"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
lunedì 1 giugno 2020
Il re, il giardino, il giardiniere e gli aiutanti, i fiori e le piante buone e le piante cattive, i fertilizzanti, la fontana, i semi nocivi, e il disordine, più i serpi, i rospi e le lumache. E altro...
QUADERNI DEL 1943 CAPITOLO 49
5 luglio 1943
Dice Gesù:
«La mia Chiesa è simile ad un grande giardino che circonda il palazzo di un grande re. Il re, per motivi suoi, non esce dal palazzo e perciò, dopo avere seminato i fiori e le piante più belle, ha delegato un giardiniere a tutelare la sua Chiesa. Il giardiniere, a sua volta, ha molti aiutanti che lo coadiuvano.
Nel giardino vi sono fiori e piante di tutte le specie. Dal re furono sparpagliate sulle aiuole, per renderle fertili, tutte le sostanze fertilizzanti, e una volta fiorivano solo fiori e piante utili e belle. Nel centro del giardino è una fontana dalle sette bocche che manda i suoi canali per ogni dove e alimenta e ristora piante e fiori.
Ma il Maligno, nell’assenza del re, è entrato ed ha sparso a sua volta semi nocivi. Di modo che il giardino ora presenta un aspetto disordinato, per non dire desolante. Erbacce malsane, spinose, venefiche, si sono distese dove prima erano bordure, aiuole, cespugli bellissimi, e li hanno soffocati o resi grami perché hanno succhiato gli umori della terra e impedito al sole di scendere sulle pianticelle.
Il giardiniere e i suoi aiutanti si affannano a rimondare, ad estirpare, a raddrizzare pianticelle piegate sotto il peso di altre malsane. Ma se lavorano di qua, il Maligno lavora di là, e così il giardino presenta sempre il suo aspetto desolato. Serpi, rospi, lumache approfittano del disordine per annidarsi, per rodere per sbavare. Qua a là qualche pianta robusta resiste a tutto e fiorisce alta nel cielo, qualche aiuola anche, specie se di gigli e rose. Ma le belle bordure delle margheritine e delle violette sono quasi completamente cancellate.
Quando il re verrà, non conoscerà più il suo bel giardino divenuto selvaggio e con ira strapperà le erbacce, schiaccerà gli animali lubrici, coglierà i fiori rimasti e li porterà nel suo palazzo, cancellando per sempre il giardino.
Ora, attenta alla spiegazione.
Il re è Gesù Cristo. Il giardino è la sua Chiesa militante. Il giardiniere è il mio Pietro, e i suoi aiutanti sono i sacerdoti. I fiori e le piante, i consacrati fedeli, i battezzati. Le sostanze fertilizzanti, le virtù e soprattutto il Sangue mio, sparso tutto per fecondare il mondo e rendere fertile la terra alla semente di vita eterna. La fontana sono i sette sacramenti. I semi nocivi sono i vizi, le passioni, i peccati seminati da Satana in odio a Me.
Il disordine è dato dal fatto che le piante buone non hanno reagito e si sono lasciate soffocare da quelle malvagie che annullano il beneficio del mio Sangue, dei miei Sacramenti, del Sole della grazia.
Il Sommo Giardiniere e i suoi pochi, veri aiutanti, non riescono a mettere ordine per la mala volontà delle piante buone, per la loro pigrizia spirituale, e per la mala volontà e pigrizia di molti falsi giardinieri che non si affaticano nel santo lavoro di coltivare, aiutare, raddrizzare le anime.
I serpi, i rospi e le lumache sono le tentazioni. Se tutti i giardinieri fossero solerti e se tutte le piante fossero vigilanti, essi verrebbero schiacciati. Invece le anime non chiamano in soccorso la chiesa quando comprendono che la tentazione è più forte di loro, e gli ecclesiastici non accorrono, non tutti, quando una delle povere anime, che Io ho pagate col mio Dolore e affrancate in anticipo col mio Sangue, chiede soccorso.
