sabato 30 luglio 2016

LECTIO MAGISTRALIS. FEDE RAGIONE E UNIVERSITA'. IL PAPA BENEDETTO PARLA DI CRISTIANESIMO E DI ISLAM, citando la jihad con citazioni sull'"irrazionalità" della Guerra di Religione propugnata da Maometto. Così chi doveva intendere poteva avere ben chiaro la realtà sulla vera essenza del Corano.

DE EL EN ES FR IT PT ]
IO SONO IL SIGNORE DIO TUO, 
NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME.

E POICHE' GESU' E' DIO, 
TUTTE LE ALTRE RELIGIONI SONO FALSE.


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI 
A MÜNCHEN, ALTÖTTING E REGENSBURG
(9-14 SETTEMBRE 2006)

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Aula Magna dell’Università di Regensburg
Martedì, 12 settembre 2006

Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
  
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!


È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue.[1] Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano.[2] Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.  Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.

Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È probabilmente una dellesure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".[3] L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…"[4]
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.[7]

A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logosLogos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.[8] Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo.[9] Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente  purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.[11]

La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scripturainvece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.

La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento[12] e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.

Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

 Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".[13]L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.

 

[1] Dei complessivamente 26 colloqui (διάλεξις– Khoury traduce: controversia) del dialogo („Entretien“), Th. Khoury ha pubblicato la 7 ma „controversia“ con delle note e un'ampia introduzione sull'origine del testo, sulla tradizione manoscritta e sulla struttura del dialogo, insieme con brevi riassunti delle „controversie“ non edite; al testo greco è unita una traduzione francese: Manuel II Paléologue, Entretiens avec un Musulman. 7 e Controverse. Sources chrétiennes n. 115, Parigi 1966. Nel frattempo, Karl Förstel ha pubblicato nel Corpus Islamico-Christianum (Series Graeca. Redazione A. Th. Khoury – R. Glei) un'edizione commentata greco-tedesca del testo: Manuel II. Palaiologus, Dialoge mit einem Muslim, 3 volumi, Würzburg – Altenberge 1993 – 1996. Già nel 1966, E. Trapp aveva pubblicato il testo greco con una introduzione come vol. II dei „Wiener byzantinische Studien“. Citerò in seguito secondo Khoury.
[2] Sull'origine e sulla redazione del dialogo cfr Khoury pp. 22-29; ampi commenti a questo riguardo anche nelle edizioni di Förstel e Trapp. 
[3] Controversia VII 2c: Khoury, pp. 142-143; Förstel, vol. I, VII. Dialog 1.5, pp. 240-241. Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione  della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica. 
[4] Controversia VII 3b – c: Khoury, pp. 144-145; Förstel Bd. I, VII. Dialog 1.6  pp. 240-243.
[5] Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni.  
[6]Cfr Khoury, op. cit.,  p. 144, nota 1.
[7]R. Arnaldez, Grammaire et théologie chez Ibn Hazm de Cordoue. Parigi 1956 p. 13; cfr Khoury p. 144. Il fatto che nella teologia del tardo Medioevo esistano posizioni paragonabili apparirà nell'ulteriore sviluppo del mio discorso.
[8] Per l'interpretazione ampiamente discussa dell'episodio del roveto ardente vorrei rimandare al mio libro "Einführung in das Christentum" (Monaco 1968), pp. 84-102. Penso che le mie affermazioni in quel libro, nonostante l'ulteriore sviluppo della discussione, restino tuttora valide.
[9]Cfr. A. Schenker, L’Écriture sainte subsiste en plusieurs formes canoniques simultanées, in: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Città del Vaticano 2001, p. 178-186.
[10] Su questo argomento mi sono espresso più dettagliatamente nel mio libro "Der Geist der Liturgie. Eine Einführung", Friburgo 2000, pp. 38-42.
[11] Della vasta letteratura sul tema della deellenizzazione vorrei menzionare innanzitutto: A Grillmeier, Hellenisierung – Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in: Id., Mit ihm und in ihm. Christologische Forschungen und Perspektiven. Freiburg 1975 pp. 423-488.
[12] Nuovamente pubblicata e commentata da Heino Sonnemanns: Joseph Ratzinger – Benedikt XVI., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der theologia naturalis. Johannes-Verlag Leutesdorf, 2. ergänzte Auflage 2005.
[13] 90 c-d. Per questo testo cfr anche R. Guardini, Der Tod des Sokrates. Mainz-Paderborn 1987 5, pp. 218-221.

© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana

AMDG et BVM

DARDI VERSO IL CIELO

DARDI VERSO IL CIELO
di Cristina Campo

Anteo, il gigante, per rimanere invincibile, doveva toccar terra col piede. L'uomo religioso deve, nell'agone che gli è proprio, staccarsene il più sovente possibile: proiettando la sua mente in Dio, scagliandola, come si dà il volo a una rondine, verso il Creatore. Questo dardo d'oro della mente, questo batter d'ali che si gettano perdutamente a prender dimora un istante nel cuore stesso della luce, sono noti ai cristiani; e quando siano vocali (ma non necessaria­mente) si chiamano operazioni giaculatorie, da jaculum, appunto: dardo o freccia scoccata.

Il Vescovo di Roma ha ricordato di recente che "l'uomo è un essere costituzionalmente ordinato a trascendere se stesso, un essere proiettato verso Dio". Questa naturale conformazione spiega come la giaculatoria sia stata in ogni tempo istintiva sulle labbra del popolo: il più delle volte inconscia, puro grido, non di rado colma di affetti delicati. "Cuore di Cristo, Vergine dolcissima, Madre del Cielo, fateci santi" sono tra le locuzioni ancora in uso nelle campagne italiane. 

E non è detto che il lancio di questi lievi e caldi boccioli non compensi, sulle bilance invisibili, terrificanti pesi di blasfemia. Il dolore del popolo rinnova, in una gamma infinita, l'eco - umile e difforme finché si vuole - della suprema giaculatoria divina: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

Nella storia cristiana la pratica assidua, metodica dell'orazione giaculatoria risale ai padri anacoreti della Tebaide. Nelle Vitae Patrum è perpetuato il ricordo dell'unica giaculatoria con la quale l'abate Pafnuzio condusse in tre anni la cortigiana Thais alla purificazione perfetta. Volta verso Oriente, ella doveva ripetere: "Tu che mi creasti, abbi pietà di me".

Ma vi è un nome al quale "si piega ogni ginocchio, in cielo, in terra e negli inferni". La giaculatoria dei Padri era soprattutto il nome di Cristo, reiterato all'infinito secondo il comandamento paolino "Pregate incessantemente" (1Ts 5,17), ora solo, ora in un breve contesto: "Signore Gesù, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore". La pratica risale a un grande mistico bizantino, Simeone il Nuovo Teologo, ma la ritroviamo, più o meno ac­centuata, in tutti i Padri d'Oriente (v. Philokalia on Prayer of the Heart, Faber & Faber, 1957, e in italiano la piccola Philocalia, LEF, 1963).

Come il sacro Nome venga dolcemente accordato al gioco del respiro e del battito cardiaco, finché per così dire non più l'uomo prega ma in lui si prega incessantemente, gioiosamente, così come in lui si pulsa e si respira, è narrato con incantevole realismo in un singolare romanzo composto in Russia nel XIX secolo, senza dubbio da un eminente conoscitore delle vie della contemplazione: La relazione (o Il raccontodi un pellegrino al suo confessore (LEF, a cura di don Divo Barsotti) : stupenda piccola opera costruita, come Le anime morte, in forma di itinerario attraverso un paese ed un popolo. 

