Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l’etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell’Antico Testamento.
Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr., per es., Mc 10,19; Lc 16,17); il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,17s). Su questa frase, che solo in apparenza è in contraddizione con il messaggio paolino, dovremo tornare dopo il dialogo tra Gesù e il rabbino. Intanto è sufficiente notare che Gesù non pensa di abolire il Decalogo, al contrario: lo rafforza.
Ma allora che cosa sono le Beatitudini? Anzitutto, esse si inseriscono in una lunga tradizione di messaggi veterotestamentari, quali troviamo, per esempio, nel Salmo 1 e nel testo parallelo di Geremia 17,7s: «Benedetto l’uomo che confida nel Signore…». Sono parole di promessa, che nello stesso tempo contribuiscono al discernimento degli spiriti e diventano così parole guida. La cornice data da Luca al Discorso della montagna chiarisce la destinazione particolare delle Beatitudini di Gesù: «Alzati gli occhi verso i suoi discepoli…». Le singole affermazioni delle Beatitudini nascono dallo sguardo verso i discepoli; descrivono per così dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Lc 6,20ss).
Sono da intendere come qualificazioni pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli – di coloro che hanno seguito Gesù e sono diventati la sua famiglia.
Tuttavia la situazione empirica di minaccia incombente in cui Gesù vede i suoi si fa promessa, quando lo sguardo su di essa si illumina a partire dal Padre. Riferite alla comunità dei discepoli di Gesù, le Beatitudini rappresentano dei paradossi: i criteri mondani vengono capovolti non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo. Proprio coloro che secondo criteri mondani vengono considerati poveri e perduti sono i veri fortunati, i benedetti, e possono rallegrarsi e giubilare nonostante tutte le loro sofferenze. Le Beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che Gesù inaugura, il «rovesciamento dei valori».
Sono promesse escatologiche; questa espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente nell’aldilà. Se l’uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri e allora un po’ di éschaton, di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire da Gesù entra gioia nella tribolazione.
I paradossi presentati da Gesù nelle Beatitudini esprimono la vera situazione del credente nel mondo, quale è stata ripetutamente descritta da Paolo alla luce della sua esperienza di vita e di sofferenza da apostolo: «Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6,8-10). «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi… » (2 Cor 4,8-10).
Quello che nelle Beatitudini del Vangelo di Luca è parola di conforto e di promessa, in Paolo è l’esperienza vissuta dell’apostolo. Paolo si sente «messo all’ultimo posto» come un condannato a morte, che è diventato spettacolo per il mondo, senza patria, insultato, calunniato (cfr. 1 Cor 4,9-13). E nonostante ciò egli fa l’esperienza di una gioia infinita; proprio come colui che si è consegnato, che ha dato via se stesso per portare Cristo agli uomini, egli fa esperienza dell’intima connessione di croce e risurrezione: noi siamo messi a morte «perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor 4,11). Nei suoi inviati Cristo continua a soffrire, il suo posto è sempre la croce. Ma tuttavia Egli è irrevocabilmente il Risorto. E anche se l’inviato di Gesù in questo mondo è ancora immerso nella passione di Gesù, vi è tuttavia percepibile lo splendore della risurrezione che procura una gioia, una «beatitudine» più grande della felicità che egli poteva aver provato prima su vie mondane.
Solo adesso egli sa che cos’è la vera «felicità», la vera «beatitudine», e, allo stesso tempo, riconosce quanto fosse misero ciò che, secondo i criteri comuni, deve essere considerato come soddisfazione e felicità.
Nei paradossi dell’esperienza di vita di san Paolo, che corrispondono ai paradossi delle Beatitudini, si manifesta la stessa realtà che Giovanni aveva espresso in modo ancora diverso, qualificando la croce del Signore come «elevazione», intronizzazione nelle altezze di Dio. Giovanni riunisce in una sola parola croce e risurrezione, croce ed elevazione, perché per lui in realtà l’una è inseparabile dall’altra. La croce è l’atto dell’«esodo», l’atto di quell’amore che si prende sul serio fino all’estremo e va sino «alla fine» (Gv 13,1), e per questo essa è il luogo della gloria, il luogo del vero contatto e della vera unione con Dio, che è Amore (cfr. 1 Gv 4,7.16). In questa visione giovannea è quindi ultimamente condensato e reso accessibile alla nostra comprensione ciò che significano i paradossi del Discorso della montagna.
Lo sguardo su Paolo e Giovanni ci ha rese evidenti due verità: le Beatitudini esprimono ciò che significa discepolato. Esse diventano tanto più concrete e reali quanto più completa è la dedizione al servizio da parte del discepolo, come possiamo sperimentare in modo esemplare in Paolo. Il loro significato non può essere spiegato solo in modo teorico: viene proclamato nella vita, nella sofferenza e nella misteriosa gioia del discepolo, che si è donato interamente al seguito del Signore. In questo modo si palesa una seconda evidenza: il carattere cristologico delle Beatitudini. Il discepolo è legato al mistero di Cristo. La sua vita è immersa nella comunione con Lui: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli. Esse, però, hanno valore per il discepolo perché prima sono state realizzate prototipicamente in Cristo stesso.
Questo diventa ancor più evidente se volgiamo la nostra attenzione alla formulazione delle Beatitudini in Matteo (cfr. Mt 5,3-12). Chi legge con attenzione il testo di Matteo si rende conto che le Beatitudini sono come una nascosta biografia interiore di Gesù, un ritratto della sua figura. Egli, che non ha dove posare il capo (cfr. Mt 8,20), è il vero povero; Egli, che può dire di sé: venite a me perché sono mite e umile di cuore (cfr. Mt 11,29), è il vero mite; è il vero puro di cuore e per questo contempla senza interruzione Dio. È l’operatore di pace, è Colui che soffre per amore di Dio: nelle Beatitudini si manifesta il mistero di Cristo stesso, ed esse ci chiamano alla comunione con Lui. Ma proprio per questo nascosto carattere cristologico, le Beatitudini sono dei segnali che indicano la strada anche alla Chiesa, che in esse deve riconoscere il suo modello, indicazioni per la sequela che interessano ogni fedele, benché in modo diverso a seconda della molteplicità delle vocazioni.
