martedì 18 ottobre 2016

Non c’è un vero silenzio della liturgia, se noi non siamo -con tutto il nostro cuore- rivolti verso il Signore. Bisogna convertirsi, rivolgersi verso il Signore, per guardarlo, contemplare il suo volto e prostrarsi ai suoi piedi per adorarlo.

Sarah: “Senza silenzio la liturgia è ideologia”

Pubblichiamo la traduzione italiana di ampi stralci dell’intervista che il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha concesso al periodico francese La Nef in occasione dell’uscita del libro La Force du silence (Fayard, 2016).
Il libro che lei propone ai lettori è una vera e propria meditazione spirituale sul silenzio: perché si è lanciato in una riflessione così profonda che abitualmente non ci si aspetta da un prefetto della Congregazione per il Culto divino incaricato di questioni molto concrete della vita della Chiesa?
«Il primo linguaggio di Dio è il silenzio». Commentando questa ricca e bella intuizione di San Giovanni della Croce, Thomas Keating nella sua opera Invitation to love scrive: «tutto il resto è una povera traduzione. Per capire questo linguaggio, dobbiamo imparare a essere silenziosi e a fare affidamento in Dio».
È tempo di ritrovare il vero ordine delle priorità. È tempo di rimettere Dio al centro delle nostre preoccupazioni, al centro delle nostre azioni e della nostra vita, al solo posto che egli deve occupare. Così, il nostro cammino cristiano potrà ruotare attorno a questa Roccia, strutturarsi nella luce della fede e nutrirsi della preghiera, che è un momento di incontro silenzioso e intimo, in cui l’uomo si trova a tu per tu con Dio per adorarlo ed esprimergli il suo amore filiale.
Non inganniamoci. Questa è la vera urgenza: ritrovare il senso di Dio. Ora, il Padre non si lascia avvicinare che nel silenzio. Ciò di cui la Chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un programma pastorale in più, un cambiamento strutturale. Il programma già esiste è quello di sempre, tratto dal Vangelo e dalla tradizione vivente. Esso è centrato su Cristo stesso che noi dobbiamo conoscere, amare, imitare, per vivere in Lui e per Lui, trasformare il nostro mondo che sta degenerando perché gli uomini vivono come se Dio non esistesse. Come sacerdote, come pastore, come Prefetto, come Cardinale, la mia priorità è di dire che Dio solo può colmare il cuore dell’uomo.
Credo che siamo vittime della superficialità, dell’egoismo e dello spirito mondano che si irradiano nella società mediatica […]. Per dei titoli, degli incarichi professionali o ecclesiastici, accettiamo dei vili compromessi. Ma tutto questo passa come il fumo […]. La sola realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio è silenzioso. Egli attende il nostro silenzio per rivelarsi. Ritrovare il senso del silenzio è dunque una priorità, una necessità, un’urgenza. Il silenzio è più importante di qualsiasi altra opera umana perché esprime Dio. La vera rivoluzione viene dal silenzio, essa ci conduce verso Dio e gli altri per metterci umilmente al loro servizio.
Perché la nozione del silenzio è così essenziale ai suoi occhi? Il silenzio è necessario per trovare Dio e in che senso «è la più grande libertà dell’uomo» (n. 25)? In quanto “libertà”, il silenzio è un’ascesi?
Il silenzio non è una nozione, è la strada che permette agli uomini di andare a Dio. […]   La conquista del silenzio è un combattimento e un’ascesi. Sì, occorre coraggio per liberarsi da tutto ciò che appesantisce la nostra vita che non cerca altro se non le apparenze, la facilità e la scorza delle cose. Proteso verso l’esteriorità dal suo bisogno di parlare sempre, il ciarliero non può che essere lontano da Dio, incapace di qualsiasi attività spirituale profonda. Al contrario, chi è capace di silenzio è un uomo libero. Le catene del mondo non possono far presa su di lui […].
E’ ancora possibile comprendere l’importanza del silenzio in un mondo in cui il rumore, in tutte le sue forme, non cessa mai? Si tratta di una situazione nuova della “modernità”, con i suoi media, TV, Internet, ove il rumore è sempre stato una delle caratteristiche del “mondo”?
Dio è silenzio e il diavolo è rumoroso. Da sempre Satana cerca di nascondere le sue menzogne sotto un’agitazione ingannevole e ridondante. Il cristiano deve non essere del mondo. A lui è proprio distogliersi dai rumori del mondo, dalle voci che corrono a briglie sciolte per distoglierci meglio dall’essenziale: Dio. La nostra epoca ultra-tecnicizzata e indaffarata ci ha reso ancora più malati. Il rumore è diventato come una droga dalla quale i nostri contemporanei sono dipendenti. Con la sua apparenza di festa, il rumore è un vortice che ci fa evitare di guardarsi in faccia, di mettersi di fronte al vuoto interiore. È una menzogna diabolica. Il risveglio non può che essere brutale.
Non temo di fare appello a tutti gli uomini di buona volontà a intraprendere una forma di resistenza. Cosa diventerà il nostro mondo se non potrà trovare delle oasi di silenzio? […] Non esito ad affermare che quei sacerdoti della modernità, che dichiarano una forma di guerra al silenzio, hanno perso la battaglia. Perché noi possiamo restare silenziosi in mezzo alle più grandi accozzaglie, alle agitazioni più spregevoli, in mezzo al baccano e alle grida delle macchinazioni infernali che invitano all’attivismo, strappandoci da ogni dimensione trascendente e da ogni vita interiore.
Quale ruolo attribuisce al silenzio nella liturgia latina, dove lo vede e come concilia silenzio e partecipazione?
Davanti alla maestà di Dio, noi perdiamo le nostre parole. Chi oserebbe prender la parola davanti all’Onnipotente? […] Il sacro silenzio è il luogo in cui noi possiamo incontrare Dio, perché noi veniamo a Lui con il giusto atteggiamento dell’uomo che trema e si tiene a distanza, mentre spera con confidenza. Noi sacerdoti dobbiamo reimparare il timore filiale verso Dio e la sacralità dei nostri rapporti con Lui. Dobbiamo apprendere di nuovo a tremare di stupore davanti alla Santità di Dio e alla grazia inaudita del nostro sacerdozio.
Il silenzio ci insegna una grande regola della vita spirituale: la familiarità non favorisce l’intimità, al contrario, la giusta distanza è una condizione della comunione. È tramite l’adorazione che l’umanità avanza verso l’amore […]. Non esito ad affermare che il sacro silenzio è una legge cardine di tutta la celebrazione liturgica […].
