiesa quasi tutte le mattine.
   Fra l'altro Mario si era accorto che io, da buona italiana come sono sempre stata, subito dopo Caporetto avevo fatto un voto a Dio per la vittoria e a ricordo del medesimo portavo intorno alla vita la mia grossa corona del rosario del Collegio. Mi martirizzava le carni. Un giorno la corona si ruppe e cadde proprio ai piedi di Mario. Mi seccò immensamente perché quando faccio penitenza «mi ungo il capo5 e mi lavo la faccia affinché gli uomini non se ne avvedano ma solo il Padre che è nel segreto».

   Anche ora nessuno s'accorge che io porto notte e giorno un cingolo che è un cilicio vero e proprio, e né febbri né sofferenze me lo fanno levare. Me lo tolgo solo nell'ora che viene il medico perché, visitandomi, non me lo trovi. Vero è che resta il segno nella carne e su quel segno misterioso il dottore è rimasto più volte perplesso, ma dato che lì, alla vita, l'enfiagione del tumore è tale che dà un ripiegamento della pelle, il medico è sempre rimasto incerto se sia un segno naturale o procurato da una corda.
   Insomma quel giorno cadde la corona. Mario la raccolse e me la rese senza commenti. Del resto la mia stessa confusione lo aveva illuminato.
   Come vede, nonostante le mie ruzzolate per terra, non ero proprio una… senza fede.
   Dunque Mario si era accorto che io dovevo aver fatto qualche promessa al Signore perché salvasse la Patria. E specie servendosi di questo mi spinse verso Dio con continue comunioni.
   L'ultima arma che il demonio usava con me, allora, era questa: non potendomi più turbare in altri modi, né col senso in maniera completa, né colla suggestione del suicidio, con la stessa intensità di prima, pauroso che io mi volgessi del tutto a Dio, mi inoculava una vergogna di rivolgermi a Dio dopo averlo offeso. Sono le sue solite, antichissime armi, usate la prima volta nel Paradiso terrestre. Ma il mio Mario le vinse.
   Tornai dunque sempre più vicina a Dio. Soffrivo ancora molto per i modi materni. Ma di quelli ne soffrirò finché una di noi due non sarà morta. Però soffrivo con più rassegnazione.
   Fu allora che io… detronizzai la Madonna dal mio tavolino da notte e vi misi sopra quel Cuore di Gesù che vi è tuttora e che non mi ha più lasciata, venendo con me in Calabria, a Cremona, ovunque andassi per poco o per molto tempo.
  Mario e i miei feriti mi hanno riunita a Dio. La contemplazione del dolore e della morte sono sempre una grande medicina spirituale! E la vicinanza di un cuore cristianamente buono, l'amicizia onesta e cristiana è sempre fomite di Bene. 

   Nell'estate 1918 io e mamma ebbimo la «spagnola6». Io vivevo fra gli spagnolosi e perciò la presi violentissima. Da allora mi rimase la febbre giornaliera. Il cuore cedette ancora di più. Ma ci curammo da noi, senza aiuto di medici, tutti malati, e quei pochi non malati straoccupati e imprendibili. Ci curammo come io vedevo curare i miei ragazzi all'ospedale e, senza aiuto di medici per guarire o per morire,superammo il male. Mamma tornò più vegeta di prima. Io, sia per la mia imperfezione cardiaca preesistente, sia forse perché in ospedale potevo essermi contagiata fra tante infezioni di diverse specie, non tornai più come prima. Ma ero felice di andarmene. Se morivo risolvevo tutto senza scene, anche la faccenda di Mario.
   Il 4 novembre la guerra ebbe termine. Quando la notizia giunse mi precipitai fuori dall'Ospedale e corsi ai piedi del Nazareno nella chiesa di S. Marco per ringraziarlo… Gli offrii allora me stessa chiedendogli che mi prendesse la vita ma che non facesse più venire altre guerre.
   Quel giorno non sapevo ancora bene quel che offrivo, e il mio offrire era inquinato dal desiderio, molto umano, di non vivere più per non soffrire più. Ma da allora io ho sempre ripetuto la mia offerta, per questo e per altri motivi che le dirò a suo tempo, sapendo molto bene quel che facevo.
   Ma se per tante cose Gesù mi ha ascoltata, per questa no. Dal 1918 ad oggi molte altre guerre hanno ucciso i figli d'Italia… e forse io morirò mentre la più tremenda delle guerre è in atto.
 

