giovedì 7 marzo 2013

Domenica 10 Marzo 2013, IV Domenica di Quaresima - Anno C


"L'Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta


Domenica 10 Marzo 2013, IV Domenica di Quaresima - Anno C


Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 15,1-3.11-32.
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Allora egli disse loro questa parabola:
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;
non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi.
Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Traduzione liturgica della Bibbia


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 205 pagina 327.


1“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.
L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.
“Vieni con Me qui sopra”.
Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.
“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico. Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio nome…”.
“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.
“Ti devi abituare a lavorare in mio nome. Non sei venuto per questo?”.
“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.
“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo. Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fànne parti uguali. Ma fàlle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.
“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.
“Dirai: “Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime””.
“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.
“Perché? Non ti vuoi redimere?”.
“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.
“Lascia, e fa’ come Io dico”.
“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.

“Dio ti benedica per la tua misericordia… 2Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.
“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.
“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato… Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.
Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.
“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.
Giovanni di Endor si calma poco a poco…
Quando lo vede calmato, Gesù dice: “Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.
Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.
3“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi.

Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore — che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé — ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmachi i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre — era nel suo diritto e nel suo dovere — lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.


Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dàmmi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”. “Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”. “Non ti chiederò nulla. Sta’ sicuro. Dàmmi la mia parte”.


Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.

4Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”. Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente.


L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci — perché si era in paese pagano e vi erano molti porci — e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato — perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale — vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”. E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava: “I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”. Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…

5Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: “Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…’. Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”. E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.
Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore. Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”. “No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”. E il figlio, piangendo più forte, disse: “Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”. Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro: “Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato. Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.
6Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al

suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”. E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”. Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa.
Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.
Il padre disse allora stringendoselo al seno: “Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese. 

7Così, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”. Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento.
Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.


Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…

8…Gli apostoli, insieme alla Madre e alle donne, vanno verso casa preceduti da Marjziam che saltella correndo avanti. Ma presto ritorna e prende Maria per mano dicendole: “Vieni con me. Ti devo dire una cosa, da soli”. E Maria lo accontenta.
Torcono verso il pozzo, sito in un angolo del cortiletto, tutto velato da una pergola folta che da terra sale con un arco verso la terrazza. Là dietro è l’Iscariota.
“Giuda, che vuoi? Vai, Marjziam… Parla, che vuoi?”.
“Io sono in colpa… Non oso andare dal Maestro né affrontare i compagni… Aiutami…”.
“Ti aiuterò. Ma non pensi quanto dolore dài? Mio Figlio ha pianto per causa tua. E i compagni ne hanno sofferto. Ma vieni. Nessuno ti dirà niente. E, se puoi, non ricadere più in queste colpe. È indegno di un uomo, ed è sacrilego verso il Verbo di Dio”.
“E tu, Madre, mi perdoni?”.
“Io? Io non conto presso te che ti senti tanto grande. Io sono la più piccola delle serve del Signore. Come ti puoi preoccupare di me se non hai pietà di mio Figlio?”.
“Perché ho anche io una madre e, se ho il tuo perdono, mi pare di avere il suo”.
“Ella non sa questa tua colpa”.
“Ma ella mi aveva fatto giurare di essere buono col Maestro. Sono spergiuro. Sento il rimprovero dell’anima di mia madre”.
“Senti questo? E il lamento e il rimprovero del Padre e del Verbo non lo senti? Sei un disgraziato, Giuda! Semini, in te e in chi ti ama, il dolore”.
Maria è molto seria e mesta. Senza acredine parla, ma con molta serietà. Giuda piange.
“Non piangere. Ma migliorati. Vieni”, e lo prende per mano entrando così nella cucina.
Lo stupore di tutti è vivissimo. Ma Maria previene ogni uscita poco pietosa. Dice: “Giuda è ritornato. Fate come il primogenito dopo il discorso del padre. Giovanni, va’ ad avvisare Gesù”.
Giovanni di Zebedeo parte di corsa.
Un silenzio grava nella cucina… Poi Giuda dice: “Perdonatemi, tu Simone per il primo. Hai un cuore tanto paterno. Sono un orfano io pure”.
“Sì, sì, ti perdono. Per favore, non parlarne più. Siamo fratelli… e non mi piacciono questi alti e bassi di perdoni chiesti e di ricadute fatte. Avviliscono chi li fa e chi li dà. Ecco Gesù. Vai da Lui. E basta”.
Giuda va mentre Pietro, non potendo fare altro, si dà a spezzare con foga delle legna secche…

Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/







Qualcosa si è spezzato nei fedeli ...