Con il pretesto di rendere più facile l’accesso a Dio, alcuni hanno voluto che nella liturgia tutto fosse immediatamente intelligibile, razionale, orizzontale e umano. Ma facendo così, corriamo il rischio di ridurre il mistero sacro a dei bei sentimenti. Sotto il pretesto pedagogico, alcuni sacerdoti si sentono autorizzati a interminabili commentari piatti e orizzontali. Questi pastori hanno paura che il silenzio davanti all’Altissimo sconvolga i fedeli? Credono che lo Spirito Santo sia incapace di aprire i cuori ai divini misteri infondendovi la luce della grazia spirituale? […]
Non si ha un certo paradosso nell’affermare la necessità del silenzio nella liturgia, allorché si riconosce che le liturgie orientali non prevedono momenti di silenzio (n. 259), mentre esse sono particolarmente belle, sacrali e devote?
La sua obiezione è sensata e dimostra che non è sufficiente stabilire dei “momenti di silenzio” affinché la liturgia sia impregnata del sacro silenzio. Il silenzio è una disposizione dell’anima. Non è una pausa tra due riti, è esso stesso pienamente un rito. I riti orientali certamente non prevedono dei tempi di silenzio durante la divina liturgia. Eppure essi conoscono intensamente la dimensione apofatica della preghiera davanti al Dio “ineffabile, incomprensibile, inafferrabile”. La divina liturgia è in qualche modo immersa nel mistero. Essa è celebrata dietro l’iconostasi che per gli orientali è il velo che protegge il mistero. Per noi latini, il silenzio è un iconostasi sonora. Il silenzio è una mistagogia, ci permette di entrare nel mistero senza svilirlo. Nella liturgia il linguaggio dei misteri è silenzioso. Il silenzio non nasconde, ma rivela in profondità […]. Spesso usciamo dalle nostre liturgie rumorose e superficiali senza aver incontrato Dio e la pace interiore che egli vuole offrirci.
Dopo la sua conferenza a Londra nel luglio scorso, lei è ritornato sull’orientamento della liturgia ed ha auspicato di vederlo applicato nelle nostre chiese: perché è così importante per lei e come immaginerebbe di mettere in pratica questo cambiamento?
Convertirsi, etimologicamente, è rivolgersi, voltarsi verso Dio. Non c’è un vero silenzio della liturgia, se noi non siamo -con tutto il nostro cuore- rivolti verso il Signore. Bisogna convertirsi, rivolgersi verso il Signore, per guardarlo, contemplare il suo volto e prostrarsi ai suoi piedi per adorarlo. Abbiamo un esempio: Maria Maddalena ha potuto incontrare Gesù al mattino di Pasqua, perché si è rivolta verso di lui: «hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’hanno posto». «Haec cum dixisset, conversa est retrorsum et videt Jesus stantem – detto questo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi» (Gv. 20, 13-14).
Come entrare in questa disposizione interiore se non volgendoci fisicamente, tutti insieme, sacerdoti e fedeli, verso il Signore che viene, verso l’oriente simboleggiato dall’abside dove troneggia la croce?
L’orientamento esteriore ci porta all’orientamento interiore, simboleggiato da quello. Fin dai tempi apostolici, i cristiani hanno conosciuto questo modo di pregare. Non si tratta di celebrare con le spalle o di fronte al popolo, ma verso l’oriente, ad Dominum, verso il Signore. Questo modo di fare favorisce il silenzio. In effetti il celebrante ha meno la tentazione di monopolizzare la parola. Rivolto al Signore, è meno tentato di divenire un professore che dà una lezione durante la Messa, riducendo l’altare ad una tribuna il cui perno non sarà più la croce ma il microfono! […]
È chiaro che questo modo di fare, legittimo e desiderabile, non deve essere imposto come una rivoluzione. So che in molti posti una catechesi preparatoria ha permesso ai fedeli di far proprio ed apprezzare l’orientamento. Vorrei tanto che questa questione non divenga l’occasione di uno scontro ideologico tra fazioni! Si tratta della nostra relazione con Dio […]. Non intendo opporre una pratica all’altra. Se materialmente non è possibile celebrare ad orientem, bisogna necessariamente mettere una croce sull’altare, bene in vista, come punto di riferimento per tutti. Il Cristo in croce è l’oriente cristiano.
Lei accenna alla “riforma della riforma” che auspica (n. 257): in cosa dovrebbe consistere principalmente? Riguarderebbe le due forme del rito romano o solamente la forma ordinaria?
La liturgia deve sempre riformarsi per essere più fedele alla sua essenza mistica […]. La riforma riguarda le due forme del rito romano. Mi rifiuto di passare il nostro tempo opponendo una liturgia a un’altra, o il rito di San Pio V a quello del beato Paolo VI. Si tratta di entrare nel grande silenzio della liturgia; bisogna sapersi lasciar arricchire da tutte le forme liturgiche latine o orientali. Perché la forma straordinaria non dovrebbe aprirsi a ciò che la riforma liturgica scaturita dal Vaticano II ha prodotto di meglio? Perché la forma ordinaria non dovrebbe poter ritrovare le antiche preghiere dell’offertorio, le preghiere ai piedi dell’altare, un po’ di silenzio durante alcune parti del Canone?
Senza uno spirito contemplativo, la liturgia rimarrà un’occasione di astiose lacerazioni e di scontri ideologici, di umiliazioni pubbliche dei deboli da parte di coloro che pretendono di detenere un’autorità, mentre essa dovrebbe essere il luogo della nostra unità e della nostra comunione nel Signore […].
All’interno del contesto liturgico attuale del mondo latino, come superare la diffidenza che si trova tra alcuni seguaci delle due forme liturgiche dello stesso rito romano che si rifiutano di celebrare l’altra forma e talvolta la considerano con un certo disprezzo?
Rovinare la liturgia significa rovinare il nostro rapporto con Dio e l’espressione della nostra fede cristiana […]. Sì, il diavolo vuole contrapporci gli uni agli altri proprio nel cuore del sacramento dell’unità e della comunione fraterna. È tempo che cessino il disprezzo, la diffidenza e il sospetto. È tempo di ritrovare un cuore cattolico. È tempo di ritrovare insieme la bellezza della liturgia […].
(traduzione a cura di Luisella Scrosati)

