giovedì 29 dicembre 2022

L'annuncio ai pastori, che diventano i primi adoratori del Verbo fatto Uomo.

 Maria Valtorta: 'L'Evangelo come mi è stato rivelato'

   Cap. XXX. L'annuncio ai pastori, che diventano i primi adoratori del Verbo fatto Uomo.

   7 giugno 1944. Vigilia del Corpus Domini.

   […].

   30.1Più tardi vedo una vasta estensione di campagna. La luna è allo zenit e veleggia placida in un cielo gremito di stelle. Sembrano tante borchie di diamante infisse in un enorme baldacchino di velluto celeste cupo, e la luna vi ride in mezzo col suo faccione bianchissimo, da cui scendono fiumi di luce lattea che fa bianca la terra. Gli alberi spogli sembrano più alti e neri sul suolo così imbiancato, mentre i muretti, che qua e là sorgono a confine, sembrano di latte, e una casina lontana pare un blocco di marmo di Carrara.
   Alla mia destra vedo un luogo cintato da una siepe di pruni su due lati e da un muro basso e scabro da altri due. Questo muro sorregge il tetto di una specie di tettoia larga e bassa, che nella parte interna del recinto è costruita parte in muratura e parte in legname, quasi che nell’estate le parti in legno debbano esser tolte e la tettoia mutarsi in porticato. Da questo chiuso esce, di tanto in tanto, un belare intermittente e breve. Devono essere pecorelle che sognano o che forse credono sia prossimo il giorno per il chiarore che dà la luna. Un chiarore persino eccessivo, tanto è intenso, e che cresce, quasi che il pianeta si avvicini alla terra o sfavilli per un misterioso incendio.

   30.2Un pastore si affaccia sulla porta e, portandosi un braccio sulla fronte per fare riparo agli occhi, guarda in alto. Pare impossibile che ci si debba riparare dal chiarore della luna. Ma questo è così vivo che abbacina, specie chi esce da un chiuso dove è tenebra. Tutto è calmo. Ma quella luce stupisce.
   Il pastore chiama i compagni. Si affacciano sulla porta tutti. Un mucchio d’uomini irsuti, di età diverse. Ve ne sono di appena adolescenti e di già canuti. Commentano il fatto strano e i più giovani hanno paura. Specie uno, un fanciullo sui dodici anni, che si mette a piangere attirandosi le baie dei più vecchi.
   «Di che temi, stolto?», gli dice il più vecchio. «Non vedi che aria quieta? Non hai mai visto splendere la luna? Sei sempre stato sotto le vesti della mamma come un pulcino sotto la chioccia, vero? Ma ne vedrai delle cose! Una volta io mi ero spinto verso i monti del Libano, oltre ancora. In alto. Ero giovane e non mi pesava l’andare. Ero anche ricco, allora… Una notte vidi una luce tale che pensai che fosse per tornare Elia sul suo carro di fuoco. Il cielo era tutto un incendio. Un vecchio — allora il vecchio era lui — mi disse: “Grande avventura sta per venire nel mondo”. E per noi fu sventura, perché vennero i soldati di Roma. Oh! ne vedrai, se campi!…».


   30.3Ma il pastorello non lo ascolta più. Pare non abbia neppur più paura, perché lascia la soglia e sguscia da dietro le spalle di un nerboruto mandriano, dietro il quale si era rifugiato, ed esce nello stazzo erboso che è davanti alla tettoia. Guarda in alto e cammina come un sonnambulo o come uno ipnotizzato da qualcosa che lo attira totalmente. Ad un certo punto grida: «Oh!» e resta come pietrificato, a braccia un poco aperte.
   Gli altri si guardano stupefatti.
   «Ma cosa ha quello stolto?», dice uno.
   «Domani lo rimando a sua madre. Non voglio pazzi a custodia delle pecore», dice un altro.
   E il vecchio che ha parlato poco prima dice: «Andiamo a vedere prima di giudicare. Chiamate anche gli altri che dormono e prendete i bastoni. Che non sia una bestia cattiva o dei malandrini…».
   Entrano, chiamando altri pastori, ed escono con torce e randelli. Raggiungono il fanciullo.
   «Là, là», egli mormora sorridendo. «Al di sopra dell’albero, guardate quella luce che viene. Pare cammini sul raggio della luna. Ecco che si avvicina. Come è bella!».
   «Io vedo solo un più vivo chiarore».
   «Io pure».
   «Anche io», dicono gli altri.
   «No. Io vedo come un corpo», dice uno in cui riconosco il pastore che ha dato il latte a Maria.
   «È un… è un angelo!», grida il bambino. «Eccolo che scende e si avvicina… Giù! In ginocchio davanti all’angelo di Dio!».
   Un «oh!» lungo e venerabondo si alza dal gruppo dei pastori, che cadono con il volto verso il suolo, e tanto più paiono schiacciati dall’apparizione fulgente quanto più sono anziani. I giovanetti sono in ginocchio, ma guardano l’angelo, che sempre più si avvicina e si ferma sospeso, ventilando le grandi ali, candore di perla nel candore di luna che lo circonda, al disopra del muro del recinto.
   «Non temete. Non porto sventura. Io vi reco l’annuncio di una grande allegrezza per il popolo d’Israele e per tutto il popolo della Terra». La voce angelica è un’armonia d’arpa su cui cantino gole d’usignoli.
   «Oggi, nella città di Davide, è nato il Salvatore». L’angelo, nel dire questo, apre più grandi le ali e le muove come per soprassalto di gioia, e una pioggia di faville d’oro e di pietre preziose pare ne sfugga. Un vero arcobaleno che fa un arco di trionfo sul povero stabbio.
   «…il Salvatore che è Cristo». L’angelo sfavilla di aumentata luce. Le sue due ali, ora ferme e tese a punta verso il cielo come due vele immobili sullo zaffiro del mare, sembrano due fiamme che salgano ardendo.
   «…Cristo, il Signore!». L’angelo raccoglie le sue due fulgide ali e se ne veste come di una sopraveste di diamante sull’abito di perla, si curva come adorasse, con le braccia conserte sul cuore e il volto che scompare, curvato come è sul petto, fra l’ombra dei sommi dell’ali piegate. Non si vede che una oblunga forma luminosa, immobile per lo spazio di un “Gloria”.
   Ma ecco che si muove. Riapre le ali, alza il volto in cui la luce si fonde al paradisiaco sorriso, e dice: «Lo riconoscerete da questi segni: in una povera stalla, dietro Betlemme, troverete un bambino nelle fasce in una mangiatoia di animali, ché per il Messia non vi fu un tetto nella città di David». L’angelo si fa serio nel dire questo, mesto anzi.