Vediamo ora un po’ più da vicino i singoli anelli della catena delle Beatitudini.
In primo luogo troviamo l’espressione enigmatica «poveri di spirito» che tanti hanno provato a decifrare. Questa espressione ricorre nei rotoli di Qumran, dove costituisce l’autodefinizione dei devoti.
Essi si chiamano anche «i poveri della grazia», «i poveri della tua redenzione» o semplicemente «i poveri» (Gnilka I, p. 189). Con questa autodefinizione esprimono la loro consapevolezza di essere il vero Israele; in effetti riprendono con ciò tradizioni profondamente radicate nella fede di Israele.
All’epoca della conquista babilonese della Giudea il 90 per cento degli abitanti della regione doveva essere annoverato tra i poveri; a causa della politica fiscale dei persi, dopo l’esilio si era venuta nuovamente a creare una drammatica situazione di povertà.
L’antica concezione, secondo la quale le cose vanno bene al giusto mentre la povertà è conseguenza di una vita malvagia (rapporto tra agire e qualità della vita), non era più sostenibile. Ora, proprio nella sua povertà, Israele si riconosce vicino a Dio, riconosce che proprio i poveri nella loro umiltà sono vicini al cuore di Dio, al contrario della superbia dei ricchi che contano solo su se stessi.
In molti Salmi si esprime la pietà dei poveri che così è maturata; essi si riconoscono come il vero Israele.
Nella pietà di questi Salmi, nel profondo rivolgersi alla bontà di Dio, nella bontà e nell’umiltà umane, che così si venivano formando, nell’attesa vigile dell’amore salvifico di Dio, si è sviluppata quell’apertura di cuore che ha spalancato le porte a Cristo. Maria e Giuseppe, Simeone e Anna, Zaccaria ed Elisabetta, i pastori di Betlemme, i Dodici chiamati a formare il circolo più ristretto dei discepoli appartengono a questi ambienti, che si distinguono dai farisei e dai sadducei, ma anche – nonostante una certa vicinanza spirituale – da Qumran: in loro ha inizio il Nuovo Testamento, che si sa in unione totale con la fede di Israele, la quale matura in direzione di una purezza sempre maggiore.
Qui è pure già maturato nel silenzio quell’atteggiamento di fronte a Dio che Paolo ha poi sviluppato nella sua teologia della giustificazione: sono uomini che non fanno sfoggio delle loro prestazioni di fronte a Dio.
Non si presentano davanti a Lui come una sorta di soci paritetici in affari, che in cambio delle loro azioni pretendono di essere adeguatamente ricompensati. Sono uomini che sanno di essere anche interiormente poveri, persone che amano, che accettano con semplicità ciò che Dio dona loro e proprio per questo vivono in intimo accordo con l’essenza e la parola di Dio. L’affermazione di santa Teresa di Lisieux, secondo cui ella sarebbe un giorno comparsa davanti a Dio a mani vuote e le avrebbe protese aperte verso di Lui, descrive lo spirito di questi poveri di Dio: giungono con le mani vuote, non con mani che afferrano e tengono stretto, ma con mani che si aprono e donano e così sono pronte per la bontà di Dio che dona.
Stando le cose così, non c’è alcuna contrapposizione tra Matteo, che parla dei poveri di spirito, e Luca, secondo il quale il Signore si rivolge semplicemente ai «poveri». È stato detto che Matteo ha spiritualizzato il concetto di povertà inteso da Luca all’origine in senso esclusivamente materiale e reale, e che in questo modo lo ha privato della sua radicalità. Chi legge il Vangelo di Luca sa perfettamente che proprio lui ci presenta i «poveri di spirito», che erano per così dire il gruppo sociologico in mezzo al quale poteva avere inizio il cammino terreno di Gesù e del suo messaggio. Ed è chiaro, viceversa, che Matteo rimane totalmente nella tradizione della pietà dei Salmi e quindi nella visione dell’Israele autentico, che in essa aveva trovato espressione.
La povertà di cui lì si parla non è mai un fenomeno puramente materiale.
La povertà puramente materiale non salva, anche se di certo gli svantaggiati di questo mondo possono contare in modo molto particolare sulla bontà divina. Ma il cuore delle persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato, malvagio – colmo all’interno di avidità di possesso, dimentico di Dio e bramoso solo di beni materiali.
D’altra parte, la povertà di cui lì si parla non è neanche un atteggiamento puramente spirituale. Certo, la radicalità a noi proposta dalla vita di tanti autentici cristiani, a cominciare dal padre del monachesimo Antonio a Francesco d’Assisi fino ai poveri esemplari del nostro secolo, non è vocazione di tutti.
Ma la Chiesa, per essere comunità dei poveri di Gesù, ha sempre bisogno di persone che sappiano compiere grandi rinunce; ha bisogno delle comunità che le seguano, che vivano la povertà e la semplicità e mostrino così la verità delle Beatitudini per scuotere tutti affinché intendano il possesso solo come servizio, affinché si contrappongano alla cultura dell’avere in nome di una cultura della libertà interiore e creino in questo modo i presupposti della giustizia sociale.
Il Discorso della montagna come tale non è un programma sociale – questo è vero. Ma solo laddove il grande orientamento che ci dà resta vivo nei sentimenti e nell’agire, solo laddove dalla fede deriva la forza della rinuncia e della responsabilità verso il prossimo come verso l’intera società, può crescere anche la giustizia sociale. E la Chiesa nel suo insieme non deve perdere la consapevolezza di dover essere riconoscibile come la comunità dei poveri di Dio. Come l’Antico Testamento si è aperto al rinnovamento verso la Nuova Alleanza a partire dai poveri di Dio, così anche ogni rinnovamento della Chiesa può sempre prendere le mosse solo da coloro in cui vivono la stessa decisa umiltà e la stessa bontà pronta al servizio.
Finora abbiamo riflettuto solo sulla prima metà della prima Beatitudine, «Beati i poveri di spirito»; in Matteo come in Luca la promessa corrispondente è: «vostro (di essi) è il regno di Dio (il regno dei cieli)» (Lc 6,20; Mt 5,3). Il «regno di Dio» è la categoria fondamentale del messaggio di Gesù; qui essa entra nelle Beatitudini: tale contesto è importante per capire correttamente questa espressione molto discussa. L’abbiamo già visto esaminando più da vicino il significato della parola «regno di Dio» e dovremo ricordarlo ancora qualche volta anche nelle riflessioni seguenti.
