Nell'estate 1916 venne da noi, per rimettersi da una pericolosa adenite e mastoidite, mia cugina Giuseppina, la… figlia (almeno speriamolo) di quello zio del quale le parlai a suo tempo, il fratello di mamma, quello che con la sua venuta mi aveva ficcata in collegio. Io non l'avevo mai vista perché era sempre stata in collegio per sottrarla dalla venefica vicinanza della madre e della zia. Aveva allora vent'anni, io diciannove. Le volli bene anche prima di averla con me.
Mamma mi aveva detto che quell'estate non mi avrebbe fatto nessuna veste nuova e nessun cappello perché doveva pensare a Peppina. Non eravamo in condizioni da essere scomodati dal dover fare il rinnovo di due guardaroba estivi. Ma io, a cui mia mamma, per farmi inghiottire quello che lei reputava dovesse essere per me un rospo, ossia la venuta della cugina, parlava con una inusitata dolcezza, avrei accettato di andare nuda, pur di sentirla parlarmi sempre così!… Figurarsi se non aderii a tutte le proposte. Fra l'altro, staccata come ormai ero da tutto e incline alla morte, ero ancor più di prima contraria a tutte le civetterie.
E poi!… L'idea di avere con me una cugina della mia età, ex collegiale come me, educata presso suore dello stesso Ordine delle mie… oh! quante cose che mi entusiasmavano! Mi proposi di volerle bene come a una sorella. E gliene volli.
Venne col padre qui a Viareggio. Lo zio si trattenne per qualche giorno, poi tornò a Bergamo, all'Ospedale dove era bibliotecario oltre che ricoverato a vita. Peppina rimase. Ci affezionammo molto l'una all'altra. Devo dire, a suo onore, che pure essendo nata da una poco di buono ed essendo stata in quell'ambiente fino a otto anni, non mi dette mai modo di scandalizzarmi. Era un po' leggerina. Ma a vent'anni su per giù lo siamo tutti.
Facevamo belle passeggiate col mio papà, i bagni, ecc. ecc. Erano con noi altri due cuginetti, maschi questi, l'uno di 14 e l'altro di 8 anni, provenienti dal Veneto e venuti per i bagni costì, dato che l'Adriatico non era allora molto tranquillo.
Non ero mai stata così sollevata, da molto tempo a questa parte, come in quella estate. Fra l'altro, essendo mia cugina, per il momento, molto pia, andava spesso in chiesa, alla chiesa di S. Andrea, nostra parrocchia estiva, e io andavo con lei. Mamma non osava opporsi alla nipote, della quale voleva attirarsi l'affetto.
Qui le devo narrare una cosa che non so se sia proprio attinente alla mia storia. Ma credo non sia del tutto estranea.
Io amavo molto la nostra casetta di Via Umberto I° dove ero entrata la prima volta di soli sette anni. E mi ci ero sempre trovata molto bene. Quell'estate mi ci sentivo a disagio. Perché? Mah! Non glielo saprei neppure dire quel che provavo esattamente.
Non mi sentivo mai sola. Mi spiego. Anche se ero in casa sola, cosa che talvolta avveniva, io mi sentivo come se intorno a me ci fosse qualcuno invisibile ma presente. E, paurosa come sono di ciò che ignoro, avevo paura. Mamma, secondo al solito, quando glielo dissi, mi derise e rimproverò. Ma né il suo scherno né il suo rimprovero valsero a farmi più coraggiosa né a impedire che io sentissi sempre quella presenza misteriosa.
Una notte, il 17 agosto 1916, mentre dopo aver riso ben bene coi cuginetti ci eravamo addormentate nei nostri due lettini come due grandi bebé, fummo svegliate da un traballìo di una pesante predella messa nel vano della finestra. Il mio cane, che dormiva con noi due ragazze, ringhiò. Accesi la luce, paurosa che fosse terremoto. Ma il filo della luce era immoto. Spensi e, col facile sonno della gioventù, riprendemmo a dormire.
Dopo circa mezz'ora tre colpi fortissimi, come di una mano aperta che percuotesse un uscio, si udirono contro la porta della nostra stanza. Prima ancora di accendere la luce, mentre un sudore ghiaccio mi bagnava tutta, chiesi: «Nonna, sei tu?». Non so perché dopo tredici anni dalla sua morte io pensassi, ancor fra sonno e veglia, a lei.