   30.4Ma dai Cieli vengono tanti — oh! quanti! — tanti angeli simili a lui, una scala d’angeli che scende esultando e annullando la luna col loro splendore paradisiaco, e si riuniscono intorno all’angelo nunziante in un agitar di ali, in uno sprigionare di profumi, in un arpeggiare di note, in cui tutte le voci più belle del creato trovano un ricordo, ma portato alla perfezione di suono. Se la pittura è lo sforzo della materia per divenire luce, qui la melodia è lo sforzo della musica per fare balenare agli uomini la bellezza di Dio, e udire questa melodia è conoscere il Paradiso, dove tutto è armonia di amore, che da Dio si sprigiona per far lieti i beati e che da questi va a Dio per dirgli: «Ti amiamo!».
   Il “Gloria” angelico si sparge in onde sempre più vaste per la campagna quieta, e la luce con esso. E gli uccelli uniscono un canto che è saluto a questa luce precoce, e le pecore i loro belati per questo anticipato sole. Ma io, come già nella grotta per il bue e l’asino, amo credere che siano gli animali che salutano il loro Creatore, venuto in mezzo ad essi per amarli come Uomo oltre che come Dio.
   Il canto si attenua e la luce pure, mentre gli angeli risalgono ai Cieli…


   30.5… I pastori tornano in loro.
   «Hai udito?».
   «Andiamo a vedere?».
   «E le bestie?».
   «Oh! non succederà loro nulla! Andiamo per ubbidire alla parola di Dio!…».
   «Ma dove andiamo?».
   «Ha detto che è nato oggi? e che non ha trovato alloggio in Betlemme?». È il pastore che ha dato il latte, questo che parla ora. «Venite, io so. Ho visto la Donna e mi ha fatto pena. Ho insegnato un luogo per Lei, perché pensavo non trovassero alloggio, e all’uomo ho dato del latte per Lei. È tanto giovane e bella, e deve esser buona come l’angelo che ci ha parlato. Venite, venite. Andiamo a prendere latte, formaggi, agnelli e pelli conciate. Devono esser poveri molto e… chissà che freddo ha Colui che non oso nominare! E pensare che io ho parlato alla Madre come ad una povera sposa!…».
   Vanno nella tettoia e ne escono poco dopo chi con delle fiaschette di latte, chi con delle reticelle di sparto intrecciato con dentro tondi formaggini, chi con delle ceste in cui vi è un agnellino belante, e chi con delle pelli di pecora conciate.
   «Io porto una pecora. Ha figliato da un mese. Il latte lo ha buono. Potrà loro servire se la Donna non ha latte. Mi pareva una bambina, e così bianca!… Un viso di gelsomino sotto la luna», dice il pastore del latte. E li guida.


   30.6Vanno alla luce della luna e delle torce dopo aver chiuso tettoia e recinto. Vanno per sentieri campestri, fra siepi di pruni spogliati dall’inverno.
   Girano dietro Betlemme. Raggiungono la stalla venendo non dalla parte da cui venne Maria, ma dall’opposta, di modo che non passano davanti alle stalle più belle, ma trovano questa per prima. Si accostano al pertugio.
   «Entra!».
   «Io non oso».
   «Entra tu».
   «No».
   «Guarda, almeno».
   «Tu, Levi, che hai visto l’angelo per primo, segno che sei buono più di noi, guarda». Veramente prima gli hanno dato del pazzo… ma ora fa loro comodo che egli osi ciò che loro non osano.
   Il fanciullo tituba, ma poi si decide. Si accosta al pertugio, scosta un pochino il mantello, guarda… e resta estatico.
   «Che vedi?», lo interrogano ansiosi a bassa voce.
   «Vedo una donna giovane e bella e un uomo curvi su una mangiatoia e sento…, sento piangere un piccolo bambino, e la donna gli parla con una voce… oh! che voce!».
   «Che dice?».
   «Dice: “Gesù, piccolino! Gesù, amore della tua Mamma! Non piangere, piccolo figlio!”. Dice: “Oh! potessi dirti: ‘Prendi il latte, piccolino!’. Ma non ce l’ho ancora!”. Dice: “Hai tanto freddo, amore mio! E ti punge il fieno. Che dolore per la tua Mamma sentirti piangere così e non poterti dare conforto!”. Dice: “Dormi, anima mia! ché mi si spacca il cuore a sentirti piangere e a vederti lacrimare!”, e lo bacia e gli scalda certo i piedini con le sue mani, perché sta curva con le braccia giù nella mangiatoia».
   «Chiama! Fàtti sentire!».
   «Io no. Tu, che ci hai condotti e la conosci[68]».
   Il pastore apre la bocca e poi si limita a fare un mugolio.


