sabato 14 marzo 2020

PARLO DEI SACERDOTI


Dai quaderni
  • Ora parlo dei sacerdoti, di coloro che hanno l'onore sublime di perpetuare dall'altare il mio Sacrificio, di toccare Me, di ripetere il mio Vangelo.
    Dovrebbero essere fiamme. Invece sono fumo. Fanno stancamente quello che devono fare. Non si amano fra loro e non amano voi come pastori che devono essere pronti a dare tutti se stessi, anche sino al sacrificio della vita, per le loro pecorelle. Vengono al mio altare con il cuore colmo di sollecitudini della terra. Mi consacrano con la mente altrove e neanche la mia Comunione accende nel loro spirito quella carità che deve essere viva in tutti ma che nei miei sacerdoti deve essere vivissima. 14.6.43
  • .
  • Troppo pochi i veri sacerdoti che spezzano se stessi per prodigarsi ai loro figli! Mai come adesso è necessario pregare il Padrone della messe, perché mandi “veri” operai alla sua messe che cade sciupata perché non è sufficiente il numero dei veri instancabili operai, sui quali il mio occhio si posa con benedizioni e amore infiniti e grati. (…)
    Quanti più veri sacerdoti saranno nel mondo quando i tempi saranno compiuti, meno lungo e crudele sarà il tempo dell'Anticristo e le ultime convulsioni della razza umana.14.6.43

  • Uno dei maggiori dolori che Io abbia, è quello di vedere come il razionalismo sia infiltrato nei cuori, anche nei cuori che si dicono miei. Sarebbe inutile mettere a parte di tanto dono i sacerdoti. Proprio tra questi si trovano quelli che, predicando Me e i miei passati miracoli, negano la Potenza mia, quasi Io non fossi più il Cristo capace di parlare ancora alle anime che  languono per mancanza della mia Parola, quasi ammettendo la mia incapacità attuale al miracolo e la potenza della grazia in un cuore.

  • Credere è segno di purezza oltre che di fede. Credere è intelligenza oltre che fede. Chi crede in purezza e in intelligenza distingue la mia Voce e la raccoglie. (…)
    Non pensano che Io possa avere altro da dire, atto ai bisogni dei tempi, e che sono Padrone di dirlo come e a chi mi piace, poiché Io sono il Dio e il Verbo eterno che mai non cessa d’essere Parola del Padre. Tento le ultime prove per infiammare le anime che non sono più anime vive ma automi dotati di moto, ma non d’intelligenza e carità.
    Il mio operare, dal principio di questo secolo, è un miracolo di Carità per tentare la 2° salvezza del genere umano, specie delle anime sacerdotali senza le quali la salvezza di molti è impossibile. Mi sostituisco Io ai pulpiti vuoti o suonanti parole senza vita vera. Ma pochi sono coloro che sono degni di capirmi, pochi anche tra i miei ministri. (…)
    Meno scienza e più carità. Meno libri e più Vangelo. E luce nelle anime perché Io sono Luce. Sgomberare tutto per far posto alla Luce. 18.7.43

  • Quando il tempo verrà, molte stelle saranno travolte dalle spire di Lucifero che per vincere ha bisogno di diminuire le luci delle anime.
    Ciò potrà avvenire perché non solo i laici, ma anche gli ecclesiastici hanno perso e perdono sempre più quella fermezza di fede, di carità, di forza, di purezza, di distacco dalle seduzioni del mondo, necessarie per rimanere nell’orbita della luce di Dio.
    Comprendi chi sono le stelle di cui parlo? Sono quelli che Io ho definito sale della terra e luce del mondo: i miei ministri. Studio dell’acuta malizia di Satana è di spegnere, travolgendoli, questi luminari che sono luci riflettenti la mia Luce alle turbe. (…)
    Non morrà la Chiesa perché Io sarò con essa, ma conoscerà ore di tenebre e orrore simili a quelle della mia Passione, moltiplicate nel tempo perché così deve essere.
    Deve essere che la Chiesa soffra quanto sofferse il suo Creatore, avanti di morire per risuscitare in forma eterna. 23.7.43
AMDG et DVM