Chi ama veramente il Papa?

papa-ratzinger
(su Radicati nella fede

Ma chi ama veramente il Papa? C’è da domandarselo in un momento così! Pensavamo di non vedere, prima di morire, le dimissioni del Papa.

Sappiamo che teoricamente sono sempre state possibili, ma come negare che sono un fatto così straordinario da turbare? 

Da sempre sai che il Papa, come un padre, è Papa per tutta la vita. Da sempre sai che il Papa invecchia, anche tanto, e poi muore e muore da Papa, offrendo, come e più di ogni anima cristiana, l’ultimo sacrificio di sé per il bene della Chiesa.

Ma ora qualcosa si è spezzato, certamente nella coscienza dei fedeli, già messi alla prova in queste terribili “sabbie mobili” della Chiesa “moderna”. Qualcosa si è spezzato nei fedeli, ora infragiliti anche dalle dimissioni del Papa.

C’è ancora qualcosa di certo? di fermo? Tutte le circostanze sembrano concorrere contro questo desiderio di stabilità.

Sappiamo che le dimissioni del Papa sono teoricamente sempre possibili, e qualcosa di lontanamente simile è già successo in qualche piega del lontano medioevo, ma come negare che le circostanze drammatiche in cui oggi cadono queste dimissioni, rendono questo fatto spaventosamente unico?
Ai tempi dei “pasticci” vaticani, del lontano passato, poteva saltar fuori una dimissione (pochissime per la verità), si poteva assistere anche a qualche anti-papa, ma in quel passato la fede cattolica era chiara nei suoi dogmi.

Il mondo antico non era attraversato dalla peste del cristianesimo modernista, da ambigui concili pastorali, che oggi hanno confuso le parole cristiane. C’era la Messa, chiara per tutti, che non veniva ridicolizzata e imbastardita come nel teatrino delle chiese della modernità.

In una parola, nel passato il problema era disciplinare, non di fede.
Oggi no. Oggi il Papa si dimette mentre la barca di Pietro è nella tempesta più nera, quella della fede in pericolo.

Nell’Anno della fede il Papa si ritira, non è emblematico questo? Lascia una Chiesa che è un guazzabuglio di teorie, di pratiche pastorali le più disparate. Lascia la Chiesa in un bagno di secolarizzazione tremenda, dove i pastori sembrano più impiegati che uomini di Dio.
Questa spaventosa realtà non sarà nascosta dalle parole falsamente tranquillizzanti dei “cicisbei di corte”; non sarà nascosta dalle parole perbeniste dei soliti quattro “conservatori” che vogliono far credere che la Chiesa sia già tornata alla sua Tradizione.


In tutto questo disastro chi ama veramente il Papa? Ama il Papa chi è preoccupato della fede. Il successore di Pietro c’è nella Chiesa come custode della fede e dell’unità disciplinare che da essa discende. Allora amare il successore di Pietro, amare il Papa, vuol dire amare il suo compito, cioè il custodire il deposito e il confermare nella fede i fratelli.
Amare il Papa fino alle lacrime, vuol dire amare la fede cattolica fino a morire per essa, come i martiri.