   30.7Giuseppe si volge e viene alla porta. «Chi siete?».
   «Pastori. Vi portiamo cibo e lana. Veniamo ad adorare il Salvatore».
   «Entrate».
   Entrano e la stalla si fa più chiara per il lume delle torce. I vecchi spingono i bambini davanti a loro.
   Maria si volge e sorride. «Venite», dice. «Venite!» e li invita con la mano e col sorriso, e prende quello che ha visto l’angelo e lo attira a sé, fin contro la greppia. E il fanciullo guarda beato.
   Gli altri, invitati anche da Giuseppe, si avanzano coi loro doni e li mettono tutti, con brevi, commosse parole, ai piedi di Maria. E poi guardano il Bambinello, che piange piano, e sorridono commossi e beati.
   E uno, più ardito, dice: «Prendi, o Madre. È soffice e pulita. L’avevo preparata per il bambino che mi sta per nascere. Ma te la dono. Metti il Figlio tuo fra questa lana, sarà morbida e calda». E offre la pelle di una pecora, una bellissima pelle ricca di lana candida e lunga.
   Maria solleva Gesù e ve lo avvolge. E lo mostra ai pastori, che in ginocchio sul fieno del suolo lo guardano estatici.
   Si fanno più arditi e uno propone: «Bisognerebbe dargli un sorso di latte, meglio acqua e miele. Ma non abbiamo miele. Si dà ai piccolini. Ho sette figli e so…».
   «Qui c’è il latte. Prendi, o Donna».
   «Ma è freddo. Caldo ci vuole. Dove è Elia? Egli ha la pecora».
   Elia deve essere quello del latte. Ma non c’è. Si è fermato fuori e guarda dalla fessura, e nel buio della notte si perde.
   «Chi vi ha guidati?».
   «Un angelo ci ha detto di venire, e Elia ci ha guidati qui. Ma dove è ora?».
   La pecora lo denuncia con un belato.
   «Vieni avanti, ti si vuole».
   Entra con la sua pecora, vergognoso di esser il più notato.
   «Tu sei?», dice Giuseppe che lo riconosce, e Maria gli sorride dicendo: «Sei buono».
   Mungono la pecora e, con la punta di un lino intriso nel latte caldo e spumoso, Maria bagna le labbra del Bambinello, che succhia quel dolciore cremoso. Sorridono tutti e più ancora quando, con l’angolino di tela ancora fra le labbruzze, Gesù si addormenta nel caldo della lana.


   30.8«Ma qui non potete rimanere. Fa freddo e vi è umido. E poi… vi è troppo odore di bestie. Non fa bene… e… non sta bene per il Salvatore».
   «Lo so», dice Maria con un grande sospiro. «Ma non c’è posto per noi a Betlemme».
   «Fa’ cuore, o Donna. Noi ti cercheremo una casa».
   «Lo dirò alla padrona mia», dice quello del latte, Elia.
   «È buona. Vi accoglierà, dovesse cedervi la sua stanza. Appena è giorno glielo dico. Ha la casa piena di gente. Ma vi darà un posto».
   «Per il mio Bambino, almeno. Io e Giuseppe stiamo anche per terra. Ma per il Piccino…».
   «Non sospirare, Donna. Ci penso io. E lo diremo a molti ciò che ci è stato detto. Non mancherete di nulla. Per ora prendete ciò che la nostra povertà vi può dare. Siamo pastori…».
   «Siamo poveri noi pure. E non vi possiamo compensare», dice Giuseppe.
   «Oh! non vogliamo! Anche lo poteste, non vorremmo! Il Signore ce ne ha già compensato. La pace l’ha promessa a tutti. Gli angeli dicevano così: “Pace agli uomini di buona volontà”. Ma a noi ce l’ha già data, perché l’angelo ha detto che questo Bambino è il Salvatore, che è Cristo, il Signore. Siamo poveri e ignoranti, ma sappiamo che i profeti dicono che il Salvatore sarà il Principe della Pace. E a noi ci ha detto di andare ad adorarlo. Perciò ci ha dato la sua pace. Gloria a Dio nei Cieli altissimi e gloria a questo suo Cristo, e benedetta sia tu, Donna, che lo hai generato! Santa sei, perché hai meritato di portarlo! Comandaci come Regina, ché saremo contenti di servirti. Che possiamo fare per te?».
   «Amare il Figlio mio ed avere sempre in cuore i pensieri di ora».
   «Ma per te? Non desideri nulla? Non hai parenti ai quali far sapere che Egli è nato?».
   «Sì, li avrei. Ma non sono qui vicino. Sono a Ebron…».
   «Ci vado io», dice Elia. «Chi sono?».
   «Zaccaria il sacerdote ed Elisabetta mia cugina».
   «Zaccaria? Oh! lo conosco bene. Nell’estate vado su quei monti, perché i pascoli vi sono ricchi e belli, e sono amico del suo pastore. Quando ti so sistemata vado da Zaccaria».
   «Grazie, Elia».
   «Niente grazie. Grande onore per me, povero pastore, andare a parlare al sacerdote e dirgli: “È nato il Salvatore”».
   «No. Gli dirai: “Ha detto Maria di Nazareth, tua cugina, che Gesù è nato, e di venire a Betlemme”».
   «Così dirò».
   «Dio te ne compensi.

   30.9Mi ricorderò di te, di voi tutti…».
   «Dirai al tuo Bambino di noi?».
   «Lo dirò».
   «Io sono Elia».
   «E io Levi».
   «Ed io Samuele».
   «E io Giona».
   «Ed io Isacco».
   «Ed io Tobia».
   «Ed io Gionata».
   «Ed io Daniele».
   «E Simeone io».
   «E Giovanni mi chiamo io».
   «Io Giuseppe e mio fratello Beniamino, siamo gemelli».
   «Ricorderò i vostri nomi».
   «Dobbiamo andare… Ma torneremo… E ti porteremo altri ad adorare!…».
   «Come tornare all’ovile lasciando questo Bambino?».
   «Gloria a Dio che ce lo ha mostrato!».
   «Facci baciare la sua veste», dice Levi con un sorriso d’angelo.
   Maria alza piano Gesù e, seduta sul fieno, offre i piedini, avvolti nel lino, da baciare. E i pastori si chinano fino al suolo e baciano quei piedini minuscoli, velati di tela. Chi ha la barba se la forbisce prima e quasi tutti piangono e, quando devono andare, escono a ritroso, lasciando il cuore indietro…
   La visione mi cessa così, con Maria seduta sulla paglia col Bambino in grembo e Giuseppe che, appoggiato alla greppia con un gomito, guarda e adora.