Ma forse è bene – prima di continuare nella meditazione sul testo – rivolgere ancora per un attimo l’attenzione a quella figura nella storia della fede che ha tradotto tale Beatitudine nell’esistenza umana in modo più intenso: Francesco d’Assisi. I santi sono gli autentici interpreti della Sacra Scrittura. Il significato di un’espressione si rende comprensibile in modo più chiaro proprio nelle persone che ne sono state completamente conquistate e l’hanno realizzata nella propria vita. L’interpretazione della Scrittura non può essere una faccenda puramente accademica e non può essere relegata nell’ambito esclusivamente storico.
La Scrittura porta in ogni suo passo un potenziale di futuro che si dischiude solo quando le sue parole vengono vissute e sofferte fino in fondo. Francesco d’Assisi ha colto la promessa di questa Beatitudine nella sua radicalità estrema – fino al punto di dare via anche il proprio vestito e farsene dare uno dal Vescovo, rappresentante della bontà paterna di Dio, che veste i gigli del campo meglio di come si vestiva Salomone (cfr. Mt 6,28s).
Per Francesco questa umiltà estrema significava soprattutto libertà di servire, libertà per la missione, estrema fiducia in Dio che non provvede solo ai fiori del campo, ma si prende cura proprio dei suoi figli; significava un correttivo alla Chiesa del suo tempo che con il sistema feudale aveva perso la libertà e la dinamica dello slancio missionario; significava un’intima apertura a Cristo a cui, mediante lo strazio delle stigmate, veniva totalmente conformato cosicché ora egli veramente non viveva più se stesso, ma, in quanto persona rinata, esisteva completamente da Cristo e in Cristo. Francesco non aveva intenzione di fondare un Ordine religioso, ma voleva semplicemente radunare di nuovo il popolo di Dio per un ascolto della Parola che non si sottraesse con dotti commenti alla serietà della chiamata.
Tuttavia, con la fondazione del Terz’ordine ha poi accettato la distinzione tra l’impegno radicale e la necessità di vivere nel mondo. Terz’ordine significa accettare in umiltà proprio il compito della professione secolare e delle sue esigenze, laddove ci si trova, ma vivere nello stesso tempo protesi verso la profonda comunione interiore con Cristo, nella quale il santo di Assisi ci ha preceduti. «Avere come se non si avesse» (cfr. 1 Cor 7,29ss): apprendere questa tensione interiore come la sfida forse più difficile e poterla veramente vivere in modo sempre nuovo, sostenuti in ciò da coloro che hanno scelto di seguire Cristo in modo radicale – è questo il senso dei Terz’ordini e in ciò si rivela che cosa può significare la Beatitudine per tutti.
Soprattutto diventa anche evidente in Francesco che cosa vuol dire «regno di Dio». Francesco era collocato totalmente dentro la Chiesa e, d’altra parte, in figure come lui la Chiesa si protende verso la sua meta futura, ma già presente: il regno di Dio si avvicina…
Saltiamo per il momento la seconda Beatitudine del Vangelo di Matteo e andiamo dritti alla terza, che è strettamente legata alla prima: «Beati i miti (mansueti), perché erediteranno la terra» (5,5). Questa affermazione è praticamente la citazione di un Salmo: «I miti invece possederanno la terra» (Sal 37,11).
Nella Bibbia greca la parola praeis (al singolare: prays) («mansueti – miti»), che racchiude in sé una ricca carica di tradizione, è la versione del vocabolo ebraico anawim, con il quale venivano definiti i poveri di Dio, di cui abbiamo parlato nel contesto della prima Beatitudine. Così la prima e la terza Beatitudine vengono in gran parte a coincidere; la terza evidenzia ancora una volta un aspetto essenziale di ciò che significa la povertà vissuta a partire da Dio e nella prospettiva di Dio. Tuttavia lo spettro si amplia ulteriormente, se prendiamo in considerazione alcuni altri testi in cui compare la stessa parola.
Nel Libro dei Numeri si legge: «Mosè era un uomo molto mansueto, più di chiunque altro che è sulla terra» (12,3). Chi non penserebbe in questo contesto alla parola di Gesù: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29)? Cristo è il nuovo, l’autentico Mosè (questo è il pensiero fondamentale sotteso a tutto il Discorso della montagna) – in Lui si rende presente quella pura bontà che si addice proprio a Colui che è grande, che esercita il dominio.
Veniamo condotti ancor più in profondità, se prendiamo in considerazione un ulteriore elemento di rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, che vede ancora al centro la parola prays – mansueto/mite. Nel profeta Zaccaria troviamo la seguente promessa di salvezza: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile [mansueto], cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire i carri […] l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare…» (9,9s). Qui viene annunciato un re povero – uno che non regna per mezzo del potere politico e militare. La sua natura più intima è l’umiltà, la mansuetudine di fronte a Dio e agli uomini.
Questa sua natura, che lo oppone ai grandi re del mondo, si manifesta nel fatto che egli giunge cavalcando un’asina – la cavalcatura dei poveri, immagine contrastante con i carri da guerra che egli esclude. È il re della pace – lo è grazie alla potenza di Dio, non in virtù di un potere proprio. E s’aggiunge ancora un altro aspetto: il suo regno è universale, abbraccia tutta la terra. «Da mare a mare» – dietro questa espressione c’è l’immagine del disco terrestre circondato dalle acque, che ci fa intuire l’estensione universale della sua signoria.
Karl Elliger può quindi dire a ragione che a noi «attraverso tutte le nebbie si rende visibile con singolare nitidezza la figura di Colui […] che ha davvero portato a tutto il mondo la pace, di Colui che, rinunciando nella sua obbedienza di Figlio ad ogni uso della violenza e soffrendo finché il Padre non lo ha salvato dalla sofferenza, è superiore ad ogni ragione e adesso, semplicemente mediante la parola della pace, costruisce continuamente il suo regno…» (ATD 24/25, 151). Solo così comprendiamo tutta la portata del racconto della domenica delle Palme, comprendiamo il significato di quanto ci viene raccontato da Luca (cfr. 19,30) (e in modo simile da Giovanni), ovvero che Gesù ordina ai discepoli di procurargli un’asina con il suo puledro: «Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta. Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina…» (Mt 21,4s; cfr. Gv 12,15).