Preghiamo per il Papa, preghiamo tanto, ma ricordando che amare il Papa per qualcosa di meno della fede non sarebbe un vero amore al successore di Pietro




La morte di San Giuseppe



La morte di San Giuseppe
(dalle rivelazioni di Madre Cecilia Baji)

Non abbiamo notizie certe sulla morte di San Giuseppe.
Può essere utile tuttavia la lettura di un testo di una grande mistica, Madre Cecilia Baji, a cui è stata rivelata la vita del nostro santo.
Il testo che riporto ha l'imprimatur di Mons. Fiorino Tagliaferri (1977),
allora Vescovo di Viterbo; come tutte le rivelazioni private non richiede
- di per sè - l' assenso proprio della fede soprannaturale.


inizio della citazione:



Il felicissimo transito di 
S. Giuseppe assistito da Gesù, 
 da Maria e
dagli Angeli Santi


Negli estremi istanti

Il nostro Giuseppe era già arrivato al colmo di quella santità a cui Dio lo aveva destinato, ed arricchito di meriti, quando Dio volle sciogliere quell'anima santissima dai legami del corpo per mandarla al Limbo dei Santi Padri, affinché desse loro la fausta notizia della vicina liberazione, perché in breve si sarebbe compiuta l'opera della Redenzione umana. 



Il fortunato Giuseppe si sentiva già arrivato agli ultimi periodi della sua vita e udiva le armonie angeliche,

che dolcemente lo invitavano per condurre la sua anima benedetta a riposarsi nel seno di Abramo. Il Santo si sentiva più che mai acceso nell'amore verso il suo Dio, che lo andava consumando. Ebbe una sublimissima estasi, dove rimase per più ore, godendo le delizie del Paradiso nei dolci colloqui col suo Dio.
Tornato dall'estasi, al meglio che poté, parlò con il suo Redentore e con la divina Madre, lì assistenti. Domandò loro perdono di tutto quello in cui egli aveva mancato in tutto il tempo che aveva avuto la sorte di stare con Loro, e fece questo con grande dolore e abbondanza di lacrime. Li ringraziò di tutta la carità che avevano usato verso di lui, di tanta pazienza nel soffrire le sue mancanze, di tanti benefici
che gli avevano fatto e di tante grazie che gli avevano impetrato dal divin Padre. Li ringraziò della cura e dell'assistenza avuta nella sua lunga e penosa infermità, e poi rese affettuose grazie al Redentore per
la Redenzione umana e di quanto aveva patito ed avrebbe patito per compiere la grande opera della Redenzione umana.


Infine rese grazie tanto al Figlio come alla Madre di tutto quello che avevano operato per lui, non dimenticando neppure una parola, venendogli allora alla mente tutti i benefici da loro ricevuti. Infine, in segno del suo grande amore verso la sua Santa Sposa, non già che ve ne fosse bisogno, la lasciò raccomandata in modo speciale al suo divin Figliolo, con parole di tenerissimo affetto e con lacrime di dolcezza, rimirandola con grande amore e compassione per quel tanto che le restava da soffrire per la passione e morte del Salvatore, considerando come in quel tempo sarebbe stata derelitta e abbandonata, immersa in un mare di dolore e di affanni.



Gli fu anche confermato dal Redentore il compito di avvocato e protettore degli agonizzanti, che il Santo, di buon cuore, accettò di nuovo con desiderio e volontà di giovare a tutti. 


 Domandò poi, con grande

umiltà, la benedizione al suo Gesù e alla divina Madre, supplicandoli di non privarlo di quella consolazione. Ma tanto l'umilissimo Gesù, come la divina Madre vollero essere benedetti da lui, come loro capo, dato loro dal divin Padre. Il Santo fece questo con molta tenerezza per obbedire, ed anch'egli ricevette la loro benedizione che lo ricolmò di consolazione e di giubilo. Cresceva sempre più la veemenza dell'amore nel cuore del fortunato Giuseppe, come anche il dolore; e ridotto alle ultime agonie si vedeva tutto infiammato e acceso d'amore celeste, stando con gli occhi fissi ora verso il cielo, ora nel Redentore ed ora nella sua santissima e purissima Sposa, godendo di tale vista e di trovarsi assistito dai due Tesori del Cielo, di cui egli era stato il fedelissimo custode.