   

   30.10Dice Gesù:
   «Oggi parlo Io. Sei molto stanca, ma abbi pazienza ancora un poco. È la vigilia del Corpus Domini. Potrei parlarti del­l’Eucarestia e dei santi che si fecero apostoli del suo culto, così come ti ho parlato[69] dei santi che furono apostoli del Sacro Cuore. Ma voglio parlarti di un’altra cosa e di una categoria di adoratori del Corpo mio che sono i precursori del culto per Esso. E sono i pastori. I primi adoratori del mio Corpo di Verbo divenuto Uomo.
   Una volta ti dissi, e ciò è detto anche dalla mia Chiesa, che i santi Innocenti sono i protomartiri del Cristo. Ora ti dico che i pastori sono i primi adoratori del Corpo di Dio. E in loro vi sono tutti i requisiti richiesti per essere adoratori del Corpo mio, anime eucaristiche.
   Fede sicura: essi credono prontamente e ciecamente all’angelo.
   Generosità: essi dànno tutta la loro ricchezza al loro Signore.
   Umiltà: si accostano a dei più poveri, umanamente, di loro con modestia di atti che non avvilisce, e si professano servi loro.
   Desiderio: quanto non possono dare da loro, si industriano a procurare con apostolato e fatica.
   Prontezza di ubbidienza: Maria desidera sia avvertito Zaccaria, e Elia va subito. Non rimanda.
   Amore, infine: essi non sanno staccarsi di là, e tu dici: “lasciano là il loro cuore”. Dici bene.
   Ma non bisognerebbe fare così anche col mio Sacramento?

   30.11E un’altra cosa, tutta per te, questa: osserva a chi si svela per primo l’angelo e chi merita di sentire le effusioni di Maria. Levi: il fanciullo.
   A chi ha l’anima di fanciullo Dio si mostra e mostra i suoi misteri e permette che oda le parole divine e di Maria. E chi ha anima di fanciullo ha anche il santo ardimento di Levi e dice: “Fàmmi baciare la veste di Gesù”. Lo dice a Maria. Perché è sempre Maria quella che vi dà Gesù. È Lei la Portatrice dell’Eucarestia. È Lei la Pisside viva.
   Chi va a Maria trova Me. Chi mi chiede a Lei, da Lei mi riceve. Il sorriso di mia Madre, quando una creatura le dice: “Dàmmi il tuo Gesù, ché lo ami”, fa trascolorare i Cieli in un più vivo splendore di letizia, tanto è felice.
   Dille dunque: “Fàmmi baciare la veste di Gesù. Fàmmi baciare le sue piaghe”. E osa di più ancora. Di’ : “Fàmmi posare il capo sul Cuore del tuo Gesù, perché ne sia beata”.
   Vieni. E riposa. Come Gesù nella cuna, fra Gesù e Maria».

[68] Tu, che ci hai condotti e la conosci, invece di Voi, che ci avete condotti e la conoscete, è correzione di MV su una copia dattiloscritta


[69] ti ho parlato, il 2 giugno 1944, ne “I quaderni del 1944

.

Liturgia Novus Ordo: 1 Gv 2, 3-11; Sal 95; Lc 2, 22-35.


Vangelo Novus Ordo Lc 2, 22-35
Dal Vangelo secondo Luca

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore ? come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» ? e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione ? e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

 *

Maria Valtorta: 'L'Evangelo come mi è stato rivelato'

   Cap. XXXII. Presentazione di Gesù al Tempio. La virtù di Simeone e la profezia di Anna.

   1 febbraio 1944

  1Vedo partire da una casetta modestissima una coppia di persone. Da una scaletta esterna scende una giovanissima madre con un bambino fra le braccia, avvolto in un panno bianco.
  Riconosco questa Mamma nostra. È sempre Lei, pallida e bionda, snella e tanto gentile in ogni suo atto. È vestita di bianco, col manto in cui si avvolge di un pallido azzurro. Sul capo un velo bianco. Porta con tanta cura il suo Bambino.
  Ai piedi della scaletta l’attende Giuseppe presso ad un ciuchino bigio. Giuseppe è vestito tutto di color marrone chiaro, sia nella tunica che nel mantello. Guarda Maria e le sorride. Quando Maria giunge presso il ciuchino, Giuseppe si passa la briglia dell’asinello sul braccio sinistro e prende per un momento il Bambino, che dorme tranquillo, per permettere a Maria di accomodarsi meglio sulla sella del ciuchino. Poi le rende Gesù e si incamminano.
  Giuseppe cammina al fianco di Maria, tenendo sempre per la briglia il somarello e facendo attenzione che questo vada dritto e senza inciampi. Maria tiene in grembo Gesù e, come per tema che il freddo gli possa nuocere, gli stende addosso un lembo del suo mantello. Parlano pochissimo i due sposi, ma si sorridono sovente.
  La strada, che non è un modello stradale, si snoda fra una campagna che la stagione fa nuda. Qualche altro viaggiatore si scontra coi due o li raggiunge, ma sono rari.


  2Poi ecco delle case che si mostrano e delle mura che serrano una città. I due sposi entrano in essa da una porta e comincia il percorso sul selciato (molto sconnesso) cittadino. Il cammino diviene molto più difficile, sia perché vi è del traffico che fa fermare tutti i momenti il ciuchino, sia perché lo stesso sulle pietre e sulle buche che sostituiscono le pietre mancanti ha continue scosse, che disturbano Maria e il Bambino.
  La strada non è piana. Sale, sebbene lievemente. È stretta fra case alte dalle porticine strette e basse e dalle rade finestre sulla via. In alto il cielo si affaccia con tante fettine di azzurro fra case e case, anzi fra terrazze e terrazze. In basso sulla via vi è gente e vocio, e si incrociano altre persone a piedi, o su somarelli, o conducenti somarelli carichi, e altre dietro ad una ingombrante carovana di cammelli. Ad un certo punto passa con molto rumore di zoccoli e di armi una pattuglia di legionari romani, che scompaiono oltre un arco posto a cavalcione di una via molto stretta e sassosa.
  Giuseppe piega a sinistra e prende una via più larga e più bella. Vedo la cinta merlata, che già conosco, in fondo ad essa.
  Maria smonta dal ciuchino presso la porta dove è una specie di posteggio per altri somarelli. Dico «posteggio» perché è una specie di capannone, meglio, di tettoia, dove è paglia sparsa e dei paletti con degli anelli per legare i quadrupedi.
  Giuseppe dà alcune monete ad un ometto accorso e con esse acquista un poco di fieno, e attinge un secchio d’acqua da un pozzo rudimentale che è in un angolo, e li dà al ciuchino. Poi raggiunge Maria ed ambedue entrano nel recinto del Tempio.