La traduzione italiana, purtroppo, ha offuscato questa connessione usando per la parola prays di volta in volta parole diverse. Nell’ampio arco di questi testi – dal Libro dei Numeri (cap. 12) a Zaccaria (cap. 9) fino alle Beatitudini e al racconto della domenica delle Palme – diventa riconoscibile la visione di Gesù, re della pace, che forza i confini che dividono i popoli e crea uno spazio di pace «da mare a mare». Con la sua obbedienza ci chiama dentro questa pace, la pianta dentro di noi. La parola «mansueto, mite» appartiene, da una parte, al vocabolario del popolo di Dio, all’Israele divenuto universale in Cristo, ma è allo stesso tempo una parola regale, che ci dischiude la natura della nuova regalità di Cristo. In questo senso potremmo dire che è una parola tanto cristologica quanto ecclesiologica; in ogni caso ci chiama a seguire Colui che, entrando in Gerusalemme sul dorso di un’asina, rende manifesta tutta l’essenza del suo regno.
A questa terza Beatitudine, nel testo del Vangelo di Matteo, è legata la promessa della terra: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». Che cosa significa? La speranza di una terra fa parte del nucleo originario della promessa ad Abramo. Durante la peregrinazione di Israele nel deserto, la terra promessa sta sempre davanti agli occhi come meta del cammino. Durante l’esilio, Israele attende il ritorno nella sua terra. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare che la promessa della terra va chiaramente oltre il semplice concetto del possesso di un pezzo di terra o di un territorio nazionale, quale ogni popolo ha il diritto di avere.
Nella lotta per la liberazione di Israele in vista dell’esodo dall’Egitto, c’è in primo piano anzitutto il diritto alla libertà di adorazione, alla libertà di un proprio culto, e la promessa della terra, nel prosieguo della storia del popolo eletto, viene sempre più chiaramente ad assumere questo significato: la terra viene data affinché ci sia un luogo dell’obbedienza, affinché ci sia uno spazio aperto a Dio e il Paese sia liberato dall’abominio dell’idolatria. Un contenuto essenziale nel concetto di libertà e di terra è il concetto dell’obbedienza verso Dio e così del giusto trattamento del mondo. In questa prospettiva poteva poi essere compreso anche l’esilio, la privazione della terra: era diventata essa stessa un luogo dell’idolatria, della disobbedienza, e in questo modo il possesso della terra veniva a trovarsi in contraddizione con il suo vero senso.
Da ciò poté svilupparsi un’interpretazione nuova, positiva, della diaspora: Israele era disperso in tutto il mondo per fare ovunque spazio a Dio e portare così a compimento il senso della creazione, cui accenna il primo racconto della creazione (cfr. Gn 1,1-2,4). Il sabato è il fine della creazione, indica il suo scopo: essa esiste perché Dio voleva creare un luogo di risposta al suo amore, un luogo di obbedienza e di libertà. In questo modo, nell’accettazione sofferta della storia di Israele con Dio, si è gradualmente ampliata e approfondita l’idea della terra, così da mirare sempre meno al possesso nazionale e sempre più all’universalità del diritto di Dio sul mondo.
Naturalmente, in un primo momento, si può vedere nel rapporto fra «mansuetudine» e promessa della terra anche una normalissima saggezza storica: i conquistatori vanno e vengono. Restano i semplici, gli umili, coloro che coltivano la terra e portano avanti semina e raccolto tra dolori e gioie. Gli umili, i semplici sono, anche dal punto di vista puramente storico, più durevoli dei violenti. Ma vi è di più. La graduale universalizzazione del concetto di terra a partire dai fondamenti teologici della speranza corrisponde anche all’orizzonte universale che abbiamo trovato nella promessa di Zaccaria: la terra del Re della pace non è uno Stato nazionale – si estende «da mare a mare». La pace mira al superamento dei confini e a un mondo rinnovato mediante la pace proveniente da Dio. Il mondo appartiene alla fine ai «mansueti», ai pacifici, ci dice il Signore. Dovrà diventare la «terra del Re della pace».
La terza Beatitudine ci invita a vivere in questa prospettiva.
Per noi cristiani, ogni assemblea eucaristica è un tale luogo in cui il Re della pace esercita la sua signoria. La comunità universale della Chiesa di Gesù Cristo è così un progetto anticipatore della «terra» di domani, che dovrà diventare una terra della pace di Gesù Cristo. Anche in questo punto la terza Beatitudine è in grande consonanza con la prima: nella sua prospettiva diviene fino a un certo punto evidente che cosa significhi «regno di Dio», anche se questa espressione ha una portata che va al di là della promessa della terra.
In questo modo abbiamo ormai anticipato la settima Beatitudine: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Bastino perciò un paio di accenni sintetici su questa parola fondamentale di Gesù. Anzitutto vi si può intuire lo sfondo della storia universale. Nel racconto dell’infanzia di Gesù, Luca aveva lasciato trasparire la contrapposizione tra questo bambino e l’onnipotente imperatore Augusto, che veniva celebrato come «salvatore di tutto il genere umano» e grande portatore di pace. Già precedentemente Cesare aveva preteso il titolo di «pacificatore dell’ecumene». In Israele per i credenti affiora il ricordo di Salomone, nel cui nome è contenuta la parola «shalom», «pace». Il Signore aveva promesso a Davide: «Nei suoi giorni io concederò pace e tranquillità a Israele […] egli sarà figlio per me e io sarò padre per lui» (1 Cr 22,9s). Si evidenzia così una connessione tra filiazione divina e regalità della pace: Gesù è il Figlio, e lo è veramente. Per questo solo Lui è il vero «Salomone» – colui che porta la pace. Stabilire la pace è insito nella natura dell’essere figlio. La settima Beatitudine invita dunque a essere e a fare quello che fa il Figlio, per diventare noi stessi «figli di Dio».