Le piante buone che resistono sono i veri sacerdoti: dal mio Vicario Giardiniere Sommo e sommo albero che alza fino al cielo la sua cima intrepida e retta, ai semplici sacerdoti che sono rimasti sale della terra.
Le aiuole, specie di rose e gigli, sono le anime verginali e le anime amanti.
«La mia Chiesa è simile ad un grande giardino che circonda il palazzo di un grande re. Il re, per motivi suoi, non esce dal palazzo e perciò, dopo avere seminato i fiori e le piante più belle, ha delegato un giardiniere a tutelare la sua Chiesa. Il giardiniere, a sua volta, ha molti aiutanti che lo coadiuvano.
Nel giardino vi sono fiori e piante di tutte le specie. Dal re furono sparpagliate sulle aiuole, per renderle fertili, tutte le sostanze fertilizzanti, e una volta fiorivano solo fiori e piante utili e belle. Nel centro del giardino è una fontana dalle sette bocche che manda i suoi canali per ogni dove e alimenta e ristora piante e fiori.
Ma il Maligno, nell’assenza del re, è entrato ed ha sparso a sua volta semi nocivi. Di modo che il giardino ora presenta un aspetto disordinato, per non dire desolante. Erbacce malsane, spinose, venefiche, si sono distese dove prima erano bordure, aiuole, cespugli bellissimi, e li hanno soffocati o resi grami perché hanno succhiato gli umori della terra e impedito al sole di scendere sulle pianticelle.
Il giardiniere e i suoi aiutanti si affannano a rimondare, ad estirpare, a raddrizzare pianticelle piegate sotto il peso di altre malsane. Ma se lavorano di qua, il Maligno lavora di là, e così il giardino presenta sempre il suo aspetto desolato. Serpi, rospi, lumache approfittano del disordine per annidarsi, per rodere per sbavare. Qua a là qualche pianta robusta resiste a tutto e fiorisce alta nel cielo, qualche aiuola anche, specie se di gigli e rose. Ma le belle bordure delle margheritine e delle violette sono quasi completamente cancellate.
Quando il re verrà, non conoscerà più il suo bel giardino divenuto selvaggio e con ira strapperà le erbacce, schiaccerà gli animali lubrici, coglierà i fiori rimasti e li porterà nel suo palazzo, cancellando per sempre il giardino.
Ora, attenta alla spiegazione.
Il re è Gesù Cristo. Il giardino è la sua Chiesa militante. Il giardiniere è il mio Pietro, e i suoi aiutanti sono i sacerdoti. I fiori e le piante, i consacrati fedeli, i battezzati. Le sostanze fertilizzanti, le virtù e soprattutto il Sangue mio, sparso tutto per fecondare il mondo e rendere fertile la terra alla semente di vita eterna. La fontana sono i sette sacramenti. I semi nocivi sono i vizi, le passioni, i peccati seminati da Satana in odio a Me.
Il disordine è dato dal fatto che le piante buone non hanno reagito e si sono lasciate soffocare da quelle malvagie che annullano il beneficio del mio Sangue, dei miei Sacramenti, del Sole della grazia.
Il Sommo Giardiniere e i suoi pochi, veri aiutanti, non riescono a mettere ordine per la mala volontà delle piante buone, per la loro pigrizia spirituale, e per la mala volontà e pigrizia di molti falsi giardinieri che non si affaticano nel santo lavoro di coltivare, aiutare, raddrizzare le anime.
I serpi, i rospi e le lumache sono le tentazioni. Se tutti i giardinieri fossero solerti e se tutte le piante fossero vigilanti, essi verrebbero schiacciati. Invece le anime non chiamano in soccorso la chiesa quando comprendono che la tentazione è più forte di loro, e gli ecclesiastici non accorrono, non tutti, quando una delle povere anime, che Io ho pagate col mio Dolore e affrancate in anticipo col mio Sangue, chiede soccorso.
Le piante buone che resistono sono i veri sacerdoti: dal mio Vicario Giardiniere Sommo e sommo albero che alza fino al cielo la sua cima intrepida e retta, ai semplici sacerdoti che sono rimasti sale della terra.