Tutta la casa fu a rumore. Papà accorse, i cugini accorsero, mamma accorse. Papà e i cugini non dissero niente fuorché la naturale domanda di cosa fosse stato quel baccano. Eh! l'avessimo almeno saputo! Ma mamma fece una bella brontolata e credo che tuttora sia convinta che si sia state noi ragazze a fare quello scherzo… E pensare che noi avevamo una tremarella tale che finimmo la notte in un unico letto per farci a vicenda coraggio.
Con la metà settembre partirono i cuginetti e rimanemmo noi due coi miei.
Mentre ci occupavamo di fare i bagagli per tornare a Firenze, giunse un telegramma annunciante che mio zio era moribondo. Era il 30 settembre. Mia mamma partì con mia cugina per Bergamo. Io rimasi con papà.
In quei giorni che fui sola col papà sentii più che mai la invisibile presenza di esseri incorporei. Avevo una paura nera… ma stavo zitta per non essere scherzata, per quanto bonariamente, da papà. Una notte mi rifugiai da lui perché mi pareva che lungo la parete — noti che la casa a due piani era sopraelevata sulle due che la fiancheggiavano e perciò la mia parete non si appoggiava a nessun'altra casa — mi pareva che detta parete fosse come strofinata da mani: un rumore uso quello che fa un muratore quando scialba un muro.
Finalmente mamma e Peppina tornarono. Lo zio aveva superato felicemente la polmonite.
Partimmo per Firenze e andammo ad abitare un nuovo appartamento perché l'altro era stato lesionato da un terremoto. La nuova casa era triste, in via Pippo Spano, chiusa fra case tanto sulla facciata che sull'interno. Però anche da lì vedevo la Madonnina sulla porta del convento dei Gesuiti ed ero vicina a questa chiesa. Passò l'inverno così.
Io con mia cugina andavo d'accordo. Ma fra mia mamma e lei cominciavano delle scaramucce. Mia mamma, che trovava me colpevole di mille leggerezze, si era accorta che la nipote lo era più della figlia e volle usare con la stessa la severità che usava con me. Ma Peppina non era Maria… Perciò ottenne l'effetto opposto. Peppina trovò modo di stare fuori di casa il più possibile. Andò insegnante di lavoro, perché era nel lavoro femminile bravissima, presso l'Istituto S. Caterina e alla domenica presso le Scuole festive. Guadagnava così qualcosa che si metteva da parte e stava lontana da mamma. Così io persi la sua compagnia per molte ore del giorno.
Intanto la guerra continuava e le restrizioni cominciavano a farsi sentire. Papà, mamma e Peppina si aiutavano a uova e latte condensato, a pastine in brodo e frittelle cotte nello strutto. Io, che ho uno stomaco forte a modo suo, ossia capace di digerire tuttora un piatto di verdura cruda ma non una tazza di latte, non dei fritti, non delle uova — se le bevo oggi, dopo devo per almeno dieci giorni non toccarle più — cominciai a soffrire la fame. Fino al 1919 io non bevvi mai caffè nero e perciò non avevo neppure quello col suo zucchero relativo a sostenermi. I miei dolori morali e la fame insieme mi indebolirono sempre più.
Nel giugno 1917 arrivò, inaspettato, lo zio, papà di Peppina. Si era licenziato dall'Ospedale, e in simili momenti penosi veniva da noi. Mamma andò su tutte le furie. Ma ormai era fatta. Io, per quanto ricordassi gli estri di questo zio, gli feci buon viso. Pur di avere qualcuno da amare avrei amato… anche il diavolo. Sul principio tutto andò bene.
In luglio venimmo a Viareggio. Ma io capii che non potevo più fare i bagni. Mi sentivo morire ad entrare nell'acqua fredda, io che solo l'anno avanti avevo fatto oltre cento bagni!… Il cuore cedeva sempre più. Mamma mi rimproverò perché non facevo i bagni. Le dissi che mi facevano male. Rispose, al solito, che avevo delle ubbie. Amen!