Ad ogni respiro nominava i dolcissimi nomi di Dio Padre, di Gesù e di Maria, che gli apportavano una dolcezza indescrivibile. Il Salvatore lo teneva per la mano e vicino alla sua testa, e gli parlava della bontà, dell'amore e delle grandezze del suo divin Padre, e le sue divine parole penetravano l'anima del moribondo Giuseppe e lo accendevano sempre più nell'amore del suo Dio.



Suo transito - Arrivato l'ultimo momento della sua vita, il Redentore invitò quell'anima benedetta ad uscire dal corpo per riceverla nelle sue mani santissime e consegnarla agli Angeli affinché l'avessero accompagnata al Limbo. A questo dolce invito il nostro fortunato Giuseppe spirò, invocando il dolcissimo nome di Maria e di Gesù, suo Redentore; spirò in un atto violento d'amore verso il suo amato Dio. Che anima veramente fortunata!

Maria vede l'anima di Giuseppe - Il Salvatore ricevette l'anima di Giuseppe nelle sue Santissime mani e la fece vedere alla sua Santissima Madre affinché si consolasse, essendo molto afflitta per la perdita di un così santo e fedelissimo compagno. La gran Vergine vide quell'anima
santa tanto ricca di meriti e adorna di tanta grazia e virtù, per la quale restò molto consolata, come anche per la preziosa morte che aveva fatto il suo amato Sposo, per cui ne rese grazie abbondantemente al divin Padre e si rallegrò con l'anima santissima del suo fortunato Giuseppe.

Il giorno della sua morte - Il nostro fortunatissimo Giuseppe morì il giorno venerdì, 19 marzo alle ore ventuno, a circa sessantun'anni. Il suo cadavere rimase tanto bello che sembrava un Angelo del Paradiso, e circondato da un mirabile chiarore, emanando un profumo soavissimo e grande venerazione.

E' compianto da tutti - Si sparse poi la voce per tutta Nazareth della morte di Giuseppe e fu compianto da tutti, specialmente dai suoi amorevoli. Ognuno raccontava le mirabili virtù del sant'uomo, e non vi fu alcuno che potesse dire una parola in contrario, perché tutti erano stati testimoni delle sue rare e mirabili virtù. Quando il cadavere fu portato fuori per dargli un'onorevole sepoltura, accorse una grande moltitudine di popolo per vederlo, restando tutti ammirati della rara bellezza del santo corpo. Si vedevano tutti lacrimare per la tenerezza e la compunzione, e tutti lo chiamavano uomo veramente di Dio e osservatore zelante della legge divina.




Suoi funerali - Il Santo cadavere fu accompagnato dal Salvatore e dalla divina Madre con le pie donne che l'andavano consolando. Fu accompagnato anche dagli Angeli che assistevano il Re e la Regina del cielo, con cantici di lode, nonostante non fossero ne' uditi ne' visti dai presenti.
L'aria stessa apparve serena e come lieta e ridente e perfino gli uccellini facevano canti festosi, cosa che fu ammirata da tutti, e tutti sentivano il soavissimo profumo che il venerabile cadavere emanava.
Terminate le funzioni secondo la legge ebraica, la divina Madre e il Salvatore se ne tornarono a casa, dove furono di nuovo consolati dagli amici e dai vicini, e poi lasciati in libertà.

Alla sua morte ottenne grazie per i moribondi - Nello stesso istante poi, che il nostro fortunatissimo Giuseppe spirò, morirono anche alcune altre persone a Nazareth e in altre parti dove si osservava la Legge data da Dio a Mosé, cioé degli Ebrei; e al nostro Giuseppe fu dato da Dio di conoscere come anche costoro stessero agonizzando, e il Santo porse calde suppliche per loro al suo Dio, domandando con grande insistenza la loro salvezza eterna, volendo anche in punto di morte esercitare il suo ufficio di avvocato degli agonizzanti. 