  3Si dirigono prima verso un porticato, dove vi sono quelli che Gesù poi fustigò egregiamente: i venditori di tortore e agnelli e i cambiavalute. Giuseppe acquista due colombini bianchi. Non cambia il denaro. Si capisce che ha già quello che gli occorre.
  Giuseppe e Maria si dirigono ad una porta laterale che ha otto gradini, come mi pare abbiano tutte le porte, quasi che il cubo del Tempio sia sopraelevato dal resto del suolo. Questa porta ha un grande atrio, come i portoni delle nostre case di città, per darle un’idea, ma più vasto e ornato. In esso vi sono a destra e a sinistra due specie di altari, ossia due costruzioni rettangolari, di cui sul principio non capisco bene lo scopo. Sembrano delle basse conche, perché l’interno è più basso dell’orlo esterno, che si sopraeleva di qualche centimetro.
  Non so se chiamato da Giuseppe o se venuto di suo, accorre un sacerdote. Maria offre i due poveri colombi ed io, che capisco la loro sorte, volgo altrove lo sguardo. Osservo gli ornati del pesantissimo portale, del soffitto, dell’atrio. Mi pare però di vedere, con la coda dell’occhio, che il sacerdote asperga Maria con dell’acqua. Deve essere acqua, perché non vedo macchie sul suo abito. Poi Maria, che insieme ai colombini aveva dato un mucchietto di monete al sacerdote (mi ero dimenticata di dirlo) entra con Giuseppe nel Tempio vero e proprio, accompagnata dal sacerdote.
  Io guardo da tutte le parti. È un luogo ornatissimo. Sculture a teste d’angeli e palme e ornati corrono sulle colonne, le pareti e il soffitto. La luce penetra da curiose finestre lunghe, strette, naturalmente senza vetri, e tagliate diagonalmente alla parete. Suppongo che sia per impedire agli acquazzoni di entrare.


  4Maria si inoltra sino ad un certo punto. Poi si arresta. A qualche metro da Lei vi sono degli altri gradini e su questi sta un’altra specie di altare, oltre il quale vi è un’altra costruzione.
  Mi accorgo che credevo essere nel Tempio e invece ero in ciò che contorna il Tempio vero e proprio, ossia il Santo, oltre il quale pare che nessuno, fuorché i sacerdoti, possano entrare. Quello che io credevo Tempio non è perciò che un chiuso vestibolo, che da tre parti cinge il Tempio, dove è chiuso il Tabernacolo. Non so se mi sono spiegata per bene. Ma non sono architetto o ingegnere.
  Maria offre il Bambino — che si è svegliato e gira i suoi occhietti innocenti intorno con lo sguardo stupito degli infanti di pochi giorni — al sacerdote. Questo lo prende sulle braccia e lo solleva a braccia tese, volto verso il Tempio, stando contro a quella specie di altare che sta su quei gradini. Il rito è compiuto. Il Bambino viene restituito alla Mamma e il sacerdote se ne va.


  5Vi è della gente che guarda curiosa. Fra questa si fa largo un vecchietto curvo e arrancante, che si appoggia ad un bastone. Deve essere molto vecchio, direi certo oltre gli ottant’anni. Egli si accosta a Maria e le chiede di dargli per un attimo il Piccino. Maria lo accontenta sorridendo.
  Simeone, che io ho sempre creduto appartenesse alla casta sacerdotale e invece è un semplice fedele, almeno a giudicare dalla veste, lo prende, lo bacia. Gesù gli sorride con la smorfietta incerta dei poppanti. Sembra che lo osservi curioso, perché il vecchietto piange e ride insieme, e le lacrime fanno tutto un ricamo di luccichii insinuandosi fra le rughe e imperlando la barba lunga e bianca, verso la quale Gesù tende le manine. È Gesù, ma è sempre un bambinello, e ciò che gli si muove davanti attira la sua attenzione e gli dà velleità di afferrare quella cosa per capire meglio cosa è. Maria e Giuseppe sorridono, e anche i presenti, che lodano la bellezza del Piccino.
  Sento le parole(Lc 2,27-35) del santo vecchio e vedo lo sguardo stupito di Giuseppe, quello commosso di Maria, e anche quelli della piccola folla, in parte stupita e commossa e in parte, alle parole del vecchio, presa da ilarità. Fra questi vi sono dei barbuti e tronfi sinedristi, che scuotono il capo, guardando Simeone con compatimento ironico. Lo devono pensare andato fuor di cervello per l’età.


  6Il sorriso di Maria si spegne in un più vivo pallore quando Simeone le annuncia il dolore. Per quanto Ella sappia, questa parola le trafigge lo spirito. Si avvicina di più a Giuseppe, Maria, per confortarsi, si stringe con passione il suo Bambino al seno e beve, come anima assetata, le parole di Anna(Lc 2,36-38), a sua volta sopraggiunta, la quale, donna come è, ha pietà del suo soffrire e le promette che l’Eterno le addolcirà di una forza soprannaturale l’ora del dolore. «Donna, a Chi ha dato il Salvatore al suo popolo non mancherà il potere di dare il suo angelo a confortare il tuo pianto. Non è mai mancato l’aiuto del Signore alle grandi donne d’Israele, e tu sei ben più di Giuditta e di Giaele. Il nostro Dio ti darà cuore di oro purissimo per resistere al mare di dolore, per cui sarai la più grande Donna della creazione, la Madre. E tu, Bambino, ricordati di me nell’ora della tua missione».
  E qui mi cessa la visione.