Ma queste sono anime vive, incoercibilmente felici e soavemente possenti, che il magnete del Nome congrega intorno al pellegrino dovunque passi. Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo. L'iniziazione alla "via del Nome" è ancora diffusa nei monasteri del Monte Athos (v.Invocazione del Nome di Gesù, di Ignoto, LEF, 1961) e, a quanto sembra, in molti paesi dell'Est.

Cassiano consacra un intero capitolo delle sue Collazioni alla giaculatoria "Deus, in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina": versetto davidico che aprirà, in Occidente, ciascuna Ora canonica dell'Uffizio corale. Nelle Ore, anche certe coppie di versi e responsori brevissimi suonano quali giaculatorie di supplica: "Ostende nobis Domine / misericordiam tuam", o "Miserere / mei, Deus".

Ma l'amore vince il timore. Giaculatoria regale è la giaculatoria di pura dilezione, come quella che san Francesco ripeté per un'intera notte: "Mio Dio e mio tutto"

Affettuose giaculatorie chiudono ciascun capitolo dei piccoli trattati di sant'Alfonso
Non diversamente le intendeva san Francesco di Sales, le cui lettere di direzione spirituale si insinuano come dita delicate sino alle corde più fini della vita dell'anima, squisitamente accordandole alla volontà divina. 
A santa Francesca di Chantal egli raccomanda di salutare con una giaculatoria ogni rintoccar d'ora. Ad una giovane donna vessata dal terrore della morte, di esclamare frequentemente: "Voi siete mio Padre, o Signore". Ma è nelle lettere a due dame, a cui gli affari di Corte impediscono l'orazione metodica, che egli formula con maggior bellezza e precisione il carattere dell'orazione giaculatoria: "... soprattutto desidero che in ogni occasione, durante la giornata, voi ritiriate il vostro cuore in Dio, dicendogli qualche parola di fedeltà e d'amore". "... [supplite] alla mancanza degli altri esercizi con frequenti e ferventi orazioni giaculatorie o proiezioni (élancementsdello spirito in Dio" (Lettres, Garnier, vol. I).

Questo doppio e simultaneo movimento dello spirito, che si ritira in Dio cercandolo nella segreta stanza interiore, e trova in quel centro l'infinito nel quale lanciarsi, lo ritroviamo nella pratica religiosa dell'Islam. Secondo Frithjof Schuon (Comprendre l'Islam, Gallimard, 1961), "la preghiera canonica è diretta verso la Mecca, mentre la menzione di Dio - Non c'è Dio se non Dio - è diretta verso il cuore". Questa giaculatoria di lode, reiterata alla minima occasione, forma nell'Islam il tessuto stesso della vita.

La consuetudine di queste sacre formule riveste l'uomo di una speciale impassibilità, e non è raro incontrare ancor oggi delicati asceti di cui non si spiegherebbe la resistenza all'urto del mondo se non li sapessimo ricoperti da un'invisibile armatura di giaculatorie. 
Come sempre il santo è il miglior banchiere, secondo la parola di uno scrittore contemporaneo, e lo stato di orazione perenne, oltre ad assicurare un apporto continuo di energie spirituali, lo stato di gioia e la santa imperturbabilità, opera tutto un seguito di meraviglie minori, alle quali difficilmente si crederà senza esperienza. 
La recitazione del Nome e la giaculatoria in generale, isolando lo spirito in un cerchio al quale soltanto forze superiori hanno accesso, è una possente difesa psicologica ben nota agli uomini di preghiera. Più di un antico mistico sperimentò come questa fulminea intimità con Dio arrivasse a produrre in qualche maligno interlocutore la improvvisa balbuzie, inspiegabili capogiri o altri sintomi di confusione mentale.

Anche l'inscrutabile vincitore è più spesso di quanto non si creda, e al contrario di quanto usa credere, vir orationis
Uno studioso riferiva un caso: quello del potentissimo finanziere uso alla contemplazione che assistendo a conferenze d'affari, veri convegni di lupi pronti a sbranarsi, se ne isolava di tanto in tanto elevando la mente in breve orazione. "E con sorpresa, ogni volta, li vedeva placarsi, riconciliarsi uno dopo l'altro". 
Riviste hanno riferito del magnate giapponese dell'automobile che trascorre un intero giorno della settimana in meditazione religiosa nei templi di Kyoto.

Nell'ultimo libro di Jacques Maritain (Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, 1966), di un'importanza così unica per la storia del cattolicesimo contemporaneo e così affascinante nella titanica ironia delle sue condanne, è suggerita, ancora una volta, la pratica della giaculatoria. "Si può fare orazione nel treno, nella metropolitana, nella sala d'aspetto del dentista. Si può ricorrere con frequenza a quelle brevi preghiere lanciate come un grido che gli antichi raccomandavano tanto".

È certo che se l'uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l'assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo e, beninteso, di affascinarlo.

da «Il Giornale d'Italia», 10-11 gennaio 1967, p. 3, ripubblicato in C. CAMPO, Sotto falso nome², a cura di M. FARNETTI, Milano, Adelphi, 1998, pp. 136-140.

Profetiza contra Roma

PROFETIZA LO QUE HA DE CUMPLIRSE SOBRE ROMA
2-7-2015 

 Tomad fuerza y vigor, levantándoos por Mi Brazo Poderoso, y con la fuerza de Mi Espíritu profetiza contra Roma y todos sus seguidores apóstatas, todos los que han dejado de seguir al Verdadero Pastor, para seguir al impostor de Francisco, al lobo vestido con piel de oveja, que seduce con su astucia a las almas y al clero infiel, que se han dejado prostituir por su tibieza y falta de fe. 

Ahora, todos ellos han quedado confundidos, obscurecidas sus mentes y ya nada ven, y nada entienden de la Verdad. 

Roma, la Ciudad de las siete colinas, la que me era Fiel y ahora ha dejado de serlo, porque se prostituye, y han llenado de abominaciones el Lugar Santo; 
han llenado el Cáliz de Oro de blasfemias y prostitución y toda clase de abominaciones, convirtiendo el lugar de la Catedra de Pedro en una guarida de lobos, una cueva de ladrones, y ya nada bueno se escucha en el lugar de la Catedra de Pedro, porque las enseñanzas y la doctrina ya no es la Mia, no está en la Verdad, sino en la mentira y en el engaño del gran Seductor, que obra y actúa en el falso profeta, quien se sienta en la silla de Pedro. 

No calléis, Hija Mia, sé que son duras estas palabras, pero es la Verdad y no a todos gusta. 

Os causará una nueva persecución y una tribulación por parte del Enemigo, que se levanta en contra vuestra y de todos Mis mensajeros y profetas de estos tiempos, pero la VERDAD OS HACE LIBRES y no está en vuestras manos el que todos acojan estas revelaciones. 

Está en el corazón de cada uno, en la libertad que Yo, DIOS TODOPODEROSO, OS HE DADO a cada uno. 

Los que han vivido para el mundo y olvidados de las cosas celestiales, que han vivido más para sí mismos que para MÍ, SU DIOS, difícilmente comprenderán todos estos acontecimientos, pues están cegados y obscurecidas sus mentes, y llenos de mundo sus corazones. 