Il silenzio di Dio

“Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sapienza 18,14)

“Io grido a te ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta”, urla Giobbe contro quel Dio che aveva servito e riverito e dal quale era stato messo alla prova, piagato nel corpo, lasciato quasi solo al mondo. E’ l’imprecazione dell’uomo, umanissima, naturale. Disperata e disarmata dinanzi a quel silenzio incomprensibile. Gustave Flaubert ha elevato quelle pagine alla cosa più bella mai letta nella vita; Benedetto XVI, varcando i confini di Auschwitz, dieci anni fa, chiedeva conto a Dio del perché avesse taciuto davanti al lungo camino che lavorava indefesso nel compiere lo sterminio voluto da mano umana. Al silenzio (dell’uomo, di Dio, dell’uomo davanti a Dio e di Dio davanti all’uomo) il cardinale Robert Sarah ha dedicato il suo ultimo libro, pubblicato qualche giorno fa in Francia ed edito da Fayard, La forza del silenzio. 
Contro la dittatura del rumore, una conversazione con Nicolas Diat, con il quale aveva già firmato Dio o niente (2015). Il Dio silenzioso, che non parla né interviene nelle cose di questo mondo in modo palese è anche la più ovvia delle giustificazioni per quanti ne negano l’esistenza, professandosi banalmente agnostici o rifacendosi a dotte elucubrazioni kantiane.