*

   2 febbraio 1944

  7Dice Gesù:
    «Due insegnamenti per tutti sgorgano dalla descrizione che hai data.
  Il primo: non al sacerdote immerso nei riti ma con lo spirito assente, sibbene ad un semplice fedele si svela la verità.
  Il sacerdote, sempre a contatto con la Divinità, volto alla cura di quanto ha attinenza con Dio, dedicato a tutto quanto è più alto della carne, avrebbe dovuto intuire subito chi era il Bambino che veniva offerto al Tempio quella mattina. Ma, perché potesse intuire, occorreva che avesse uno spirito vivo. Non unicamente una veste ricoprente uno spirito, se non morto, molto assonnato.
  Lo Spirito di Dio può, se vuole, tuonare e scuotere come folgore e terremoto anche lo spirito più ottuso. Lo può. Ma generalmente, poiché è Spirito di ordine come è ordine Dio in ogni sua Persona e modo di agire, Esso si effonde e parla non dico dove è merito sufficiente a ricevere la sua effusione — allora ben poche volte si effonderebbe, e tu pure non ne conosceresti le luci — ma là dove vede la “buona volontà” di meritare la sua effusione.
  Come si esplica questa buona volontà? Con una vita fatta, per quanto vi è possibile, tutta di Dio. Nella fede, nell’ubbidienza, nella purezza, nella carità, nella generosità, nella preghiera. Non nelle pratiche, nella preghiera. Vi è differenza minore fra la notte e il giorno che non fra le pratiche e la preghiera. Questa è comunione di spirito con Dio, dalla quale uscite rinvigoriti e decisi a sempre più essere di Dio. L’altra è una abitudine qualunque, fatta per scopi diversi ma sempre egoisti, la quale vi lascia quelli che siete, anzi vi aggrava di una colpa di menzogna e di accidia.


  8Simeone aveva questa buona volontà. La vita non gli aveva risparmiato affanni e prove. Ma egli non aveva perduto la sua buona volontà. Gli anni e le vicende non avevano intaccato e scosso la sua fede nel Signore, nelle sue promesse, e non avevano stancato la sua buona volontà d’esser sempre più degno di Dio. E Dio, prima che gli occhi del servo fedele si chiudessero alla luce del sole, in attesa di riaprirsi al Sole di Dio rutilante dai Cieli aperti al mio salire dopo il Martirio, gli mandò il raggio dello Spirito che lo guidasse al Tempio, per vedere la Luce venuta al mondo.
  “Mosso da Spirito Santo”, dice il Vangelo. Oh! se gli uomini sapessero quale Amico perfetto è lo Spirito Santo, quale Guida, quale Maestro! Se lo amassero e lo invocassero, questo Amore della Ss. Trinità, questa Luce della Luce, questo Fuoco del Fuoco, questa Intelligenza, questa Sapienza! Quanto più saprebbero di ciò che è necessario sapere!
  Vedi, Maria; vedete, figli. Simeone ha atteso tutta una lunga vita di “vedere la Luce”, di sapere compiuta la promessa di Dio. Ma non ha mai dubitato. Non si è mai detto: “È inutile che io perseveri nello sperare e nel pregare”. Ha perseverato. E ha ottenuto di “vedere” ciò che non videro il sacerdote e i sinedristi pieni di superbia e di opacità: il Figlio di Dio, il Messia, il Salvatore in quelle carni infantili che gli davano tepore e sorrisi. Ha avuto il sorriso di Dio, primo premio della sua vita onesta e pia, attraverso le mie labbra di Bambino.


  9Seconda lezione: le parole di Anna. Anche ella, profetessa, vede in Me, neonato, il Messia. E questo, data la sua capacità di profezia, è naturale. Ma ascolta, ascoltate ciò che, spinta da fede e da carità, dice a mia Madre. E fatevene luce al vostro spirito, che trema in questo tempo di tenebre e in questa festa della Luce. “A Chi ha dato un Salvatore non mancherà il potere di dare il suo angelo a confortare il tuo, il vostro pianto”.
  Pensate che Dio ha dato Se stesso per annullare l’opera di Satana negli spiriti. E non potrà vincere ora i satana che vi torturano? Non potrà asciugare il vostro pianto, sgominando questi satana e mandando da capo la pace del suo Cristo? Perché non glielo chiedete, con fede? Fede vera, prepotente, una fede davanti alla quale il rigore di Dio, sdegnato da tante vostre colpe, cada con un sorriso e venga il perdono che è aiuto, e venga la sua benedizione ad essere arcobaleno su questa Terra che si sommerge in un diluvio di sangue voluto da voi stessi?
  Pensate: il Padre, dopo aver punito gli uomini col diluvio, disse(Gn 8,21) a Se stesso e al suo patriarca: “Io non maledirò più la Terra a causa degli uomini, perché i sensi e i pensieri del cuore umano sono inclinati al male fin dall’adolescenza; quindi non colpirò più ogni vivente come ho fatto”. Ed è stato fedele alla sua parola. Non ha più mandato il diluvio. Ma voi quante volte vi siete detti, e avete detto a Dio: “Se ci salviamo questa volta, se ci salvi, non faremo mai più guerre, mai più”, e poi ne avete sempre fatte di più tremende? Quante volte, o falsi e senza rispetto per il Signore e per la parola vostra? Eppure Dio vi aiuterebbe ancora una volta, se la gran massa dei fedeli lo chiamasse con fede e amore prepotente.
  Mettete — o voi tutti che, troppo pochi per controbilanciare i molti che mantengono vivo il rigore di Dio, rimanete però a Lui devoti nonostante l’ora tremenda che incombe e cresce di attimo in attimo — mettete il vostro affanno ai piedi di Dio. Egli saprà mandarvi il suo angelo come ha mandato il Salvatore al mondo. Non temete. State uniti alla Croce. Essa ha vinto sempre le insidie del demonio, che viene con la ferocia degli uomini e le tristezze della vita a cercare di piegare alla disperazione, ossia alla separazione da Dio, i cuori che non può prendere in altra maniera».

*

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, 

Regina del Cielo e della terra,

noi ci affidiamo per sempre a Te!

mercoledì 28 dicembre 2022

“Maria Giglio della Trinità”: Domini Sacrarium, Nobile Triclinium et Complementum SS. Trinitatis!: La mia Chiesa, prima che l’ora del mondo cessi, av...

“Maria Giglio della Trinità”: Domini Sacrarium, Nobile Triclinium et Complementum SS. Trinitatis!: La mia Chiesa, prima che l’ora del mondo cessi, av...: Ho sparso il mio Sangue nel Tempio, poiché ero già ferito da pietre e bastoni, per santificare nel Tempio di Gerusalemme il Tempio fut...