Questo vale anzitutto nel piccolo ambito della vita di ciascuno. Comincia con quella decisione fondamentale che Paolo, in nome di Dio, ci supplica appassionatamente di prendere: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). La discordia con Dio è il punto di partenza di tutti gli avvelenamenti dell’uomo; il suo superamento costituisce il presupposto fondamentale della pace nel mondo.
Solo l’uomo riconciliato con Dio può essere riconciliato e in armonia anche con se stesso e solo l’uomo riconciliato con Dio e con se stesso può portare la pace intorno a sé e in tutto il mondo.
L’eco del contesto politico che si percepisce sia nel racconto lucano dell’infanzia di Gesù sia qui, nelle Beatitudini di Matteo, mostra però l’intera portata di questa parola. Che vi sia pace sulla terra (cfr. Lc 2,14) è volontà di Dio e così è anche un compito affidato all’uomo. Il cristiano sa che il perdurare della pace è legato al fatto che l’uomo si trovi nell’eudokia di Dio, nel suo «beneplacito». L’impegno per stare in pace con Dio è una parte imprescindibile dell’impegno per la «pace sulla terra»; di lì derivano i criteri e le forze necessari per questo impegno. Laddove l’uomo perde di vista Dio, anche la pace decade e la violenza prende il sopravvento con forme di crudeltà prima inimmaginabili: lo vediamo oggi in modo fin troppo chiaro.
Ritorniamo alla seconda Beatitudine: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati». È bene essere afflitti e chiamare beata l’afflizione?
Ci sono due tipi di afflizione: una che ha perso la speranza, che non si fida più dell’amore e della verità e quindi insidia e distrugge l’uomo dall’interno; ma c’è anche l’afflizione che deriva dalla scossa provocata dalla verità e porta l’uomo alla conversione, alla resistenza di fronte al male. Questa afflizione risana, perché insegna all’uomo a sperare e ad amare di nuovo. Un esempio del primo tipo di afflizione è Giuda che – colpito dallo sgomento per la sua caduta – non osa più sperare e si impicca in preda alla disperazione.
Al secondo genere appartiene l’afflizione di Pietro che, colpito dallo sguardo del Signore, scoppia in lacrime risanatrici: solcano il terreno della sua anima. Ricomincia da capo e diventa un uomo nuovo.
Di questo genere di afflizione positiva, che costituisce un potere opposto alla signoria del male, troviamo una toccante testimonianza in Ezechiele 9,4. Sei uomini vengono incaricati di punire Gerusalemme – la terra coperta di sangue, la città piena di violenza (cfr. 9,9). Ma prima un uomo vestito di lino deve disegnare un «tau» (una specie di croce) sulla fronte di coloro «che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono» (9,4) e le persone segnate in quel modo scampano al castigo. Sono persone che non seguono il branco, che non si lasciano coinvolgere con spirito gregario in una ingiustizia divenuta normale, ma ne soffrono. Anche se non sta in loro potere di cambiare la situazione nel suo insieme, oppongono tuttavia al dominio del male la resistenza passiva della sofferenza – l’afflizione che pone un limite al potere del male.
La tradizione ha trovato ancora un’altra immagine di afflizione risanatrice: Maria che sta sotto la croce insieme con la sorella, la moglie di Cleofa, Maria di Magdala e Giovanni. In un mondo pieno di crudeltà e cinismo o di connivenza dettata dalla paura ci troviamo di nuovo di fronte – come nella visione di Ezechiele – alla piccola schiera di persone che restano fedeli; non possono ribaltare la sventura, ma nel loro con-patire si schierano dalla parte del condannato, e con il loro conamare si trovano dalla parte di Dio, che è Amore.
Questa compassione fa pensare alla stupenda parola di san Bernardo di Chiaravalle nel suo commento al Cantico dei Cantici (Ser. 26, n.5): «Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis» – Dio non può patire, ma può compatire. Sotto la croce di Gesù si comprende al meglio la parola: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati». Colui che non indurisce il cuore di fronte al dolore, al bisogno dell’altro, che non apre l’anima al male, ma soffre sotto il suo potere dando così ragione alla verità, a Dio, costui spalanca la finestra del mondo per far entrare la luce. A questi afflitti è promessa la grande consolazione. In questo senso, la seconda Beatitudine è in stretta relazione con l’ottava: «Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
L’afflizione di cui parla il Signore è il non-conformismo col male, è un modo di opporsi a quello che fanno tutti e che s’impone al singolo come modello di comportamento. Il mondo non sopporta questo tipo di resistenza, esige che si partecipi.
Questa afflizione gli sembra una denuncia che si oppone allo stordimento delle coscienze. E lo è. Per questo gli afflitti diventano dei perseguitati a causa della giustizia. Agli afflitti viene promessa consolazione, ai perseguitati il regno di Dio; è la stessa promessa fatta ai poveri in spirito. Le due promesse sono molto vicine: il regno di Dio – stare nella protezione della potenza di Dio ed essere sicuri nel suo amore – questa è la vera consolazione.
E dall’altra parte: solo allora la persona che soffre verrà davvero consolata, solo allora le sue lacrime si esauriranno completamente, quando nessuna violenza omicida potrà più minacciare lei e le persone impotenti di questo mondo; solo allora vi è piena consolazione, quando anche le sofferenze incomprese del passato saranno elevate nella luce di Dio e portate dalla sua bontà a un significato di riconciliazione; la vera consolazione si manifesterà solo quando sarà privato del potere «l’ultimo nemico», la morte (cfr. 1 Cor 15,26) con tutti i suoi complici. Così la parola della consolazione ci aiuta a capire che cosa significhi «regno di Dio» (dei cieli) e, viceversa, il «regno di Dio» ci lascia intravedere quale consolazione il Signore tenga in serbo per tutti gli afflitti e i sofferenti di questo mondo.
A questo punto dobbiamo aggiungere un accenno ulteriore: per Matteo, per i suoi lettori e i suoi ascoltatori, la parola circa i «perseguitati per causa della giustizia» aveva un significato profetico.