   era venuto Caporetto, cioè vi era stata la battaglia di Caporetto (combattuta tra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917),
 che segnò per l'esercito italiano la più grande disfatta della prima guerra mondiale. Del Croix era Carlo Delcroix (1896-
1977), mutilato e grande invalido della prima guerra mondiale, scrittore e oratore efficace, futuro uomo politico.
   2 Cappellone erano chiamate per la grande cuffia inamidata, dalle pittoresche falde laterali, che faceva parte del loro 
abito religioso, in seguito semplificato. Si trattava delle Figlie della Carità, fondate in Francia nel 1633 dai santi 
Vincenzo de Paul e Luisa de Marillac.
   3 beato Giovanni da Fiesole (1400 circa - 1455) è più noto con il nome di Beato Angelico.
   4 un Passionista che potrebbe rispondere al nome di P. Gregorio dell'Addolorata, al secolo Antonio Ceccarini (1877-
1931).
   5 mi ungo il capo… è citazione, un po' parafrasata, da: Matteo 6, 17-18.
   6 spagnola fu detta l'influenza epidemica che in quegli anni, partendo dalla Spagna, si diffuse in Europa provocando 
in 
molti casi la morte. Maria Valtorta l'ebbe più volte.
MV a 18 anni

MV con la zia Angelina


AMDG et DVM

SORPRENDENTE: «Se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio».

   LA CATECHESI DI BENEDETTO XVI:

      IL MAGNIFICAT


Siamo giunti ormai all’approdo finale del lungo itinerario cominciato proprio cinque anni fa dal mio amato Predecessore, l’indimenticabile Papa Giovanni Paolo II. Il grande Papa, infatti, aveva voluto percorrere nelle sue catechesi l’intera sequenza dei Salmi e dei Cantici che costituiscono il tessuto orante fondamentale della Liturgia delle Lodi e dei Vespri.


   Pervenuti ormai alla fine di questo pellegrinaggio testuale, simile a un viaggio nel giardino fiorito della lode, dell’invocazione, della preghiera e della contemplazione, lasciamo ora spazio a quel Cantico che idealmente suggella ogni celebrazione dei Vespri, il Magnificat (Lc 1,46-55).

È un canto che rivela in filigrana la spiritualità degli anawim biblici, ossia di quei fedeli che si riconoscevano «poveri» non solo nel distacco da ogni idolatria della ricchezza e del potere, ma anche nell’umiltà profonda del cuore, spoglio dalla tentazione dell’orgoglio, aperto all’irruzione della grazia divina salvatrice. Tutto il Magnificat è, infatti, marcato da questa «umiltà», in greco tapeinosis, che indica una situazione di concreta umiltà e povertà.

Celebrare la grazia

Il primo movimento del cantico mariano (cf Lc 1,46-50) è una sorta di voce solista che si leva verso il cielo per raggiungere il Signore.
   Si noti, infatti, il risuonare costante della prima persona: «L’anima mia... il mio spirito... mio salvatore... mi chiameranno beata... grandi cose ha fatto in me...».
   L’anima della preghiera è, quindi, la celebrazione della grazia divina che ha fatto irruzione nel cuore e nell’esistenza di Maria, rendendola la Madre del Signore. Sentiamo proprio la voce della Madonna che parla così del suo Salvatore, che ha fatto grandi cose nella sua anima e nel suo corpo.

L’intima struttura del suo canto orante è, allora, la lode, il ringraziamento, la gioia riconoscente. Ma questa testimonianza personale non è solitaria e intimistica, puramente individualistica, perché la Vergine Madre è consapevole di avere una missione da compiere per l’umanità e la sua vicenda si inserisce all’interno della storia della salvezza. E così può dire: «Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono» (v. 50). La Madonna con questa lode al Signore dà voce a tutte le creature redente, che nel suo «Fiat», e così nella figura di Gesù nato dalla Vergine, trovano la misericordia di Dio.