Los que han vivido sin la oración, el recogimiento y la mortificación, quedarán tibios ante todas estas revelaciones, no se pronuncian en nada, actúan cobardemente incrédulos, como Tomas, que grande fue su dolor al meter sus dedos en la llaga de Mi Costado. 

Lo mismo pasará con todos estos hombres tibios, cuando llegue el momento que, por Voluntad Mía, vean cada quien su conciencia: qué grande será su dolor por su incredulidad y su tibieza de corazón. 

Os sigo mostrando, a través de todos estos acontecimientos de tribulaciones en vuestra alma y ataques del enemigo, quiénes están Conmigo y defienden la Verdadera Fe, y quiénes están confundidos, tibios y sirven a dos amos, pues no son fríos ni calientes, y Yo los vomito de Mi Boca a los tibios de corazón. 

Nadie detendrá Mi Obra en vuestra alma. 

Podrá el Enemigo haceos tropezar por breves instantes, pero en vuestra perseverancia, fidelidad y humillación ,YO, EL DIOS DE LOS EJERCITOS, os levanto y de la prueba salís más fortalecidos, porque A LOS QUE SE HUMILLAN Yo los exalto, a los que TEMEN MI NOMBRE Yo los fortalezco, para que continuéis con la misión que os confió. 

Profetiza contra Roma y los que la han vuelto Infiel, haciendo que arda Mi Ira, y envié muy pronto Mis Juicios sobre Ella. 

El acuerdo del judas de estos tiempos con los ancianos y los maestros de la ley, dentro del Vaticano, está ya por firmarse -acontecimiento que sacudirá fuertemente la Iglesia, provocando más Mi Ira contra su traición y prostitución- en unión con los reyes de este mundo y todos los que les siguen engañados. 

Multitudes seguirán al falso profeta y su doctrina de demonios, un gran número de pastores lo seguirán ciegamente, quedando al servicio del Falso Profeta y del Anticristo, que ya están obrando en este mundo a la vista de todos, pero todos han sido cegados y engañados. 

¡Ay de aquellos pastores que nieguen Mi Verdad, que dejen de seguirme para ir tras el Falso Profeta! ¡Ay de aquellos que cambien MI VERDADERA DOCTRINA por la falsa doctrina de muerte, inspirada por el mismo Satanás, que entró en el falso profeta! 

¡Ay de vosotros sacerdotes, que habiéndome manifestado a vosotros por distintos medios, a través de mis Mensajeros de la Verdad, Y PROFETAS DE ESTOS TIEMPOS, se burlan de Mí, Me flagelan en ellos, y Me ponen a prueba, martirizándome aún más, en lugar de recibir algún consuelo y alivio de sus corazones! 

¡Ay de vosotros que sois duros de corazón, incrédulos como Tomás, cobardes como Pedro que me negó tres veces! 

¡Ay de vosotros si no Me buscáis ahora de corazón, y decidís abrirme la puerta de vuestro corazón, os digo que os golpearais el pecho por cuanto bien habéis dejado de hacer por vuestra pasividad y tibieza, por vuestra cobardía y falta de verdadero testimonio, amor y caridad para con las almas que os he confiado! 

El castigo profetizado contra Roma pagana, beber Ella misma el Cáliz amargo de sus abominaciones y traiciones, la Roma infiel, es también para vosotros, que sois duros de corazón y estáis llenos de tibieza e hipocresía en vuestro servicio sacerdotal. 

Podréis aparentar ser sepulcros blanqueados por fuera y engañar a los fieles que Me buscan en cada uno de vosotros, Mis Amados sacerdotes, pero YO, VUESTRO DIOS, QUE TODO LO SÉ Y TODO LO VEO, conozco cada uno de vuestros corazones, y muchos de vosotros sois dobles, sois hipócritas, porque por fuera estáis blancos, pero por dentro estáis llenos de podredumbre. 

No basta arrepentirse y confesar el pecado cuando se ha ofendido tanto a vuestro Dios, es necesario una purificación del alma para quedar limpios de toda culpa. Y si hubieseis sido más dóciles y humildes, tomando la cruz de cada día, que muchos de vosotros rechazan, y hubieseis aceptado sufrir conmigo y con dignidad, MUCHOS LLEGARÍAN A LA SANTIDAD, habiendo sido ya purificados, mas os esperan largan purificaciones para poder merecer el Cielo, porque el Cielo es el lugar de Mi MORADA SANTA, y nada que este manchado entra en Él. 

Mis almas, las tan despreciadas por el mundo, las que han tomado la cruz de cada día -y no solo la cruz propia sino las ajenas que muchos de vosotros renegáis-, esas almas, las que han sabido sufrir conmigo y lo hacen con dignidad, las que el mundo juzga de locura y demencia, de trastornos emocionales y psicológicos, por amarme hasta la locura de la cruz, por serme fieles y obedientes, ESTAS SON LAS ALMAS QUE ENTRAN AL CIELO DIRECTAMENTE, como los Santos, porque en vida se purificaron, EN VIDA sufrieron y pagaron sus culpas, y ya no necesitan ser purificadas después de la muerte corporal, porque sus almas se blanquearon en el fuego del crisol, con la cruz de cada día, con la Inmolación de sus almas y la aceptación de Mi Voluntad en ellas. 

Todavía vosotros podéis ser esas almas, almas fieles, almas generosas en cumplir la misión, misión de la cruz, misión de salvar almas como Vuestro Maestro. 

¡Penitencia, Penitencia, Penitencia para purificar vuestras almas en vida! Y no con largas penas SOBRE LOS JUICIOS DIVINOS QUE ESTÁN POR CAER EN LA TIERRA, y después muchos siguen purificándose en el lugar de purificación. 

¡Ay de vosotros que perseguís a Mis enviados y Profetas! ¡Ay de vosotros que no os decidís a seguirme con valentía y fidelidad! El Día de la Justicia Divina desearán haber muerto y esconderse de Mi Vista, mas no lo podrán hacer, porque ante el JUSTO JUEZ todos deben presentarse y asumir las consecuencias de sus actos, y recibir el juicio y la sentencia merecidas, según amaron en esta vida y en la FIDELIDAD, EL SERVICIO, LA CARIDAD. 

En el amor a la Verdad está el Verdadero Amor, el cual os juzgará. Si hubieseis entendido los Mensajes Divinos, estuvieseis orando, ayunando y reparando por vuestras culpas y las culpas de la Iglesia Universal, pero pocos son los que, en humildad, han abierto sus corazones y TEMEN MIS JUICIOS VENIDEROS. 

En esta hora decisiva para la humanidad estuvieseis en oración en Mis Templos, haciéndoos UNO CONMIGO, y no anduvieseis dispersos y en asuntos que pronto pasarán, y no os serán ya útiles en la preparación de vuestras almas para estos tiempos que debéis de enfrentar. 

No temáis, anunciad y denunciad en NOMBRE MIO. MI NOMBRE ESTA POR ENCIMA DE TODO, PUES SOLO YO SOY DIOS TODOPODEROSO. No endurezcáis más vuestros corazones a la escucha de Mi PALABRA DIVINA. YO SOY EL QUE SOY, Y EL QUE PROFETIZA TODO, y todo cuanto anuncio ha de cumplirse. 