Profezie del Monaco Paisios su Anticristo e Armagheddon

IL VOLTO SANTO

Indizi della risurrezione di Gesù

Il Velo di Manoppello


È in Abruzzo dal XVII secolo la “Veronica” romana, “vera icona” di Cristo “non fatta da mani d’uomo”. Un’immagine che mostra il volto di una persona reale


di Lorenzo Bianchi

San Michele Arcangelo a Manoppello, chiesa edificata nel 1630 che dal 1638 ospita il Velo del Volto Santo. Negli anni Sessanta del secolo scorso è stata praticamente rifatta; la facciata risale a questo periodo
San Michele Arcangelo a Manoppello, chiesa edificata nel 1630 che dal 1638 ospita il Velo del Volto Santo. Negli anni Sessanta del secolo scorso è stata praticamente rifatta; la facciata risale a questo periodo
«Nel tempo di Giulio II, pontefice romano, circa gli anni del Signore 1506, [...] viveva in Manoppello, terra molto civile e ben situata, di tutte le cose necessarie all’umano vivere ricca e opulenta, nell’Abruzzo Citeriore, provincia del regno di Napoli, Giacom’Antonio Leonelli, dottore fisico [...]. Se ne stava un giorno Giacom’Antonio Leonelli in pubblica piazza e quasi sulla porta della chiesa matrice il cui titolo è di San Nicola di Bari, in onesta conversazione con altri suoi pari; nel più bello del discorso vi arrivò un pellegrino da nessuno conosciuto, d’aspetto religioso e molto venerando, il quale, salutato che ebbe una così bella corona di cittadini, disse con termini di creanza e umanità al Dottor Giacom’Antonio Leonelli di dovergli parlare di una cosa segreta e a lui di molto gusto, utile e profitto. Tiratoselo così da parte sin dentro i liminari di essa chiesa di San Nicola, gli diede un fardelletto e, senza svolgerlo, gli disse che si tenesse molto cara quella devozione, perché Dio gli avrebbe fatto molti favori e avrebbe sempre prosperato e nelle cose temporali e quelle spirituali. Preso Giacom’Antonio il fardelletto, appartatosi verso il fonte dell’acqua benedetta, cominciò ad aprirlo. Vista quella Sacratissima Immagine del Volto di Cristo Signore nostro, restò, a prima vista, alquanto spaventato, prorompendo in tenerissime lacrime che poi raffreddò per non apparire così ai suoi amici. Ringraziando Dio di un tanto dono, riavvolse l’immagine come era prima, si rivolse poi allo sconosciuto pellegrino per ringraziarlo e accoglierlo nella sua casa, ma non lo vide più. Spaventato, quasi balbettando, domandò agli amici, i quali affermarono di averlo veduto entrare con lui in chiesa, ma non averlo visto uscire da essa. Pieno di meraviglia, lo fece diligentemente cercare dentro e fuori di Manoppello, ma non fu possibile rintracciarlo, onde tutti giudicarono quell’uomo sotto l’aspetto di pellegrino essere un Angelo del cielo o altro Santo del Paradiso».
Così è raccontato, con tratti a tutta evidenza leggendari, l’arrivo a Manoppello del Velo del Volto Santo nella Relatione historica di padre Donato da Bomba, composta tra il 1640 e il 1646. Da qui in poi quanto detto nella Relatione è storicamente certa: validità storica: nel 1618 Marzia Leonelli, figlia ed erede di Giacom’Antonio, vendette il velo a Donat’Antonio de Fabritiis, che a sua volta nel 1638 lo donò ai Cappuccini insediati a Manoppello. Nel 1646 un atto notarile autentica la donazione. Il Velo, molto danneggiato e sfilacciato, viene ripulito, ritagliato e sistemato in una cornice, come ancora dice la Relatione: «l’istesso padre Clemente, pigliate le forbici, tagliò via tutti quelli stracciarelli d’intorno, e purificando molto bene la Santissima Immagine dalle polveri, tignuole e altre immondizie, la ridusse alla fine come adesso appunto si trova. Il sopraddetto Donat’Antonio, desideroso di godersi quella Santissima Immagine con maggior devozione la fece stendere in un telaio di legno, con cristalli dall’una e dall’altra parte, ornata con certe cornicette e lavori di noce da un nostro frate cappuccino chiamato frate Remigio da Rapino (non fidandosi di altri maestri secolari)».
Cornice e vetri sono gli stessi che tuttora compongono l’ostensorio che contiene il Velo del Volto Santo, esposto all’interno del santuario che lo ospita, poco fuori Manoppello (in provincia di Pescara ma nella diocesi di Chieti).