Io poi sentivo, più ancora che l'anno avanti, quelle strane, invisibili presenze nella casa. Ma per fortuna quell'estate le avvertivano anche gli altri. Presi coraggio allora e dissi che io in quella casa non ci volevo più stare. Mamma, impaurita, per quanto non lo volesse dire, considerando anche tante altre cose, si decise ad affittarla. Mentre si attendeva il bagnante che doveva entrarvi a passare agosto e settembre, seppimo dai vicini che per due inverni consecutivi la famiglia alla quale, per non lasciarla chiusa, affittavamo la casa — un professore di botanica con la moglie e due figlie già ventenni — vi avevano fatto dello spiritismo.
Io non traggo nessuna deduzione. Dico solo che questa fu la prima volta che fra me e lo spiritismo vi fu quella solenne incompatibilità e quella mia sensibilità a certi fenomeni. Che paura, mio Dio!
Tornammo a Firenze il 10 agosto.
Peppina, spalleggiata dal padre, era ora più prepotente. Ora Lei sa bene che i caratteri simili non vanno mai d'accordo. Bisogna che un prepotente abbia di fronte un remissivo, un superbo un umile e così via per potere andare avanti senza romperla. Ma mia mamma, suo fratello e la figlia di suo fratello avevano lo stesso carattere. Perciò guerra continua. Un inferno!…
Intanto era venuto Caporetto1 e, data la grande necessità, Del Croix aveva tenuto conferenze per esortare noi donne ad entrare negli ospedali di guerra, rimasti senza o con poche infermiere — le prime si erano stancate o ammalate — mentre i feriti erano aumentati a dismisura.
Entrare negli ospedali era sempre stato il mio sogno. Avrei potuto essere utile, stare lontano da casa e — oh! speranza! — contrarre una malattia che mi portasse all'altro mondo. Perché, se non ero più tormentata dalle battaglie del desiderio sensuale, lo ero sempre dal grande desiderio di morire, né i modi materni erano tali da levarmi da questo desiderio. Anzi io ero il capro espiatorio dei nervi causati in lei dalle dispute col fratello e la nipote; e anche il caro zio, sempre ateo e originale, non stava indietro nel tormentarmi. Così ne avevo addosso due!… Peppina no. Era con me sempre uguale.
Mamma, in grazia della eloquenza di Carlo Del Croix, che aveva ancora le cicatrici fresche sul volto accecato, e anche per non fare brutta figura presso altre persone presenti, permise che io pure mi iscrivessi fra le Infermiere Samaritane. E così, col 15 novembre, entrai per la prima volta in un Ospedale.
Il primo giorno, anzi la prima mattina, perché era mattina, vedendomi osservata da tanti occhi, così timida come ero, mi impappinai e feci un massacro… Inciampai in un tavolino da notte e buttai tutto a terra: tazze, bicchieri, bottiglie, ecc. ecc. Per fortuna il ferito aveva appena preso orologio e termometro… Fu il mio battesimo: un po' rumoroso se si vuole e un po' costoso, ma insomma bagnai così la mia croce di infermiera. Presto però divenni pratica e brava.
Come mi volevano bene i miei poveri ragazzi! Erano soldati di truppa, perché avevo chiesto all'Ispettrice di non mandarmi in un Ospedale per ufficiali. Andavo per servire i sofferenti e non per civettare o trovare marito. Avevo ben altro per il capo, io!… Perciò volli andare fra gli umili soldati, grandi solo nel loro eroismo e nella loro pazienza.
Anche le Suore, le Figlie di S. Vincenzo, le caratteristiche «Cappellone2», mi volevano molto bene, e così le consorelle infermiere e i medici. In 18 mesi di Ospedale non ebbi mai un rimprovero né uno sgarbo. Facevo il mio dovere e perciò ero amata e rispettata.
Le ore più belle della mia giornata le passavo fra le corsie; vi andavo tutti i giorni, anche la domenica, all'Ospedale, e vi stavo dalle 13 fino alle 20 e anche più se vi erano dei gravi e dei morenti. Dopo due mesi passai all'Isolamento fra tisici e condannati per mali diversi. Avevo così il II reparto e l'Isolamento. Qualcosa come un duecento letti circa.