 ---- 

DIOS TODOPODEROSO, en Tus manos pondo todo mi ser, mi espíritu, ya que todo lo que hago es obra tuya, y en Tu Santo Nombre para Gloria de Tu Nombre. 
Sostenme en esta batalla espiritual, y dame la Victoria contra Mis enemigos, porque son muchos los que me atormentan y me hacen la guerra en contra Tuya; mira que soy débil, y sin ti nada soy y nada puedo. 
Esta mañana mi mano derecha sufrió un pequeño accidente al lavar una jarra de vidrio, y sin explicación, se rompió en dos cortándome en distintas partes de la mano, quedando casi inmóvil mi mano. Cuando me llamaste esta tarde a escribir no creí poder hacerlo, pero PARA DIOS NO HAY NADA IMPOSIBLLE, y como dice Tu mi DIOS, NADA NI NADIE DETIENE TU OBRA. Amen

venerdì 29 luglio 2016

Veritas Vincit

Qualche voce dalle centrali dell’Estinzione

(Nel precedente articolo si è trattato del popolo italiano che sta scegliendo la propria estinzione – non diversamente in fondo da  tutti gli europei-   e vi viene condotto dai suo politici e governi, messi lì a ‘governare’ null’altro che l’autoliquidazione.  Ho anche accennato alle centrali da cui la politica dell’Estinzione emana. Elenco qui alcune citazioni che  possono essere utili – chi ha più di cinquant’anni, ed  ha vissuto ad occhi aperti, magari le conosce già. Chi ha trent’anni,  forse 