Egli fu esaudito da Dio, perché si degnò di dare a tutti quei moribondi un atto di vero dolore e tutti furono salvi per i meriti e le suppliche di S. Giuseppe, volendo Dio consolare il suo fedelissimo servo col concedergli quanto gli chiedeva. E come poteva Dio non esaudire le suppliche di un'anima tanto santa e che con tanta fedeltà l'aveva servito e con tanto amore l'aveva amato ed obbedito prontamente in tutti i Suoi ordini con tanta prontezza, umiltà e rassegnazione e che con tanta esattezza aveva osservato la Legge ed imitato i vari esempi di Gesù e di Maria?


fine della citazione.



AVE MARIA!

S. Ildegarda di Bingen



La profezia sulla Chiesa di Ildegarda di Bingen

Ildegarda di Bingen

(di Cristina Siccardi) «Se si considera la poliedrica personalità di Ildegarda (…) ci dobbiamo chiedere se l’uomo d’oggi sia ancora capace di accostarsi ed imitare quello di ieri, avvalendosi del misticismo per ritrovare profondità di spirito, coerenza di comportamento, speranza di futuro, e non soltanto di atteggiarsi a un cembalo che suona perché scosso da altri», così scriveva nella sua prefazione Michelangelo Navire (scomparso di recente) nel suo libro La sinfonia Mistica di Ildegarda di Bingen (pp. 8-9, Edizioni Segno, Udine 2011), libro che, oltre a dare un profilo della vita e delle opere di questa mistica e scienziata, ancora troppo sconosciuta fuori dai confini tedeschi, offre alla lettura i settanta Carmina di Ildegarda ‒ che compongono la Symphonia harmoniae coelestium revelationum ‒ nel loro testo latino e qui, per la prima volta, presentati anche nella traduzione italiana, unitamente alla composizione drammatica Ordo virtutum.

Gli insegnamenti teologici, filosofici e scientifici di Ildegarda di Bingen, dove Fede e ragione coincidono mirabilmente, sono di un’attualità sconcertante e irrompono nella nostra contemporaneità desolata, deturpata, alluvionata dai peccati. 
Provvidenziale il suo recupero da parte di Benedetto XVI, che ha riproposto, con alcune catechesi dedicate alla santa teutonica e con la sua proclamazione a Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012), insegnamenti, visioni (che ella compiva in stato di coscienza e non di estasi) e profezie; quest’ultime concernenti anche la crisi della Chiesa. Il 16 maggio 2012, quando Ildegarda (già venerata come santa) venne canonizzata per equipollenza, il Papa sottolineò, davanti alla Curia romana, la lotta e la difesa di questa santa monaca benedettina per la Chiesa, affermando: «Nella visione di sant’Ildegarda il volto della Chiesa è coperto di polvere ed è così che noi l’abbiamo visto».

Lascia scritto, infatti, la «Sibilla del Reno», come veniva chiamata già in vita: «Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto. Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere. La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo. Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato. Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra. Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: “Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato! Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato! Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!” E proseguì: “Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha preso come sua sposa. Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità”. E sentii una voce dal cielo che diceva: “Questa  immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: ‘Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura’ (Mc. 16,15)”» (Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale).

Le rivelazioni private, riconosciute dalla Chiesa, sono strumenti preziosi per tutti i suoi membri, dalle più alte gerarchie ai più umili fedeli; sono manifestazioni divine dentro la storia dell’uomo, il quale, troppo spesso, si lascia distrarre e sedurre dalle dinamiche perverse del mondo; sono segnali che cercano di avvertire, ammonire, svegliare le intorpidite, o a volte annientate, coscienze. (Cristina Siccardi)

Estratto da: Maria Cecilia Baij, Vita di San Giuseppe, ed. Casa di Nazareth, Apostolato stampa del T.O.F.I., via Monti 38, Sesto San Giovanni (MI), ed fuori commercio 1997, pp. 374-377.