Un’immagine unica
Le caratteristiche del Velo e dell’immagine che vi appare sopra sono uniche. Il Velo, delle dimensioni di 17,5 per 24 centimetri (ma originariamente più grande, come ci dice la Relatione; quanto fosse più grande però non lo sappiamo), è fabbricato con tessitura finissima (anche se si percepiscono alcune imperfezioni nella trama) con fili di circa un millimetro e un intervallo di spazio tra l’uno e l’altro di circa due millimetri; appare di colore bruno dorato, a seconda della prospettiva di visuale e dell’illuminazione, ed è trasparente. Si è fatta l’ipotesi, per via del colore e della trasparenza, che sia fabbricato con bisso marino, cioè formato dai filamenti lavorati di un mollusco denominato Pinna nobilis. Il bisso marino è un tessuto finissimo dallo splendore simile a quello della seta, alla quale si rassomiglia anche al tatto, risultando di leggerezza quasi impalpabile. L’ipotesi sul tessuto è stata sostenuta nel 2004 da Chiara Vigo, una delle ultime tessitrici di questo materiale, ma attende ancora una definitiva conferma, che potrà essere data, se non dal diretto esame tattile (ora non possibile a causa della sistemazione del velo tra due vetri), da indagini morfologiche e strutturali compiute con strumentazione adeguata.
Sul Velo è impresso un volto dalla fronte alta, con i capelli che cadono fin sulle spalle, con baffi radi e barba bipartita. Gli occhi hanno una posizione particolare: guardano leggermente in alto mostrando il bianco del globo oculare sotto la pupilla. Il volto non è visibile osservando il velo in trasparenza, ma solo ponendolo contro uno sfondo; e, cosa singolare, l’immagine appare specularmente e con la medesima intensità di colore da entrambi i lati da cui lo si può osservare, fronte e retro. Si comporta all’apparenza, insomma, come una pellicola fotografica positiva. Il volto è chiaramente asimmetrico, con un lato maggiormente rigonfio; e si distinguono delle macchie che potrebbero essere interpretate come sangue, in particolare presso la bocca e il naso, che appare come tumefatto. Tali macchie sono bidimensionali e senza riferimenti al rilievo del volto.
A – il volto della Sindone di Torino;<BR> 
B – sovrapposizione del volto del Velo di Manoppello sul volto della Sindone;<BR>
C – il volto del Velo di Manoppello<BR> 
(Blandina Paschalis Schlömer)
A – il volto della Sindone di Torino;
B – sovrapposizione del volto del Velo di Manoppello sul volto della Sindone;
C – il volto del Velo di Manoppello
(Blandina Paschalis Schlömer)
Ricerche iconografiche e storiche
La tradizione popolare ha per più di quattrocento anni venerato come una reliquia il Volto Santo di Manoppello, attribuendogli il carattere di acheiropoietos (termine greco che vuol dire “non fatto da mano d’uomo”), ma solamente negli ultimi anni del secolo scorso sono state avviate indagini sull’oggetto. E queste indagini hanno dato finora risultati sicuramente ancora molto parziali, ma certo anche sorprendenti, che investono la storia e la natura stessa dell’immagine del Volto Santo.
Negli studi di suor Blandina Paschalis Schlömer, allo stesso tempo pittrice e studiosa di icone, si sostiene lo strettissimo rapporto tra l’immagine del Velo di Manoppello e il volto impresso sulla Sindone (un’immagine, quest’ultima, determinata dalla ossidazione delle più superficiali fibrille del lino di cui il lenzuolo è composto, e di cui le indagini scientifiche svolte nel corso degli ultimi cento anni non sono ancora riuscite, come è noto, a determinare la causa). Un rapporto talmente stretto da permettere la totale compatibilità in sovrapposizione del Volto Santo con il volto della Sindone (e, in aggiunta, una piena compatibilità anche con le macchie di sangue del Sudario di Oviedo), secondo una numerosa serie di punti di contatto. Nello stesso tempo, esistono due fondamentali differenze tra le due immagini: innanzitutto la Sindone presenta gli occhi chiusi e il volto appare più rigido e ossuto, mentre il Volto Santo ha gli occhi aperti e appare più disteso; in secondo luogo, non tutte le ferite che appaiono sulla Sindone appaiono anche sul Volto Santo, e quelle che vi appaiono hanno dimensioni geometriche minori e sembrano comunque più sfumate.