Veritas Vincit

Martirio di Otranto

22 novembre 2013

Nel bellissimo film “Mission”, padre Gabriel, il gesuita responsabile della missione tra i guaranì stanziati nel territorio dell’attuale Paraguay, dice al suo confratello Rodrigo, ex mercenario di schiavi che intende combattere con le armi i soldati portoghesi inviati a porre fine alla missione perché commercialmente concorrenziale con i traffici dei coloni portoghesi, «se è la forza a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo». La scena successiva si chiude con padre Gabriel che, attorniato dai suoi indios, va incontro alla fucileria dei portoghesi innalzando l’ostensorio con il Santissimo Sacramento, fino a quando non viene raggiunto da una fucilata e cade a terra mentre il Santissimo è significativamente raccolto da uno degli indios. Era successo che il massone marchese di Pombal, padrone della corte lusitana, con la minaccia (poi comunque messa in atto) di cacciare l’ordine di sant’Ignazio dal Portogallo e con quella dello scisma, aveva costretto il Papa a mettere fine all’esperimento delle reducciones in America Latina (1)
Le reducciones si erano sviluppate nei territori coloniali ispanici, dove erano tutelate, contro gli scalpitanti coloni spagnoli, dalle leggi della Corona, risalenti ad Isabella La Cattolica, le quali vietavano la schiavitù degli indios. Nella prima metà del settecento un trattato internazionale aveva assegnato parte di quei territori, al confine tra l’attuale Paraguay e l’attuale Brasile, al Portogallo. Nel regno portoghese la schiavitù, sia quella indiana sia quella negra, era invece pratica legale da secoli. Di lì a poco – siamo in pieno XVIII secolo – le monarchie illuminate europee avrebbero varato una serie di riforme antiecclesiali e cacciato i gesuiti, odiati dalla massoneria, ormai padrona delle corti, perché a suo tempo avevano fermato l’avanzata del protestantesimo in Europa e recuperato metà continente alla fede cattolica.
“Se è la forza a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo”! Dovremmo, in quanto cristiani, tenere sempre nei nostri pensieri questo ammonimento, perché contiene tutta la Verità dell’intera storia umana sospesa tra la salvezza e la dannazione, tra Giustizia e realpolitik, tra l’Amore salvifico di Nostro Signore e l’avidità di denaro e di potere. Se l’Amore di Cristo sembra, in apparenza, non aver posto nel mondo è anche perché troppo spesso è stato tradito proprio dai sedicenti “cristianissimi” monarchi.
Non è, però, della eroica e drammatica vicenda delle missioni gesuitiche in America Latina che voglio qui parlare ma di un’altra anteriore vicenda dalla quale trapela l’eroismo del martirio di tanta povera gente cristiana e il calcolo di potere di governi che pur si fregiavano della Croce di Cristo, a chiacchiere. Voglio parlarvi di chi, in realtà, armò la mano di Gedik Ahmed Pascià, il martirizzatore degli ottocento otrantini canonizzati dalla Chiesa.
Ma andiamo con ordine.
Partiamo da quanto le cronache ci tramandano circa il ruolo di “Cassandra” che, in quei frangenti, fu assunto da san Francesco di Paola, il quale a proposito della guerra in quel momento in corso in Toscana – vedremo poi in quale contesto era scoppiata tale guerra – così rispondeva a chi gli chiedeva quando sarebbe terminata «Oh! Non è per la Toscana, ma per questo nostro regno che dovremo temere. Io vedo il turco che tra poco porrà piede sulla nostra misera terra. Miseri noi, miseri noi …». Il santo, poi, rivolgendosi verso Otranto invitava tutti a pregare per quella “infelice città” esclamando: «Di quanti cadaveri vedo coperte le tue strade! Di quanto sangue cristiano ti vedo inondata!». Agli emissari del re di Napoli, Ferdinando I di Aragona, il santo intimava di dire al sovrano: «… che ormai è tempo di calmare lo sdegno del Signore con pronto ravvedimento: che Dio tiene alzata la sua destra per colpirlo; che si valesse del tempo concessogli per evitare il castigo. L’armata dei turchi minaccia l’Italia, ma più da vicino il suo regno: ritirasse le soldatesche dalla Toscana, non curasse l’altrui mentre trattasi di difendere il proprio».
Il re tuttavia, come i sovrani ebrei a cospetto dei profeti biblici, non diede alcuna importanza alle ammonizione del santo calabrese. Re Ferrante, come era denominato Ferdinando I, era un abile tessitore di alleanze volte a contendere l’egemonia sul mediterraneo alla Serenissima Repubblica di Venezia. La quale, a sua volta, voleva fermare l’emergente potere aragonese. Questo contrasto veneziano-napoletano aveva per scenario il confronto all’epoca in corso tra l’Impero Ottomano e gli Stati europei, ormai sulla strada del passaggio dalla tramontante Res Publica Christiana all’Europa delle monarchie nazionali che sarà consacrata poi a Westfalia nel 1648.
Un avvenimento di portata epocale si era verificato nel 1453: i turchi ottomani, guidati dal sultano Maometto II, avevano posto fine all’Impero Romano. Sì, all’Impero Romano! Noi siamo abituati a datare la fine di Roma antica al 476 d. Cr.. In realtà, Bisanzio, ovvero Costantinopoli, la città capitale dell’oriente romano, fu non l’erede ma la continuatrice legittima di Roma, come ben sapeva un Carlo Magno che, dopo la notte di Natale dell’anno 800, cercò in tutti i modi di stabilire rapporti cordiali e di alleanza con l’Impero d’Oriente del quale, evidentemente, riconosceva l’Autorità e dal quale sperava una legittimazione, che non arrivò mai in termini palesi, del suo nuovo Impero occidentale. L’Impero bizantino, dunque, era – senza soluzioni di continuità – la pars Orientis dell’impero romano come ridefinito dalla riforma teodosiana del 395. Ed ecco perché è possibile affermare che i turchi nel maggio 1453 posero fine all’Impero romano.
La caduta di Costantinopoli provocò nel mondo cristiano un’ondata di paura che ben presto si vestì di immagini apocalittiche rinfocolando le mai sopite pulsioni millenaristiche. Ci fu una nuova esplosione delle antiche profezie medioevali che associavano la caduta di Roma alla imminente comparsa dell’Anticristo ed alla fine dei tempi. Papa Nicolò V, il 30 settembre 1453, chiamò i popoli cristiani alla “crociata” indicando in Maometto II un precursore dell’Anticristo. Non senza effetti: la secolare guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia venne chiusa per far fronte al pericolo comune mentre in Italia veniva stipulata nel 1454 la “Pace di Lodi” con la quale si pose termine alle endemiche guerre tra Stati italiani. Un “equilibrio”, questo nato con la Pace di Lodi, che durò sostanzialmente fino allo sconquasso provocato nel 1796-99 dai francesi invasori. Ancora una volta veniva riconfermata l’antica regola della politica, che più tardi Carl Schmitt chiamò dell’“amico/nemico”, e che sancisce il costituirsi delle alleanze politiche in funzione di un comune nemico, sicché l’amicizia sarebbe fondata sull’inimicizia e la sussistenza di un nemico sarebbe il presupposto sempre necessario della convivenza tra gli uomini. Una regola – diciamolo chiaramente – post-adamitica e nient’affatto originaria. Infatti essa è del tutto incompatibile con la concezione cristiana della convivenza originariamente fondata sull’amicizia e sul bene comune ma guastata dal peccato ossia, appunto, dal comparire nella storia umana, proprio a causa del peccato, dell’inimicizia.
Ma, al di là della “crociata” bandita dal Papa e delle visioni apocalittiche che fomentavano la paura in Europa, ben altre concrete preoccupazioni avevano gli Stati europei. L’emergente potenza ottomana ora controllava, da Costantinopoli, gli stretti e tutto il mediterraneo orientale. Minacciava così gli interessi commerciali genovesi e veneziani che sulla rotta tra il mar Nero ed il mar Egeo avevano creato una fitta rete di mercati sotto il benestare bizantino. Il subentrare del potere turco a quello bizantino non solo metteva in crisi il dominio veneziano-genovese ma poneva anche le basi di una crisi economica e di nuove carestie dal momento che il frumento arrivava in Europa occidentale dalla Crimea sulle galee di Venezia e di Genova.
Il comparire della potenza ottomana sullo scenario geopolitico europeo-mediterraneo aveva sconvolto diversi consolidati equilibri. Gli ottomani premevano ormai sui Balcani e sull’Adriatico. Fermati solo provvisoriamente a Belgrado si affacciarono ben presto di fronte alla stessa Venezia e poi a Vienna. Lo stesso regno aragonese di Napoli era terribilmente esposto a questa pressione e le sue coste continua preda di incursioni “prendi e fuggi” dei pirati turchi. Tutto questo alimentava l’impressione di una imminente invasione turca dell’intera Europa. Oggi gli storici sanno molto bene che, sia per carenze tecnologiche (i turchi acquistavano tecnologia militare, e persino le prestazioni degli ingegneri, dall’Europa, non essendo in grado di produrla in proprio) sia per le lotte intestine che dilaniavano la corte della Sublime Porta, un’invasione continentale era del tutto fuori dalla portata delle possibilità ottomane. Ma, in quei tempi, l’impressione era quella ed essa giocava il suo ruolo politico.
Del resto, la Cristianità occidentale iniziava a pagare la cambiale firmata qualche secolo prima ai danni del Sacro Romano Impero. Venuto meno quest’ultimo, ormai poco più che un regno germanico-danubiano, a causa delle spinte centrifughe delle embrionali monarchie nazionali e regionali, era venuto meno anche l’universalismo politico medioevale e questo aveva indebolito l’Europa. Come conseguenza del ritrarsi del Potere imperiale anche l’Auctoritas, ossia il potere indiretto, del Papa, subì un ridimensionamento. Nel XV secolo il Papa poteva tutt’al più ambire alla simbolica funzione di “presidente” di questa o quella lega di regni cristiani. Nulla, però, di veramente decisivo. Tuttavia i Papi di quell’epoca cercarono perlomeno di far funzionare queste “Leghe Sante” per tentare – impresa davvero disperata per molti versi – di tenere uniti i regni cristiani. In tal senso, il bandire nuove “crociate”, impossibili nel nuovo quadro storico e politico, come anche il soffiare sulle ansie millenaristiche poteva servire allo scopo. Pio II arrivò persino a scrivere una lettera – forse mai recapitata – nella quale, parlando a nuora affinché suocera intendesse, prometteva al sultano, se solo si fosse battezzato, la corona imperiale, della quale a suo giudizio nessun principe cristiano si dimostrava degno.