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Il silenzio è un tema complesso che ha scandagliato l’anima dei padri della chiesa fin dai primi tempi, che ha angustiato filosofi credenti e atei, posto interrogativi e indotto a pensare. 
Soren Kierkegaard – citato ampiamente nel volume – vi dedicò pagine stupende, basti pensare all’indagine sul silenzio di Abramo, angosciante e sofferente. “Devo umilmente riconoscere che ho balbettato di fronte a un così grande mistero”, scrive Sarah. “Chi potrebbe parlare del silenzio, e soprattutto di Dio, in una forma adeguata? Possiamo tentare di parlare di Dio solo a partire dalla nostra propria esperienza di silenzio. Perché Dio è avvolto nel silenzio e si rivela nel silenzio interiore del nostro cuore”. Nel cuore dell’uomo c’è “un silenzio innato, perché Dio abita nel profondo di ogni persona. Dio è silenzio, e questo silenzio divino abita l’uomo. In Dio, noi siamo inseparabilmente legati al silenzio. La chiesa può affermare che l’umanità è figlia di un Dio silenzioso”. 
Un silenzio che, scriveva Thomas Merton, può essere insopportabile ed è proprio qui che sta la più grande difficoltà dell’uomo: cercare Dio nel (e con il) silenzio. E’ qui che gioca un ruolo determinante la fede, perché “il silenzio divino è una rivelazione misteriosa”. Si torna al punto di partenza, al tentativo di comprendere quel silenzio nel dramma dell’umanità. 
Elie Wiesel scrisse che per lui Auschwitz non fu solo uno scandalo umano ma anche teologico: come è stato possibile, dov’era Dio mentre i treni piombati entravano nel campo polacco? Il filosofo tedesco di religione ebraica Hans Jonas ha tentato di rispondere con argomentazioni alte e sopraffini, concludendo che Dio non può essere onnipotente, avendo la libertà umana in fondo la possibilità di fermare la mano divina.
“Ma se Dio rinuncia alla potenza, allora non è Dio”, scrive Sarah. “L’infinito di Dio non è un infinito nello spazio, un oceano senza fondo e senza sponde”. Dio – osserva il cardinale – “non è indifferente al male. In primo luogo, possiamo credere che Dio permetta il male per distruggere gli uomini. Ma se Dio tace, soffre con noi per il male che ha lacerato e sfigurato la terra. Se cerchiamo di essere con Dio nel silenzio, si capisce la sua presenza e l’amore”. 
L’uomo è ansioso di dare una risposta alle difficoltà, alle sofferenze, ai disastri che si abbattono sull’umanità. Da sempre è così, fino dai tempi di Giobbe. “Ma ci dimentichiamo che l’origine dei nostri mali nasce dall’illusione che siamo qualcosa di diverso dalla polvere. L’uomo che si fa divinità non vuole riconoscere che è un mortale”. 
Giovanni Paolo II disse che “il silenzio divino è spesso motivo di perplessità e persino di scandalo, tuttavia non si tratta di un silenzio che indica un’assenza, quasi che la storia sia lasciata in mano ai perversi e il Signore rimanga indifferente e impassibile”. In realtà, chiosava Karol Wojtyla, “quel tacere sfocia in una reazione simile al travaglio di una partoriente che s’affanna, sbuffa e urla. E’ il giudizio divino sul male, raffigurato con immagini di aridità, distruzione, deserto, che ha come meta un risultato vivo e fecondo”.

Il fatto è che “molti dei nostri contemporanei non possono accettare il silenzio di Dio. Non ammettono che sia possibile entrare in comunicazione in modo diverso che non siano le parole, i gesti o le azioni concrete e visibili”. Ma “Dio parla attraverso il silenzio”. Il suo silenzio è una parola. Per comprenderlo, oggi, si deve salire su qualche eremo isolato o calpestare le pietre fredde di vecchi monasteri – sempre più rari – rimasti quasi uguali nei secoli. O ancora, scalare le vette montane, come suggeriva Giovanni Paolo II, per accorgersi che Dio effettivamente esiste, ché quella beltà non può che derivare dal disegno misterioso e affascinante del Creatore.


“Credo che noi siamo le vittime della superficialità, dell’egoismo e dello spirito mondano. Ci perdiamo in lotte per stabilire l’influenza, in conflitti tra persone, in un narcisistico e vano attivismo”, ha detto il cardinale Robert Sarah in una recente intervista concessa alla Nef. “Ci gonfiamo di orgoglio e di pretese, prigionieri di una volontà di potenza. Per cercare titoli, incarichi professionali o ecclesiastici accettiamo compromessi vili. Ma tutto ciò passa, come il fumo. Nel mio libro – aggiunge – ho voluto invitare i cristiani e le persone di buona volontà a entrare nel silenzio. Senza di esso, ci troviamo in un’illusione. L’unica realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio tace. Aspetta il nostro silenzio per rivelare se stesso”. Anche per questo, scrive ne La forza del silenzio, “è necessario uscire dal tumulto interiore per trovare Dio. Nonostante i turbamenti, il consumismo, i piaceri facili, Dio resta silenziosamente presente. E’ in noi come un pensiero, una parola e una presenza le cui fonti segrete sono nascoste nello stesso Dio, inaccessibili agli occhi umani”.

