sabato 19 luglio 2014

Carissimo Amico/a: Un giorno del 1915, a Roma, un uomo maturo vocifera davanti a fra Massimiliano Maria Kolbe, contro il Papa e la Chiesa.



Carissimo Amico/a,

Un giorno del 1915, a Roma, un uomo maturo vocifera davanti a fra Massimiliano Maria Kolbe, contro il Papa e la Chiesa. Il giovane francescano intavola la discussione. «Me ne intendo, giovincello! Sono dottore in filosofia», esclama lo sconosciuto. «E anch'io», replica il fraticello di ventun anni, che ne dimostra sedici. Stupefatto, l'uomo cambia tono. Allora, pazientemente, con una logica inesorabile, il frate riprende uno per uno gli argomenti del suo interlocutore e li ritorce contro di lui. «Verso la fine della discussione, racconta un testimone, il miscredente tacque. Sembrava riflettere profondamente». Chi è mai questo apostolo ardente, descritto da Papa Paolo VI come un «tipo d'uomo cui possiamo conformare la nostra arte di vivere, riconoscendogli il privilegio dell'apostolo Paolo, quello cioè di poter dire al popolo cristiano: Siate miei imitatori, come anch'io lo sono di Cristo (1 Cor. 11, 1)»?


Le due corone

Raimondo Kolbe, il futuro San Massimiliano Maria (canonizzato da Papa Giovanni Paolo II, il 10 ottobre 1982), è nato il 7 gennaio 1894, da modesti tessitori polacchi. Suo padre è molto dolce, un po' taciturno. Sua madre, Maria, è energica e laboriosa. Oltre a due figli morti in tenera età, la famiglia conta tre ragazzi, Francesco, Raimondo e Giuseppe. Raimondo è violento, indipendente, intraprendente e testardo. Di indole vivace e impulsiva, mette spesso a dura prova la pazienza di sua madre, che un giorno gli grida: «Povero figlio mio, che fine farai?»
Il rimprovero provoca nel piccolo una vera e propria conversione. Diventa bravo ed ubbidiente. La mamma si accorge che scompare spesso dietro l'armadio, dove c'è un altarino di Nostra Signora di Czestochowa. Lì, egli prega e piange. «Andiamo, Raimondo, gli dice sua madre, perchè piangi come una ragazzina? - Quando tu mi hai detto: «Raimondo, che fine farai?» ho provato un grosso dispiacere e sono andato a domandare alla Santa Vergine che fine avrei fatto... La Santa Vergine mi è apparsa, tenendo due corone, una bianca e l'altra rossa. Mi ha guardato con amore e mi ha chiesto quale scegliessi; quella bianca significa che sarò sempre puro e quella rossa che morirò martire. Ho risposto: «Le scelgo tutte e due!»».

A partire da quell'incontro, l'anima del fanciullo conserverà un amore indefettibile per la Santa Vergine. La lettura degli scritti di San Luigi Maria Grignion de Monfort gli insegna che «Dio vuol rivelare e far scoprire Maria, il capolavoro delle sue mani, in questi ultimi tempi... Maria deve brillare, più che mai, in misericordia, in forza ed in grazia» (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine). Fa dono della sua vita alla Santa Vergine. La consacrazione mariana è un dono d'amore che offre tutto se stesso e unisce all'Immacolata. «Come l'Immacolata appartiene a Gesù, a Dio, così ogni anima, attraverso Lei e in Lei, apparterrà a Gesù, a Dio, e ciò molto meglio che senza di Lei», scriverà San Massimiliano. «La Chiesa cattolica ha sempre affermato che l'imitazione della Vergine Maria, non solo non distoglie dallo sforzo di seguire fedelmente Cristo, ma lo rende anzi più amabile e più facile» (Paolo VI, Esortazione Apostolica Signum Magnum, 13 maggio 1967, n. 8).