Le aiuole, specie di rose e gigli, sono le anime verginali e le anime amanti.
Quando Io verrò, nell’ora mia terribile, strapperò, calpesterò, distruggerò erbe maledette e parassiti maledetti, cancellerò il giardino dall’universo, portando con Me, nell’interno della mia reggia, le piante benedette, i benedetti fiori che hanno saputo resistere e fiorire per la mia gioia.
E guai a coloro che saranno divelti da Me e lanciati nel regno di Mammona, il malvagio seminatore che hanno preferito al Seminatore divino; e guai a coloro che hanno preferito ascoltare la voce delle serpi e dei rospi e il bacio delle lumache alla voce dei miei angeli e al bacio della mia grazia. Meglio per loro sarebbe stato se mai non fossero nati!
Ma gioia, gioia eterna a coloro che mi sono rimasti servi buoni, fedeli casti, innamorati. E gioia, ancora più grande, a quelli che hanno voluto essere doppiamente miei seguaci prendendo le vie del Calvario per loro via, per compiere nel loro corpo quanto manca ancora all’eterna passione del Cristo. I loro corpi glorificati splenderanno come soli nella vita eterna perché si saranno nutriti del mio duplice pane: Eucarestia e Dolore, e avranno aumentato del loro sangue il gran lavacro iniziato da Gesù, il capo, e proseguito da essi, le membra per mondare i fratelli e dare gloria a Dio.»
Dico più tardi a Gesù: "Non comprendo questo passo del Vangelo" (cap. 2, v. 23-25, S. Giovanni), ed Egli mi spiega così: «L’uomo è l’eterno selvaggio e l’eterno bambino. Per essere attratto e sedotto, specie in quello che è buono - poiché la sua natura viziata lo porta facilmente ad accettare il male e difficilmente ad accettare il bene - ha bisogno di una farandola di prodigi. Il prodigio lo scuote e lo esalta. È un urto che lo spinge sui margini del Bene. Sui margini, ho detto. Io sapevo che coloro che credevano per i miei miracoli erano sui margini.
Essere lì non vuole dire essere nella mia Via. Vuol dire essere spettatori curiosi o interessati, pronti ad allontanarsi quando l’utile cessa e un pericolo si profila, e a diventare accusatori e nemici come prima si erano mostrati ammiratori e amici. L’uomo è ambiguo, finché non è tutto di Dio.
Io vedo nel fondo dei cuori. Perciò non mi sono fidato degli ammiratori di un’ora, dei credenti dell’attimo. Non sarebbero stati quelli i veri confessori, i testimoni miei. Né Io avevo bisogno di testimoni. Le mie opere testimoniavano per Me e ne testimoniava il Padre, Colui che in eterno è Perfezione e Verità.
Ecco perché Giovanni dice: che non avevo bisogno che altri testimoniasse per Me. Altri che non fosse il Padre e Me stesso.
Nell’uomo non alligna la verità, perciò la sua testimonianza non è verace e duratura. Molti furono coloro che credettero, pochi quelli che perseverarono, pochissimi coloro che testimoniarono per tutta la loro vita, e con la morte, che Io sono il Messia, Figlio vero di Dio vero.
Beatissimi in eterno costoro!»
Essere lì non vuole dire essere nella mia Via. Vuol dire essere spettatori curiosi o interessati, pronti ad allontanarsi quando l’utile cessa e un pericolo si profila, e a diventare accusatori e nemici come prima si erano mostrati ammiratori e amici. L’uomo è ambiguo, finché non è tutto di Dio.
Io vedo nel fondo dei cuori. Perciò non mi sono fidato degli ammiratori di un’ora, dei credenti dell’attimo. Non sarebbero stati quelli i veri confessori, i testimoni miei. Né Io avevo bisogno di testimoni. Le mie opere testimoniavano per Me e ne testimoniava il Padre, Colui che in eterno è Perfezione e Verità.