L’osservazione di questa corrispondenza tra le due immagini ha innanzitutto condotto a riconsiderare la storia della trasmissione iconografica del volto di Cristo, in Oriente e in Occidente, oltre che di individuare il percorso del Volto Santo nei secoli precedenti il suo improvviso e misterioso arrivo a Manoppello. Il 31 maggio del 1999, il gesuita professor Heinrich Pfeiffer, uno dei massimi esperti di arte cristiana (insegna Storia dell’arte presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma), dopo anni di verifiche comunicò, presso l’Associazione della Stampa estera a Roma, il risultato delle sue ricerche, che cioè era stata ritrovata la Veronica romana, la famosa immagine del volto di Cristo acheiropoietos, nota a Roma tra XII e XVII secolo quando, custodita nella Basilica Vaticana, veniva periodicamente esposta alla venerazione dei fedeli. Immagine che una tradizione attribuiva all’episodio della donna – chiamata appunto Veronica, nome da interpretarsi probabilmente come la corruzione dei termini vera icona, “vera immagine” – che avrebbe asciugato con un panno il volto di Gesù durante la salita al Calvario.
L’icona del Sancta Sanctorum al Laterano, nota dalle fonti antiche come “acheropsita”. Dall’VIII al XII secolo vi era sovrapposto, secondo l’ipotesi di padre Heinrich Pfeiffer, il velo attualmente conservato a Manoppello, noto poi a Roma come la “Veronica” (“vera icona”)
L’icona del Sancta Sanctorum al Laterano, nota dalle fonti antiche come “acheropsita”. Dall’VIII al XII secolo vi era sovrapposto, secondo l’ipotesi di padre Heinrich Pfeiffer, il velo attualmente conservato a Manoppello, noto poi a Roma come la “Veronica” (“vera icona”)
«Il Volto Santo è la Veronica romana»
Sulle ragioni di questa identificazione con la reliquia un tempo più famosa della stessa Sindone, padre Pfeiffer ha già scritto anche su queste pagine (H. Pfeiffer, Ma la “Veronica” è a Manoppello, in 30Giorni, n. 5, maggio 2000, pp. 78-79), sostenendo con argomentazioni più che convincenti che la Veronica – che ci viene descritta dalle fonti medievali come un telo finissimo trasparente con l’immagine visibile da entrambi i lati – venne trafugata in una data imprecisata da Roma all’inizio del XVII secolo (un’altra ipotesi, fatta in base a documentazione d’archivio e considerazioni storiche da Saverio Gaeta retrodaterebbe questo passaggio all’occasione del Sacco di Roma del 1527, lasciando comunque inalterata la sostanza delle cose), comparendo a Manoppello tra 1608 e 1618, in accordo con la documentazione storica locale depurata dai tratti leggendari.
Riassumiamo brevemente alcuni dati fondamentali proposti da Pfeiffer per questa identificazione. Innanzitutto la Veronica che tuttora si conserva in San Pietro in Vaticano non mostra più alcuna immagine: i pochi studiosi del passato che poterono osservarla da vicino, come il De Waal e il Wilpert (ricordiamo che dal XVII secolo il telo presente a Roma non viene più esposto al pubblico), vi videro solo qualche macchia brunastra; anche chi ha potuto recentemente osservarla (ivi compreso il pontefice Giovanni Paolo II) non vi ha trovato traccia di immagine.
In secondo luogo il telo attualmente a Roma non è affatto trasparente, mentre il reliquiario del 1350 che conteneva la Veronica a Roma, tuttora conservato nel tesoro della Basilica Vaticana, costituito da due vetri di cristallo di rocca, era destinato evidentemente a un oggetto che poteva essere esposto da entrambi i lati. Questo reliquiario, di forma quadrata e dalle dimensioni compatibili con il velo di Manoppello, del quale è di poco più grande (ma abbiamo visto che il velo fu ritagliato) fu poi sostituito prima da un altro, alla metà del XVI secolo (ora perduto), e poi da quello attuale: un documento ci testimonia della solenne nuova collocazione della reliquia – cioè, come si ipotizza, del falso che la sostituisce – il 21 marzo 1606 in una nicchia ricavata all’interno del pilone della cupola detto appunto “della Veronica”. Come si legge in un elenco dell’archivista di San Pietro Giacomo Grimaldi datato 1618, il reliquiario del 1350 ha i vetri rotti: e un residuo, interpretato come vetro, si nota tuttora incollato sul bordo inferiore del velo di Manoppello. Similmente a quanto si è già detto a proposito delle indagini sulla natura fisica del tessuto con cui è fabbricato il velo, l’attuale impossibilità di rimuoverlo dall’ostensorio che ora lo contiene non ha ancora potuto fornire la certezza dell’identità materica di questo frammento con quanto resta del reliquario vaticano del 1350.
In terzo luogo la Veronica mostrava un volto con gli occhi aperti, come appare in tutte le sue rappresentazioni anteriori al 1616, mentre una copia fatta in quell’anno mostra un volto con gli occhi chiusi. Paolo V di lì a poco vieterà ulteriori copie della reliquia, sotto la pena della scomunica; Urbano VIII nel 1628 ordinerà infine che tutte le copie esistenti, fatte negli ultimi anni, siano distrutte.