L'ospedale essendo in Piazza S. Marco, nel palazzo degli Studi superiori, passavo sempre davanti alla Chiesa e al Museo di S. Marco e mi fortificavo il cuore, per tutte le miserie che avrei dovuto assistere, ai piedi del Nazareno nell'andare, e spesso alla sera entravo un momento nel Museo, prima che lo chiudessero, e nei giorni di ingresso libero, per tuffarmi nel cielo, dopo esser stata tante ore nel purgatorio ospitaliero, davanti alle tavole angeliche del beato Giovanni da Fiesole3.
Il vivere fra tante miserie mi faceva bene. Mi ammorbidiva sempre più il cuore indurito dall'eccesso del dolore. Era come se delle scaglie, simili a quelle che ricoprono le tartarughe, cadessero lasciando libera la mia anima al fluire della bontà. Il dovere fra l'altro portare a Dio tanti poverini a me affidati mi obbligava dolcemente ad accostarmi sempre più a Dio.
Avevamo un molto pio Cappellano militare, un Passionista4 che con la sua pazienza, dolcezza, tatto squisiti, operava vere conversioni. I miei ragazzoni lo ascoltavano molto ed erano fedeli alle loro pratiche di pietà.
Ogni pomeriggio, verso le tre, in Cappella — una cappellina quasi sul tetto, piccola ma bellina — vi era la benedizione eucaristica. I feriti che potevano muoversi andavano. Una teoria di grucce che toccheggiavano per i corridoi, di bastoni, di braccia al collo, di teste fasciate… Salivano la scaletta e i primi arrivati entravano finché la chiesina era stipata. Gli altri si pigiavano fuori, sul pianerottolo, giù per la scala… e cantavano. Che bei cori di voci maschie!… Faceva commozione a sentirli cantare così con fede, con slancio, quei redivivi che avevano combattuto e ucciso nelle mischie feroci e che ora, tornati come dei grandi bambini indeboliti dal male, sapevano ridiventare buoni, semplici, fidenti come quando fanciulli andavano in chiesa con la loro mamma. Mi pare ancora di sentirli quei canti… «Noi vogliam Dio», «Deh, l'audace lingua frena», «Andrò a vederla un dì» e tanti altri…
Gesù si è servito anche dei miei feriti per parlare al mio cuore. Ho pianto udendo quei canti… Ma era già un pianto diverso. Era un pianto-invocazione, un pianto-lavacro, un pianto che era scala, il primo scalino della scala per salire a Dio.
Alla vigilia delle feste e al sabato si confessavano e il giorno dopo mi dicevano di aver fatto la comunione e mi chiedevano se la facevo io pure. Poveri ragazzi! Quanto bene mi è venuto da loro! Mi vedevano spesso melanconica e facevano di tutto per rallegrarmi.
Ma anche io detti a loro tutti i tesori del mio cuore di donna. Fui mamma e sorella con loro. Superai ripugnanze, impazienze, stanchezze, perché li amavo e ne ero amata. E con soddisfazione mi dico: «Ho fatto anche là il mio dovere. Nulla mi rimprovera la coscienza e ne sono sicura perché le lettere di quei miei figlioloni, più vecchi di me, lo attestano ancora».
Avrei molto da dire sui miei ragazzi, ma ciò mi porterebbe lontano, lontano… Mi basta invece solo di averle detto che ho agito rettamente, in tutti i modi, anche là dentro. Oh! è un gran bel conforto poter dire che si è agito bene! Penso talora che i miei cari ragazzi defunti preghino nel cielo per la loro giovane sorellina di ospedale e che mi attendano lassù. Penso anzi che mi saranno vicini nell'ora della morte per aiutarmi, come io fui vicino a loro in quella loro ora estrema.
Ma torniamo a mio zio e a mia cugina.
La mattina del 23 dicembre io mi alzai molto presto per andare al Mercato Centrale. Era tempo di «code» anche allora e le code toccavano a me e a mamma. Quella mattina ero andata io perché mamma era costipata.
Quando tornai trovai una tragedia. Mamma piangente, mia cugina fuggita, mio zio prossimo ad andarsene a sua volta.
Come sempre è accaduto quando mamma soffre realmente, si attaccò a me narrandomi che c'era stata una grande lite fra lei, Peppina e mio zio. A sentire mia mamma, il torto era loro. A sentire mio zio, il torto era di mamma. Io dico che avevano torto e ragione tutte e due le parti.