Ecco perché Giovanni dice: che non avevo bisogno che altri testimoniasse per Me. Altri che non fosse il Padre e Me stesso.
Nell’uomo non alligna la verità, perciò la sua testimonianza non è verace e duratura. Molti furono coloro che credettero, pochi quelli che perseverarono, pochissimi coloro che testimoniarono per tutta la loro vita, e con la morte, che Io sono il Messia, Figlio vero di Dio vero.
Beatissimi in eterno costoro!»
AMDG et DVM
1582... CCC
Sono un sacerdote dispensato dall’obbligo del celibato e sono sposato
Quesito:
Caro Padre Angelo,
sono un sacerdote dispensato dall’obbligo del celibato e sono sposato.
Cerco di vivere in Grazia di Dio ogni giorno con le notevoli difficoltà di ….
Sono in realtà uno scarto… ma offro tutto al Signore e questo capitale di grazia che viene da questa sofferenza lo offro per la Chiesa e perché venga presto il regno di Dio.
Sto meditando sul significato del mio carattere spirituale sacerdotale indelebile.
Sul catechismo della Chiesa Cattolica è scritto:
1582 Come nel caso del Battesimo e della Confermazione, questa partecipazione alla funzione di Cristo è accordata una volta per tutte. Il sacramento dell’Ordine conferisce, anch’esso, un carattere spirituale indelebile e non può essere ripetuto né essere conferito per un tempo limitato.
1583 Un soggetto validamente ordinato può, certo, per gravi motivi, essere dispensato dagli obblighi e dalle funzioni connessi all’ordinazione o gli può essere fatto divieto di esercitarli, ma non può più ridiventare laico in senso stretto, poiché il carattere impresso dall’ordinazione rimane per sempre. La vocazione e la missione ricevute nel giorno della sua ordinazione, lo segnano in modo permanente.
Dato che mi sento emarginato… vorrei da lei un approfondimento per vivere e capire meglio questo fatto del carattere indelebile.
Vorrei fare molto … ma ora posso solo pregare …e so che non è cosa da poco….
Mi benedica
sono un sacerdote dispensato dall’obbligo del celibato e sono sposato.
Cerco di vivere in Grazia di Dio ogni giorno con le notevoli difficoltà di ….
Sono in realtà uno scarto… ma offro tutto al Signore e questo capitale di grazia che viene da questa sofferenza lo offro per la Chiesa e perché venga presto il regno di Dio.
Sto meditando sul significato del mio carattere spirituale sacerdotale indelebile.
Sul catechismo della Chiesa Cattolica è scritto:
1582 Come nel caso del Battesimo e della Confermazione, questa partecipazione alla funzione di Cristo è accordata una volta per tutte. Il sacramento dell’Ordine conferisce, anch’esso, un carattere spirituale indelebile e non può essere ripetuto né essere conferito per un tempo limitato.
1583 Un soggetto validamente ordinato può, certo, per gravi motivi, essere dispensato dagli obblighi e dalle funzioni connessi all’ordinazione o gli può essere fatto divieto di esercitarli, ma non può più ridiventare laico in senso stretto, poiché il carattere impresso dall’ordinazione rimane per sempre. La vocazione e la missione ricevute nel giorno della sua ordinazione, lo segnano in modo permanente.
Dato che mi sento emarginato… vorrei da lei un approfondimento per vivere e capire meglio questo fatto del carattere indelebile.
Vorrei fare molto … ma ora posso solo pregare …e so che non è cosa da poco….
Mi benedica
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. giustamente il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che un sacerdote non può più ridiventare laico in senso stretto.
Dalla Chiesa viene ridotto allo stato laicale, per cui in via ordinaria non può più celebrare i sacramenti all’interno della comunità cristiana, ma nella sua anima rimane sempre con carattere indelebile conformato a Cristo Capo e buon pastore.
1. giustamente il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che un sacerdote non può più ridiventare laico in senso stretto.
Dalla Chiesa viene ridotto allo stato laicale, per cui in via ordinaria non può più celebrare i sacramenti all’interno della comunità cristiana, ma nella sua anima rimane sempre con carattere indelebile conformato a Cristo Capo e buon pastore.