Abbiamo parlato di impresa disperata perché gli interessi politici, geopolitici ed economici dei regni cristiani erano divergenti. Mettere insieme le mire del re d’Ungheria e del re di Francia o quelle di Venezia e di Napoli era davvero una impresa disperata. Per capire come possa essere difficile comporre dissidi interni anche di fronte ad un comune pericolo esterno, bisogna tener presente che la regola dell’amico-nemico va sempre a braccetto con quell’altra che sancisce che “il nemico del mio nemico è mio potenziale amico”. Alla luce di questa seconda regola è possibile spiegarsi come mai ben presto, passato il primo momento di allarme di fronte alla caduta di Costantinopoli, gli Stati europei avevano iniziato a capire che se, da un lato, i turchi rappresentavano certamente un comune pericolo, dall’altro si prestavano benissimo a diventare il pretesto per ridisegnare tra loro alleanze intese a far passare, dietro l’alibi della “crociata contro il Turco”, i propri interessi nazionali contro quelli dei vicini. Dietro l’ipocrisia ufficiale – quella che faceva finta di rispondere alla chiamata del Papa in difesa della fede cristiana – in realtà si giocavano partite geopolitiche immonde tra gli stessi regni cristiani. E’ noto che la Francia, in barba agli Asburgo, simpatizzasse, con concreti rapporti commerciali, con la Sublime Porta. Il sultano, d’altro canto alle prese con le lotte intestine al suo impero, che sconvolgevano la sua stessa corte, e con la pressione esterna, in oriente, degli altri potentati islamici, conosceva molto bene i machiavellismi delle cancellerie e delle corti europee. Maometto II, ricevendo gli ambasciatori di quelle stesse potenze cristiane i cui sovrani erano esperti nel prodigarsi retorico al richiamo alla “crociata”, in apparente risposta all’appello dei Papi, si divertiva ad inserirsi, pro domo sua, in quel sottile gioco diplomatico in atto tra i regni europei. Al sultano, insomma, non dispiaceva di far la parte del “cattivo” o dell’“alleato segreto” purché il suo controllo sul Mediterraneo orientale e sui Balcani, perché a questo egli realisticamente mirava, fosse consolidato.
«La crociata – è stato argutamente osservato – nell’Europa del secondo Quattrocento era come l’antifascismo nell’Europa del secondo Novecento: tutti ne parlavano, tutti erano d’accordo, ciascuno cercava di farla coincidere con i propri interessi e di accusare gli altri di non servire con altrettanta energia tale nobile ideale, nessuno o quasi ci credeva sul serio e quasi tutti erano pronti a tradirla alla prima redditizia occasione. In fondo, che Venezia fosse minacciata dal Turco non dispiaceva affatto né al re di Napoli, né al duca di Milano; e il re di Francia non chiedeva di meglio che gli ottomani se la prendessero con gli interessi oltremarini di Genova in modo da poter esser pronto a difendere il prestigioso porto ligure che da decenni ambiva, in contrasto con il duca di Milano, a sottomettere. Con tali premesse, e in un tale contesto, era chiaro che alternando sapientemente la guerra alla diplomazia il sultano poteva tranquillamente giocare le potenze cristiane: ed è quanto fece. Peraltro, Maometto II era un politico troppo realista e intelligente per puntare davvero a conquistare l’Europa e a sottomettere all’islam i popoli cristiani. Gli conveniva però che così si temesse, o si fingesse di temere. Il pericolo, ad ogni modo, era costante e reale. Fermati per miracolo davanti a Belgrado nel 1456, gli ottomani alternavano la minaccia navale attraverso l’Egeo, lo Ionio e l’Adriatico, a quella terrestre lungo la via del Danubio. Nel 1469 c’erano state incursioni in Carniola, Stiria e Carinzia, destinate a diventar periodiche: nel 1470 i turchi avevano occupato l’isola veneziana di Negroponte; nel ’77 e nel ’78 le loro incursioni avevano toccato il Friuli. La pressione era così forte che i veneziani, i quali da circa un quindicennio erano in guerra aperta con il sultano sobbarcandosi quasi da soli il compito di aiutare gli ungheresi di Mattia Corvino – sostenuto peraltro nella sua guerra anche dal danaro della Curia pontificia – e gli albanesi che comunque, da ormai un decennio, erano privi della guida del loro eroe Scander Beg, alla fine chiesero e ottennero dal sultano una pace, siglata appunto nel 1479» (2).
Ma vi erano altre motivazioni che spingevano Venezia a cercare una tregua con il sultano ottomano. E per comprenderle è necessario inquadrare la conquista mussulmana di Otranto in un progetto elaborato dagli ottomani ed inteso al controllo navale del canale che prende appunto nome dalla cittadina pugliese.
Il 28 luglio 1480 Otranto veniva assediata dalla flotta turca alla guida della quale vi era Gedik Ahmed Pascià, grande ammiraglio della Sublime Porta. Gli aragonesi abbandonarono la città senza combattere sicché l’11 agosto i musulmani entrarono nella città disperatamente difesa dai soli otrantini. Ne seguì un massacro indiscriminato di tre giorni e tra i caduti si annoverò anche il vescovo Stefano Pendinelli che fu ucciso nella cattedrale. Le cronache raccontano che il 14 agosto Ahmed Pascià fece riunire i superstiti di sesso maschile ed in età adulta, ossia per i canoni dell’epoca dai quindici anni in sù. Erano pressappoco ottocento anime alle quali fu posta la scelta tra l’apostasia e la decapitazione. Pare che la risposta arrivò da un vecchio conciatore di lana, tal Antonio Primaldo: «Fin qui – egli disse – ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime». Furono tutti decapitati a gruppi cinquanta ed i loro corpi furono lasciati insepolti per un anno fino al 15 agosto del 1481, quando la città fu ripresa dai cristiani e si seppellirono con tutti gli onori i loro resti mortali. La beatificazione fu pronunciata nel 1771. Nel 1983 sono stati proclamati santi.
Dal punto di vista coranico la martirizzazione degli otrantini era un misfatto. Il Corano infatti distingue tra la “gente del Libro”, ossia ebrei e cristiani, ed i “pagani”, ossia tutti gli altri. I primi, in quanto abramitici, secondo i precetti islamici, conoscono il vero Dio e pertanto non possono essere convertiti con la forza, benché devono essere sottomessi al governo islamico. I pagani invece devono essere combattuti senza tregua. Quindi l’alternativa posta agli otrantini tra la conversione e la morte era coranicamente illegittima. Essa poteva essere imposta solo ai pagani ma non alla “gente del Libro”. Quindi Ahmed Pascià infranse i precetti coranici perché trattò dei cristiani come fossero pagani. Lo scarto tra la precettistica e la sua effettiva applicazione, del resto, è una cosa nota anche al mondo cristiano. Sicché se conversioni forzate di cristiani all’islam sono state storicamente registrate, insieme a duri maltrattamenti, dalla Spagna fino alla Persia ed all’India, abbiamo episodi analoghi di conversioni forzate, anche queste illegittime perché contrarie all’Amore di Cristo che vuole la conversione del cuore e non la sua costrizione, di islamici ed ebrei al Cristianesimo durante la prima crociata del 1096-99 come anche nel corso della Reconquista iberica. Anche gli ebrei, quando hanno potuto non si sono dimostrati da meno. Come ad esempio nell’VIII secolo quando, a seguito della conversione all’ebraismo dei Kazhari, un popolo caucasico dal quale discende il ramo askenazita dell’ebraismo attuale, si installò presso la corte del monarca kazaro un sinedrio che per prima cosa mise fuorilegge la fede cristiana e recluse i cristiani nei loro quartieri trasformati in ghetti. I Turchi, oltretutto, provenienti dalle steppe dell’area centrale del continente asiatico, erano giunti tardi alla fede islamica e come accade a tutti i neofiti, di qualsiasi religione, si dimostrarono particolarmente zelanti e quindi eccessivamente rigoristi. Senza, poi, dimenticare che spesso i comandanti, fossero islamici o cristiani, dovevano fare i conti con le aspettative di bottino che le truppe nutrono ad ogni conquista.
Tornando al problema geopolitico del basso Adriatico, la base ottomana stanziatasi nel 1480 ad Otranto parve subito come l’inizio di un progetto più ampio che probabilmente contemplava la conquista dell’intera Puglia meridionale. Infatti, fra il 1480 ed il 1481, da Otranto, ormai saldamente in mano ottomana, partirono una serie di incursioni corsare turche alla volta di Taranto, Brindisi e Lecce. L’intenzione di Maometto II, e del suo gran visir, di creare una base ottomana sulle coste pugliesi, allo scopo di controllare i traffici marini e commerciali sul canale che unisce il mar Adriatico e lo Jonio, era evidente. Venezia sarebbe rimasta prigioniera nel suo stesso mare. D’altro canto la Serenissima era in conflitto con gli aragonesi di Napoli proprio sulla questione del controllo dello sbocco adriatico al mediterraneo e per questo si opponeva alle ambizioni che il re di Napoli aveva circa l’estensione del suo dominio indiretto a tutta la penisola italiana attraverso accorte alleanze e qualche ampliamento dei suoi territori. Per Venezia era questione di vita o di morte. Doveva necessariamente combattere o allearsi con chi deteneva o ambiva a detenere il controllo del canale tra Adriatico e Jonio.
Conosciamo, dalle stesse fonti veneziani, dunque da insospettabili “confessioni”, che il rappresentante della Serenissima a Costantinopoli, ora Istanbul, Andrea Gritti, fu incaricato di una ambasceria presso il sultano per informarlo che Venezia non si sarebbe affatto opposta all’eventualità di una conquista ottomana della Puglia. Quei territori erano appartenuti a Bisanzio e pertanto, così Venezia solleticava la Sublime Porta, potevano essere ora rivendicati da Istanbul.
Venezia non era però da sola in questa ricerca di una cordiale intesa con l’Impero Ottomano. Anche la Firenze di Lorenzo il Magnifico aveva tutto l’interesse a stabilire buoni rapporti con la Sublime Porta. Da tempo tra Maometto II e Lorenzo de’ Medici sussisteva una certa cordialità. Firenze aveva inviato ad Istanbul i suoi artisti – gli incisori toscani coniarono una serie di medaglie commemorative delle vittorie asiatiche del Gran Sultano – ed il sultano ricambiò facendo arrestare, e deportare a Firenze, Bernardo Bandini, uno dei congiurati che avevano attentato alla vita del Magnifico, uccidendone il fratello Giuliano, in quella che fu chiamata la “congiura dei Pazzi”.