Mamma aveva ragione di consigliare una maggiore serietà alla nipote che ormai era proprio un po' tanto civettina, ma avrebbe dovuto farlo con più dolcezza. Invece lei usò lo stesso metodo che usava con me, e loro due non lo sopportarono.
Però mancarono a loro volta di gratitudine e di correttezza. Infine questa sorella e zia aveva sempre aiutato il fratello e mantenuto la nipote in collegio. Veramente era papà mio che pagava, ma insomma… Ormai da mesi e mesi ospitava nipote e poi fratello e nipote, aveva speso per curarli, vestirli, nutrirli. Mi pare avesse diritto a un poco di rispetto. Infine avrebbero dovuto rispettare mio padre che era sempre stato un buono anche con loro. Invece niente.
Io cercai di mettere pace perché vedevo la mamma veramente accasciata. Ma mio zio mi dichiarò che lui «non poteva far torturare sua figlia da un'aguzzina dai metodi di croato». Testuali parole.
A mezzogiorno, mentre noi tre, molto tristamente, sorbivamo un brodo, mio zio se la svignò, insalutato ospite, lasciando la porta aperta e sul tavolo della sua stanza un biglietto per me dove mi «ordinava di portargli le loro cose all'indirizzo che mi avrebbe in seguito significato».
Fu un ben triste Natale quello del 1917! Mamma a letto con la febbre e una colica di fegato, frutto della bella scena, papà mortificato, io addolorata.
Mah! Mamma dovrebbe sempre ricordare che né io né mio papà mai le procurammo dei dispiaceri atti a metterla a letto ammalata…
Per fortuna, in quei giorni Mario venne a Firenze per un 15 giorni di vacanza e fu lui che provvide a molte cose. Mi accompagnò dallo zio per la consegna delle cose dei due…, in Comune per le pratiche per la separazione delle tessere, cambiò tutta la disposizione della casa perché mamma diceva che vederla uguale a quando c'erano quei due le faceva troppa pena, e infine si fece infermiere e consolatore di mamma che egli chiamava «la sua cara mammy!».
Anche con me si dava da fare, e intanto esigeva che tutte le mattine lo accompagnassi in chiesa e facessi la comunione con lui. Non so se quando era in Accademia era ugualmente pio. Ma direi di sì, perché le sue lettere erano piene di fede. Il discepolo aveva, nel nostro caso, superato la sua maestra.
Certo con l'intuito dell'affetto aveva capito che io avevo bisogno di Dio per soffrire, se non meno, con meno asprezza, e mi riportò a Dio. Posso dire che come, con la sua forza di giovane robusto, rotto a tutti gli esercizi fisici, sollevava senza fatica pesi inerti come i mobili, così ugualmente mi prese di peso e mi sollevò ponendomi su un altare, presso un tabernacolo. Non mi faceva delle prediche, che non avrei sopportate, perché in certe ore le prediche dànno noia, ma agiva addirittura. Aveva capito che ero infelicissima… Lui pure aveva avuto una vita poco felice e capiva. Aveva capito che io volevo morire perché stanca di soffrire e ricorse alla Medicina delle medicine: mi gettò fra le braccia di Dio.
Sì, se sono tornata a Dio lo devo alla bontà del Signore, ma anche molto al mio Mario. Il quale fra l'altro doveva aver parlato molto chiaro anche a mamma dicendole che io morivo di malinconia e occorreva darmi un poco di felicità.
Mia mamma, allora, gli dava ancora ascolto e gli voleva bene. Aveva sempre avuto un debole per i maschi. Dice tuttora che non sa rassegnarsi d'aver perduto il figlio maschio, morto dopo poche ore di vita. E poi Mario era un grande salvagente per lei!… Almeno credeva che lo fosse. Vedeva che io degli uomini non mi occupavo di nessuno fuorché di lui, e me lo teneva vicino per tenere lontano dal mio cuoretutti gli altri pretendenti, che non mi sono mancati, lo devo dire.