2. Se ti è proibito di celebrare il culto esterno, tuttavia non ti è proibito di celebrare il culto interno non solo come battezzato e partecipe del sacerdozio comune di tutti i fedeli, ma anche come prete, conformato a Cristo Capo e buon pastore.
I Sacerdoti pregano non solo per devozione personale, ma anche per ufficio, per incarico ricevuto.
Hanno il dovere di farlo. Devono pregare come sacerdoti per il popolo.
Sono incaricati da Dio per questo. Nell’Antico Testamento (cfr. Nm 8,18-19) si legge che devono pregare per la gente (orent pro eis) perché non inciampi nel male (ne sit in populo plaga).
I Sacerdoti pregano non solo per devozione personale, ma anche per ufficio, per incarico ricevuto.
Hanno il dovere di farlo. Devono pregare come sacerdoti per il popolo.
Sono incaricati da Dio per questo. Nell’Antico Testamento (cfr. Nm 8,18-19) si legge che devono pregare per la gente (orent pro eis) perché non inciampi nel male (ne sit in populo plaga).
3. Per illustrare la potenza della preghiera del prete ti presento una pagina molto bella di san Giuseppe Cafasso, definito a suo tempo la perla del clero italiano.
Eccola.
“Ora, se ciò è vero dell’orazione in generale, che sarà di quella fatta per ufficio, da persona espressamente deputata a quella causa per cui si presenta a Dio?
Avete mai posto mente alla differenza che passa tra chi si presenta ad un Sovrano come semplice suddito e privato per implorare un favore, una grazia e chi, rivestito di un potere e sostenuto dalla sua qualità, si fa annunziare e vien ricevuto e sentito coi dovuti riguardi?
Non prega costui, ma rappresenta, non domanda ma concerta, ed è quasi impossibile che le sue raccomandazioni cadano vuote e falliscano.
Tale è, fratelli miei, la condizione nostra sulla terra: finché prega un semplice fedele, è un privato che supplica e domanda mercé, ma allorché preghiamo noi, specialmente all’altare ed ogni qualvolta lo facciamo d’ufficio, ci presentiamo non già come puri supplicanti, ma come persone aventi diritto di rappresentare, di chiedere e concertare.
Figuratevi un tale che sia preso a far da mediatore, e da ambo le parti, come siamo noi; egli non si limita a pregare, ma piuttosto propone, consiglia, persuade e suol dire: questo va fatto, questo no; questo andrebbe bene nel tal modo, in un altro no, sicché facciamolo.
Osservate come parla un ministro d’un sovrano quando va in udienza da lui; non si mette a pregare, al più va via dipingendo e schierando i motivi al suo sovrano; ma tosto conchiude: – Maestà, bisognerà fare così.
Ecco in questi due personaggi la figura d’un sacerdote che si metta a pregare, ecco la differenza tra noi ed il semplice fedele.
E venga pure qualunque dei fedeli, anche buono e santo, se potrà usare un tal linguaggio col suo Signore…!
Ah! se un sacerdote fosse penetrato della sua qualità ed armato di questa fede, quando si mette a pregare! – Signore, dicesse, Voi mi conoscete, io sono il vostro ministro, sono proprio colui al quale avete voluto affidare la missione di rappresentarvi in terra, di impedire i peccati, di salvar anime, di guadagnar peccatori; ora io son qua per trattare con Voi appunto uno di questi affari. Voi lo sapete, v’è quello scandalo, v’è quella anima che non vuol saperne, v’è quella catena che va rotta, v’è quell’opera di vostra gloria che non può andar avanti, tante sono le difficoltà; io ho già fatto quanto ho potuto per indurre, per impedire, per vincere, è inutile, io non basto più, sicché ho dovuto venir da Voi, perchè so che con poco voi finirete ogni cosa.