In questo quadro politico, una chiave di comprensione per capire l’assalto ottomano ad Otranto sta, più che nei progetti del sultano di conquista delle Puglie, che pur contribuiscono a spiegarlo, nelle trame diplomatiche che dividevano i “cristianissimi” sovrani italiani del tempo ed in particolare nel contrasto di interessi che abbiamo visto sussisteva tra la volontà egemonica sull’intera Italia nutrita dal re di Napoli e quella di Venezia sull’Adriatico conteso proprio agli aragonesi. La già citata “congiura dei Pazzi” a Firenze, a sua volta un episodio della lotta interna al mondo cristiano italico, è poi l’elemento che fa chiarezza anche sul ruolo del Papa, ossia di Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, salito al soglio di Pietro nel 1471. La guerra di Toscana, della quale, come abbiamo visto, si lamentava San Francesco di Paola, era nata dal contrasto che vedeva Roma e Napoli alleate contro Firenze. La Toscana era una terra, in quel momento, sorretta da un instabile equilibrio politico. Siena, timorosa della potenza sempre più crescente della sua vicina e temendo per la propria indipendenza, osteggiava l’espansionismo mediceo ed aveva accolto i fuoriusciti fiorentini contrari al governo della dinastia bancaria dei Medici. Ferdinando I d’Aragona, dal canto suo, sosteneva la politica antifiorentina dei senesi. Papa Sisto IV mirava ad abbattere, con l’aiuto degli oppositori dei Medici ancora forti nell’aristocrazia fiorentina, il governo mediceo per installare a Firenze quello del nipote Girolamo Riario. Quest’ultimo aveva un vecchio conto da regolare con Lorenzo il Magnifico che aveva fatto, a suo tempo, fallire il suo tentativo di fondare una signoria ad Imola.
Queste furono le premesse della congiura detta dei Pazzi dal nome dei componenti della ricca famiglia che in Firenze contendeva la signoria ai Medici. La congiura, come noto, fallì e la repressione contro i congiurati, che coinvolse anche il clero fiorentino, fu feroce. A quel punto il Papa scomunicò il Magnifico e gettò l’interdetto contro Firenze, riunendo in una “lega” il regno di Napoli, la repubblica di Siena ed il signore del Montefeltro, Federico. Firenze trovò dalla sua parte Venezia e Milano che da nemiche avevano messo da parte gli antichi contrasti di fronte al comune pericolo dell’espansionismo aragonese-napoletano. Tuttavia la situazione si mise male per Lorenzo. Se il re di Francia aveva fatto sapere che si rifiutava di sostenere economicamente la guerra del Papa in Toscana perché si trattava di una guerra contro i cristiani – ma in realtà al sovrano d’oltralpe interessava solo risparmiare denaro ed uomini visto che poi lui per primo trescava con la Sublime Porta – invece Milano, alle prese con i suoi problemi interni, e Venezia, ancora impegnata a fronteggiare i turchi sotto casa, non potevano intervenire direttamente in terra Toscana. Firenze era rimasta sola a fronteggiare le truppe papali-senesi-napoletane. Ed oltretutto su di essa e su Lorenzo era caduto l’interdetto pontificio e l’accusa di impedire l’unità dei cristiani contro il pericolo turco alle porte. Il comandante dell’esercito fiorentino era il duca di Ferrara, Ercole d’Este, imparentato, in quanto genero, proprio con Ferdinando I re di Napoli, quindi visto con sospetto dal Magnifico.
La guerra in Toscana, dunque, si era messa molto male per Lorenzo. Per rompere l’accerchiamento il Magnifico ricorse alla diplomazia e riuscì a convincere Ferdinando che rischiava grosso a legarsi troppo alla politica di Sisto IV ormai anziano. Nessuno poteva dare garanzie al re di Napoli che il successivo Pontefice avrebbe continuato nella politica, mossa da motivi nepotistici, di Sisto IV. Si giunse così, il 25 marzo 1480, ad un patto di pace tra Firenze e Napoli. Questo fatto causò a sua volta un riavvicinamento della Serenissima al Papa. Venezia, infatti, non poteva guardare di buon occhio chiunque non si opponesse al re di Napoli, come aveva ora mostrato di fare Lorenzo il Magnifico. Persino il re di Francia, che rivendicava gli antichi diritti angioini su Napoli contro gli aragonesi, non aveva apprezzato la svolta filo-napoletana di Firenze.
Chi approfittò di questa congiuntura, allo scopo di rafforzare il suo dominio sui Balcani e sullo Jonio, fu il sultano. Sembra che tra il ‘78 e l’’80 giungessero a Maometto II sollecitazioni da Firenze affinché invadesse la Puglia. Anche Venezia, che nel frattempo aveva siglato nel 1479 una pace con Istanbul, istigava il sultano a rivendicare la terra d’Otranto quale erede di Bisanzio. Sicché quando, nel 1480, Ferdinando inviò aiuti ai cavalieri di Rodi, sotto assedio da parte turca, Maometto II, per ritorsione, fece occupare Valona ed inviò Ahmed Pascià ad Otranto. Le galee veneziane appoggiarono, dalla distanza, rifornendola di viveri, la flotta turca in avvicinamento alla città pugliese. Maometto II sapeva che la sua iniziativa in Puglia avrebbe dato il pretesto per la proclamazione della “crociata” determinando la riappacificazione degli Stati cristiani. Ed, infatti, così fu. Il Papa proclamò la crociata, i predicatori percorsero tutta l’Europa per sollecitare re e popoli a “prendere la croce”, Venezia ed il re di Francia giunsero ad una tregua nelle loro contese e insieme misero momentaneamente da parte ogni contesa verso il regno di Napoli, lo stesso Papa fece subito pace con Firenze e le truppe napoletano-pontificie lasciarono la Toscana meridionale. Il 31 maggio 1481 morì Maometto II. Ne derivò una lotta dinastica tra i suoi figli che facilitò la riconquista cristiana di Otranto da parte di Alfonso di Calabria, figlio di re Ferdinando.
L’esame storico dei fatti relativi al martirio di Otranto, dimostra che la storia, anche di fatti eroici di fede come quello accaduto nel 1480, è sempre straordinariamente complessa e mai riducibile, come pretende la vulgata dello “scontro di civiltà”, a schemi semplicistici per i quali tutti i buoni sarebbero da una parte e tutti i cattivi dall’altra. In realtà non sono mai esistite due civiltà monolitiche e reciprocamente impenetrabili ed in perenne conflitto tra esse. Dietro la parvenza di un conflitto militare tra Cristianesimo ed islam, agivano in realtà ben altre motivazioni geopolitiche, di potere, di ambizioni, di interessi sovrani che usavano strumentalmente le reciproche fedi “cugine”. Cosa che ci da la certezza che quelle non furono guerre di religione o guerre sante o scontri di civiltà e, quindi, che la fede, nella sua integrità, non è, come accusa il pensiero ateo e laicista, fonte di intolleranza, violenza e guerra. Tutte cose – la “crociata”, la “guerra santa” – buone per la propaganda, ed in effetti furono ampiamente usate nella propaganda anche all’epoca, ma del tutto inservibili per spiegare le reali motivazioni di quei conflitti, compreso quello cui conseguì il martirio degli ottocento cristiani di Otranto che pur resta un esempio fulgido di testimonianza eroica della nostra fede cristiana.
Ad Otranto, nel 1480, i turchi hanno avuto il ruolo di risolutori delle contese interne al mondo cristiano. Avranno tale ruolo anche in successive occasioni, alle porte di Vienna. Il loro apparire sullo scenario geopolitico del tempo rianimò gli appelli alla “crociata”: un appello sulla cui sincerità, in chi lo proclamava, non possiamo avere dubbi ma che fu strumentalmente usato per giochi di potere. Gli ottomani furono l’elemento per la schmittiana “esportazione della violenza” e per ricostruire o conservare l’equilibrio interno al mondo cristiano. La stessa identità europea deve molto al “pericolo turco”, senza del quale gli Stati “cristianissimi” si sarebbero dilaniati tra loro con qualche secolo di anticipo (infatti lo fecero più tardi, quando non si dichiaravano più cristiani, con due secoli di guerre intestine iniziate nel ‘700 e culminate con le guerre mondiali del XX secolo). L’identità europea deve, del resto, molto anche alle stesse crociate medioevali, quelle che storicamente corrispondono al concetto autentico di “crociata” o meglio di “peregrinatio”, che, come detto, mai assunsero il carattere di guerre sante(3) né quello di guerre di religione (queste ultime invece furono ferocemente combattute all’interno del mondo cristiano tra cattolici e protestanti, a causa dello sconquasso luterano).
Ma, per concludere tornando alla vicenda del 1480, in tutta la tragicomica commedia, fatta di intrighi diplomatici, di guerre e di alleanze segrete o palesi, che abbiamo raccontato, gli unici ad averci rimesso la vita, testimoniando con il loro martirio la fede in Cristo, furono i poveri 813 martiri di Otranto. E qui tornano, potenti, le parole di padre Gabriel: «se è la forza – ed aggiungiamo noi, l’intrigo, il machiavellismo, le ambizioni personali e politiche – a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo». A queste parole, nel film, padre Gabriel ne faceva seguire altre, rivolte al suo confratello: «Ed io non ho la forza di vivere in un mondo così». Ma alla fine il gesuita quella forza l’ha trovata ed è andato, insieme ai suoi indios, incontro al martirio, per mano dei soldati di un re, il portoghese, che si proclamava “cristianissimo” ma approvava la politica anticristiana del suo ministro massone. Una politica che stava facendo del Portogallo un regno potente e ricco, anche se a scapito dell’Amore di Cristo portato dai gesuiti agli indios guaranì. 
Una forza, quella che dispose padre Gabriel al martirio, che può essere solo dono del Signore. La stessa forza che, al momento supremo, trovarono i poveri martiri di Otranto uccisi per mano islamica ma per responsabilità e mandato di sedicenti governi “cristianissimi”, più attenti ai loro affari ed alle loro ambizioni geopolitiche che alla difesa della Cristianità. Governi, soprattutto, dimentichi della Misericordia Divina, unico metro di Vera Giustizia in questo mondo.
Alla fine, quando giungerà il giorno del rendiconto, del redde rationem, padre Gabriel ed i martiri di Otranto rifulgeranno, davanti a tutti, nella Gloria. Ma, nel Giorno del Giudizio, tramontata per sempre la “gloria umana”, quella che la storiografia è capace di costruire e perpetuare, quale sarà, a cospetto dell’Altissimo, la sorte eterna di Lorenzo il Magnifico, di Sisto IV, di Maometto II, di Ahmed Pascià, di Ferdinando I, del marchese di Pombal? Pur conscio dei miei tanti e pesanti peccati, e per questo affidato solo alla Sua Misericordia, non vorrei mai essere nei loro panni.
                                                                                                             