Ma Mario cresceva. Non era più un ragazzo. Aveva ormai passato i vent'anni ed era prossimo ad uscire dall'Accademia Navale col grado di Guardiamarina. E guardava a me con occhi diversi ormai. Né lo teneva nascosto questo suo pensiero. Lo diceva apertamente, schiettamente, e suo papà, sua nonna, i suoi zii lo secondavano. Quante volte abbracciando mamma non le disse: «Vero, Mammy? Quando sono ufficiale la signorina è per me e lei sarà la mia mamma e il signor Giuseppe il mio papà. Avrò due papà allora, e la mia Mammy, e avrò la mia cara signorina per la quale ho studiato e sono divenuto quel che sono!…». E lo faceva ormai capire anche a me che la sua amicizia sororale si era ormai mutata in qualcosa di molto più profondo di un amore fraterno.
Ma io non ne volevo sapere. E per due motivi. Il primo era che mi sentivo ormai incapace di amare un uomo con l'anima e col corpo.
Lei mi chiederà: «Come? Ha passato tutte quelle lotte contro il senso risvegliato e ora, che poteva onestamente appagare i bisogni della natura, non ne voleva sapere?». Sembra un controsenso, vero? Ma non lo è.
L'avermi levata crudelmente la mia libertà di amare e avermela levata con la frangia di certe… spiegazioni che avevano intorbidito la limpidezza del mio cuore di vergine, assolutamente ignara di certe leggi fisiologiche e istintive, nella stessa maniera che una pietra gettata in un limpido stagno sommuove il fondale e ne solleva il fango depositato sul fondo, mi aveva molto turbata.
Ma non era nella mia natura di essere una unicamente dominata dal senso. Passionale sì, lo ero e lo sono. Mi attaccavo e mi attacco a qualcosa per amare, essendo questo un vero bisogno del mio io, sempre più acuito dal non amore che mi circondava. Da giovane amai intensamente la creatura. Dai venticinque anni in poi amai intensissimamente, sempre più intensissimamente, il Creatore. Ma senza un grande amore, scopo della mia vita, non potei mai stare. Ero dunque una passionale, forse è meglio detto: una appassionata. Ma non una sensuale.
Vi è una grande differenza, benché sul primo non appaia, fra le creature naturalmente viziose e quelle che sono portate a subire tempeste del senso per un complesso di circostanze volute dagli uomini che ci stanno intorno e dal Nemico che continuamente ci guata. Quando in un cielo estivo si formano nubi temporalesche, gravide di fulmini e di grandine, è inevitabile che il temporale scoppi. Ma non sempre però esso diviene temporale distruttore. Quando un microbo assale una persona non sempre fa lo stesso scempio. Se quella persona è tendente a quel dato male, il microbo prospera e conduce a morte. Ma se quella persona è, di nascita, refrattaria a quel microbo, esso non riesce ad attecchire e viene sterilizzato dal sangue generoso del colpito.
Nel mio cielo si erano levate nubi temporalesche accumulate da venti d'inferno e nel mio sangue erano stati inoculati bacilli nefasti. Ma se la grandine era scesa, devastando per sempre la mia fioritura di speranze giovanili, non aveva però incenerito col fulmine la mia linfa vitale, e il mio albero poteva ancora dare, se non gioia di corolle, utilità di fronde. Ma il mio sangue, non di nascita lussurioso, aveva potuto superare, con fatica e sofferenza, è vero, ma con vittoria, i germi della carnalità inoculati in esso.
Passata quella febbre, e passata dopo che il mio Dio mi aveva dato quella risposta che mi fu forza e norma, io ero tornata la Maria di un tempo, ossia la creatura superiore alle seduzioni della natura. E lo ero divenuta ancor più di prima perché, staccata come ormai ero dalla vita, spenta per sempre alla capacità di amare come donna, solo incline alla morte, non avevo neppur più in me quella santa tendenza a perpetuare la specie attraverso ad un matrimonio fecondo, che Dio non condanna perché Lui stesso lo mise per primo nel cuore dei progenitori.
Perciò non mi sentivo più capace di amare come donna un uomo. Sentivo questa mia incapacità e me ne spiaceva solo perché avevo un cuore naturalmente materno… L'idea che mai avrei avuto dei bimbi miei mi dava pena… È tuttora la mia nostalgia più grande, dopo quella del Cielo, questa… Pensavo alla mia solitaria vecchiezza, se fossi campata… Ma non me la sentivo di essere «una carne sola» con l'uomo che fosse divenuto mio marito.