Per loro era l’allusione previa fatta dal Signore alla situazione della Chiesa che essi stavano vivendo. La Chiesa era divenuta Chiesa perseguitata, perseguitata «per causa della giustizia». «Giustizia», nel linguaggio dell’Antico Testamento, è l’espressione della fedeltà alla Torah, la fedeltà alla parola di Dio come era sempre stata sollecitata dai profeti. È il perseverare nella via mostrata da Dio, il cui centro è costituito dai Dieci Comandamenti.
L’equivalente del concetto di giustizia dell’Antico Testamento nel Nuovo è la «fede»: il credente è il «giusto», che percorre le vie di Dio (cfr. Sal 1; Ger 17,5-8). Poiché la fede è camminare insieme con Cristo, nel quale si ha il compimento dell’intera Legge, essa ci unisce con la giustizia di Cristo stesso.
Gli uomini perseguitati per causa della giustizia sono coloro che vivono della giustizia di Dio, della fede.
Poiché l’aspirazione dell’uomo mira sempre a emanciparsi dalla volontà di Dio e a seguire solo se stesso, ecco che la fede apparirà sempre come contrapposta al «mondo» – ai poteri di volta in volta dominanti – ed ecco che in tutti i periodi della storia ci sarà persecuzione per causa della giustizia. Alla Chiesa perseguitata di tutti i tempi è rivolta questa parola di consolazione. Nella sua impotenza e nelle sue sofferenze la Chiesa sa di trovarsi là dove viene il regno di Dio.
Se noi dunque possiamo, come nelle Beatitudini precedenti, trovare di nuovo nella promessa una dimensione ecclesiologica, una spiegazione della natura della Chiesa, incontriamo pure nuovamente il fondamento cristologico di queste parole: il Cristo crocifisso è il giusto perseguitato di cui parlano le profezie dell’Antico Testamento, in particolare i canti del servo di Dio, di cui peraltro aveva già avuto un presentimento anche Platone (La Repubblica II 361e-362a). E proprio così Cristo stesso è l’avvento del regno di Dio.
La Beatitudine è un invito alla sequela del Crocifisso – un invito diretto alla singola persona come anche alla Chiesa nel suo insieme.
La Beatitudine dei perseguitati nella frase conclusiva dei Macarismi contiene una variante che ci lascia intravedere qualcosa di nuovo. Gesù promette gioia, giubilo e una grande ricompensa a coloro che «a causa mia saranno insultati, perseguitati e in ogni modo possibile calunniati» (Mt 5,11). Ora il suo Io, lo stare dalla sua parte, diviene criterio della giustizia e della salvezza. Se nelle altre Beatitudini la cristologia è presente per così dire in modo velato, qui l’annuncio di Lui emerge chiaramente come il centro della storia. Gesù attribuisce al suo Io una normatività che nessun maestro di Israele e neppure un dottore della Chiesa può pretendere per sé. Colui che parla in questo modo non è più un profeta in senso tradizionale, ambasciatore e fiduciario di un altro; è Egli stesso punto di riferimento della retta vita, Egli stesso fine e centro.
Nel corso delle meditazioni che seguiranno riconosceremo che questa cristologia diretta è un elemento costitutivo del Discorso della montagna nel suo insieme. Ciò che qui per il momento è stato solo accennato si dispiegherà seguendo il filo del suo svolgimento.
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Ascoltiamo ora la penultima Beatitudine ancora da trattare: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6).
Questa parola è intimamente affine a quella sugli afflitti che troveranno consolazione: come là ricevono una promessa coloro che non si piegano al diktat delle opinioni e delle abitudini dominanti, ma vi si oppongono nella sofferenza, anche in questo caso si tratta di persone che scrutano attorno a sé alla ricerca di ciò che è grande, della vera giustizia, del vero bene. Per la tradizione, l’atteggiamento di cui si sta parlando era riassunto in un’espressione che si trova in un filone del Libro di Daniele. Lì Daniele viene descritto come vir desiderio- rum, uomo dei desideri (9,23 Vlg). Lo sguardo è indirizzato a persone che non si accontentano della realtà esistente e non soffocano l’inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande e lo spinge a intraprendere un cammino interiore – come i Magi dall’Oriente che cercano Gesù, la stella che indica la via verso la verità, verso l’amore, verso Dio. Sono persone dotate di una sensibilità interiore, che le rende capaci di udire e vedere i deboli segnali che Dio manda nel mondo e che in questo modo rompono la dittatura della consuetudine.
Chi non penserebbe qui agli umili santi con i quali l’Antica Alleanza si dischiude alla Nuova e si trasforma in essa? A Zaccaria ed Elisabetta, a Maria e Giuseppe, a Simeone e Anna i quali, ognuno a suo modo, attendono con animo vigile la salvezza di Israele e con la loro umile pietà, con la pazienza della loro attesa e del loro desiderio «preparano le vie» al Signore? Ma come non pensare anche ai dodici Apostoli – a uomini (come vedremo più avanti) di origini spirituali e sociali molto diverse, che però, nel mezzo del loro lavoro, della loro quotidianità, avevano conservato il cuore aperto, che li predispose alla chiamata di Colui che è più grande? O anche allo zelo appassionato di san Paolo per la giustizia, uno zelo male indirizzato, ma che lo prepara a essere gettato a terra da Dio e così condotto a una nuova perspicacia? Potremmo attraversare in questo modo tutta la storia. Edith Stein disse una volta che chi cerca sinceramente e appassionatamente la verità è sulla via di Cristo. Di tali persone parla la Beatitudine – di questa sete e fame che è beata perché conduce l’uomo a Dio, a Cristo e perciò apre il mondo al regno di Dio.
Mi sembra che sia questo il punto in cui, a partire dal Nuovo Testamento, si può dire qualcosa sulla salvezza di coloro che non conoscono Cristo.