– Adesso ditemi voi, se Iddio voglia mandar via colle mani vuote un suo ministro che gli parli a questo modo e per un tal affare, quando egli medesimo ne l’ha incaricato, gode ed ha tutto il desiderio che vi riesca!
È impossibile che il Signore voglia dare un rifiuto; è cosa che non può nemmeno concepirsi” (San Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, pp. 409-411).
Eccola.
“Ora, se ciò è vero dell’orazione in generale, che sarà di quella fatta per ufficio, da persona espressamente deputata a quella causa per cui si presenta a Dio?
Avete mai posto mente alla differenza che passa tra chi si presenta ad un Sovrano come semplice suddito e privato per implorare un favore, una grazia e chi, rivestito di un potere e sostenuto dalla sua qualità, si fa annunziare e vien ricevuto e sentito coi dovuti riguardi?
Non prega costui, ma rappresenta, non domanda ma concerta, ed è quasi impossibile che le sue raccomandazioni cadano vuote e falliscano.
Tale è, fratelli miei, la condizione nostra sulla terra: finché prega un semplice fedele, è un privato che supplica e domanda mercé, ma allorché preghiamo noi, specialmente all’altare ed ogni qualvolta lo facciamo d’ufficio, ci presentiamo non già come puri supplicanti, ma come persone aventi diritto di rappresentare, di chiedere e concertare.
Figuratevi un tale che sia preso a far da mediatore, e da ambo le parti, come siamo noi; egli non si limita a pregare, ma piuttosto propone, consiglia, persuade e suol dire: questo va fatto, questo no; questo andrebbe bene nel tal modo, in un altro no, sicché facciamolo.
Osservate come parla un ministro d’un sovrano quando va in udienza da lui; non si mette a pregare, al più va via dipingendo e schierando i motivi al suo sovrano; ma tosto conchiude: – Maestà, bisognerà fare così.
Ecco in questi due personaggi la figura d’un sacerdote che si metta a pregare, ecco la differenza tra noi ed il semplice fedele.
E venga pure qualunque dei fedeli, anche buono e santo, se potrà usare un tal linguaggio col suo Signore…!
Ah! se un sacerdote fosse penetrato della sua qualità ed armato di questa fede, quando si mette a pregare! – Signore, dicesse, Voi mi conoscete, io sono il vostro ministro, sono proprio colui al quale avete voluto affidare la missione di rappresentarvi in terra, di impedire i peccati, di salvar anime, di guadagnar peccatori; ora io son qua per trattare con Voi appunto uno di questi affari. Voi lo sapete, v’è quello scandalo, v’è quella anima che non vuol saperne, v’è quella catena che va rotta, v’è quell’opera di vostra gloria che non può andar avanti, tante sono le difficoltà; io ho già fatto quanto ho potuto per indurre, per impedire, per vincere, è inutile, io non basto più, sicché ho dovuto venir da Voi, perchè so che con poco voi finirete ogni cosa.
– Adesso ditemi voi, se Iddio voglia mandar via colle mani vuote un suo ministro che gli parli a questo modo e per un tal affare, quando egli medesimo ne l’ha incaricato, gode ed ha tutto il desiderio che vi riesca!
È impossibile che il Signore voglia dare un rifiuto; è cosa che non può nemmeno concepirsi” (San Giuseppe Cafasso, Esercizi spirituali al clero, pp. 409-411).
4. Quest’ufficio sacerdotale non ti è stato tolto.
Ce l’hai e con grande umiltà, come del resto per tutti noi, sei chiamato ad esercitarlo.
Come vedi, puoi fare ancora un bene immenso.
È il talento che ti è stato affidato e che devi continuare a far fruttificare e adesso, forse, ancor meglio di prima.
Ce l’hai e con grande umiltà, come del resto per tutti noi, sei chiamato ad esercitarlo.
Come vedi, puoi fare ancora un bene immenso.
È il talento che ti è stato affidato e che devi continuare a far fruttificare e adesso, forse, ancor meglio di prima.
Ti ricordo volentieri al Signore e ti benedico.