Attirato da Maria, Raimondo Kolbe abbraccia la vita religiosa. Il 4 settembre 1910, indossa l'abito francescano, e assume il nome di «fra Massimiliano Maria». Nell'autunno del 1912, i superiori lo mandano all'università gregoriana di Roma. Gli studi non lo distolgono dal suo ideale di santità: vuol procurare a Dio la più grande gloria possibile. «La gloria di Dio consiste nella salvezza delle anime. La salvezza delle anime e la santificazione perfetta di esse, già riscattate ad un prezzo molto elevato dalla morte in croce di Gesù, cominciando naturalmente dalla propria anima, è dunque il nostro nobile ideale». Ma la via della salvezza si trova nel compimento della volontà di Dio. Così il giovane frate scrive a sua madre: «Non ti augurerò nè la salute, nè la prosperità. Perchè? Perchè vorrei augurarti qualcosa di meglio, qualcosa di talmente buono che Dio stesso non saprebbe augurarti di più: che in tutte le cose sia fatta in te, mamma, la volontà di questo ottimo Padre, che tu sappia in tutte le cose compiere la volontà di Dio! È tutto quel che posso augurarti di meglio».




Sotto i piedi di Lucifero

È a Roma che la Santa Vergine gli ispira di fondare la «Milizia o Missione dell'Immacolata»: "MI". All'epoca, la massoneria esultava nella città eterna. «Quando i massoni cominciarono a darsi da fare sempre più sfrontatamente, spiega fra Massimiliano, ed ebbero spiegato il loro stendardo sotto le finestre del Vaticano, quello stendardo in cui, su sfondo nero, Lucifero calpestava l'arcangelo San Michele, quando si misero a distribuire manifestini che inveivano contro il Santo Padre, nacque in me l'idea di fondare un'associazione che avesse come scopo quello di combattere i massoni e gli altri tizzoni d'inferno».
La massoneria è una società segreta dalle mille ramificazioni, che si sforza di dirigere il mondo secondo principi che escludono l'autorità di Dio e la Rivelazione. «Siccome la missione assolutamente propria e specifica della Chiesa cattolica consiste nel ricevere nella loro pienezza e nel conservare in una purezza incorruttibile le dottrine rivelate da Dio, nonché l'autorità costituita per insegnarle, con gli altri soccorsi forniti dal cielo in vista della salvezza degli uomini, è contro di essa che i massoni spiegano il massimo accanimento e dirigono i loro attacchi più violenti» (Leone XIII, Enciclica Humanum genus, 20 aprile 1884). Ma la massoneria distrugge pure la società civile, poiché i suoi principi contraddicono la legge naturale e minano «i fondamenti della giustizia e dell'onestà» (id.). Molto spesso, essa propone all'uomo, come sola regola d'azione, la soddisfazione dei suoi desideri. D'altro canto, la pretesa di rendere lo Stato completamente estraneo alla religione e di amministrare gli affari pubblici come se Dio non esistesse, è «una temerarietà senza pari» (id.). Infatti, come ogni uomo ha l'obbligo «di offrire a Dio il culto di una pia riconoscenza, perchè dobbiamo a Lui la vita ed i beni che la accompagnano, così un dovere analogo si impone ai popoli ed alle società» (id.).

La Congregazione per la Dottrina della Fede, con una notifica in data 26 novembre 1983, ha confermato l'insegnamento di Leone XIII: «Il giudizio della Chiesa sulle associazioni massoniche rimane invariato, perchè i loro principi sono stati sempre considerati come inconciliabili con la dottrina della Chiesa, e l'iscrizione a tali associazioni rimane vietata dalla Chiesa. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa comunione».