Il pensiero contemporaneo tende a dire che ognuno dovrebbe vivere la propria religione, o forse anche l’ateismo in cui si trova. In questo modo arriverebbe alla salvezza. Un’opinione simile presuppone un’immagine molto strana di Dio e una strana idea dell’uomo e del modo corretto dell’essere uomo. Cerchiamo di chiarirci questo punto con un paio di domande pratiche. Forse qualcuno diventa beato e verrà riconosciuto come giusto da Dio perché ha rispettato secondo coscienza i doveri della vendetta del sangue? Perché si è impegnato con forza per la e nella «guerra santa»? O perché ha offerto in sacrificio determinati animali? O perché ha rispettato abluzioni rituali o altre osservanze religiose? Perché ha dichiarato norma di coscienza le sue opinioni e i suoi desideri e in questo modo ha elevato se stesso a criterio? No, Dio esige il contrario: esige il risveglio interiore per il suo silenzioso parlarci, che è presente in noi e ci strappa alle mere abitudini conducendoci sulla via della verità; esige persone che «hanno fame e sete della giustizia» – questa è la via aperta a tutti; è la via che approda a Gesù Cristo.
Rimane ancora il Macarismo: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Mt 5,8). L’organo con cui si può vedere Dio è il cuore: la mera ragione non basta; perché l’uomo possa arrivare a percepire Dio, le forze della sua esistenza devono agire insieme. La volontà deve essere pura e già prima dev’esserlo il fondo affettivo dell’anima, che indirizza la ragione e la volontà. «Cuore» indica appunto questo gioco d’insieme delle forze percettive dell’uomo, in cui è in gioco anche il giusto intreccio di corpo e anima, che appartiene alla totalità della creatura chiamata «uomo». La fondamentale disposizione affettiva dell’uomo dipende proprio anche da questa unità di anima e corpo e dal presupposto che egli accetti insieme il suo essere corpo e il suo essere spirito; che sottometta il corpo alla disciplina dello spirito, senza però isolare la ragione o la volontà ma, accettando se stesso da Dio, riconosca e viva anche la corporeità dell’esistenza come ricchezza per lo spirito. Il cuore – la totalità dell’uomo deve essere pura, intimamente aperta e libera perché l’uomo possa vedere Dio. Teofilo di Antiochia (f 180 circa), nel corso di una disputa con alcuni uomini che lo interrogavano, rispose: «Ma se tu mi dicessi: “Mostrami il tuo Dio”, io ti direi: “Mostrami il tuo uomo” […] Dio infatti è visto da coloro che sono in grado di vederlo, se cioè hanno gli occhi dell’anima aperti […] Come uno specchio lucente, così l’uomo deve avere un’anima pura…» (Ad Autolycum I, 2,7ss: PG VI, 1025.1028)
Così sorge la domanda: come diventa puro l’occhio interiore dell’uomo? Come si può sciogliere la cataratta che annebbia il suo sguardo o alla fine lo acceca del tutto?
La tradizione mistica del «cammino di purificazione», che sale fino alla «unione», ha cercato di dare una risposta a questa domanda. Dobbiamo però leggere le Beatitudini anzitutto nel contesto biblico. Lì incontriamo il tema soprattutto nel Salmo 24, espressione di un’antica liturgia di ingresso al santuario: «Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronuncia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo» (v. 3s). Davanti alla porta del tempio sorge la domanda su chi possa stare lì, vicino al Dio vivente: «Mani innocenti e cuore puro» sono la condizione.
Il Salmo spiega in modi molteplici il contenuto di questa condizione per l’accesso alla dimora di Dio. Una premessa indispensabile è che gli uomini che vogliono entrare nella casa di Dio devono chiedere di Lui, cercare il suo volto (v. 6): appare quindi come condizione di fondo lo stesso atteggiamento che prima abbiamo visto descritto dalle parole «fame e sete della giustizia». Chiedere di Dio, cercare il suo volto – è questo il presupposto basilare per l’ascesa che conduce all’incontro con Dio. Ma già prima, come contenuto del concetto di mani innocenti e cuore puro, viene indicata l’esigenza che l’uomo non pronunzi menzogna e non giuri a danno del suo prossimo: quindi l’onestà, la sincerità, la giustizia nei confronti del prossimo e della società – quello che noi potremmo definire ethos sociale, ma che in realtà arriva a toccare il fondo del cuore.
Il Salmo 15 lo sviluppa ulteriormente, cosicché si può dire: la condizione per l’accesso presso Dio è semplicemente il contenuto essenziale del Decalogo – con l’accento sulla ricerca interiore di Dio, sull’essere in cammino verso di Lui (Prima tavola) e sull’amore per il prossimo, sulla giustizia verso il singolo e verso la comunità (Seconda tavola). Non sono affatto citate condizioni basate specificamente sulla conoscenza che deriva dalla rivelazione, ma il «chiedere di Dio» e i fondamenti della giustizia, che una coscienza vigile – destata appunto grazie alla ricerca di Dio – suggerisce a ciascuno. Le nostre precedenti considerazioni sulla questione della salvezza trovano qui ulteriore conferma.
Sulla bocca di Gesù tuttavia la parola acquista una profondità nuova. Fa parte della sua natura specifica il vedere Dio, lo stare faccia a faccia davanti a Lui, in continuo scambio interiore con Lui – vivere l’esistenza di Figlio. Così l’espressione assume una valenza profondamente cristologica. Noi vedremo Dio quando entreremo nei «sentimenti di Cristo» (Fil 2,5). La purificazione del cuore si realizza nella sequela di Cristo, nell’unificazione con Lui. «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me…» (Gal 2,20). E qui appare ora una cosa nuova: l’ascesa a Dio avviene proprio nella discesa dell’umile servizio, nella discesa dell’amore, che è l’essenza di Dio e quindi la forza veramente purificatrice, che rende l’uomo capace di percepire e di vedere Dio. In Gesù Cristo Dio stesso si è rivelato discendendo: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini […] umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato…» (Fil 2,6-9).
Queste parole segnano una svolta decisiva nella storia della mistica. Mostrano la novità della mistica cristiana, che deriva dalla novità della rivelazione in Gesù Cristo. Dio discende, fino alla morte sulla croce. E proprio così si rivela nella sua autentica divinità. L’ascesa a Dio avviene nell’accompagnarlo in questa discesa. La liturgia di ingresso al santuario del Salmo 24 riceve così un nuovo significato: il cuore puro è il cuore amante che si mette in comunione di servizio e di obbedienza con Gesù Cristo. L’amore è il fuoco che purifica e unisce ragione, volontà, sentimento, che unifica l’uomo in se stesso in virtù dell’azione unificante di Dio, cosicché egli diviene servitore dell’unificazione di coloro che sono divisi: così l’uomo fa il suo ingresso nella dimora di Dio e può vederlo. Ed è questo appunto che significa essere beato.