Benedetto XVI: IL PAPA GARANTE DELLA OBBEDIENZA

 


…DIFENDE CONTRO LE OPINIONI DEL MOMENTO….

LA FEDE DI SEMPRE DELLA CHIESA….

Gesù…conferisce a Pietro, e con lui alla Chiesa, la potestà di magistero e la potestà di guida.
Il Concilio Vaticano I si è espresso in questi termini: a Pietro e ai suoi successori è dato il compito della decisione definitiva, ovvero, come esso dice, della decisione infallibile..

Ma…anche il Papa non può fare quello che vuole. Non è un monarca assoluto, come un tempo lo furono alcuni re.
E’ tutto il contrario: egli è il garante dell’ubbidienza.
Egli è garante del fatto che noi non siamo dell’opinione sua o di chicchessia, ma che professiamo la fede di sempre della Chiesa che egli, opportune importune, difende contro le opinioni del momento.
Il Signore ci ha assicurato, e duemila anni di storia della Chiesa lo dimostrano, che egli adempie queste promesse anche con papi cattivi e inadeguati che la Parola di Dio ci sarà rettamente spiegata e così sarà preservata la fede, che non è opinione, ma dono di lui.

JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI da “Le omelie di Pentling”, 2015

1/12/ 2022 BENEDETTOXVI

AMDG et DVM

"Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell'amore di Dio...

Il bue e l'asino del presepe

A Natale ci auguriamo di cuore che in mezzo a tutta la frenesia del presente questo tempo di festa ci porti in dono un po’ di riflessione e di gioia, di contatto con la bontà del nostro Dio e quindi nuovo coraggio per andare avanti.
All’inizio di una piccola riflessione su quello che la festa ci può dire oggi, un breve sguardo all’origine della celebrazione natalizia può esserci di grande aiuto.
L’anno liturgico della Chiesa innanzitutto non si è sviluppato guardando alla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Per questo la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma la Pasqua. In effetti solo la risurrezione del Signore ha fondato la fede cristiana e ha così dato origine alla Chiesa.
Per questo già Ignazio di Antiochia (morto al più tardi verso il 117 d.C.) definisce i cristiani come “coloro che non osservano più il sabato, ma vivono secondo il giorno del Signore”: essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, in virtù della risurrezione, che viene celebrata settimanalmente nella festa pasquale della domenica.
Il primo ad affermare con certezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma nel suo commento a Daniele, scritto verso il 204; Bo Reicke, già professore di esegesi a Basilea, ha inoltre richiamato l’attenzione sul calendario festivo, secondo il quale nel vangelo di Luca i racconti della nascita del Battista e della nascita di Gesù sono legati fra loro. Se ne potrebbe dedurre che Luca presuppone già nel suo vangelo la data del 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù. Allora in quel giorno si celebrava la festa della dedicazione del tempio istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. La data della nascita di Gesù verrebbe allora a simbolizzare che con lui, apparso come luce di Dio nella notte invernale, si realizzava veramente la consacrazione del tempio - l’avvento di Dio su questa terra.

Comunque stiano le cose, la festa del Natale ha assunto una fisionomia chiara nella cristianità solo nel secolo IV, allorché essa prese il posto della festa romana del “Sol invictus” e insegnò a concepire la nascita di Cristo come la vittoria della vera luce; il materiale raccolto da Bo Reicke ha dimostrato che questa trasformazione di una festa pagana in solennità cristiana ha fatto tesoro di un’antica tradizione giudeo-cristiana.

Tuttavia il calore umano particolare, che tanto ci commuove nella festa di Natale fino al punto d’aver sopravanzato nel cuore della cristianità la Pasqua, si è sviluppato soltanto nel Medioevo, allorché Francesco d’Assisi, profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi, introdusse questo nuovo elemento. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, racconta così nella Vita Seconda: “Più di qualsiasi altra festa Francesco celebrava con una gioia indescrivibile il Natale. Diceva che questa era la festa delle feste, perché in questo giorno Dio è diventato un bambinello e ha succhiato il latte come tutti gli altri bambini.
Abbracciava con tenerezza e trasporto le immagini che rappresentavano Gesù Bambino e pronunciava pieno di compassione parole dolci come i pargoli. Sulle sue labbra il nome di Gesù era dolce come il miele”.
Da questa sensibilità scaturì poi la famosa celebrazione del Natale a Greccio, forse ispirata a Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e al presepio di Santa Maria Maggiore in Roma.
Egli fu spinto dalla sua sete di vicinanza, di realtà, dal suo desiderio di rivivere in maniera quanto mai attuale Betlemme,di sperimentare direttamente la gioia della nascita del Bambino Gesù e di trasmetterla a tutti i suoi amici.
Nella sua prima biografia Celano parla della notte del presepio in un modo che rimane sempre toccante per la gente e che ha dato un contributo decisivo alla diffusione della più bella delle usanze natalizie, quella del presepio.
A buon diritto possiamo dunque dire che la notte di Greccio ha ridonato alla cristianità la festa del Natale, così che il suo messaggio più autentico, il suo particolare calore e la sua umanità, l’umanità del nostro Dio, ha potuto comunicarsi alle anime e donare alla fede una nuova dimensione.
La festa della risurrezione aveva concentrato lo sguardo sulla potenza di Dio che vince la morte e ci insegna a sperare nel mondo che verrà.
Ma ora veniva messo in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua bontà che si manifesta in questo mondo in mezzo a noi e si propone di insegnarci un nuovo modo di vivere e di amare.
Forse può essere utile fermarci ancora un attimo su questo punto e chiedere: dove si trova questa Greccio, che si è caricata di un significato tanto grande per la storia della fede? Si tratta di una piccola località nella valle retina, in Umbria, situata a non troppa distanza da Roma, a nord est della città. Laghi e montagne hanno conferito a questo paese il suo particolare fascino e la sua silenziosa bellezza, che riesce a commuoverci ancor oggi, tanto più che non è quasi stato toccato dalla confusione del turismo di massa.
Il convento di Greccio, situato a 638 metri di altezza, ha conservato qualcosa della semplicità delle origini; è rimasto modesto, come il paesello ai suoi piedi. La foresta lo circonda come ai tempi del Poverello e ci invita a sostare e a riflettere. Celano ricorda che Francesco aveva una particolare predilezione per gli abitanti di questa località, proprio per la loro povertà e semplicità; egli sarebbe quindi venuto spesso da quelle parti per riposarsi , attratto anche da una cella estremamente povera e isolata , in cui poteva dedicarsi indisturbato alla contemplazione delle cose celesti.