Proprieta` letteraria riservata: Monache Benedettine del SS. Sacramento, Monastero di San Pietro, Largo S. Pietro, 31, 01027 Montefiascone (VT), 0761-82.60.66.


In Jesu et Maria

Don Alfredo M. Morselli

mercoledì 6 marzo 2013

Gli attenti sono pochi; i più poco pensano al Cielo.

Il 23 . 2 . 2013 la Divina Sapienza 
ha donato gli ultimi messaggi.
Intuisco: l'essenziale è stato detto. 
Beato chi ascolta la Parola di Dio 
e la mette in pratica. Mano all'opera e avanti con coraggio e fiducia 
in Gesù e l'Immacolata!
AVE MARIA!




Opera scritta dalla Divina Sapienza per gli eletti degli ultimi tempi
23.02.13

Eletti, amici cari, guardatevi intorno per capire i segni, che ogni giorno vi offro in abbondanza. Capitene il significato e vivete nella pace del cuore.

Sposa cara, non trascurare i segni di ogni giorno: essi sono guida e speranza sempre nuove.

Mi dici: “Adorato Gesù, i segni sono forti ed incisivi e ci portano con lo sguardo alle cose del Cielo; ma chi vede i segni in una società che vive molto nelle cose del mondo e poco in quelle del Cielo?”

Forse, piccola Mia, forse che non parlo sempre di Cielo, non indico lo splendore del Cielo?

Mi dici: “Amore Infinito, gli attenti sono pochi; i più poco pensano al Cielo, mentre sono sempre più immersi nelle cose della terra. Dolce Amore, quando verrà il risveglio del genere umano? Sono pochi quelli che s’immergono nel pensiero del Cielo e vivono come se esso non ci fosse, tanto sono lontani col cuore e col pensiero. Dolce Amore, sia ogni giorno un dolce risveglio in Te. Gesù, guida l’Umanità a Te per avere tutto già in terra e, poi, in Cielo.”

Sposa amata, se gli uomini s’immergono nelle cose della terra, certo, non si preparano al Cielo, non vedono il suo splendore non sentono la dolce brezza del Mio Amore.

“Dolce Gesù, guida l’Umanità verso il tempo nuovo e fecondo e l’uomo del terzo millennio veda sempre di più il Tuo splendore.”

Sposa cara, chi ha occhi volti al Cielo ne gode lo splendore, ne gode la vera Pace. Sposa amata, voglio che ogni uomo capisca i segni dei tempi per prepararsi ai momenti nuovi da Me, voluti. Ad ogni uomo vengono proposte delle scelte e le piccole preparano le più grandi. Occorre capire bene queste.

Mi dici: “Dolce Amore, il mondo non vuole capire che le scelte vanno fatte secondo il Tuo Cuore, sia le piccole che le grandi. Dolce Amore, da’ Luce a questa generazione, così cupa e confusa; dona Luce ai giovani che non sanno distinguere la destra dalla sinistra, dona discernimento perché le scelte future siano tutte secondo il Tuo Cuore meraviglioso.”

Sposa amata, dono molto a chi vuole molto, ma a chi non chiede non offro.

Mi dici: “Amore Infinito, vedo la stoltezza dell’uomo di questo tempo, così importante, che osa vivere come se Dio non fosse e sprofonda nel buio più cupo.”

Certo, dono Luce a chi implora Luce, ma non l’avrà il superbo che vuole bastare a se stesso. Sposa cara, dono molto agli umili, ma tolgo tutto ai superbi. Resta, felice, nel Mio Cuore e godine le Delizie d’Amore. Ti amo.
Vi amo.
Gesù


Opera scritta dalla Divina Sapienza per gli eletti degli ultimi tempi

23.02.13

La Mamma parla agli eletti

Figli cari e tanto amati, confessate i vostri peccati e preparatevi a cambiare vita. Gesù perdona, perdona, perdona chi si pente con cuore sincero. Insieme, adoriamo Gesù.
Vi amo tutti.
Ti amo, angelo Mio.
Maria Santissima


<<Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis>>