Luigi Copertino
NOTE
1) Il Pombal, tra le altre “riforme” illuminate che promosse, durante il suo governo, introdusse anche l’imposizione per le famiglie aristocratiche di “antica cristianità”, ossia che vantavano radici cristiane precedenti al XVI secolo, di far sposare i propri figli con i figli delle famiglie aristocratiche ebree o di “nuova cristianità” ossia di origini converse. La storiografia racconta che un provvedimento del genere serviva, nobilmente, ad abbattere l’antigiudaismo cristiano tradizionale e certe forme di razzismo che pretendevano, illegittimamente, una giustificazione di tipo teologico. Senza negare che un obiettivo di questo genere poteva anche essere presente al Pombal, ci permettiamo, da parte nostra, di suggerire agli storici che forse qualcosa, di molto meno nobile, pur c’entrava. Ci riferiamo al fatto che il Pombal, massone confesso e per questo imbevuto di cultura cabalista, avesse come vero obiettivo quello di “cabalizzare” ossia “massonizzare” la fede cristiana mediante gli influssi culturali di una certa ambigua mistica ebraica. Se l’ebraismo postbiblico è cosa assolutamente diversa dal Cristianesimo, il quale ultimo ha la pretesa, più che fondata, di essere l’universalizzazione del vero ebraismo, e quindi il suo adempimento e superamento, non bisogna dimenticare che il cabalismo a sfondo gnostico, coltivato in seno all’ebraismo postbiblico, non corrisponde alla vera mistica cabalista, del tutto coincidente quest’ultima, come ha spiegato Julio Meinvielle, con la Rivelazione, e per questo ben nota ai profeti ed ai mistici biblici e che ha trovato continuazione nella mistica cristiana. L’avversione massonica alla fede cristiana, insieme agli interessi commerciali portoghesi messi in crisi dalle reducciones, che in termini moderni potrebbero definirsi vere e proprie “imprese sociali”, nelle quali i proventi del lavoro erano redistribuiti tra gli indios, fu la vera causa della politica antigesuitica del Pombal: su questo non ci piove.
2) Cfr. Franco Cardini “I martiri di Otranto”, Il Sabato, 21.8.1993, n. 34, p. 47s. Questo nostro contributo è ampiamente debitore del citato articolo del noto storico.
3) Per il Cristianesimo può esserci, con mille dubbi e mille restrizioni, solo la “guerra giusta”, che tuttavia rimane una colpa anche se necessitata, mentre mai può darsi una “guerra santa”, ossia capace di santificare attraverso l’uccisione del prossimo. Anche il concetto islamico di jihad fa innanzitutto riferimento a quella che cristianamente si chiama “pugna spiritualis” ovvero la lotta ai propri vizi, più che richiamare la guerra verso gli infedeli. Circa i quali, come detto, l’islam distingue tra cristiani ed ebrei, “gente del Libro”, che benché sottomessi non devono essere costretti alla conversione, e pagani verso i quali la guerra può anche essere, a certe condizioni, senza quartiere e che possono essere non solo sottomessi ma costretti a scegliere tra conversione e morte. Cosa, questa, molto veterotestamentaria a dimostrazione del carattere, appunto, veterotestamentario dell’islam che, insieme al giudaismo post-biblico, è una fede ancora in attesa della Venuta di Cristo che per islamici ed ebrei sarà quello che per noi cristiani è il Cristo della Seconda Venuta, il Cristo Giudice della Fine dei Tempi.
Da www.identitàeuropea.it