Minacce programmate scientificamente

Oggi, la massoneria esalta una «cultura di morte», favorendo la contraccezione, l'aborto e l'eutanasia. Contribuisce così alla rovina della famiglia. Per il massone Pierre Simon, che scriveva, nel 1979, «il mio vero essere, non è più il mio corpo, ma la mia loggia (massonica)», la vita è «non più un dono di Dio, ma un materiale che si gestisce... Perde il carattere di assolutezza che aveva nella Genesi». La si può dunque manipolare come si vuole. Così, «la sessualità sarà dissociata dalla procreazione, e la procreazione dalla paternità. È tutto il concetto di famiglia che si sta capovolgendo». Principi analoghi animano attualmente numerosi organismi che, senza esser sempre infeudati apertamente alla massoneria, operano nello stesso spirito. Per questo, Papa Giovanni Paolo II poteva dire a Denver, il 4 agosto 1993: «Le minacce contro la vita non scemano col passar del tempo. Al contrario, prendono dimensioni enormi... Sono minacce programmate scientificamente e sistematicamente».

In presenza delle stesse forze del male, già operanti alla sua epoca, San Massimiliano offre alla nostra vista un bell'esempio di zelo apostolico. Come San Paolo, si applica a vincere il male con il bene (Rom. 12, 21). Forte della sua fede e di una teologia molto sicura, si rivolge alla Vergine Maria ed al di Lei divino Figlio. Per venire a salvarci, il Verbo di Dio ha degnato di farsi uomo, e di scegliere per Madre una vergine promessa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide, e il nome della vergine era Maria (Luca 1, 26-27). La Madre del Salvatore, Maria, fu dotata da Dio di doni all'altezza di una tanto grande responsabilità. L'angelo Gabriele, all'atto dell'Annunciazione, la saluta quale piena di grazia (Luca 1, 28). Esplicitando quest'espressione, Papa Pio IX ha proclamato, nel 1854, il dogma dell'Immacolata Concezione: «La beata Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio Onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale». Non avendo mai conosciuto il peccato, l'Immacolata ha un potere immenso contro qualsiasi male ed è divenuta la «Madre di tutte le Grazie».


Salvare tutte le anime

Potente contro il male, Nostra Signora trionfa sul demonio. Così, fra Massimiliano fonda la «Missione dell'Immacolata», sulla base della parola di Dio al serpente (il diavolo): Essa (la Santa Vergine) ti schiaccerà il capo (Gen. 3, 15 - Vulgata). Il santo collega questa divina profezia con l'affermazione della liturgia: «Da te sola, o Maria, sono state vinte tutte le eresie». Lo scopo della sua opera è quello di ottenere «la conversione dei peccatori, degli eretici, degli scismatici, ecc., ed, in particolare, dei massoni; e la santificazione di tutti gli uomini sotto la direzione e per il tramite della Beata Vergine Maria Immacolata». Nel suo ardore, egli desidera la conversione di tutti i peccatori, poiché il santo non dirà mai «salvare anime», ma «tutte le anime». Questo desiderio corrisponde al disegno di Dio. Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio Unigenito, perchè chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Giov. 3, 16). È Dio che ha amato noi ed ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1 Giov. 4, 10).È lui la vittima espiatrice per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo (1 Giov. 2, 2).

I membri della «Milizia o Missione» faranno l'offerta totale di se stessi alla Beata Vergine Maria Immacolata, come strumenti nelle sue mani, e porteranno la Medaglia Miracolosa. Reciteranno, almeno una volta al giorno, la seguente preghiera: «O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a Te e per tutti coloro che non ricorrono a Te, in particolare per i massoni e per tutti quelli che ti sono raccomandati».


Cristianizzare la cultura

La salute di fra Massimiliano non è vigorosa. Malgrado ciò, egli si applica con coraggio allo studio, supera brillantemente gli esami, e diventa, nel 1915, dottore in filosofia. Quattro anni più tardi, ottiene, con pari successo, un dottorato di teologia. Nel frattempo, è stato ordinato sacerdote, il 28 aprile 1918. Progetta la propria formazione intellettuale con lo scopo di istruire il prossimo e di contribuire in questo modo alla salvezza delle anime.