Padre Angelo
Padre Angelo
domenica 31 maggio 2020
CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Domenica, 31 maggio 2009
Domenica, 31 maggio 2009
Cari fratelli e sorelle!
Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, viviamo nella fede il mistero che si compie sull’altare, partecipiamo cioè al supremo atto di amore che Cristo ha realizzato con la sua morte e risurrezione. L’unico e medesimo centro della liturgia e della vita cristiana – il mistero pasquale – assume poi, nelle diverse solennità e feste, “forme” specifiche, con ulteriori significati e con particolari doni di grazia. Tra tutte le solennità, la Pentecoste si distingue per importanza, perché in essa si attua quello che Gesù stesso aveva annunciato essere lo scopo di tutta la sua missione sulla terra. Mentre infatti saliva a Gerusalemme, aveva dichiarato ai discepoli: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). Queste parole trovano la loro più evidente realizzazione cinquanta giorni dopo la risurrezione, nella Pentecoste, antica festa ebraica che nella Chiesa è diventata la festa per eccellenza dello Spirito Santo: “Apparvero loro lingue come di fuoco… e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,3-4). Il vero fuoco, lo Spirito Santo, è stato portato sulla terra da Cristo. Egli non lo ha strappato agli dèi, come fece Prometeo, secondo il mito greco, ma si è fatto mediatore del “dono di Dio” ottenendolo per noi con il più grande atto d’amore della storia: la sua morte in croce.
Dio vuole continuare a donare questo “fuoco” ad ogni generazione umana, e naturalmente è libero di farlo come e quando vuole. Egli è spirito, e lo spirito “soffia dove vuole” (cfr Gv 3,8). C’è però una “via normale” che Dio stesso ha scelto per “gettare il fuoco sulla terra”: questa via è Gesù, il suo Figlio Unigenito incarnato, morto e risorto. A sua volta, Gesù Cristo ha costituito la Chiesa quale suo Corpo mistico, perché ne prolunghi la missione nella storia. “Ricevete lo Spirito Santo” – disse il Signore agli Apostoli la sera della risurrezione, accompagnando quelle parole con un gesto espressivo: “soffiò” su di loro (cfr Gv 20,22). Manifestò così che trasmetteva ad essi il suo Spirito, lo Spirito del Padre e del Figlio. Ora, cari fratelli e sorelle, nell’odierna solennità la Scrittura ci dice ancora una volta come dev’essere la comunità, come dobbiamo essere noi per ricevere il dono dello Spirito Santo. Nel racconto, che descrive l’evento di Pentecoste, l’Autore sacro ricorda che i discepoli “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”. Questo “luogo” è il Cenacolo, la “stanza al piano superiore” dove Gesù aveva fatto con i suoi Apostoli l’Ultima Cena, dove era apparso loro risorto; quella stanza che era diventata per così dire la “sede” della Chiesa nascente (cfr At 1,13). Gli Atti degli Apostoli tuttavia, più che insistere sul luogo fisico, intendono rimarcare l’atteggiamento interiore dei discepoli: “Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera” (At 1,14). Dunque, la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo; e presupposto della concordia è la preghiera.
Questo, cari fratelli e sorelle, vale anche per la Chiesa di oggi, vale per noi, che siamo qui riuniti. Se vogliamo che la Pentecoste non si riduca ad un semplice rito o ad una pur suggestiva commemorazione, ma sia evento attuale di salvezza, dobbiamo predisporci in religiosa attesa del dono di Dio mediante l’umile e silenzioso ascolto della sua Parola. Perché la Pentecoste si rinnovi nel nostro tempo, bisogna forse – senza nulla togliere alla libertà di Dio – che la Chiesa sia meno “affannata” per le attività e più dedita alla preghiera. Ce lo insegna la Madre della Chiesa, Maria Santissima, Sposa dello Spirito Santo. Quest’anno la Pentecoste ricorre proprio nell’ultimo giorno di maggio, in cui si celebra solitamente la festa della Visitazione. Anche quella fu una sorta di piccola “pentecoste”, che fece sgorgare la gioia e la lode dai cuori di Elisabetta e di Maria, una sterile e l’altra vergine, divenute entrambe madri per straordinario intervento divino (cfr Lc 1,41-45).