C’è un paradosso, se si vuole considerarlo tale, nell’invocare la solitudine, l’isolamento da tutto per ritrovare se stessi e gli altri. “La solitudine è lo stato migliore per trovare il silenzio di Dio. Per chi vuole trovare il silenzio, la solitudine è la montagna che deve essere scalata”. Un’impresa, insomma. Perché oggi, e Sarah lo ripete più volte, “i poteri mondani che cercano di plasmare l’uomo moderno scartano metodicamente il silenzio”. In un mondo ipertecnologico come quello contemporaneo, come è possibile trovare questo silenzio? Non è questione di iscriversi a corsi per sconnettersi da internet né di spegnere per qualche ora lo smartphone che spesso fa percepire come vere e reali relazioni che in realtà sono meramente virtuali. “Abbiamo la sensazione che il silenzio sia divenuto un’oasi inattingibile. Senza rumore, l’uomo postmoderno cade in una inquietudine sorda e lancinante. E’ abituato a un rumore di fondo permanente, che lo rende malato e lo rassicura”.

Senza rumore, aggiunge il cardinale prefetto del Culto divino e la disciplina dei sacramenti, l’uomo pare perduto. Il rumore lo rassicura, come una droga da cui è divenuto dipendente. L’agitazione diviene un tranquillante, un sedativo, una dose di morfina, una forma di sogno, d’onirismo senza consistenza”. Uno stato che fa perdere i riferimenti vitali e necessari e ancora di più il contatto con Dio, con la preghiera. “Il nostro mondo non comprende più Dio perché parla continuamente, a un ritmo e a una velocità della luce, per non dire niente. La civiltà moderna non sa tacere, nega il passato e vede il presente come un vile oggetto di consumo. Guarda l’avvenire attraverso le ragioni di un progresso quassi ossessivo”. C’è l’illusione che con “le manifestazioni esteriori”, osserva il cardinale, si abbia la prova della prossimità divina: ma “i nostri amici più vicini, a volte, sono lontani da noi, impediti dall’amarci”.

In uno scritto pubblicato all’inizio dell’anno, Sarah osservava che “in senso negativo il silenzio è l’assenza di rumore. Può essere esteriore o interiore”. Nel corso della sua visita a Sulmona, nel luglio del 2010, Benedetto XVI aveva riflettuto proprio su questo punto, sottolineando come noi “viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere riempito da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri”.

La riflessione di Robert Sarah si sposta sull’occidente, incapace di godere del silenzio e quindi di pregare. Lui, uomo d’un piccolo villaggio della Guinea che proprio in un monastero francese si è convinto sempre di più di quanto il silenzio orante sia svanito, portandosi dietro molto dell’eredità che aveva reso grande e prospero il cristianesimo nel Vecchio mondo. Senza silenzio si perde anche il senso del sacro, scrive oggi. E’ sufficiente guardare, in molte realtà grandi e piccole, lo stato della liturgia, gli abusi e le frequenti “autocelebrazioni di preti che entrano in chiesa trionfalmente”. Silenzio e sacro: i due aspetti sono connessi, se cade uno cade anche l’altro. 
L’aveva già rimarcato qualche mese fa, auspicando anche una riscoperta della pratica ascetica, divenuta ormai cosa per pochi eletti. L’ascesi, “una parola estranea alla nostra società consumistica che spaventa i nostri contemporanei, compresi anche i cristiani, che subiscono l’influenza dello spirito mondano è un mezzo indispensabile che ci aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto quanto l’appesantisce, vale a dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore, e che dunque costituisce un ostacolo per la preghiera. Ed è proprio nella preghiera che Dio ci comunica la sua Vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima, irrigandola con i flutti del suo Amore trinitario: il Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio”.

Oggi, invece, si moltiplicano le “immense celebrazioni eucaristiche composte da migliaia e migliaia di partecipanti” che altro non fanno se non favorire il pericolo di “trasformare l’eucaristia, il grande mistero della fede, in una banale kermesse”, scrive il cardinale. “I preti che distribuiscono le sacre specie non conoscono nessuno e danno il corpo di Gesù a tutti, senza discernimento tra i cristiani e i non cristiani, partecipano alla profanazione del santo sacrificio eucaristico”. Il risultato di queste “gigantesche e ridicole autocelebrazioni” è che “davvero pochi comprendono che ‘voi annunciate la morte del Signore finché egli venga’”. 
Di nuovo, serve silenzio. “Non illudiamoci. Questa è la cosa veramente urgente: riscoprire il senso di Dio”, ha aggiunto ancora alla Nef: “Il Padre si lascia avvicinare solo nel silenzio. Ciò di cui la chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un altro programma pastorale, un cambiamento strutturale. Il programma c’è già: è quello che abbiamo sempre avuto, tratto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. E’ centrato su Cristo stesso, che dobbiamo conoscere, amare e imitare, per vivere in Lui e per Lui, per trasformare il nostro mondo che è degradato, perché gli esseri umani vivono come se Dio non esistesse”.

di Matteo Matzuzzi | 09 Ottobre 2016 ore 06:18


LETTERA ENCICLICA DI S.S. LEONE XIII SULLA DEVOZIONE A SAN GIUSEPPE

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QUAMQUAM PLURIES
LETTERA ENCICLICA DI
S.S. LEONE XIII
SULLA DEVOZIONE A SAN GIUSEPPE

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e agli altri Ordinarii territoriali che sono in pace e comunione con la Sede Apostolica.

Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Quantunque abbiamo già ordinato più volte che si facessero in tutto il mondo particolari preghiere e si raccomandassero a Dio nel modo più ampio gl’interessi della cattolicità, tuttavia nessuno si stupirà se riteniamo opportuno anche oggi ribadire nuovamente questo stesso dovere. Nei tempi funesti, soprattutto quando il potere delle tenebre sembra possa osare tutto a danno della cattolicità, la Chiesa è sempre stata solita supplicare Dio, suo autore e garante, con maggiore fervore e perseveranza, invocando pure l’intercessione dei Santi e particolarmente dell’augusta Vergine, madre di Dio, nel patrocinio dei quali vede il massimo della propria sicurezza. Presto o tardi il frutto delle preghiere e della speranza nella bontà divina si evidenzia.

Ora vi è ben noto, Venerabili Fratelli, che il tempo presente non è meno calamitoso di quelli più tristi già subiti dalla cristianità. Vediamo infatti perire in moltissimi la fede, che è il principio di tutte le virtù cristiane; vediamo raffreddarsi la carità, e la gioventù degradarsi nei costumi e nelle idee; dovunque si osteggia con violenza e con perfidia la Chiesa di Gesù Cristo; si combatte atrocemente il Pontificato; e con tracotanza ogni giorno più sfrontata si tenta di scalzare le stesse fondamenta della religione. Dove si sia precipitati e che cosa ancora si vada agitando negli animi è più noto di quanto sia necessario spiegarlo con le parole.

In questa difficile e miserabile situazione, poiché i mali sono più forti dei rimedi umani, non resta che chiedere la guarigione alla potenza divina. Pertanto ritenemmo opportuno spronare la pietà del popolo cristiano perché implori con nuovo fervore e nuova costanza l’aiuto di Dio onnipotente. Quindi, avvicinandosi il mese di ottobre, che in passato abbiamo già decretato sacro alla Vergine Maria del Rosario, vi esortiamo calorosamente a che quest’anno tutto il mese suddetto venga celebrato con la maggior devozione, pietà e partecipazione possibili.

Sappiamo bene che nella materna bontà della Vergine è pronto il rifugio, e siamo certi che le Nostre speranze non sono invano riposte in Lei. Se tante volte Ella ci fu propizia nei fortunosi tempi del cristianesimo, perché temere che non voglia ripetere gli esempi del suo potere e della sua grazia, ove sia umilmente costantemente invocata con preghiere comuni? Anzi, tanto più speriamo che in mirabile modo ci assista, quanto più a lungo volle essere pregata.
Se non che un’altra cosa Ci siamo pure proposta, e per essa voi, Venerabili Fratelli, Ci presterete, come al solito, la vostra diligente cooperazione: per meglio rendere Iddio favorevole alle nostre preci e perché Egli, supplicato da più intercessori, porga più rapido e largo soccorso alla sua Chiesa, riteniamo che sia sommamente conveniente che il popolo cristiano si abitui a pregare con singolare devozione e animo fiducioso, insieme alla Vergine Madre di Dio, il suo castissimo sposo San Giuseppe: il che abbiamo particolari motivi di credere che debba tornare accetto e caro alla stessa Vergine.

Quanto a questo argomento che per la prima volta trattiamo pubblicamente, ben sappiamo che la pietà popolare, poco favorevole, venne successivamente aumentando da quando i romani Pontefici, fin dai primi secoli, si impegnarono gradualmente a diffondere maggiormente e per ogni dove il culto di Giuseppe: abbiamo visto che esso è venuto aumentando ovunque in questi ultimi tempi, soprattutto da quando Pio IX, Nostro antecessore di felice memoria, su richiesta di moltissimi Vescovi, ebbe dichiarato il santissimo Patriarca patrono della Chiesa cattolica.

Nondimeno, poiché è di tanto rilievo che il suo culto metta profonde radici nelle istituzioni e nelle abitudini cattoliche, vogliamo che il popolo cristiano anzitutto riceva nuovo impulso dalla Nostra voce e dalla Nostra autorità.

Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere patrono speciale della Chiesa, e la Chiesa ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dal fatto che egli fu sposo di Maria e padre putativo di Gesù Cristo. Da qui derivarono tutta la sua grandezza, la grazia, la santità e la gloria. Certamente la dignità di Madre di Dio è tanto in alto che nulla vi può essere di più sublime. Ma poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei.

Così pure egli emerge tra tutti in augustissima dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde consegue che il Verbo di Dio modestamente si assoggettasse a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al padre loro.