Il suo desiderio è quello di «far servire qualsiasi progresso per la gloria di Dio», vale a dire cristianizzare la cultura moderna. 
«I nuovi problemi e le ricerche suscitate dal progresso del mondo moderno, dichiara, alla nostra epoca, il Concilio Vaticano II, saranno esaminati con la massima cura. Si afferrerà più profondamente come la fede e la ragione si uniscano per raggiungere l'unica verità...In tal modo, si realizzerà come una presenza pubblica, duratura ed universale, del pensiero cristiano in qualsiasi sforzo intellettuale verso la cultura più elevata; e gli studenti presso tali istituti (scuole superiori, università e facoltà) saranno formati in modo da diventare uomini eminenti per il loro sapere, pronti ad assumere gli incarichi più gravosi in seno alla società, e nello stesso tempo, testimoni della fede nel mondo» (Gravissimum educationis, 10).

Ma il santo deve sperimentare che il bene non si fa senza la croce. Infatti, come ricorda Santa Teresa di Gesù Bambino, «solo la sofferenza genera le anime». Verso la fine del 1919, viene inviato a Zakopane, in un sanatorio, in cui mancano i soccorsi religiosi. Benchè ammalato, intraprende un difficile apostolato presso gli altri degenti, aiutandosi con medaglie miracolose. Conquista i cuori e le menti ad uno ad uno, e il suo successo è tale, che lo si invita a tenere conferenze. L'apostolo di Maria non aspettava che quello. Molti increduli si convertono.




Il veleno dell'indifferenza

Poi, Padre Massimiliano inaugura una serie di «incontri apologetici», sull'esistenza di Dio e la divinità di Cristo. L'amore che manifesta per la verità traspare in una lettera scritta al fratello Giuseppe: «Ai giorni nostri, il veleno peggiore è l'indifferenza, che trova le sue vittime non solo fra la borghesia, ma anche fra i monaci, a gradi diversi, naturalmente». «Tutti i cristiani, dice Papa Pio XII, dovrebbero avere, per quanto possibile, un'istruzione religiosa profonda ed organica. Sarebbe, infatti, pericoloso sviluppare tutte le altre conoscenze e lasciare il patrimonio religioso senza cambiamenti, tale quale esso era nella prima infanzia. Per forza di cose incompleto e superficiale, sarebbe soffocato e forse distrutto, dalla cultura areligiosa e dalle esperienze della vita adulta, come testimoniano tutti coloro la cui fede naufragò, a causa di dubbi rimasti nell'ombra, di problemi restati senza soluzione. Siccome è necessario che il fondamento della fede sia razionale, uno studio sufficiente dell'apologetica diventa indispensabile» (24 marzo 1957).

Nel 1927, Padre Massimiliano fonda la città mariana francescana di Niepokalanow (letteralmente: la città dell'Immacolata). Tutto ivi è dedicato a Maria. Numerosi sono coloro che chiedono di essere ammessi al noviziato, a tal punto che il convento conterà fino a mille monaci. «A Niepokalanow, dice Padre Massimiliano, viviamo con un'idea fissa, se ci si può esprimere così, scelta volontariamente ed amata: l'Immacolata!» La stampa, la cui influenza non cessa di crescere, gli sembra un terreno di apostolato privilegiato. Lancia, in vista dell'evangelizzazione, la rivista «Il Cavaliere dell'Immacolata», che diventerà ben presto la più importante pubblicazione della Polonia. Nel 1939, la tiratura raggiungerà il milione di esemplari.




«Conosce il giapponese?»