Il volto di una persona reale
Ma padre Pfeiffer giunge ancora più oltre con le sue ricerche, che ci permettono di ritenere con grandissima probabilità che il Volto Santo di Manoppello, cioè la Veronica romana, sia uno dei due prototipi, cioè modelli fondamentali, per l’immagine di Cristo. Il secondo modello è la Sindone di Torino. Egli rimarca in particolare che le guance delle immagini del tipo classico di Cristo sono quasi sempre, come avviene per la Sindone e per il Volto Santo, disuguali: il volto è perciò asimmetrico, contrariamente a quanto accade per tutte le raffigurazioni delle divinità antiche, che presentano invece un volto ideale e simmetrico. Il Cristo classico ha dunque un volto personale e individuale; e di questo volto, per la struttura fortemente asimmetrica il modello è la Sindone, o la Sindone insieme con il Volto Santo (le due reliquie, probabilmente, per un certo periodo dovettero, come pensa Pfeiffer, circolare unite); per gli occhi e tutti gli aspetti più vitali, l’unico modello è costituito dal Volto Santo.
Dunque, concludiamo noi, un volto esistito, concreto, reale; non un modello astratto, magari preso a prestito dalla iconografia del filosofo, come spesso capita di leggere o ascoltare da storici dell’arte, cristianisti e anche teologi. Il volto di un uomo di carne, non di un’idea.
La ricerca iconografica porta infine padre Pfeiffer a sostenere l’identificazione, da molti condivisa, della Sindone di Torino con il Mandylion di Edessa, noto in questa città nel 544 al tempo dell’assedio dei Persiani, traslato a Costantinopoli nel 944, da qui scomparso nel 1204 e poi giunto in Occidente; e l’identificazione del Volto Santo di Manoppello con l’immagine del volto di Cristo trasferita da Kamulia (Cappadocia) a Costantinopoli nel 574, di qui sparita verso il 705, al tempo del secondo periodo di regno dell’imperatore Giustiniano II; questo telo finissimo, trasparente, giunto a Roma fu nascosto (forse attaccato sopra l’icona detta “acheropsita” del Sancta Sanctorum del Laterano), quindi sotto Innocenzo III (1198-1216) staccato e portato in San Pietro, con il nome di Veronica.
È ferma convinzione di padre Pfeiffer che il Volto Santo sia un’immagine acheiropoietos: «Prendendo le mosse dalla perfetta sovrapponibilità del volto della Sindone di Torino con il volto di Manoppello, si è indotti ad ammettere che sia l’immagine sul velo sia quella sulla Sindone si siano formate nello stesso tempo. Vale a dire nei tre giorni che vanno dalla sepoltura di Gesù alla sua resurrezione, all’interno del sepolcro. Il Sudario di Manoppello e la Sindone sono le uniche due vere immagini del volto di Cristo dette “acheropite” cioè non realizzate da mani d’uomo» (H. Pfeiffer in P. Baglioni, Bernini o no, è un capolavoro, in 30Giorni, n. 9, settembre 2004, pp. 67-69).
Esiste qualche indizio fisico che possa fare ritenere che, come l’immagine della Sindone è stata prodotta non artificialmente, così anche sia avvenuto per l’immagine del Volto Santo di Manoppello?
Il Velo del Volto Santo di Manoppello all’interno del reliquiario che attualmente lo contiene
Il Velo del Volto Santo di Manoppello all’interno del reliquiario che attualmente lo contiene
Indagini scientifiche in corso