La musica e il canto, che accompagnano questa nostra liturgia, ci aiutano anch’essi ad essere concordi nella preghiera, e per questo esprimo viva riconoscenza al Coro del Duomo e alla Kammerorchester di Colonia. Per questa liturgia, nel bicentenario della morte di Joseph Haydn, è stata infatti scelta molto opportunamente la sua Harmoniemesse, l’ultima delle “Messe” composte dal grande musicista, una sublime sinfonia per la gloria di Dio. A voi tutti convenuti per questa circostanza rivolgo il mio più cordiale saluto.
Per indicare lo Spirito Santo, nel racconto della Pentecoste gli Atti degli Apostoli utilizzano due grandi immagini: l’immagine della tempesta e quella del fuoco. Chiaramente san Luca ha in mente la teofania del Sinai, raccontata nei libri dell’Esodo (19,16-19) e del Deuteronomio (4,10-12.36). Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l’uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta è descritta come “vento impetuoso”, e questo fa pensare all’aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso. Quello che l’aria è per la vita biologica, lo è lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale. Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria – e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorità –, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito. Sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre società - ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna - a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà. Anche questo è libertà, si dice, senza riconoscere che tutto ciò inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa libertà. La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che è l’amore!
L’altra immagine dello Spirito Santo che troviamo negli Atti degli Apostoli è il fuoco. Accennavo all’inizio al confronto tra Gesù e la figura mitologica di Prometeo, che richiama un aspetto caratteristico dell’uomo moderno. Impossessatosi delle energie del cosmo – il “fuoco” – l’essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il Creatore dell’universo. L’uomo non vuole più essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto. Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di Lui si è costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre. Nelle mani di un uomo così, il “fuoco” e le sue enormi potenzialità diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l’umanità stessa, come dimostra purtroppo la storia. A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite.
Si potrebbero in verità trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realtà di ogni giorno. La Sacra Scrittura ci rivela che l’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello “spirito di Dio che aleggiava sulle acque” (Gn 1,2) all’inizio della creazione. E Gesù Cristo ha “portato sulla terra” non la forza vitale, che già vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioè l’amore di Dio che “rinnova la faccia della terra” purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte (cfr Sal 103/104,29-30). Questo “fuoco” puro, essenziale e personale, il fuoco dell’amore, è disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell’opera rinnovatrice di Cristo.
Infine, un ultimo pensiero si ricava ancora dal racconto degli Atti degli Apostoli: lo Spirito Santo vince la paura. Sappiamo come i discepoli si erano rifugiati nel Cenacolo dopo l’arresto del loro Maestro e vi erano rimasti segregati per timore di subire la sua stessa sorte. Dopo la risurrezione di Gesù questa loro paura non scomparve all’improvviso. Ma ecco che a Pentecoste, quando lo Spirito Santo si posò su di loro, quegli uomini uscirono fuori senza timore e incominciarono ad annunciare a tutti la buona notizia di Cristo crocifisso e risorto. Non avevano alcun timore, perché si sentivano nelle mani del più forte. Sì, cari fratelli e sorelle, lo Spirito di Dio, dove entra, scaccia la paura; ci fa conoscere e sentire che siamo nelle mani di una Onnipotenza d’amore: qualunque cosa accada, il suo amore infinito non ci abbandona. Lo dimostra la testimonianza dei martiri, il coraggio dei confessori della fede, l’intrepido slancio dei missionari, la franchezza dei predicatori, l’esempio di tutti i santi, alcuni persino adolescenti e bambini. Lo dimostra l’esistenza stessa della Chiesa che, malgrado i limiti e le colpe degli uomini, continua ad attraversare l’oceano della storia, sospinta dal soffio di Dio e animata dal suo fuoco purificatore. Con questa fede e questa gioiosa speranza ripetiamo oggi, per intercessione di Maria: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra!”.
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