Perciò significai a Mario di lasciarmi in pace e gli significai anche che io non mi sentivo più sana come prima e perciò non volevo legare un uomo giovane e sano ad una malazzata. Mi lasciasse perciò tranquilla e continuasse a mantenermi la sua buona amicizia che mi era di tanto conforto. Gli feci anche capire che, se mamma avesse capito che egli faceva sul serio la parte del pretendente, avrebbe fatto subire a lui pure la sorte degli altri che si erano fatti avanti con proposte di matrimonio. Sarebbe stato messo alla porta e per sempre.
Ma Mario, ma suo padre, ma sua nonna, ma i suoi zii non potevano ammettere che mia mamma, dopo averlo lusingato tanto, lo potesse trattare così. Che diamine! Era sano, ricco, passabilmente bello, con una magnifica carriera davanti a sé. Che ostacoli potevano esser messi in opera da mamma? Che diamine! Non volevo certo insinuare che una mamma fosse così egoista da sacrificare sua figlia per avere sempre seco una serva senza salario?… Non lo potevano credere…
Infatti, chi l'avrebbe creduto? Molte delle mie angosce familiari non sono credibili altro che dai testimoni oculari, Padre. Lei pure, non so se creda ciecamente a quanto le narro… È così contrario al concetto che si ha dell'amore materno… che si stenta a crederlo. Ma è la verità. Tutto è verità in questa mia storia. Posso morire ad ogni momento, oppressa come sono per il versamento pericardico e pleurico. Ma sono tranquilla di non avere a rispondere a Dio di nessuna bugia su quanto le narro, anche se avessi a morire senza confessione.
Con tutte le mie forze cercai perciò di fare ragionare Mario. Ma l'uomo innamorato non ragiona, specie se è spalleggiato da tutta una parentela. Tutto quello che ottenni fu che aspettasse a parlare per un altro anno, ossia fino al momento in cui avesse avuto le spalline da ufficiale.
Con mamma non dissi nulla, se no il povero Mario sarebbe stato subito condannato. Parlai con papà mio e con papà suo, scrissi ai parenti di Mario a Roma. E tutti mi esortarono ad accettare Mario e a non sacrificarmi oltre ad egoismi materni. E la vita continuò.
Ci si scriveva come al solito, da buoni e fraterni amici, e Mario, che aveva intuito che se l'aiuto dei sacramenti fosse stato più frequente io sarei migliorata non solo nel morale ma anche nel fisico, che sempre risente in sé le ripercussioni morali, trovava sempre il modo di farmi fare delle comunioni. Ora era per un suo esame, ora per un compagno malato, ora per sua nonna, ora per suo zio… Povero ragazzo! Mi ha proprio riabituata lui al desiderio del Pane celeste! Cominciai allora, nella primavera 1918, ad andare, ribellandomi in questo agli «ukase» materni, in chiesa quasi tutte le mattine.
Fra l'altro Mario si era accorto che io, da buona italiana come sono sempre stata, subito dopo Caporetto avevo fatto un voto a Dio per la vittoria e a ricordo del medesimo portavo intorno alla vita la mia grossa corona del rosario del Collegio. Mi martirizzava le carni. Un giorno la corona si ruppe e cadde proprio ai piedi di Mario. Mi seccò immensamente perché quando faccio penitenza «mi ungo il capo5 e mi lavo la faccia affinché gli uomini non se ne avvedano ma solo il Padre che è nel segreto».
Anche ora nessuno s'accorge che io porto notte e giorno un cingolo che è un cilicio vero e proprio, e né febbri né sofferenze me lo fanno levare. Me lo tolgo solo nell'ora che viene il medico perché, visitandomi, non me lo trovi. Vero è che resta il segno nella carne e su quel segno misterioso il dottore è rimasto più volte perplesso, ma dato che lì, alla vita, l'enfiagione del tumore è tale che dà un ripiegamento della pelle, il medico è sempre rimasto incerto se sia un segno naturale o procurato da una corda.
Insomma quel giorno cadde la corona. Mario la raccolse e me la rese senza commenti. Del resto la mia stessa confusione lo aveva illuminato.
Come vede, nonostante le mie ruzzolate per terra, non ero proprio una… senza fede.