Nel 1998-1999 alcune prime indagini di carattere scientifico sul Volto Santo di Manoppello vennero compiute da Donato Vittore, professore nella Facoltà di Medicina dell’Università di Bari. Il Velo fu indagato con uno scanner digitale ad alta risoluzione; il risultato dichiarato da Vittore fu che nell’interspazio tra il filo dell’ordito e il filo della trama non si evidenziavano residui di colore. Questo gli permise di escludere che il Volto Santo fosse il risultato di una pittura a olio, data l’assenza di deposito di colore, e anche di una pittura ad acquerello, risultando i contorni dell’immagine molto netti nell’occhio e nella bocca e non riscontrandosi sbavature nel disegno come sarebbe avvenuto se il tessuto fosse stato intriso dalla pittura. Di queste indagini si attende ancora una pubblicazione sistematica, ma l’autore le ha illustrate, presentando diverse immagini di dettaglio, in vari convegni, l’ultimo dei quali a Lecce nel marzo 2007.
Stando così le cose, se si rivelasse confermata l’ipotesi, fatta nel 2004, che il tessuto sia composto di bisso marino, fibra liscia e impermeabile, occorrerebbe anche considerare che un simile tessuto è di fatto tecnicamente non pitturabile, poiché il colore tenderebbe a scivolare formando delle croste, che invece sulla tela non appaiono; mentre modifiche del colore potrebbero ottenersi su un simile tessuto per decolorazione (ma certo non con risultati di precisione di disegno simile a quella che si riscontra sul Velo di Manoppello).
Altre indagini in microscopia e spettroscopia sono state poi compiute da Giulio Fanti, professore di Ingegneria meccanica e termica presso l’Università di Padova. L’analisi in luce ultravioletta con la lampada di Wood ha confermato una prova che già era stata svolta nel 1971: né il tessuto né l’immagine del Volto mostrano una fluorescenza apprezzabile, come sarebbe da attendersi in presenza di sostanze di amalgama dei colori, mentre una spiccata fluorescenza appare dove sono evidenti segni di restauro, in corrispondenza degli angoli superiori destro e sinistro. Purtuttavia tracce di sostanze (pigmenti?) sembrano presenti anche su altre parti del Velo. L’analisi in luce infrarossa ha però mostrato anche l’assenza di una bozza preventiva sottostante l’immagine, e l’assenza di correzioni. Una restituzione in 3-D delle immagini acquisite ha mostrato ulteriori punti di corrispondenza tra l’immagine del Velo e quella della Sindone; si è notato infine che, al contrario dell’apparenza, le due immagini (anteriore e posteriore) del Velo non sono perfettamente speculari: ci sono singolari e difficilmente spiegabili differenze in alcuni particolari, tra fronte e retro, dal segno talmente sottile che l’idea che si possa in questo caso parlare di pittura è tecnicamente davvero problematica.
Altre indagini scientifiche sono tuttavia ancora in corso; si attende che possano fornire dati ulteriori in ordine a tre problemi fondamentali: il primo, la precisazione del rapporto di relazione del Velo con la Sindone; il secondo, la modalità di formazione dell’immagine sul Velo; il terzo, se siano due i momenti di questa formazione, uno riferito alle macchie di sangue (se si riveleranno davvero tali), l’altro al volto: la bidimensionalità delle supposte macchie ematiche, svincolate da un riferimento ai tratti a rilievo del volto, postulerebbe infatti due diversi momenti di impressione, esattamente come le indagini hanno dimostrato essere accaduto per la Sindone.
Rileggiamo il Vangelo di Giovanni: potrebbe essere proprio questo velo, “il sudario”, che Pietro e Giovanni videro nel sepolcro, «che gli era stato posto sul capo», e che apparve ai due Apostoli, «non disteso con i teli [cioè con la Sindone], ma, al contrario, avvolto in una posizione unica» (Gv 20, 7). Rimasto, cioè, in posizione rilevata nel posto in cui era stato messo, sopra la Sindone e a contatto con essa, coprendo la zona del capo e del volto di Gesù. E Giovanni, «vide e credette» (Gv 20, 8).