Lungi dall'essere l'unico obiettivo di Padre Massimiliano, la Polonia è soltanto un trampolino. Appena tre anni dopo la fondazione di Niepokalanow, incontra, in un treno, degli studenti giapponesi. La conversazione si avvia, e il monaco offre delle medaglie miracolose. In cambio, gli studenti gli danno degli elefantini di legno che servono loro da feticci. Da allora, il santo non cessa di pensare alla grande pena di quelle anime senza Dio. Perciò, un bel giorno, si presenta al suo provinciale e gli chiede il permesso di andare in Giappone per fondarvi una Niepokalanow giapponese. «Ha denaro? domanda il Padre Provinciale - No. - Conosce il giapponese? - No. - Ha almeno amici laggiù, qualche appoggio? - Non ancora, ma ne troverò, con l'aiuto di Dio».

Una volta ottenute tutte le autorizzazioni, Padre Massimiliano parte per il Giappone, nel 1930, con quattro fratelli. A forza di lavoro, di audacia, di preghiere e di fiducia nell'Immacolata, essi riescono a creare la «Mugenzai no Sono», testualmente: il giardino dell'Immacolata. Due anni dopo la fondazione in Giappone, Padre Massimiliano s'imbarca, per andare a fondare una città in India. Alle prese con grosse difficoltà, prega Santa Teresa di Lisieux: non aveva convenuto con lei, un tempo, a Roma, che avrebbe pregato tutti i giorni per la sua canonizzazione, ma che, in cambio, essa sarebbe stata la patrona delle sue opere? Santa Teresa onora il contratto. Tutti gli ostacoli spariscono come per incanto. Ma, spossato e consunto dalla febbre, l'apostolo di Maria Immacolata deve rientrare in Polonia, nel 1936.


L'amore o il peccato

Settembre 1939: la guerra si abbatte sul paese. San Massimiliano si dedica all'apostolato con più ardore che mai. «Se il bene consiste nell'amore di Dio ed in tutto ciò che scaturisce dall'amore, il male, nella sua essenza, è una negazione dell'amore», si legge nell'ultimo articolo da lui pubblicato. Ecco il vero conflitto. In fondo ad ogni anima, vi sono questi due avversari: il bene ed il male, l'amore ed il peccato. Sant'Agostino ha espresso tale conflitto in questi termini: «Due amori hanno costruito due città: l'amore di sè fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrestre; l'amore di Dio fino al disprezzo di sè ha costruito la città celeste» (De civitate Dei, XIV, 28).

Il 17 febbraio 1941, poliziotti della Gestapo catturano Padre Massimiliano e quattro altri frati e li conducono, inizialmente, nella prigione di Pawiak, a Varsavia. Padre Massimiliano viene picchiato violentemente, in quanto religioso e prete. Scrive ai suoi discepoli rimasti a Niepokalanow: «L'Immacolata, Madre tanto amante, ci ha sempre circondati di tenerezza e veglierà sempre... Lasciamoci guidare da Lei, in modo sempre più perfetto, dove Essa vorrà portarci, e qualunque sia la sua volontà, affinchè, compiendo fino in fondo il nostro dovere, possiamo, per amore, salvare tutte le anime». Qualche giorno più tardi, Padre Kolbe viene trasferito al campo di concentramento di Auschwitz.

Ben presto ricoverato all'ospedale, a causa delle sevizie subite, passa tutte le notti a confessare, malgrado il divieto e la minaccia di rappresaglie. Sa convertire in bene il male stesso, e spiega un giorno ad un malato: «L'odio non è una forza creatrice. Solo l'amore è creatore. Questi dolori non ci faranno cedere, ma devono aiutarci, sempre di più, ad esser forti. Sono necessari, con altri sacrifici, perchè coloro che rimarranno dopo di noi siano felici». Fa condividere ai suoi compagni l'esperienza del mistero pasquale, in cui la sofferenza vissuta nella fede, si trasforma in gaudio. «Il paradosso della condizione cristiana chiarisce singolarmente quello della condizione umana: nè la prova, nè la sofferenza sono eliminate da questo mondo, ma assumono un senso nuovo, nella certezza di partecipare alla Redenzione operata dal Signore e di condividere la sua gloria» (Paolo VI, Esortazione Apostolica Sul gaudio cristiano, 9 maggio 1975).