Dunque Mario si era accorto che io dovevo aver fatto qualche promessa al Signore perché salvasse la Patria. E specie servendosi di questo mi spinse verso Dio con continue comunioni.
L'ultima arma che il demonio usava con me, allora, era questa: non potendomi più turbare in altri modi, né col senso in maniera completa, né colla suggestione del suicidio, con la stessa intensità di prima, pauroso che io mi volgessi del tutto a Dio, mi inoculava una vergogna di rivolgermi a Dio dopo averlo offeso. Sono le sue solite, antichissime armi, usate la prima volta nel Paradiso terrestre. Ma il mio Mario le vinse.
Tornai dunque sempre più vicina a Dio. Soffrivo ancora molto per i modi materni. Ma di quelli ne soffrirò finché una di noi due non sarà morta. Però soffrivo con più rassegnazione.
Fu allora che io… detronizzai la Madonna dal mio tavolino da notte e vi misi sopra quel Cuore di Gesù che vi è tuttora e che non mi ha più lasciata, venendo con me in Calabria, a Cremona, ovunque andassi per poco o per molto tempo.
Mario e i miei feriti mi hanno riunita a Dio. La contemplazione del dolore e della morte sono sempre una grande medicina spirituale! E la vicinanza di un cuore cristianamente buono, l'amicizia onesta e cristiana è sempre fomite di Bene.
Nell'estate 1918 io e mamma ebbimo la «spagnola6». Io vivevo fra gli spagnolosi e perciò la presi violentissima. Da allora mi rimase la febbre giornaliera. Il cuore cedette ancora di più. Ma ci curammo da noi, senza aiuto di medici, tutti malati, e quei pochi non malati straoccupati e imprendibili. Ci curammo come io vedevo curare i miei ragazzi all'ospedale e, senza aiuto di medici per guarire o per morire,superammo il male. Mamma tornò più vegeta di prima. Io, sia per la mia imperfezione cardiaca preesistente, sia forse perché in ospedale potevo essermi contagiata fra tante infezioni di diverse specie, non tornai più come prima. Ma ero felice di andarmene. Se morivo risolvevo tutto senza scene, anche la faccenda di Mario.
Il 4 novembre la guerra ebbe termine. Quando la notizia giunse mi precipitai fuori dall'Ospedale e corsi ai piedi del Nazareno nella chiesa di S. Marco per ringraziarlo… Gli offrii allora me stessa chiedendogli che mi prendesse la vita ma che non facesse più venire altre guerre.
Quel giorno non sapevo ancora bene quel che offrivo, e il mio offrire era inquinato dal desiderio, molto umano, di non vivere più per non soffrire più. Ma da allora io ho sempre ripetuto la mia offerta, per questo e per altri motivi che le dirò a suo tempo, sapendo molto bene quel che facevo.
Ma se per tante cose Gesù mi ha ascoltata, per questa no. Dal 1918 ad oggi molte altre guerre hanno ucciso i figli d'Italia… e forse io morirò mentre la più tremenda delle guerre è in atto.
1 era venuto Caporetto, cioè vi era stata la battaglia di Caporetto (combattuta tra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917),
che segnò per l'esercito italiano la più grande disfatta della prima guerra mondiale. Del Croix era Carlo Delcroix (1896-
1977), mutilato e grande invalido della prima guerra mondiale, scrittore e oratore efficace, futuro uomo politico.
2 Cappellone erano chiamate per la grande cuffia inamidata, dalle pittoresche falde laterali, che faceva parte del loro
abito religioso, in seguito semplificato. Si trattava delle Figlie della Carità, fondate in Francia nel 1633 dai santi
Vincenzo de Paul e Luisa de Marillac.
3 beato Giovanni da Fiesole (1400 circa - 1455) è più noto con il nome di Beato Angelico.
4 un Passionista che potrebbe rispondere al nome di P. Gregorio dell'Addolorata, al secolo Antonio Ceccarini (1877-
1931).
5 mi ungo il capo… è citazione, un po' parafrasata, da: Matteo 6, 17-18.
6 spagnola fu detta l'influenza epidemica che in quegli anni, partendo dalla Spagna, si diffuse in Europa provocando
in
molti casi la morte. Maria Valtorta l'ebbe più volte.
AMDG et DVM