AMDG et DVM

giovedì 12 marzo 2020

Chiesa e post concilio: Quel bambino di 80 anni che non cammina ma sa corr...

Chiesa e post concilio: Quel bambino di 80 anni che non cammina ma sa corr...: Avevo nove anni quando mio padre mi ha portato qui, ora ne ho ottantadue. Così comincia il suo racconto Felice Mangiarano storpio dalla n...

Croce e Salvezza. Bellissima omelia di Papa Benedetto XVI

GRAZIE BENEDETTO!

GRAZIE BENEDETTO!
19 aprile 2005-28 febbraio 2013-2020
OMELIA DEL SANTO PADRE 

Cari fratelli e sorelle!

nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, san Luca sottolinea come Maria e Giuseppe fossero fedeli alla Legge del Signore. Con profonda devozione compiono tutto ciò che è prescritto dopo il parto di un primogenito maschio. Si tratta di due prescrizioni molto antiche: una riguarda la madre e l’altra il bambino neonato.
         Per la donna è prescritto che si astenga per quaranta giorni dalle pratiche rituali, dopo di che offra un duplice sacrificio: un agnello in olocausto e una tortora o un colombo per il peccato; ma se la donna è povera, può offrire due tortore o due colombi (cfr Lv 12,1-8). San Luca precisa che Maria e Giuseppe offrirono il sacrificio dei poveri (cfr 2,24), per evidenziare che Gesù è nato in una famiglia di gente semplice, umile ma molto credente: una famiglia appartenente a quei poveri di Israele che formano il vero popolo di Dio. Per il primogenito maschio, che secondo la Legge di Mosè è proprietà di Dio, era invece prescritto il riscatto, stabilito nell’offerta di cinque sicli, da pagare ad un sacerdote in qualunque luogo. Ciò a perenne memoria del fatto che, al tempo dell’Esodo, Dio risparmiò i primogeniti degli ebrei (cfr Es 13,11-16).
        E’ importante osservare che per questi due atti – la purificazione della madre e il riscatto del figlio – non era necessario andare al Tempio. Invece Maria e Giuseppe vogliono compiere tutto a Gerusalemme, e san Luca fa vedere come l’intera scena converga verso il Tempio, e quindi si focalizzi su Gesù che vi entra. Ed ecco che, proprio attraverso le prescrizioni della Legge, l’avvenimento principale diventa un altro, cioè la “presentazione” di Gesù al Tempio di Dio, che significa l’atto di offrire il Figlio dell’Altissimo al Padre che lo ha mandato (cfr Lc 1,32.35). 
          Questa narrazione dell’Evangelista trova riscontro nella parola del profeta Malachia che abbiamo ascoltato all’inizio della prima Lettura: «Così dice il Signore Dio: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire … Egli purificherà i figli di Levi … perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia» (3,1.3). Chiaramente qui non si parla di un bambino, e tuttavia questa parola trova compimento in Gesù, perché «subito», grazie alla fede dei suoi genitori, Egli è stato portato al Tempio; e nell’atto della sua «presentazione», o della sua «offerta» personale a Dio Padre, traspare chiaramente il tema del sacrifico e del sacerdozio, come nel passo del profeta. Il bambino Gesù, che viene subito presentato al Tempio, è quello stesso che, una volta adulto, purificherà il Tempio (cfr Gv 2,13- 22; Mc 11,15,19 e par.) e soprattutto farà di se stesso il sacrificio e il sommo sacerdote della nuova Alleanza.
       Questa è anche la prospettiva della Lettera agli Ebrei, di cui è stato proclamato un passo nella seconda Lettura, così che il tema del nuovo sacerdozio viene rafforzato: un sacerdozio – quello inaugurato da Gesù – che è esistenziale: «Proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18). E così troviamo anche il tema della sofferenza, molto marcato nel brano evangelico, là dove Simeone pronuncia la sua profezia sul Bambino e sulla Madre: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). La «salvezza» che Gesù porta al suo popolo, e che incarna in se stesso, passa attraverso la croce, attraverso la morte violenta che Egli vincerà e trasformerà con l’oblazione della vita per amore. Questa oblazione è già tutta preannunciata nel gesto della presentazione al Tempio, un gesto certamente mosso dalle tradizioni dell’antica Alleanza, ma intimamente animato dalla pienezza della fede e dell’amore che corrisponde alla pienezza dei tempi, alla presenza di Dio e del suo Santo Spirito in Gesù. 
        Lo Spirito, in effetti, aleggia su tutta la scena della presentazione di Gesù al Tempio, in particolare sulla figura di Simeone, ma anche di Anna. E’ lo Spirito «Paraclito», che porta la «consolazione» di Israele e muove i passi e il cuore di coloro che la attendono. E’ lo Spirito che suggerisce le parole profetiche di Simeone e Anna, parole di benedizione, di lode a Dio, di fede nel suo Consacrato, di ringraziamento perché finalmente i nostri occhi possono vedere e le nostre braccia stringere «la sua salvezza» (cfr 2,30). «Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (2,32): così Simeone definisce il Messia del Signore, al termine del suo canto di benedizione. 