Dalla parte degli umili

È a questo punto che si svolge il secondo movimento poetico e spirituale del Magnificat (cf vv. 51-55). Esso ha una tonalità più corale, quasi che alla voce di Maria si associ quella dell’intera comunità dei fedeli che celebrano le scelte sorprendenti di Dio.
   Nell’originale greco del Vangelo di Luca abbiamo sette verbi all’aoristo, che indicano altrettante azioni che il Signore compie in modo permanente nella storia: «Ha spiegato la potenza... ha disperso i superbi... ha rovesciato i potenti... ha innalzato gli umili... ha ricolmato di beni gli affamati... ha rimandato i ricchi... ha soccorso Israele».
   In questo settenario di opere divine è evidente lo «stile» a cui il Signore della storia ispira il suo comportamento: egli si schiera dalla parte degli ultimi. Il suo è un progetto che è spesso nascosto sotto il terreno opaco delle vicende umane, che vedono trionfare «i superbi, i potenti e i ricchi».
   Eppure la sua forza segreta è destinata alla fine a svelarsi, per mostrare chi sono i veri prediletti di Dio: «Coloro che lo temono», fedeli alla sua parola; «gli umili, gli affamati, Israele suo servo», ossia la comunità del popolo di Dio che, come Maria, è costituita da coloro che sono «poveri», puri e semplici di cuore. È quel «piccolo gregge» che è invitato a non temere perché al Padre è piaciuto dare ad esso il suo regno (cf Lc 12,32).
   E così questo canto ci invita ad associarci a questo piccolo gregge, ad essere realmente membri del Popolo di Dio nella purezza e nella semplicità del cuore, nell’amore di Dio.


Tutti generano Cristo

Raccogliamo, allora, l’invito che nel suo commento al testo del Magnificat ci rivolge Sant’Ambrogio. Dice il grande Dottore della Chiesa:

   «Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio...
   L’anima di Maria magnifica il Signore, e il suo spirito esulta in Dio, perché, consacrata con l’anima e con lo spirito al Padre e al Figlio, essa adora con devoto affetto un solo Dio, dal quale tutto proviene, e un solo Signore, in virtù del quale esistono tutte le cose» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2,26-27: SAEMO, XI, Milano-Roma 1978, p. 169).

In questo meraviglioso commento del Magnificat di Sant’Ambrogio mi tocca sempre particolarmente la parola sorprendente:
«Se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio».
     Così il santo Dottore, interpretando le parole della Madonna stessa, ci invita a far sì che nella nostra anima e nella nostra vita il Signore trovi una dimora.  

     Non dobbiamo solo portarlo nel cuore, ma dobbiamo portarlo al mondo, cosicché anche noi possiamo generare Cristo per i nostri tempi.
  
     Preghiamo il Signore perché ci aiuti a magnificarlo con lo spirito e l’anima di Maria e a portare di nuovo Cristo al nostro mondo.


        Benedetto XVI
L’Osservatore Romano, 15-02-2006

AMDG et DVM 

SINTESI DEI DUE MISTERI PRINCIPALI DELLA FEDE CATTOLICA - Nella solennità della SS.ma Trinità


Simbolo Atanasiano


Chiunque vuol esser salvo, * prima di tutto bisogna che abbracci la fede cattolica.
Fede, che se ognuno non conserverà integra e inviolata, * senza dubbio sarà dannato in eterno.
La fede cattolica consiste in questo: * che si veneri, cioè, un Dio solo nella Trinità [di Persone] e un Dio trino nell'unità [di natura].
Senza però confonderne le persone, * né separarne la sostanza.

Giacché altra è la persona del Padre, altra quella del Figlio, * altra quella dello Spirito Santo;
Ma del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo unica è la divinità, * eguale , la gloria, coeterna la maestà.
Quale è il Padre, tale il Figlio, * e tale lo Spirito Santo.