Lavorare con tutte e due le mani

Alla fine di luglio del 1941, un prigioniero del blocco 14, quello di Padre Massimiliano, è evaso. Il capo del campo di concentramento aveva avvertito che, per ogni evaso, dieci uomini sarebbero stati condannati a morire di fame e di sete. Uno degli infelici designati per morire, grida: «Oh! povera moglie mia, figli miei, non vi rivedrò più!» Allora, in mezzo ai compagni interdetti, Padre Massimiliano si fa strada ed esce dalle file. «Vorrei morire al posto di uno di questi condannati», e designa quello che si era lamentato. «Chi sei?» chiede il capo. «Prete cattolico», risponde Padre Massimiliano. Poichè è come prete cattolico che vuol dare la propria vita. L'ufficiale, stupefatto, rimane in silenzio per un istante, poi accetta l'eroica proposta.

I carcerieri si rendono conto che, nel blocco della morte, succede qualcosa di nuovo. Invece delle grida abituali di disperazione, sentono alzarsi canti. La presenza di Padre Massimiliano ha cambiato l'atmosfera dell'orribile cella. La disperazione ha lasciato il posto ad un'aspirazione verso il cielo, verso la Madre della Misericordia, un'aspirazione piena di speranza, di accettazione e di amore. Alla vigilia dell'Assunzione, solo Padre Massimiliano è pienamente cosciente. Quando le guardie entrano per dargli il colpo di grazia, è in preghiera. Vedendo la siringa, tende da sè il braccio scarno all'iniezione mortale.

In vita, San Massimiliano Kolbe amava ripetere: «Su questa terra, non possiamo lavorare che con una sola mano, perchè con l'altra dobbiamo aggrapparci, per non cadere. Ma in Cielo, sarà diverso! Nessun pericolo di scivolare, di cadere! Allora, lavoreremo ancora di più, con tutte e due le mani!» Gli chiediamo di intercedere per Lei e per tutti coloro che Le sono cari, vivi e defunti, presso la Vergine Immacolata e San Giuseppe.
Dom Antoine Marie osb

Cardinal Giuseppe Siri e il "progressismo", "sociologismo", ecc.



Viviamo in un'epoca che ha paura di parlare chiaro

«Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! […] Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. […] Si ha vergogna di Dio».

***

Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole.
Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati.

Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa.
Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo».
Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica

Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?
Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.

La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.

La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!

Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.

Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultmann, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.

Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.

Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.

Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.

In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.

Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre e con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!

Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.

La parte maggiore della produzione - ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni - pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:

— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa - detta per l’occasione postcostantiniana - avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1962 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione - tutti lo vedono - costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;

le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;

il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.

Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!

Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.
È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti

Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.

Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.

Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. 
Eccone i punti.

— La filologia, l’archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.

— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.

— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.

Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.

Queste sono vere «teologie», anzitutto?
È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.

In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.

— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.

— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal “cristianissimo” e “devoto” Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.

Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere - con altre cose - una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.

Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
E questo è grave. Infatti.

La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi principî del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.

Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».

La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.

Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.

Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, sì da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.

Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.

La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!

Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

7. Il rifiuto della apologetica

Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.

Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.
Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.

Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo - come gli altri - ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.

Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.

Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.

Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.

Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.
Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici, e infatti essi non si sono minimamente schiodati dalle loro posizioni

Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.

Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!
Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.


9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.

La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone perbene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.

Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.

Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».

Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?

Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.

L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.

La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.

Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.

Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.

Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservanonon le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.

A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.

Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.

Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. 
Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.

Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. 

Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.

Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.

Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? 

Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.

Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.

Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi detti magari «di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tamquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.

Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata
Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. 
Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.

Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.

Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio.
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.
Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.

 
Cardinal Giuseppe Siri, «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975
“Ecco, Io sto con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”
(Mt., XXVIII, 20).