Ora, da questa doppia dignità scaturivano naturalmente quei doveri che la natura prescrive ai padri di famiglia; per cui Giuseppe fu ad un tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina famiglia. E questi compiti e uffici egli infatti esercitò finché ebbe vita. S’impegnò a tutelare con sommo amore e quotidiana vigilanza la sua consorte e la divina prole; procacciò loro di continuo con le sue fatiche il necessario alla vita; allontanò da loro i pericoli minacciati dall’odio di un re, portandoli al sicuro altrove; nei disagi dei viaggi e nelle difficoltà dell’esilio fu compagno inseparabile, aiuto e conforto alla Vergine e a Gesù.
Ora la casa divina, che Giuseppe con quasi patria potestà governava, era la culla della nascente Chiesa.

La Vergine santissima, in quanto madre di Gesù Cristo, è anche madre di tutti i cristiani, da lei generati, in mezzo alle atrocissime pene del Redentore sul Calvario; così pure Gesù Cristo è come il primogenito dei cristiani, che gli sono fratelli per adozione e redenzione.

Ne consegue che il beatissimo Patriarca si consideri protettore, in modo speciale, della moltitudine dei cristiani di cui è formata la Chiesa, cioè di questa innumerevole famiglia sparsa in tutto il mondo sulla quale egli, come sposo di Maria e padre di Gesù Cristo, ha un’autorità pressoché paterna. È dunque cosa giusta e sommamente degna del beato Giuseppe che, come egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora col suo celeste patrocinio protegga e difenda la Chiesa di Cristo.

Queste cose, Venerabili Fratelli, come sapete, trovano riscontro in ciò che pensarono parecchi Padri della Chiesa, d’accordo con la sacra liturgia, e cioè che l’antico Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, anticipasse la persona e il ministero del nostro, e col suo splendore simboleggiasse la grandezza del futuro custode della divina famiglia. Per la verità, oltre all’avere entrambi lo stesso nome, non privo di significato, corrono tra loro ben altre chiarissime rassomiglianze a voi ben note: prima di tutte quella che l’antico Giuseppe si guadagnò in modo singolare la benevolenza e la grazia del suo signore, e che, avendo da lui avuto il governo della casa, tutte le prosperità e le benedizioni piovevano, per riguardo a Giuseppe, sul suo padrone. Ma v’è di più: egli, per volontà del monarca, governò con poteri sovrani tutto il regno, e nel tempo di pubblica calamità, per mancati raccolti e per la carestia, sovvenne con così stupenda provvidenza agli Egizi e ai popoli confinanti, che il re decretò si chiamasse salvatore del mondo.

Così in quell’antico Patriarca è possibile ravvisare la figura del nostro. Come quegli fu benefico e salutare per la casa del suo padrone e poi per tutto il regno, così questi, destinato alla custodia della cristianità, si deve reputare difensore e tutore della Chiesa, la quale è veramente la casa del Signore e il regno di Dio in terra.

Tutti i cristiani, di qualsivoglia condizione e stato, hanno ben motivo di affidarsi e abbandonarsi all’amorosa tutela di San Giuseppe. In Giuseppe i padri di famiglia hanno il più sublime modello di paterna vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esemplare d’amore, di concordia e di fede coniugale; i vergini un esempio e una guida dell’integrità verginale. I nobili, posta dinanzi a sé l’immagine di Giuseppe, imparino a serbare anche nell’avversa fortuna la loro dignità; i ricchi comprendano quali siano i beni che è opportuno desiderare con ardente bramosia e dei quali fare tesoro.

I proletari poi, gli operai e quanti sono meno fortunati, debbono, per un titolo o per diritto loro proprio, ricorrere a San Giuseppe, e da lui apprendere ciò che devono imitare. Infatti egli, sebbene di stirpe regia, unito in matrimonio con la più santa ed eccelsa tra le donne, e padre putativo del Figlio di Dio, nondimeno passa la sua vita nel lavoro, e con l’opera e l’arte sua procura il necessario al sostentamento dei suoi.

Se si riflette in modo avveduto, la condizione abietta non è di chi è più in basso: qualsiasi lavoro dell’operaio non solo non è disonorevole, ma associato alla virtù può molto, e nobilitarsi. Giuseppe, contento del poco e del suo, sopportò con animo forte ed elevato le strettezze inseparabili da quel fragilissimo vivere, dando esempio al suo figliuolo, il quale, pur essendo signore di tutte le cose, vestì le sembianze di servo, e volontariamente abbracciò una somma povertà e l’indigenza.