Increato è il Padre, increato il Figlio, * increato lo Spirito Santo.
Immenso è il Padre, immenso il Figlio, * immenso lo Spirito Santo.
Eterno è il Padre, eterno il Figlio, * eterno lo Spirito Santo.
Pur tuttavia non vi sono tre [esseri] eterni, * ma uno solo è l'eterno.
E parimenti non ci sono tre esseri increati, né tre immensi, * ma uno solo l'increato, uno solo l'immenso.

Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, * onnipotente lo Spirito Santo.
E tuttavia non ci sono tre [esseri] onnipotenti, * ma uno solo è l'onnipotente.

Così il Padre è Dio, il Figlio è Dio, * lo Spirito Santo è Dio.
E tuttavia non vi sono tre Dèi, * ma un Dio solo.

Così il Padre è Signore, il Figlio è Signore, * lo Spirito Santo è Signore.
Però non vi sono tre Signori, * ma un Signore solo.
Infatti, come la fede cristiana ci obbliga a professare quale Dio e Signore separatamente ciascuna Persona; * così la religione cattolica ci proibisce dì dire che ci sono tre Dèi o tre Signori.

Il Padre non è stato fatto da alcuno, * né creato e neppure generato.
Il Figlio è dal solo Padre; * non è stato fatto, né creato, ma generato.
Dal Padre e dal Figlio è lo Spirito Santo, * che non è stato fatto, né creato, né generato, ma che procede.

Dunque c'è un solo Padre, non tre Padri; un solo Figlio, non tre Figli; * un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.
In questa Triade niente vi è di prima o di dopo, niente di più a meno grande; * ma tutte e tre le Persone sono fra loro coeterne e coeguali.
Talché, come si è detto sopra, * si deve adorare sotto ogni riguardo nella Trinità l'unità, e nella unità la Trinità.

Pertanto chi si vuol salvare, * così deve pensare della Trinità.

Ma per la salute eterna è necessario * che creda di cuore anche l'Incarnazione di nostro Signor Gesù Cristo.

Or la vera fede consiste nel credere e professare * che il Signor nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo.
È Dio, generato, sin dall'eternità, dalla sostanza del Padre, * ed è uomo, nato nel tempo, dalla sostanza d'una madre.

Dio perfetto e uomo perfetto * che sussiste in un'anima razionale e in un corpo umano.
È eguale al Padre secondo la divinità, * è minore del Padre secondo l'umanità.

Il Figlio quantunque sia Dio e uomo, tuttavia non sono due, ma è un Cristo solo.
Ed è uno non perché la divinità si è convertita nell'umanità, * ma perché Iddio s'è assunta l'umanità.
Uno assolutamente, non per il confondersi di sostanza; * ma per l'unità di persona.

Ché come l'uomo, anima razionale e corpo, è uno: * così il Cristo è insieme Dio e uomo.
Il quale patì per la nostra salvezza, discese agli inferi, * e il terzo giorno risuscitò da morte.

Salì al cielo, siede ora alla destra di Dio Padre onnipotente, * donde verrà a giudicare i vivi ed i morti.
Alla cui venuta tutti gli uomini devono risorgere con i loro corpi, * e dovranno rendere conto del loro proprio operato.
E chi avrà fatto opere buone avrà la vita eterna; * chi invece opere cattive subirà il fuoco eterno.

Questa è la fede cattolica, * fede che se ciascuno non avrà fedelmente e fermamente creduto non si potrà salvare.

V. Gloria al Padre, e al Figlio, * e allo Spirito Santo.
R. Come era nel principio e ora e sempre * nei secoli dei secoli. Amen.

Ant. Gloria a te, o Trinità eguale, o Divinità unica, innanzi a tutti i secoli, e ora e in perpetuo.

***

Lettura 4
Dal libro di san Fulgenzio Vescovo, della fede a Pietro
Fra le opere di Agostino, tomo 3
La fede che i santi Patriarchi e Profeti ricevettero da Dio prima dell'incarnazione del Figlio suo, che i santi Apostoli appresero dal Signore stesso incarnato, che lo Spirito Santo insegnò loro e ch'essi non solo predicarono colla parola, ma consegnarono nei loro scritti a salutare istruzione dei posteri; questa fede proclama, insieme coll'unità di Dio, la sua Trinità, cioè il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma non sarebbe vera Trinità, se una sola e stessa persona si dicesse Padre, Figlio e Spirito Santo.