Dopo questo tentativo di penetrare un po’ più a fondo nella visione interiore delle Beatitudini – sul tema qui non trattato dei «misericordiosi» ci soffermeremo nel contesto della parabola del buon samaritano – dobbiamo proporci brevemente ancora due domande per la comprensione dell’insieme.
In Luca, alle quattro Beatitudini da lui riportate seguono quattro invettive: «Guai a voi, ricchi […] Guai a voi che ora siete sazi […] Guai a voi che ora ridete […] Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6,24-26). Queste parole ci spaventano. Che cosa ne dobbiamo pensare?
Ora, in primo luogo si può constatare che Gesù in questo modo segue lo schema che troviamo anche in Geremia 17 e nel Salmo 1: alla descrizione della retta via che conduce l’uomo alla salvezza si contrappone il segnale di pericolo che smaschera false promesse e false offerte, mirando a impedire all’uomo di intraprendere una strada che finirebbe fatalmente in un precipizio mortale. Ritroveremo la stessa cosa nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro.
Chi ha compreso giustamente i segnali di speranza che abbiamo incontrato nelle Beatitudini riconosce qui facilmente gli atteggiamenti contrari che tengono l’uomo legato a ciò che è apparente, provvisorio e, portandolo alla perdita della sua elevatezza e profondità e così alla perdita di Dio e del prossimo, lo mandano in rovina. Così però diviene comprensibile anche il vero intento di questo segnale di pericolo: le invettive non sono condanne; non sono espressione di odio o invidia o inimicizia. Non si tratta di una condanna, ma di un avvertimento che vuole salvare.
Ma ora si pone la questione fondamentale: è giusta la direzione che ci indica il Signore nelle Beatitudini e nei moniti a esse contrapposti? --- È davvero male essere ricchi, sazi, ridere, essere apprezzati? Per la sua rabbiosa critica del cristianesimo Friedrich Nietzsche ha fatto leva proprio su questo punto. Non sarebbe la dottrina cristiana che si dovrebbe criticare: sarebbe la morale del cristianesimo che bisognerebbe attaccare come «crimine capitale contro la vita». E con «morale del cristianesimo» egli intende esattamente la direzione che ci indica il Discorso della montagna.
«Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: “Guai a coloro che ridono!”?». E contro le promesse di Cristo dice: noi non vogliamo assolutamente il regno dei cieli. «Siamo diventati uomini – vogliamo il regno della terra».
La visione del Discorso della montagna appare come una religione del risentimento, come l’invidia dei codardi e degli incapaci, che non sono all’altezza della vita e allora vogliono vendicarsi esaltando il loro fallimento e oltraggiando i forti, coloro che hanno successo, che sono fortunati. All’ampia prospettiva di Gesù viene contrapposta un’angusta concentrazione sulle realtà di quaggiù: la volontà di sfruttare adesso il mondo e tutte le offerte della vita, di cercare il cielo quaggiù e in tutto ciò non farsi inibire da nessun tipo di scrupolo. ---
Molto di tutto questo è passato nella coscienza moderna e determina in gran parte il modo in cui oggi si percepisce la vita. Così il Discorso della montagna pone la questione dell’opzione fondamentale del cristianesimo e, da figli del nostro tempo, avvertiamo la resistenza interiore contro quest’opzione – anche se non siamo insensibili di fronte all’elogio dei miti, dei misericordiosi, degli operatori di pace, degli uomini sinceri. Dopo le esperienze dei regimi totalitari, dopo il modo brutale con cui essi hanno calpestato gli uomini, schernito, asservito, picchiato i deboli, comprendiamo pure di nuovo coloro che hanno fame e sete di giustizia; riscopriamo l’anima degli afflitti e il loro diritto a essere consolati. Di fronte all’abuso del potere economico, di fronte alla crudeltà del capitalismo che degrada l’uomo a merce, abbiamo cominciato a vedere più chiaramente i pericoli della ricchezza e comprendiamo in modo nuovo che cosa Gesù intendeva nel metterci in guardia dalla ricchezza, dal dio Mammona che distrugge l’uomo prendendo alla gola con la sua mano spietata gran parte del mondo. Sì, le Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla nostra fame e sete di vita. Esigono «conversione» – un’inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la nostra esistenza si dispone nel modo giusto.
Il mondo greco, la cui gioia di vivere si rivela in modo meraviglioso nell’epopea omerica, era tuttavia profondamente consapevole del fatto che il vero peccato dell’uomo, la sua minaccia più intima è la hybris: l’autosufficienza presuntuosa, in cui l’uomo eleva se stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente padrone della propria vita e sfruttare fino in fondo tutto ciò che essa ha da offrire. Questa consapevolezza che la vera minaccia per l’uomo consiste nell’autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente, viene sviluppata nel Discorso della montagna in tutta la sua profondità a partire dalla figura di Cristo.
Abbiamo visto che il Discorso della montagna è una cristologia nascosta. Dietro di essa c’è la figura di Cristo, di quell’uomo che è Dio, ma che proprio per questo discende, si spoglia, fino alla morte sulla croce.
I santi, da Paolo a Francesco d’Assisi fino a madre Teresa, hanno vissuto questa opzione mostrandoci così la giusta immagine dell’uomo e della sua felicità. In una parola: la vera «morale» del cristianesimo è l’amore.
E questo, ovviamente, si oppone all’egoismo – è un esodo da se stessi, ma è proprio in questo modo che l’uomo trova se stesso. Nei confronti dell’allettante splendore dell’uomo di Nietzsche, questa via, a prima vista, sembra misera, addirittura improponibile. Ma è il vero «sentiero di alta montagna» della vita; solo sulla via dell’amore, i cui percorsi sono descritti nel Discorso della montagna, si dischiude la ricchezza della vita, la grandezza della vocazione dell’uomo.
Da “Gesù di Nazaret — Dal Battesimo alla Trasfigurazione”, Rizzoli, 2007.
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