Povertà, semplicità, silenzio dell’uomo e parlare della creazione: erano certo queste le impressioni che per il Santo di Assisi si legavano a questo luogo.

Esso divenne così la sua Betlemme e potè inscrivere nuovamente il mistero di Betlemme nella geografia delle anime.
Ma torniamo al Natale del 1223. Il terreno di Greccio era stato messo a disposizione del Poverello di Assisi da un nobile signore di nome Giovanni che, stando alle parole di Celano, per quanto di alto lignaggio e malgrado la sua posizione elevata, “non annetteva alcuna importanza alla nobiltà del sangue e cercava piuttosto di raggiungere la nobiltà dell’anima”, tanto da meritarsi l’affetto di Francesco.
Orbene, a proposito di questo Giovanni, Celano racconta che in quella notte egli ebbe la grazia di una visione meravigliosa. Vide immobile nella mangiatoia un bambinello, che fu risvegliato dal suo sonno dalla vicinanza di san Francesco. E aggiunge:
“Questa visione corrispondeva realmente a quanto stava avvenendo, perchè fino a quel momento Gesù Bambino era effettivamente caduto nel sonno della dimenticanza in molti cuori. Mediante il suo servo Francesco il suo ricordo venne ravvivato e impresso indelebilmente nella memoria”.
Questo quadro descrive con molta precisione la nuova dimensione, che mediante la sua fede viva e commossa, Francesco conferì alla festa cristiana del Natale: la scoperta della rivelazione di Dio racchiusa precisamente nel Bambino Gesù.
Proprio così Dio è davvero diventato “Emmanuele”, Dio-con-noi, da cui non ci separa alcuna barriera di eccellenza e di lontananza:come bambino si è fatto così vicino che possiamo dargli tranquillamente del tu e accedere direttamente al suo cuore infantile.
Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell’amore di Dio: Dio viene senza armi, perché non intende conquistare dall’esterno, bensì guadagnare e trasformare dall’interno.
Se qualcosa è capace di vincere l’uomo, il suo despotismo, la sua violenza, la sua avidità, questa è l’inermità del bambino. Dio l’ha assunta per vincerci in questo modo e condurci a noi stessi.

Al riguardo non dimentichiamo che il massimo titolo di Gesù Cristo è quello di “Figlio”, di Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che presenta Gesù come il bambino perenne. La sua condizione di bambino corrisponde in una maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del “Figlio”.

Perciò essa è un’indicazione del modo in cui possiamo pervenire a Dio, alla divinizzazione. In questa luce vanno comprese le sue parole: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).
Chi non ha compreso il mistero di Natale, non ha compreso la cosa decisiva del cristianesimo. Chi non l’ha accettato, non può entrare nel regno dei cieli.
E’ questo che Francesco volle ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutte le epoche successive.
Seguendo le direttive di san Francesco, durante la Santa Notte furono sistemati nella grotta di Greccio un bue e un asino. Egli aveva infatti detto al nobile
Giovanni: “ Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.
Da allora il bue e l’asino fanno parte di tutti i presepi. Ma donde deriva questa usanza? Com’è noto, i racconti natalizi del Nuovo Testamento non ne fanno parola. Se approfondiamo questa domanda, scopriamo un particolare importante sia per le usanze natalizie, sia per la spiritualità liturgica e popolare natalizia e pasquale della Chiesa.
Il bue e l’asino non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia 1,3 leggiamo infatti: “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.

I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.
Nelle rappresentazioni medioevali del Natale vediamo come i due animali abbiano quasi volti umani, come si inchinino consapevoli e rispettosi davanti al mistero del Bambino. Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore.
Ma lo riconosciamo realmente? Quando collochiamo nel presepio il bue e l’asino, dobbiamo rammentarci tutte le parole di Isaia, che non sono solo vangelo – cioè promessa della futura conoscenza -, bensì anche giudizio sull’accecamento attuale. Il bue e l’asino riconoscono, ma “Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.
Chi sono oggi il bue e l’asino, chi “il mio popolo” che non comprende? Da che cosa si riconoscono il bue e l’asino, da che cosa si riconosce “il mio popolo”?
Perché mai gli esseri privi di ragione riconoscono e la ragione è ceca?
Per trovare una risposta dobbiamo tornare ancora una volta con i Padri della Chiesa al primo Natale. Chi non riconobbe? Chi riconobbe? E perché ciò si verificò?

Orbene, a non riconoscere fu Erode. Egli non comprese nulla quando gli parlarono del Bambino, anzi, fu ancora più accecato dalla sua sete di potere e dalla conseguente mania di persecuzione(Mt 2,3). A non riconoscere fu “tutta Gerusalemme con lui” (ivi). A non riconoscere furono i dotti, i conoscitori delle Scritture, gli specialisti dell’interpretazione che conoscevano con esattezza il passo biblico giusto e tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6).

A riconoscere furono invece “il bue e l’asino” – se paragonati con queste persone rinomate -: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva mai essere diversamente? Nella stalla, dove è lui, non abitano le persone raffinate, lì sono di casa appunto il bue e l’asino.
E la nostra posizione qual è? Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in “Gerusalemme”, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare?
In questa notte i volti del bue e dell’asino ci rivolgono perciò questa domanda: il mio popolo non comprende, comprendi tu la voce del tuo Signore?
Quando collochiamo le statuine nel presepio, dovremmo pregare Dio di concedere al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, come fece una volta Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano, quasi con le stesse parole di san Luca relative ai pastori del primo Natale (Lc 2,20), dice dei partecipanti alla messa di mezzanotte di Greccio: tutti se ne tornarono a casa pieni di gioia.


Da Joseph Ratzinger, "Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa", Edizioni San Paolo 2005