Se infatti, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come sono una sola sostanza, così fossero una sola persona; non ci sarebbe più luogo a professare una vera Trinità. D'altra parte ci sarebbe sì Trinità, ma questa Trinità non sarebbe più un solò Dio, se il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo fossero separati fra loro per la diversità delle loro nature, come sono distinti per le proprietà personali. Ma com'è verità che quest'unico vero Dio per sua natura non solo è Dio unico, ma è anche Trino; così questo vero Dio è Trino nelle persone, e uno nell'unità della natura.

Per questa unità di natura il Padre è tutto nel Figlio e nello Spirito Santo, il Figlio tutto nel Padre e nello Spirito Santo, e lo Spirito Santo tutto nel Padre e nel Figlio. Nessuno di essi sussiste separatamente fuori degli altri due: perché nessuno precede gli altri nell'eternità, o li supera in grandezza, o li sorpassa in potere: poiché il Padre, per quanto riguarda l'unità della sua natura divina, non è né anteriore né maggiore del Figlio e dello Spirito Santo; né l'eternità o immensità del Figlio può, quasi anteriore o maggiore, per necessità della natura divina precedere o sorpassare l'immensità e l'eternità dello Spirito Santo.
V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.






Lettura del santo Vangelo secondo Matteo
Matt 28:18-20
In quell'occasione: Gesù disse ai suoi discepoli: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra: Andate dunque a istruire tutte le Genti, battezzandole nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo. Eccetera.

Omelia di san Gregorio Nazianzeno
Trattato della fede, dopo il principio
Qual cattolico ignora che il Padre è veramente Padre, il Figlio è veramente Figlio, e lo Spirito Santo è veramente Spirito Santo? siccome il Signore stesso dice ai suoi Apostoli: «Andate, battezzate tutte le Genti nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo». Ecco quella divinità perfetta nell'unità d'un'unica sostanza, alla quale professiamo di credere. Perché noi non ammettiamo punto in Dio divisione come nelle sostanze corporee; ma a causa della potenza della natura divina, ch'è immateriale, professiamo di credere e alla distinzione reale delle persone che nominiamo, e all'unità della natura divina.

E non diciamo, come alcuni hanno immaginato, il Figlio di Dio essere una estensione di qualche parte di Dio: né intendiamo già un verbo senza realtà come un suono di voce: ma crediamo che le tre denominazioni e le tre persone hanno una stessa essenza, una stessa maestà e potenza. Noi confessiamo dunque un Dio solo: perché l'unità della maestà ci vieta di nominare più dei. Infine, noi nominiamo distintamente, conforme al linguaggio cattolico, il Padre e il Figlio; ma non possiamo né dobbiamo dire due Dii. Non già che il Figlio di Dio non sia Dio, anzi è vero Dio da Dio vero; ma perché sappiamo che il Figlio Dio non ha altro principio che l'unico suo Padre, perciò diciamo che non c'è che un Dio. Questo è quanto ci hanno tramandato i Profeti, e gli Apostoli: questo quanto ha insegnato il Signore medesimo quando disse: «Io e il Padre mio siamo uno» Joan. 10,20.  Dicendo «Uno» esprime, come dicevo, l'unità della divinità; e «Siamo» indica la pluralità delle persone.

Così, secondo la fede cattolica, chiamiamo Dio padre e figlio; ma che siano due dei non possiamo né dobbiamo dirlo. Non che il Figlio di Dio non sia Dio, anzi è « Dio vero da Dio vero »; ma perché sappiamo che il Figlio di Dio non ha altro principio che l'unico suo Padre, perciò diciamo che Dio è uno solo. Questo infatti ci hanno tramandato i profeti e gli apostoli; questo ci insegnò il Signore stesso, quando disse: « Io e il Padre siamo uno ». « Uno » si riferisce all'unità della divinità ; « siamo » indica le persone. 

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.



AMDG et DVM