Di fronte a queste considerazioni, i poveri e quanti si guadagnano la vita col lavoro delle mani debbono sollevare l’animo, e rettamente pensare. A coloro ai quali, se è vero che la giustizia consente di potere affrancarsi dalla indigenza e levarsi a migliore condizione, tuttavia né la ragione né la giustizia permettono di sconvolgere l’ordine stabilito dalla provvidenza di Dio. Anzi, il trascendere alla violenza e compiere aggressioni in genere e tumulti è un folle sistema che spesso aggrava i mali stessi che si vorrebbero alleggerire. Quindi i proletari, se hanno buon senso, non confidino nelle promesse di gente sediziosa, ma negli esempi e nel patrocinio del beato Giuseppe, e nella materna carità della Chiesa la quale si prende ogni giorno grande cura del loro stato.

Pertanto, Venerabili Fratelli, ripromettendoci moltissimo dalla vostra autorità e dal vostro zelo episcopale, né dubitando che le pie e buone persone intraprendano molte altre cose, e anche maggiori di quelle comandate da Noi, decretiamo che in tutto il mese di ottobre si aggiunga nella recita del Rosario, da Noi già prescritto altre volte, l’orazione a San Giuseppe, il cui testo riceverete insieme con quell’Enciclica, e così si faccia ogni anno in perpetuo.

A coloro, poi, che devotamente reciteranno la suddetta orazione, concediamo ogni volta l’indulgenza di sette anni e altrettante quarantene. È anche proficuo e sommamente apprezzabile il consacrare, come già avviene in vari luoghi, con giornalieri esercizi di pietà il mese di marzo in onore del Santo Patriarca. Dove poi ciò non si possa fare agevolmente, sarebbe almeno desiderabile che prima della sua festa, nel tempio principale di ciascun luogo, si celebrasse un triduo di preghiere.

Raccomandiamo inoltre a tutti i fedeli dei paesi nei quali il 19 marzo, giorno sacro a San Giuseppe, non è compreso nel novero delle feste di precetto, che non trascurino tuttavia per quanto è possibile, di santificarlo almeno privatamente, ad onore del celeste Patrono, quasi fosse giorno festivo.

Frattanto, auspice dei celesti doni e pegno della Nostra benevolenza verso di voi, Venerabili Fratelli, impartiamo di tutto cuore nel Signore l’Apostolica Benedizione a voi, al Clero e al vostro popolo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 agosto 1889, anno duodecimo del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII


Orazione a San Giuseppe

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio dopo quello della tua Santissima Sposa.
Deh! per quel sacro vincolo di carità che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, guarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni.
Proteggi, o provvido Custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità: e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché sul tuo esempio, e mercé il tuo soccorso, possiamo vivere virtuosamente, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Così sia.

A te o beato Giuseppe


La preghiera A te o beato Giuseppe


"A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio, insieme con quello della tua santissima Sposa.
Deh! Per quel sacro vincolo di carità, che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno, la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto soccorri ai nostri bisogni.
Proteggi, o provvido Custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità; e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso possiamo virtuosamente vivere, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Amen.

 *

Questa preghiera fu apposta da Leone XIII  in calce all’enciclicaQuamquam pluries del 15 agosto 1889. La devozione a san Giuseppe, già dichiarato patrono della Chiesa universale dal beato Pio IX l’8 dicembre 1870, fu particolarmente sostenuta da Leone XIII che, eletto papa il 20 febbraio 1878, mise fin dall’inizio il suo pontificato «sotto la potentissima protezione di san Giuseppe, celeste patrono della Chiesa» (allocuzione ai cardinali del 28 marzo 1878).

AMDG et BVM

PER SCONFIGGERE IL MALE PRESENTE NEL NOSTRO PAESE


Preghiera della Crociata N°113

PER SCONFIGGERE IL MALE PRESENTE NEL NOSTRO PAESE 

Mercoledì, 10 luglio 2013, alle ore 15:26

«. . . La battaglia infuria tra coloro che difendono le Leggi di Dio e coloro che le dissacrano. Coloro che difendono pubblicamente le Leggi di Dio vengono demonizzati ed accusati di essere crudeli e malvagi. 

L’inganno e le menzogne, di cui sono pieni coloro che dicono di amare l’umanità, sono evidenti quando costoro giustificano pubblicamente il peccato mortale . . .  Consolatevi cari figli, nella consapevolezza che io, la Madre della Salvezza, posso sconfiggere il maligno presente in mezzo a voi. Dovete invocarmi ogni volta che vi sentite sopraffatti dal potere che egli esercita sulle vostre nazioni. Io distruggerò la sua influenza, tutte le volte che presenterete la vostra richiesta innanzi a Me. Vi prego di recitare questa Preghiera della Crociata:».
"O Madre della Salvezza,
vieni in mezzo a noi
e copri il nostro paese
con la tua protezione.
Schiaccia la testa della bestia
ed estirpa la sua malvagia influenza tra di noi.
Aiutaci, quali tuoi poveri figli perduti,
a stare in piedi e proferire la Verità,
tutte le volte che siamo circondati dalle menzogne.
Ti prego, oh Madre di Dio,
di proteggere il nostro paese
e di conservarci forti,
così che possiamo rimanere leali a tuo Figlio
durante il tempo della nostra persecuzione.
Amen."