       Il tema della luce, che riecheggia il primo e il secondo carme del Servo del Signore, nel Deutero-Isaia (cfr Is 42,6; 49,6), è fortemente presente in questa liturgia. Essa infatti è stata aperta da una suggestiva processione, a cui hanno partecipato i Superiori e le Superiore Generali degli Istituti di vita consacrata qui rappresentati, che portavano i ceri accesi. Questo segno, specifico della tradizione liturgica di questa Festa, è molto espressivo. Manifesta la bellezza e il valore della vita consacrata come riflesso della luce di Cristo; un segno che richiama l’ingresso di Maria nel Tempio: la Vergine Maria, la Consacrata per eccellenza, portava in braccio la Luce stessa, il Verbo incarnato, venuto a scacciare le tenebre dal mondo con l’amore di Dio.
       Cari fratelli e sorelle consacrati, tutti voi siete stati rappresentati in quel simbolico pellegrinaggio, che nell’Anno della fede esprime ancora di più il vostro convenire nella Chiesa, per essere confermati nella fede e rinnovare l’offerta di voi stessi a Dio. A ciascuno di voi, e ai vostri Istituti, rivolgo con affetto il mio più cordiale saluto e vi ringrazio per la vostra presenza. Nella luce di Cristo, con i molteplici carismi di vita contemplativa e apostolica, voi cooperate alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo. In questo spirito di riconoscenza e di comunione, vorrei rivolgervi tre inviti, affinché possiate entrare pienamente in quella «porta della fede» che è sempre aperta per noi (cfr Lett. ap. Porta fidei, 1).
        Vi invito in primo luogo ad alimentare una fede in grado di illuminare la vostra vocazione. Vi esorto per questo a fare memoria, come in un pellegrinaggio interiore, del «primo amore» con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il vostro cuore, non per nostalgia, ma per alimentare quella fiamma. E per questo occorre stare con Lui, nel silenzio dell’adorazione; e così risvegliare la volontà e la gioia di condividerne la vita, le scelte, l’obbedienza di fede, la beatitudine dei poveri, la radicalità dell’amore. A partire sempre nuovamente da questo incontro d’amore voi lasciate ogni cosa per stare con Lui e mettervi come Lui al servizio di Dio e dei fratelli (cfr Esort. ap. Vita consecrata, 1).
           In secondo luogo vi invito a una fede che sappia riconoscere la sapienza della debolezza. Nelle gioie e nelle afflizioni del tempo presente, quando la durezza e il peso della croce si fanno sentire, non dubitate che la kenosi di Cristo è già vittoria pasquale. Proprio nel limite e nella debolezza umana siamo chiamati a vivere la conformazione a Cristo, in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo, la perfezione escatologica (ibid., 16). Nelle società dell’efficienza e del successo, la vostra vita segnata dal «minorità» e dalla debolezza dei piccoli, dall’empatia con coloro che non hanno voce, diventa un evangelico segno di contraddizione.
          Infine, vi invito a rinnovare la fede che vi fa essere pellegrini verso il futuro. Per sua natura la vita consacrata è pellegrinaggio dello spirito, alla ricerca di un Volto che talora si manifesta e talora si vela: «Faciem tuam, Domine, requiram» (Sal 26,8). Questo sia l’anelito costante del vostro cuore, il criterio fondamentale che orienta il vostro cammino, sia nei piccoli passi quotidiani che nelle decisioni più importanti. Non unitevi ai profeti di sventura che proclamano la fine o il non senso della vita consacrata nella Chiesa dei nostri giorni; piuttosto rivestitevi di Gesù Cristo e indossate le armi della luce – come esorta san Paolo (cfr Rm 13,11-14) – restando svegli e vigilanti. 
San Cromazio di Aquileia scriveva: «Allontani da noi il Signore tale pericolo affinché mai ci lasciamo appesantire dal sonno dell’infedeltà; ma ci conceda la sua grazia e la sua misericordia, perché possiamo vegliare sempre nella fedeltà a Lui. Infatti la nostra fedeltà può vegliare in Cristo» (Sermone 32, 4).
Cari fratelli e sorelle, la gioia della vita consacrata passa necessariamente attraverso la partecipazione alla Croce di Cristo. Così è stato per Maria Santissima. La sua è la sofferenza del cuore che forma un tutt’uno col Cuore del Figlio di Dio, trafitto per amore. Da quella ferita sgorga la luce di Dio, e anche dalle sofferenze, dai sacrifici, dal dono di se stessi che i consacrati vivono per amore di Dio e degli altri si irradia la stessa luce, che evangelizza le genti. In questa Festa, auguro in modo particolare a voi consacrati che la vostra vita abbia sempre il sapore della parresia evangelica, affinché in voi la Buona Novella sia vissuta, testimoniata, annunciata e risplenda come Parola di verità (cfr Lett. ap. Porta fidei, 6). Amen.

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